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Dal mondo bipolare al policentrismo. Giuseppe Saragat ministro degli Esteri tra spinte europeiste e distensione internazionale
di Michele Donno
1964. Il governo Moro e la sfida del policentrismo

Con gli eventi di Cuba – dichiarava Giuseppe Saragat, nel gennaio 1963, alla Camera dei Deputati – un capitolo di storia di questo dopoguerra, e forse di storia del mondo si è chiuso; e già vediamo le prime linee del capitolo nuovo. Dopo Cuba vi è stato l’incontro di Nassau che ha mutato alcuni aspetti della strategia occidentale, vi è stata l’impennata della Francia gollista contro l’ammissione della Gran Bretagna nel mercato comune, impennata che non può non avere serie ripercussioni sulla politica europeistica. Dall’altra parte, verso est, il dissenso ideologico tra Russia e Cina […] scuote le basi di tutta la costruzione monolitica della politica estera del comunismo internazionale […] Oggi […] viviamo in una dimensione nuova. Oggi la guerra non è più una forma, sia pure violenta, della politica, perché essa non si concluderebbe più con la pace, ma con la distruzione totale del genere umano […] L’obiettivo immediato dei capi di governo responsabili è di avviarsi verso un equilibrio delle forze militari ad un livello meno terrificante di quello attuale. Già da alcuni mesi i capi dell’Unione Sovietica e degli Stati Uniti parlano di disarmo progressivo in termini di grande apertura e tali da infondere fiducia nell’avvenire […] Viviamo in un continente in cui cento milioni di uomini sono privati del diritto di decidere del loro destino. Abbiamo la fortuna, per la nostra collocazione geografica, di vivere in un paese che ha potuto salvare, con la propria unità, la propria indipendenza e la propria libertà di decisione. Questi beni preziosi ci sono stati garantiti anche dall’alleanza atlantica, che ha il suo pilone di sostegno negli Stati Uniti […] La politica atlantica di difesa, fondata sull’alleanza con gli Stati Uniti, è la costante della nostra politica difensiva […] Certo l’America è impegnata nella difesa dell’Europa per ragioni vitali, ma ciò non sottrae il nostro paese al dovere di assumere, nella misura delle sue possibilità, la sua quota parte di rischi e di responsabilità. Diversamente si finisce per portare acqua al mulino del donchisciottismo gollista […] Vi sono in fondo alla politica gollista due illusioni: la prima è che l’asse Parigi-Bonn possa costituire il centro di gravità della politica mondiale, la seconda è che l’Europa possa fare da sé […] Il gollismo passa, l’europeismo resta! Non dimentichiamo che uno dei fattori essenziali dello sviluppo dell’economia dell’Italia è il mercato comune […] Fervidamente convinti della necessità dell’ingresso nella Comunità della Gran Bretagna, […] noi socialisti democratici abbiamo appoggiato sin dall’inizio il processo di integrazione in quanto abbiamo visto in esso l’unico mezzo per rinsaldare tra i popoli europei legami non perituri, per porre le basi di una loro unione sempre più stretta con esclusione di ogni particolarismo egemonico contrario alla lettera e allo spirito dell’accordo comunitario, in modo da pervenire un giorno, che oggi non possiamo sapere se vicino o lontano, alla unità politica dell’Europa continentale1.

Questi passaggi del discorso che Saragat pronunciò in Parlamento, agli inizi del 1963, bene sintetizzano le linee guida e i motivi ispiratori della sua attività politico-istituzionale successiva alla nomina a Ministro degli Affari esteri nel primo governo organico di centro-sinistra, guidato da Moro e varato il 4 dicembre 19632.
Il 1964 fu segnato da importanti avvenimenti di carattere internazionale: in Oriente, l’affermarsi della Cina come potenza nucleare e antagonista dell’URSS; in India, la morte di Nehru; in Inghilterra, il ritorno al governo dei laburisti; in Unione Sovietica, l’allontanamento di Kruscev e l’avvento di Breznev; negli Stati Uniti d’America, la sconfitta del repubblicano Goldwater e la vittoria del democratico Johnson3. Se, nel 1962, la soluzione pacifica della crisi di Cuba aveva segnato di fatto la fine della guerra fredda e, nel 1963, la firma del Trattato di Mosca sulla sospensione degli esperimenti nucleari e l’attivazione del cosiddetto “telefono rosso” tra Washington e Mosca avevano dato il via ad una nuova fase di distensione internazionale, il 1964 fu l’anno della fine del mondo bipolare e dell’affermazione del “policentrismo”4.
Nell’autunno 1958, una conferenza riunita a Ginevra, con la partecipazione di Inghilterra, Stati Uniti e Unione Sovietica aveva cominciato a discutere degli esperimenti nucleari e dell’istituzione di un sistema internazionale di controllo; si unirono, poi, alle tre potenze, altri paesi, in rappresentanza di tutte le aree geopolitiche mondiali. Fin dal 1962, l’Italia aveva avanzato una serie di proposte, fra cui quella – andata a buon fine – di un accordo sull’interdizione degli esperimenti nucleari atmosferici e sottomarini, che avrebbe facilitato i negoziati per la firma del Trattato di Mosca5; insieme ad altri paesi occidentali, il governo italiano presentò ulteriori proposte nel campo delle misure collaterali, due delle quali furono, infine, accettate: l’istituzione di un “filo diretto” tra USA e URSS (il telefono rosso) e il divieto di messa in orbita di armi di distruzione di massa. «Per l’Italia – dichiarò il Ministro degli Esteri, Saragat – le ragioni della sua sicurezza non si disgiungono mai da quelle della distensione. Alla conferenza del disarmo di Ginevra abbiamo dato […] un contributo da tutti riconosciuto […] Proprio ai fini del migliore successo del negoziato anche in avvenire, ci siamo dovuti […] preoccupare e abbiamo insistito sulla necessità di adeguate garanzie sia nel campo dell’equilibrio sia in quello del controllo»6.
L’articolato dibattito svoltosi a Ginevra rese possibile un progressivo appianamento delle divergenze e la positiva conclusione dei successivi negoziati di Mosca, dove, nell’agosto 1963, Gran Bretagna, Stati Uniti e Unione Sovietica firmarono un trattato sul bando nucleare, a cui aderirono altri 102 paesi, compresa l’Italia7.

Con la conclusione del Trattato di Mosca – dichiarava il ministro Saragat – sull’interdizione degli esperimenti di armi nucleari nell’atmosfera, nello spazio cosmico e negli spazi subacquei e con l’adesione ad esso di quasi tutti i Paesi del mondo, fra i quali si trovano largamente rappresentati Stati di nuova indipendenza, viene consacrato il coronamento di un negoziato da lungo tempo intrapreso per eliminare, conformemente alle aspettative dell’opinione pubblica mondiale, almeno quelle prove nucleari che più minacciano la salute dell’umanità a causa delle “ricadute” radioattive […] Il significato morale e politico, insito nella plebiscitaria adesione al Trattato di Mosca, si estrinseca particolarmente nell’impulso che da esso ricevono i negoziati per il disarmo: il divieto delle prove nucleari rappresenta infatti una seria remora alla corsa agli armamenti e un primo avvio per raggiungere il fondamentale obiettivo della “non disseminazione” delle armi nucleari. Infine il notevole risparmio che verrà conseguito sugli stanziamenti relativi agli esperimenti nucleari, e che si auspica venga reimpiegato a fini pacifici, comporterà le più positive conseguenze anche nel campo economico e sociale. Per quanto riguarda poi alcune preoccupazioni concernenti la sicurezza dei Paesi contraenti, si può affermare che il Trattato non vieta affatto di ricorrere alle armi nucleari per la difesa nazionale, conformemente alle disposizioni dello Statuto delle Nazioni Unite ed al principio di diritto internazionale relativo all’autodifesa8.

L’allentamento della tensione tra le superpotenze e il conseguente forte riemergere dello spirito di autonomia e delle identità nazionali, determinò una diminuzione della coesione interna ai due blocchi contrapposti ed un progressivo riassestamento policentrico degli equilibri internazionali. Nell’affermarsi di questo nuovo assetto mondiale, determinanti furono, da una parte, i dissensi tra Mosca e Pechino, dall’altra, la rinascita industriale europea degli anni Cinquanta. Secondo il presidente americano Kennedy, dinanzi alla nuova spinta policentrica, i paesi occidentali erano prima di tutto chiamati a tutelare i rapporti fra loro consolidatisi nel periodo della guerra fredda, e per garantirne la sopravvivenza nel nuovo clima di distensione, l’Alleanza atlantica doveva trasformarsi in una comunità atlantica9.

Il problema di una più stretta solidarietà tra i membri dell’Alleanza atlantica – scriveva Gaetano Martino – non è solo politico, militare, sociale od economico; esso è anche e soprattutto un problema spirituale […] La civiltà atlantica ha essenziali presupposti di natura morale e si concreta in un certo tipo di vita sociale e politica che esige che tutti debbono essere resi centri responsabili di attività. Si ha diritto alla libertà in quanto si ha il dovere di fiorire e di fruttificare sviluppando i germi in ciascuno deposti dal divino Creatore della vita. Lo Stato deve essere dinamico difensore e non crudele soffocatore di questa libertà […] A questo tipo di civiltà hanno ispirato e ispirano la loro vita popoli diversi gravitanti nell’area dell’Atlantico del Nord, divenuto il “mare nostrum” dell’Occidente moderno, e costituenti la comunità dei popoli atlantici […] Questa comunità esiste a malgrado delle ricorrenti lotte intestine che più volte ne hanno messo in pericolo la sopravvivenza e delle superstiti rivalità dei popoli atlantici […] Ora noi dobbiamo chiederci come è possibile raggiungere lo scopo di rafforzare convenientemente l’Alleanza per farne il nucleo centrale della più ampia ed integrata comunità politica di domani10.

Europa occidentale e Stati Uniti dovevano, quindi, collaborare per perseguire due fondamentali obiettivi: da un lato, sviluppare il dialogo con l’Unione Sovietica, in ciò favoriti dal fatto che nel momento in cui le possibilità di un’aggressione e di un conseguente conflitto nucleare mondiale erano cessati di essere un pericolo concreto, l’aspirazione ad una maggiore autonomia da parte dei paesi satelliti dell’URSS era divenuta sempre più evidente; dall’altro, favorire l’ascesa economica dei paesi sottosviluppati, per allontanare il pericolo di uno scontro fra il nord e il sud del mondo, fra paesi industrializzati e paesi arretrati.

Il carattere veramente democratico della comunità occidentale – dichiarava il ministro Saragat – conferisce un valore ben più durevole degli impegni formali puramente militari, […] che stringono i paesi dell’occidente. Dirò di più: il tipo di civiltà che si riflette nella comunità occidentale, proprio per il suo carattere democratico, non è un tipo di civiltà chiusa. Non è, il nostro, un mondo ripiegato su se stesso e ostile alle idee nuove, ma un mondo aperto, e quindi anche, beninteso nella sicurezza di tutti, aperto alle “democrazie popolari” e all’Unione Sovietica […] Viste in questa luce, non devono destare alcun sospetto le nostre relazioni con gli Stati Uniti, perché esse sono concepite ed attuate nel segno della democrazia, della libertà e dell’indipendenza11.

Kennedy lanciò il suo “grande disegno” di politica internazionale nella convinzione che solo garantendo agli europei, e ai tedeschi in particolare, la sicurezza di vivere stabilmente integrati in una comunità atlantica più articolata e unita, fosse possibile far accettare loro politiche di apertura verso i paesi comunisti e, soprattutto, di riduzione degli armamenti12. La scomparsa di Kennedy e l’ascesa di Johnson coincisero con un’evoluzione degli equilibri internazionali in cui il pragmatismo del nuovo presidente americano risultava più realistico delle strategie a lunga scadenza del suo predecessore13. Sul fronte europeo, infatti, Johnson non vedeva in de Gaulle una seria minaccia, e questo perché la posizione dominante che gli Stati Uniti avevano nel mondo occidentale e la volontà sovietica di proseguire nella politica di distensione erano due realtà di cui il generale francese non poteva che prendere atto14. Nel messaggio sullo “Stato dell’Unione” del gennaio 1964, Johnson si presentò ottimista, sottolineando come la prosecuzione del ciclo economico favorevole agli USA, iniziato alla fine del 1960, e i dati degli ultimi anni dimostravano come la visione secondo cui la “vitalità” dei paesi aderenti al Mercato comune europeo (MEC) aveva prevalso sulla presunta “stanchezza” americana non corrispondesse alla realtà; e ciò indeboliva ulteriormente la visione gollista di una “piccola Europa” più forte della “grande America”. Per queste ragioni, gran parte dei paesi occidentali, ben consapevoli che la realizzazione di quell’integrazione europea concepita durante gli anni della guerra fredda avrebbe subito un forte rallentamento nella nuova fase di distensione, erano convinti che bisognasse necessariamente proseguire la collaborazione tra Europa e Stati Uniti, anche attraverso la costituzione di una forza militare multilaterale (Multilateral Force - MLF)15.

Gli Stati Uniti d’America – dichiarava il Ministro degli Esteri, Saragat – furono i nostri migliori amici nei momenti difficili dell’immediato dopoguerra, quando al tavolo della pace vi era chi non perdeva occasione per esigere fino all’ultima libbra il pagamento dei nostri errori e della ricostruzione. Gli Stati Uniti, infine, tanto con il piano Marshall quanto con le successive iniziative di carattere politico, hanno dimostrato di non temere affatto ma anzi di desiderare la formazione di un’Europa prospera ed unita associata da pari a pari con l’America […] Per noi l’Europa non solo è già un’entità economica, ma è anche, direi, un termine di civiltà. Essa, quindi, non va intesa come rinserrata in un orizzonte chiuso, ma comprensiva della Gran Bretagna e di tutti gli altri paesi democratici disposti ad accettare la lettera e lo spirito dei Trattati di Roma. Tale Europa deve essere associata all’America in condizioni di parità. Ciò rappresenta una tappa verso la comunità atlantica. L’Italia è dunque impegnata nella costruzione dell’unità europea per muovere verso la creazione di una comunità atlantica che sola, con la sua compattezza e il suo spirito progressista, potrà consentire ai rapporti internazionali una evoluzione destinata a favorire sempre più l’auspicabile intesa con la Unione Sovietica […] Indubbiamente si va verso un’articolazione più varia, ma credere che ciò implichi una dissociazione, almeno per quanto riguarda l’occidente democratico, è un grave errore16.

Nel lungo discorso programmatico di presentazione del suo governo, nel dicembre 1963, il Presidente del Consiglio, Moro, aveva dato ampio spazio al tema dell’atlantismo, connesso con quello dell’europeismo, sul quale Saragat, sin dalla scissione di palazzo Barberini del gennaio 1947, aveva impegnato una dura battaglia culturale – in particolare durante la collaborazione governativa con De Gasperi –, contrastando la netta opposizione dei partiti del Fronte popolare, a partire dall’approvazione del piano Marshall, considerato dai socialdemocratici italiani la prima fondamentale tappa verso l’integrazione europea17.
La politica estera del governo Moro rimaneva saldamente fondata sulla lealtà verso l’Alleanza atlantica, nel rispetto degli obblighi politici e militari che ne derivavano, e sulla solidarietà europea18. Nella nuova fase di distensione degli equilibri mondiali, l’Italia doveva attivarsi per «un più stabile e pacifico assetto delle relazioni internazionali»19, fondato sul disarmo e sulla soluzione concordata delle questioni internazionali. Il governo italiano, inoltre, tenendo «ben presenti gli obiettivi indicati dai quattro partiti della maggioranza governativa», partecipava alle trattative sulla forza difensiva multilaterale, allo scopo di garantire la sicurezza nazionale, assicurare il controllo collegiale degli armamenti nucleari nel rispetto del Trattato di Mosca, evitare i rischi della proliferazione degli armamenti atomici. A questo proposito, Saragat riteneva necessario avviare quanto prima, assieme agli alleati, «uno studio per la formulazione di un piano completo e organico di costituzione di una forza nucleare integrata e comunitaria»20. La politica di solidarietà europea, da perseguire «nella forma dell’integrazione democratica, economica e politica fuori da ogni particolarismo», offriva all’Italia «uno spazio ed un ambiente adatti per la sua espansione economica e per una significativa partecipazione alla politica internazionale in proporzione delle sue forze, della sua tradizione e cultura, del suo peso economico e sociale»21.
Il governo Moro si impegnava, anche «con iniziative estranee alle finalità dei Trattati di Roma», ad alimentare il processo di unificazione dell’Europa secondo i principi ispiratori delle democrazie occidentali, opponendosi, quindi, ad un’eventuale ingresso della Spagna di Franco nel MEC22 e perseguendo con forza l’elezione a suffragio universale e diretto del Parlamento europeo; l’Italia era, inoltre, particolarmente interessata all’avvio di politiche di collaborazione con i paesi di nuova indipendenza, con quelli mediterranei e latinoamericani. L’Organizzazione delle Nazioni unite (ONU), infine, con la sua “autorità”, restava per la diplomazia italiana «la sede in cui tutti i problemi inerenti alle relazioni tra i Paesi del mondo possano trovare la loro soluzione di diritto e di giustizia»23.

Noi abbiamo piena consapevolezza di vivere in un’età di transizione […] – precisava il ministro Saragat. Il quadro che abbiamo delineato mostra è […] un’Italia impegnata nella costruzione dell’Europa su basi democratiche; nell’alleanza atlantica, per garantire la sicurezza e consentire così l’avvio alla vera distensione; nelle Nazioni Unite, come quadro organizzativo attraverso il quale la società umana tende a passare, sia pure con immensa fatica, dalla frammentarietà degli organismi nazionali e continentali ad intese ancora più vaste […] Distensione e sicurezza devono marciare insieme e, come noi non pretendiamo di trattare i problemi del disarmo o della pace alla spicciolata con ognuno dei paesi che compongono il sistema sovietico allo scopo di disintegrarlo, così mi sembra logico ritenere che si debba procedere sulla via della distensione tenendo conto del fatto che esistono attualmente due blocchi, in quanto blocchi antagonisti: quello occidentale e quello sovietico, e che occorre superarli non attraverso la secessione o la disintegrazione, ma attraverso un componimento che valuti l’interesse di tutti24.



Le prospettive del Mercato comune europeo e la politica estera italiana

Come la premessa dell’unità d’Italia fu l’affermazione della libertà e della democrazia in uno Stato – dichiarava il Ministro degli Esteri, Saragat –, così la premessa dell’unificazione europea è una forte convinzione democratica degli Stati partecipanti […] Noi crediamo vi sia un legame effettivo tra le dottrine politiche che riguardano lo sviluppo interno di un paese e quelle concernenti la sua politica estera. Di quest’Europa per il cui avvento noi ci adoperiamo, la Francia, la Gran Bretagna, la Germania e l’Italia costituiranno i pilastri fondamentali. Il mondo ha subito una trasformazione completa; i rapporti tra continenti sono mutati, così come è mutata la stessa relazione speciale che unisce Washington a Londra e che è succeduta, nel tempo, alla partnership creata da Churchill e da Roosevelt in tempo di guerra. La Gran Bretagna deve anch’essa portare il contributo della sua esperienza, della sua civiltà democratica, della sua possente economia alla vita del continente europeo. Tutto questo non si è fatto e non si può fare in un giorno: si tratta di un processo di cui occorre anticipare le linee, consolidando frattanto gli elementi esistenti. È importante, nel frattempo, razionalizzare, rafforzare, democratizzare la comunità europea quale è oggi25.

Dopo la seconda guerra mondiale, la nascita di vincoli sempre più stretti tra i paesi europei occidentali aveva fornito al generale de Gaulle una efficace arma di pressione per perseguire i propri obiettivi di politica estera. Approvati la gran parte dei regolamenti nel settore agricolo, il MEC era ormai pienamente funzionante e, dopo il veto imposto all’ingresso dell’Inghilterra, de Gaulle avrebbe ripetutamente minacciato di farlo fallire per costringere gli altri cinque Stati membri a sostenere le sue strategie europeiste26.
L’avvento di un mondo policentrico, tuttavia, alterò quella “forza delle cose” che aveva favorito le politiche del presidente francese. Nel febbraio 1964, ad esempio, parlando degli accordi agricoli, de Gaulle disse che non si sarebbe potuto avviare il negoziato con gli Stati Uniti per una riduzione delle tariffe (Kennedy round27) se non dopo che il mercato comune agricolo europeo fosse stato completato, anche con la fissazione dei prezzi comuni per grano e cereali. Gli altri cinque paesi partecipanti, e in primo luogo la Germania, ritenevano, invece, che il completamento del MEC nel campo agricolo e l’inizio dei negoziati con gli USA dovessero procedere parallelamente; non solo, ma essi intendevano sfruttare le trattative europee per un accordo su grano e cereali come mezzo di pressione per ottenere un atteggiamento francese più favorevole al Kennedy round. Saragat non condivideva le strategie internazionali di de Gaulle ed era fermamente convinto che indebolire la «comunità occidentale con manovre diversive o con iniziative in ordine sparso» significava «rischiare la disintegrazione del mondo libero e quindi, a causa dell’alterazione dell’equilibrio internazionale che da questa azione fosse derivata, rendere la distensione sempre più difficile o addirittura impossibile»28.
Come si è detto, l’evoluzione degli equilibri mondiali verso un assetto policentrico
aveva rallentato i processi d’integrazione europea, in particolare quello politico. In Inghilterra, in seguito al mancato ingresso nel MEC, l’opinione pubblica non guardava più con interesse all’unità europea; la possibilità di un’adesione al Mercato comune europeo aveva, inoltre, generato divisioni interne ai due maggiori partiti politici inglesi che, dopo il veto della Francia, non desideravano più riaprire la questione29. Inoltre, l’espansione economica della Gran Bretagna sarebbe stata certamente favorita da un progressivo sviluppo dei rapporti commerciali con i paesi comunisti dell’Est. Nella Repubblica federale tedesca, da più parti ci si chiedeva fino a che punto la partecipazione della Germania occidentale al processo d’integrazione europeo, e ad un maggiore rafforzamento dell’Alleanza atlantica, e la riunificazione con i tedeschi dell’Est non fossero obiettivi inconciliabili.
Il nuovo assetto mondiale policentrico e la divergenza di posizioni fra Inghilterra, Francia e Repubblica federale tedesca, portarono ad un periodo di stasi nel processo di unificazione politica europea, che avrebbe coinvolto anche il settore economico, rendendo, comunque, sempre meno possibile un’evoluzione del MEC in senso gollista.

L’integrazione europea – dichiarava il Ministro degli Esteri, Saragat – è per noi un obiettivo essenziale, ma definita così, non significa nulla. Bisogna sapere quale tipo d’integrazione e soprattutto di quale tipo d’Europa si tratta. Certamente le consultazioni periodiche tra i sei paesi, anche di carattere politico e non soltanto economico, sono importanti […] Ma il dato essenziale di tutto il processo federativo è di sapere quali sono le forze politiche dominanti in Europa. Su questo punto la mia opinione è che l’integrazione europea non può avvenire che su una piattaforma autenticamente democratica. Per questo noi siamo favorevoli a rafforzare i poteri del Parlamento europeo e a trasformare il sistema elettorale, arrivando al più presto ad elezioni dirette di primo grado30.

La staticità del MEC emergeva chiaramente nel corso delle sedute del Consiglio dei Ministri europeo. Nella riunione del 19 settembre 1964, non si riuscì a raggiungere un accordo sulla concessione di crediti finanziari ai paesi comunisti dell’Europa orientale; se, da una parte, infatti, l’opposizione della Germania occidentale fu netta, dall’altra, la Francia decise di attuare ugualmente una liberalizzazione dei rapporti economici e commerciali con l’Est europeo31.
Negli incontri del 24 e 25 febbraio 1964, invece, con riferimento all’elezione a suffragio universale e diretto del Parlamento europeo, Saragat aveva proposto una iniziale soluzione di compromesso: raddoppiare i componenti dell’assemblea (284), metà dei quali designata dai parlamenti nazionali, mentre l’altra metà eletta a suffragio universale diretto. Il Consiglio dei Ministri europeo decise, allora, che l’opportunità di una riforma dei poteri del Parlamento europeo, e di una sua elezione a suffragio universale e diretto, fosse considerata contemporaneamente alla questione relativa alla fusione degli esecutivi delle tre Comunità (Comunità economica europea – CEE, Comunità europea del carbone e dell’acciaio – CECA, Comunità europea dell’energia atomica – EURATOM). In realtà, anche sulla riforma dell’assemblea parlamentare europea e sulla fusione degli esecutivi un accordo sembrava difficile da raggiungere, soprattutto perché nessuno degli Stati membri era disposto a contrastare apertamente de Gaulle.

Questa di un parlamento – precisava Saragat – che dia modo per la prima volta ai cittadini europei di esprimere in modo diretto le loro aspirazioni verso una patria comune è un’idea accolta nel Trattato di Roma e che simboleggia la fiducia con cui noi guardiamo l’evoluzione dell’opinione pubblica europea. Mentre – a nostra richiesta ed anche nel nostro interesse – si sta per procedere alla fusione degli esecutivi delle tre Comunità, sembra logico che le ingenti somme che queste gestiranno vengano tenute sotto il controllo anche di un organo eletto […] Se oggi c’è un rallentamento […], ciò si deve non al Governo di centro-sinistra, né a preclusioni nostre che non esistono, ma alla preclusione che ha sbarrato la strada all’Europa ad una delle componenti vitali e valide della nostra civiltà moderna e democratica, la Gran Bretagna. Ciò non vuol dire che non si debba far nulla, che si debba attendere passivamente gli eventi; ma tutta l’azione attuale del Governo è la riprova della nostra reazione alle tendenze che spingono verso la passività. Quando noi abbiamo proposto a Bruxelles l’elezione a suffragio universale dell’Assemblea europea, e approvato la fusione degli esecutivi, non abbiamo fatto dell’attendismo. Né certo facciamo dell’attendismo quando, con lavoro paziente, ci adoperiamo per spianare la via ad un ripensamento della Francia e ad una maggiore propensione della Gran Bretagna verso l’Europa32.

Il dibattito fra i ministri comunitari si focalizzava anche su un’altra questione ritenuta fondamentale per dare un nuovo impulso al processo d’integrazione europeo: l’unità politica. Nel febbraio 1964, Saragat, dinanzi alla Commissione Esteri della Camera dei Deputati, confermò che il governo italiano non era interessato ad una unione politica europea senza la partecipazione dell’Inghilterra e che, allo stesso tempo, era intenzionato a rafforzare i rapporti con gli Stati Uniti33. Saragat e il governo Moro, quindi, ritenevano che l’impegno per un’Europa unita, aperta all’Inghilterra, e quello per la trasformazione dell’Alleanza atlantica in una comunità politica coincidessero; il “terzaforzismo” gollista, che guardava con diffidenza ai rapporti con l’altra sponda dell’Atlantico, poteva essere contrastato solo facendo appello alla comunanza dei valori occidentali.
Il continuo richiamo da parte di Saragat all’Inghilterra aveva notevole rilevanza nell’ambito della strategia atlantica dell’Italia, ma – come si è detto – gli inglesi in quella fase non sembravano più interessati ad un’Europa politicamente integrata; anzi, andavano nel senso opposto e si chiedevano fino a che punto il MEC potesse costituire un ostacolo al processo di distensione con l’Europa orientale; la tariffa esterna comunitaria, infatti, poteva rappresentare una barriera all’incremento degli scambi commerciali con i paesi comunisti.
In Italia, invece, vi era da più parti il timore che il sistema industriale nazionale non sarebbe stato veramente competitivo rispetto a quello europeo, senza un’applicazione più estesa del Trattato di Roma e di quei capitoli che riguardavano il finanziamento e l’assistenza allo sviluppo delle aree depresse. Se i francesi sostenevano che il MEC non esisteva senza una politica agricola comune, così l’Italia – secondo Saragat – doveva far presente che la Comunità economica europea non era soltanto un’unione doganale34, ma bisognava dare piena attuazione anche alla politica sociale comune come, del resto, previsto dal Trattato istitutivo.
Il governo italiano, poi, era favorevole al Kennedy round e ad una riduzione tariffaria con Stati Uniti ed Inghilterra35. «Quanto al Kennedy round – dichiarava Saragat –, tra i sei ci siamo accordati già a Bruxelles per tenere un atteggiamento costruttivo e responsabile per facilitarne il successo, che riteniamo di grande interesse non solo economico, ma anche politico. Negli incontri di Washington, di Londra, di Roma, di Parigi, abbiamo ribadito queste nostre ferme direttive d’azione»36. I motivi per cui, invece, soprattutto i grandi industriali italiani – preoccupati dal ciclo economico sfavorevole, iniziato nel 1963 – vi si opponevano erano quelli tipici del protezionismo: debolezza strutturale e impossibilità di reggere la concorrenza dei paesi più ricchi37. Il timore di Saragat e del suo governo era che, senza una pianificazione delle riforme da realizzare a livello europeo, l’atteggiamento di sfiducia nei confronti del Kennedy round si sarebbe esteso anche al MEC, ad opera soprattutto delle piccole e medie imprese. Per scongiurare questa eventualità, il ministro Saragat riteneva che lo sviluppo dei rapporti economici dell’Italia con l’estero dovesse seguire cinque direttrici principali: difendere gli interessi italiani nell’ambito comunitario; intensificare l’opera delle commissioni miste economico- commerciali istituite in accordo con alcuni paesi del Mediterraneo e con Germania occidentale e Gran Bretagna; intensificare i legami con quei paesi ritenuti di importanza prioritaria, sia per la loro capacità di assorbimento dei prodotti italiani sia per la loro capacità di pagamento, sostenendo le esportazioni e gli interventi assicurativi e creditizi; incoraggiare l’industria italiana ad attuare progetti di sviluppo nei paesi di nuova formazione; sollecitare organi statali ed operatori del settore ad intensificare gli sforzi per migliorare sia la qualità delle importazioni sia le opportunità per l’Italia di presenza sui mercati esteri.

Accanto ad una politica organica di partecipazione ai maggiori organismi internazionali e di proiezione di un’immagine dell’Italia come convinta assertrice del progresso dei popoli e della pace – precisava il ministro Saragat –, abbiamo sviluppato una feconda politica di collaborazione su basi bilaterali, che non esclude ma anzi postula intese più ampie […] Circa il Regno Unito, la Repubblica federale di Germania e la Francia, i nostri scambi commerciali, come le nostre relazioni politiche, sono improntati ad un’attività crescente. Ne fanno fede i recenti incontri che abbiamo avuto a Washington, a Londra e a Roma con il cancelliere Erhard e poi con il presidente de Gaulle a Parigi38. Questi rapporti sono molto importanti tanto dal punto di vista economico quanto da quello politico. Politicamente lo sviluppo dei rapporti bilaterali speriamo consenta anche, al momento opportuno, di riprendere un dialogo politico comunitario […] Le esportazioni verso il mercato comune rappresentano il 35 per cento delle nostre esportazioni totali, le importazioni dal mercato comune il 33 per cento delle nostre importazioni totali. Ciò non vuol dire che il saldo della bilancia commerciale con i paesi del mercato comune sia attivo: ma che, proporzionalmente, è meno negativo di quanto non lo sia verso i paesi terzi […] Dovremo tener conto della necessità di conciliare le nostre esigenze con quelle del largo mondo dei paesi in via di sviluppo che, mentre oggi può e deve essere un beneficiario della nostra attenzione, domani costituirà un insieme promettente di mercati per un crescente interscambio […] Naturalmente, se la serietà con cui affrontiamo i problemi della congiuntura non può non incontrare la comprensione dei nostri amici e soci, perché un’Italia salda economicamente e con una valuta stabile è un vantaggio per tutti, occorre anche avere mente aperta nella elaborazione di una politica commerciale penetrante e dinamica39.

Nel Comitato per l’assistenza allo sviluppo, costituito nell’ambito dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE), l’Italia era al quinto posto dopo Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna e Germania, con un contributo di 277 milioni di dollari; uno sforzo finanziario notevole a giudizio di Saragat, il quale riteneva necessario che questi aiuti fossero «erogati alle condizioni e nelle forme che meglio si adattano alle esigenze della nostra produzione e dell’occupazione interna»40.
Per quanto riguarda l’America latina, e in particolare l’Argentina e il Brasile, nel 1964, l’Italia rifinanziò i crediti, con crescenti investimenti diretti, acquisti di prodotti e, infine, facendosi promotore di un piano d’azione della CEE in favore del continente latino-americano. Ai paesi africani associati l’Italia era venuta incontro con un contributo di 100 milioni di dollari, in cinque anni, destinati all’apposito Fondo europeo di sviluppo. Saragat, quindi, si impegnò affinché la CEE, da un lato, tenesse conto dei particolari interessi dell’agricoltura italiana e, dall’altro, favorisse rapporti di più stretta collaborazione sia con i paesi africani del bacino mediterraneo sia con quelli del Commonwealth. Il governo italiano, dal canto suo, stabilì rapporti bilaterali con un crescente numero di paesi in via di sviluppo, attraverso la presenza di operatori e di esperti, concessioni di crediti finanziari e accordi di protezione degli investimenti. I lavori per la diga sul Niger, ad esempio, finanziati da un apposito consorzio internazionale, furono aggiudicati da un complesso industriale italiano, con il determinante appoggio del governo Moro.

Naturalmente – dichiarava Saragat –, questa politica a vasto respiro e a sostegno dei paesi sottosviluppati parte da due premesse precise. La prima è che l’Italia persegue questi commerci e offre questi aiuti senza alcuna contropartita politica: nulla di più lontano dal nostro pensiero che condurre quella che da alcune parti viene definita una offensiva del neocapitalismo nei confronti dei paesi sottosviluppati. Noi che siamo un paese relativamente meno ricco e meno industrializzato degli altri paesi importanti dell’occidente, non solo partiamo dall’ideale che anima tutta la classe politica uscita dalla tormenta e dalla Resistenza nei confronti dei popoli che hanno conquistato la loro indipendenza e desiderano consolidarla, ma agiamo anche nel nostro interesse, così facendo, perché nulla è più vantaggioso per l’Italia che il trattare con paesi di nuova formazione assolutamente liberi da ipoteche politiche. La seconda premessa da cui scaturisce la nostra azione è che noi vogliamo commerciare, e non solo aiutare. Aiuti e commercio sono termini complementari e non antitetici, e i primi rappresentano un valido strumento per attivare, attraverso riforme strutturali e diversificazioni produttive, un maggior flusso di commercio sia tra paesi industriali e paesi in via di sviluppo, sia tra gli stessi paesi in via di sviluppo41.

Nel 1964, quindi, la collaborazione tecnica che l’Italia offriva ai paesi in via di sviluppo registrò un considerevole aumento, anche grazie all’entrata a regime della legislazione approvata nell’ottobre 1962 (Legge 26 ottobre 1962, n. 1612)42, che consentì all’Italia di fornire assistenza tecnico-agricola al Congo, assistenza tecnica nel campo geologico alla Nigeria, in quello agricolo alla Giordania, al Marocco, all’Algeria, alla Tunisia e al Kenya. Inoltre, furono erogati contributi per quei piani di sviluppo affidati a imprese italiane in Guinea, Marocco, Libia e Giordania. Proseguì l’assistenza alla Somalia, dove fu inaugurato un nuovo istituto tecnico a Mogadiscio43. Nel 1964, ancora, il governo italiano offrì 1.400 borse di studio a studenti provenienti da paesi in via di sviluppo, specialmente dall’Africa e dal Medio Oriente. L’Italia contribuiva anche all’assistenza tecnica delle Nazioni Unite, con 2.350 milioni di lire, nonché a quella che – come già ricordato – la CEE forniva ai diciotto paesi africani associati, attraverso il Fondo europeo di sviluppo44.
Anche nel settore dell’emigrazione e della tutela del lavoro all’estero, il governo Moro e il ministro Saragat agirono nel rispetto delle linee enunciate nel programma dei partiti di maggioranza, sollecitando l’interessamento governativo di quei paesi dove i lavoratori italiani vivevano e operavano45; è opportuno ricordare, fra l’altro, il riconoscimento da parte del Belgio di una pensione ai lavoratori italiani che avevano contratto la silicosi nelle miniere, il modus vivendi raggiunto per l’emigrazione assistita verso l’Australia, la proroga dell’accordo con la Jugoslavia per la pesca nel mare Adriatico46.
Sul fronte europeo, fu adottato il nuovo regolamento per la libera circolazione dei lavoratori nei sei paesi del MEC e venne garantita l’equiparazione fra lavoratori nazionali e comunitari47. Questi accordi – secondo Saragat – rafforzavano il movimento operaio – anche per la maggiore mobilità della manodopera a livello europeo – e «la spinta salariale verificatasi in Italia tra il 1960 e il 1963 ne è la migliore conferma». «Guardando a queste vicende e iniziative da un punto di vista più ampio e profondo – sottolineava ancora il Ministro degli Esteri –, conviene non dimenticare mai quanto il fenomeno emigratorio sia legato alla situazione economica interna del nostro paese»48.



Forze emergenti. La Cina comunista e i paesi “non allineati”

La Cina rompe […] sul tema della distensione tra occidente e oriente – dichiarava il Ministro degli Esteri, Saragat – e si pone obiettivamente sul terreno della guerra fredda, ossia su posizioni che noi e gli Stati sovietici intendiamo superare. La dialettica degli Stati a partito unico gioca in senso opposto a quella degli Stati democratici: questi ultimi vanno verso il coordinamento sempre più vasto e intimo, i primi vanno dall’unità originaria dello Stato guida alle pluralità degli Stati guida […] Le vie della pace e quella della democrazia coincidono: dove maggiore è il contenuto democratico, maggiore è la costruttività dell’impegno di pace […] Per il tanto discusso riconoscimento della Cina comunista […] sin dal 1949 noi non abbiamo mai avuto, come non abbiamo oggi, posizione preconcetta di sorta; ma che, anzitutto eventi internazionali, quali specialmente la guerra di Corea e l’atteggiamento aggressivo nei confronti di popoli altamente pacifici come quello indiano, e poi la convinzione dell’utilità di procedere soltanto in consultazione con i nostri alleati e nell’intento di non dividere né indebolire il mondo libero, ci hanno consigliato di rinviare. Ma sia ben chiaro che, per noi, il riconoscimento non costituisce un premio, del resto non richiesto, offerto al governo di quel paese, ma soltanto un prendere atto che esiste su un determinato territorio una autorità, capace di esercitare certe funzioni e di adempiere certi obblighi di natura internazionale. Tra questi obblighi esiste quello di conformarsi alla Carta delle Nazioni Unite; e quindi, per quanto riguarda il riconoscimento del governo di Pechino, come abbiamo dovuto tenere debito conto di quello che è stato al riguardo, in passato, l’atteggiamento delle Nazioni Unite dopo il conflitto di Corea, così terremo conto di eventuali evoluzioni dell’Assemblea delle Nazioni Unite. Il Governo italiano, per quanto riguarda il riconoscimento di Pechino, intende procedere di concerto con i propri alleati, secondo i propri interessi ed al momento opportuno49.

Alla metà di gennaio 1964, de Gaulle annunciò l’intenzione di riconoscere la Cina comunista, convinto che una politica di contenimento della nuova superpotenza mondiale non andasse perseguita attraverso un impegno militare diretto da parte dei paesi occidentali, ma sostenendo le popolazioni e i movimenti che erano contro il regime cinese. Era trascorso un anno dall’opposizione della Francia all’ingresso della Gran Bretagna nel MEC50. Le due iniziative rientravano pienamente nella strategia internazionale di de Gaulle: il veto all’Inghilterra aveva ostacolato il processo di allargamento del MEC alla comunità atlantica, guidata dagli Stati Uniti; la decisione di riconoscere Pechino, invece, scaturiva dal mutamento degli assetti non solo all’interno dell’Alleanza atlantica ma anche nell’universo comunista. Verificata l’impossibilità di riunire intorno alla Francia gli altri paesi del MEC, de Gaulle decideva di guardare a oriente e di proseguire nel suo disegno “terzaforzista”, intensificando i rapporti commerciali e finanziari con i paesi comunisti dell’Est, per favorire il disgelo con l’URSS, e contrastando le strategie americane in Europa, in questo modo conquistando anche le simpatie di quelle nazioni cosiddette “non allineate” e dei paesi dell’America latina dove sentimenti antiamericani ed antinglesi si manifestavano con più evidenza. L’obiettivo di de Gaulle, quindi, era quello di porre la Francia alla guida di una “terza forza” europea continentale, estranea alla logica dei blocchi contrapposti, che si estendesse dall’“Atlantico agli Urali”51.
Anche il presidente americano Kennedy era convinto che nel duro confronto con i paesi comunisti, l’impegno sul fronte economico e sociale avrebbe progressivamente assunto maggiore rilevanza; ecco perché, senza rinunziare all’uso della forza militare come risposta all’avanzata comunista, il presidente americano cercò di stabilire relazioni amichevoli con quei paesi che durante la guerra fredda si erano mantenuti neutrali.
Il processo di distensione internazionale mise certamente in crisi l’originaria impostazione ideologica degli Stati non allineati e impedì successivamente l’affermarsi di una nuova concezione del neutralismo. Il primo ad elaborare la dottrina neutralista fu il premier indiano, Nehru, il quale alla conferenza dei paesi neutralisti che si tenne a Bandung, nel 1955, propose una linea di equidistanza tra Stati Uniti e Unione Sovietica, che fu per lungo tempo condivisa da un certo numero di paesi afroasiatici52. Durante la seconda conferenza dei paesi neutralisti, svoltasi a Belgrado, nel 1961, sempre su iniziativa di Nehru, l’equidistanza fu sostituita dal non allineamento: i paesi neutralisti dovevano collocarsi al di fuori del sistema dei blocchi contrapposti, per provocarne la fine e favorire la distensione53. Questa strategia, tuttavia, si rivelò inattuabile soprattutto dal momento in cui si venne a manifestare la potenza della Cina comunista. Il primo a rendersene conto, fu lo stesso Nehru; quando, nell’autunno del 1962, i territori settentrionali dell’India furono invasi dalle truppe cinesi, il capo del governo indiano si vide, infatti, costretto ad accettare il sostegno diplomatico dell’Unione Sovietica54. Da allora, la dottrina neutralista perse di significato e molti dei paesi non allineati accettarono la protezione delle superpotenze, e della Cina in particolare. La morte di Nehru, nel maggio 1964, avrebbe, infine, portato gli USA ad un generale ripensamento della loro strategia politica in Asia, anche in considerazione del fatto che, alla metà degli anni Sessanta, i paesi neutralisti erano accomunati soprattutto dalla volontà di sfruttare al meglio la rivalità tra Stati Uniti, Unione Sovietica e Cina. In America latina, la distensione internazionale favorì, innanzitutto, il diffondersi di un sentimento antiamericano, alimentato dal desiderio delle classi dirigenti conservatrici di manifestare la propria autonomia dagli Stati Uniti. Ma ciò che soprattutto mise in crisi il neutralismo di Nehru e i programmi americani di sviluppo economico e politico per i paesi asiatici, furono le divisioni nel mondo comunista e i contrasti fra Mosca e Pechino, che rendevano oramai inevitabile per i paesi occidentali, da un lato, concedere alla Cina quel riconoscimento di grande potenza che oramai era difficile negarle e, dall’altro, rivedere le proprie strategie difensive.
Saragat ribadiva che l’Italia, pur considerando inevitabile il riconoscimento della Cina comunista, avrebbe preso una decisione solo dopo un approfondito dibattito con gli alleati; lo stesso presidente Johnson non escludeva una possibile revisione dell’atteggiamento americano nei confronti del governo cinese. Il governo italiano decise, allora, di intensificare i rapporti commerciali con la Repubblica popolare cinese e, alla fine del 1964, il ministro Saragat comunicò al Parlamento l’avvenuta apertura di una sede dell’Istituto del commercio estero a Pechino e di un analogo ufficio cinese a Roma, precisando che «questa decisione, allorché è stata comunicata a Washington, è stata oggetto di comprensione da parte del governo americano»55. L’atteggiamento italiano, tuttavia, di irrigidì nuovamente in seguito all’esperimento nucleare cinese dell’ottobre 1964, nel Sinkiang.

È questo un evento – precisava Saragat – che deve indurci ad affrettare il riconoscimento del governo di Pechino? […] Il riconoscimento immediato del governo di Pechino non potrebbe essere interpretato se non come un incoraggiamento a continuare ad ignorare quel Trattato di Mosca […] e come una spinta verso la proliferazione degli armamenti atomici. Questa è una delle ragioni principali per cui, a così breve distanza dalla esplosione nucleare nel Sinkiang e alla vigilia del voto dell’Assemblea delle Nazioni Unite, riteniamo meglio appropriato attendere ancora qualche tempo prima di adottare una decisione definitiva […] In conclusione, la posizione del Governo italiano in tema di riconoscimento della Repubblica popolare cinese è una posizione aperta e non lontana da una decisione56.

Oltre alle relazioni commerciali e al riconoscimento diplomatico del governo di Pechino, vi era anche il distinto problema delle credenziali dei rappresentanti cinesi all’ONU; l’Olanda, ad esempio, che aveva un ambasciatore a Pechino, e la Gran Bretagna che, già dagli anni Cinquanta, aveva ripreso le relazioni diplomatiche con la Cina, avevano sempre votato contro il riconoscimento delle credenziali dei delegati cinesi.

Quali sono state – si chiedeva il ministro Saragat – le ragioni di questo comportamento? Esso trae le sue origini dal fatto che la Repubblica popolare cinese è stata condannata quale Stato aggressore dalle Nazioni Unite nel giugno del 1950 e che il suo comportamento dopo tale condanna non ha indotto la maggioranza dei membri delle Nazioni Unite a considerarlo come un governo “amante della pace”, requisito essenziale per l’appartenenza alle Nazioni Unite. La mancata adesione al Trattato di Mosca del 4 agosto 1963 e l’esplosione nucleare nel Sinkiang devono indurci a modificare questa valutazione proprio alla vigilia del voto nella diciannovesima assemblea dell’O.N.U.? […] Anche qui le nostre disposizioni sono ispirate a realismo e comprensione, ma proprio questo realismo ci induce a ritenere che il problema dell’ingresso dei delegati della Repubblica popolare cinese nell’O.N.U. possa essere appropriatamente risolto solo quando sia stata trovata una soluzione anche agli altri problemi che tale evento porterà alla ribalta. Questa soluzione potrà richiedere ancora qualche tempo57.



Europeismo e atlantismo a confronto. La Francia gollista e la “nuova” Germania di Erhard

Quando ad Adenauer succedette Erhard, nell’autunno 1963, il Trattato di amicizia franco-tedesco – stipulato nel 1963, a Parigi, con l’intento di coordinare l’azione dei due paesi anche in politica estera58 – perse efficacia. Il nuovo cancelliere Erhard, infatti, contestò immediatamente la decisione della Francia di concedere alla Romania un credito finanziario a lunga scadenza e accusò de Gaulle di aver violato l’Accordo di Berna, tra il MEC e l’EFTA (European free trade association), e, nello specifico, la clausola che impediva ai firmatari di concedere prestiti ai paesi non aderenti ad una delle comunità e che era stata voluta dagli Stati Uniti proprio per impedire all’Europa occidentale di stringere rapporti troppo stretti con il blocco comunista o con l’America latina. Il presidente francese, tuttavia, contestò quella clausola, ritenendola “superata dagli eventi”. Il governo di Bonn aveva già da tempo avviato scambi commerciali con i paesi comunisti dell’Europa orientale, i quali, tuttavia, apprezzando la politica di maggiore apertura di de Gaulle, ad un certo momento preferirono i mercati francesi a quelli tedeschi.
Ciò che impediva alla Germania occidentale di assumere lo stesso atteggiamento della Francia nei confronti dei paesi comunisti europei, ma anche di quelli afro-asiatici e latino-americani, erano le nuove linee guida della politica estera di Bonn, definite a partire dal 1963: collaborazione con gli Stati Uniti, partecipazione all’Alleanza atlantica e sostegno al processo di distensione tra le superpotenze59. Era questa, secondo Erhard, la strategia migliore per perseguire l’obiettivo prioritario della riunificazione tedesca. Con il nuovo cancelliere, quindi, la politica estera della Germania occidentale si differenziò nettamente da quella francese e i principali contrasti fra i due paesi risiedevano nella mancata adesione tedesca alle politiche golliste d’integrazione europea, nel dissidio sulla partecipazione dell’Inghilterra al MEC, nel rapporto con i mercati comunisti dell’Est, nel riconoscimento della Cina da parte del governo francese60.
In precedenza, invece, la politica estera di de Gaulle era stata favorita dall’atteggiamento di Adenauer, fermamente contrario ad ogni possibilità di dialogo con l’Oriente europeo e al quale il generale aveva offerto l’appoggio francese, a patto che la Repubblica federale di Germania sostenesse il progetto gollista per la creazione di un blocco europeo occidentale, costruito su un asse franco-tedesco e guidato dalla Francia; una “terza forza” mondiale sganciata politicamente dagli Stati Uniti, militarmente autonoma e aperta ad ogni tipo di politica commerciale. Il nuovo cancelliere tedesco, invece, si mostrava deciso – come del resto lo era anche de Gaulle – a rilanciare autonomamente il dialogo con i paesi comunisti europei.
Convinto di poter condizionare Erhard e la sua politica autonomista, de Gaulle non solo minacciava un possibile riconoscimento della Germania orientale ma utilizzava anche l’arma economica. Per ottenere l’appoggio delle masse contadine, la politica agricola del governo di Bonn era sempre stata fortemente protezionista; i prezzi dei cereali tedeschi erano i più elevati d’Europa e l’applicazione di una tariffa comune per tutto il MEC – che lo stesso de Gaulle avrebbe potuto pretendere sulla base degli impegni già assunti dai sei paesi membri – li avrebbe notevolmente ridotti, con la conseguente probabile crisi dell’agricoltura tedesca e del partito di Erhard, privato del sostegno delle masse contadine.
Anche la realizzazione di una forza militare nucleare multilaterale, sostenuta dalla Germania occidentale, rappresentava un motivo di dissidio con la Francia. La forza multilaterale avrebbe consentito alla Repubblica federale tedesca di disporre di armi atomiche – nell’ambito ovviamente di un sistema di controllo e limitazioni – e sarebbe stata, quindi, un efficace strumento di pressione nelle mani di Erhard per impedire che il terreno delle trattative tra Stati Uniti e Unione Sovietica si spostasse sull’Europa centrale e che, per questa ragione, la soluzione del problema relativo alla riunificazione tedesca venisse sacrificata rispetto alla necessità di garantire l’equilibrio fra le due superpotenze61.
Nei mesi successivi alla nomina a cancelliere, Erhard confermò, comunque, l’intenzione di rispettare il Trattato di amicizia franco-tedesco; garantì il sostegno della Germania occidentale per l’ingresso della Gran Bretagna nel MEC; sollecitò il presidente Johnson ad andare avanti nella realizzazione del progetto di una forza atomica multilaterale, a cui l’Italia aveva aderito nel 1962, subordinando la propria partecipazione a quella inglese e all’accettazione da parte degli altri governi della NATO di una clausola secondo cui l’opportunità di una forza difensiva multilaterale doveva essere ridiscussa due anni dopo la sua attuazione, tenendo conto degli eventuali sviluppi sulla scena internazionale.
Il tema principale dei colloqui romani fra Erhard, Moro e Saragat, fu appunto l’appoggio italiano all’attuazione della MLF in cambio di quello tedesco per il rilancio delle trattative sull’integrazione politica europea e per l’indebolimento delle strategie golliste62. Moro e Saragat temevano che in assenza di una intesa generale sulla forza atomica multilaterale, Francia e Germania occidentale avrebbero, comunque, concluso un accordo, ottenendo, successivamente, l’approvazione di Stati Uniti e Gran Bretagna. Il rischio per l’Italia era, quindi, di restare emarginata.
Sulla reale volontà del cancelliere tedesco di isolare de Gaulle, Saragat, quindi, esprimeva forti dubbi, ritenendo assai improbabile che Erhard rinunciasse ad un efficace strumento di pressione come il Trattato di amicizia franco-tedesco e tenendo sempre presente il timore del cancelliere che de Gaulle, dopo la Cina comunista, riconoscesse anche la Repubblica democratica tedesca.
Nel 1964, quindi, le relazioni internazionali erano in costante evoluzione; la difficoltà degli Stati Uniti a rivedere i propri rapporti con gli alleati, le divergenze sull’opportunità di una forza militare multilaterale, il progressivo distacco della Francia dall’Alleanza atlantica, e le continue minacce di de Gaulle al MEC, aggravarono i contrasti all’interno della NATO. Si cominciò, cioè, a mettere in discussione l’impostazione politica dell’Alleanza che, secondo alcuni, era ancora eccessivamente schierata su posizioni anticomuniste, con il rischio di divenire un ostacolo per quel processo di distensione internazionale di cui, nonostante tutto, anch’essa aveva contribuito a gettare le basi nel decennio precedente.

L’alleanza atlantica – dichiarava il Ministro degli Esteri, Saragat – non è nata da un disegno offensivo, ma da una preoccupazione puramente difensiva. Alla fine della seconda guerra mondiale l’Europa era in uno stato di profonda prostrazione economica, sociale e morale. I vari paesi europei non avevano salda struttura statale né forze militari adeguate. Gli Stati Uniti si apprestavano ad una riconversione della loro economia da economia di guerra in economia di pace. In questa situazione, sulle frontiere del vecchio continente premeva la formidabile pressione militare dell’Unione Sovietica, la maggiore potenza continentale del mondo, animata per di più dal dinamismo di Stalin. La N.A.T.O. è sorta per rimediare a questa condizione di squilibrio, per garantire la sicurezza dei suoi membri e quindi per mantenere la pace. La pace risulta in pericolo, infatti, ogniqualvolta una società nazionale è o si sente in pericolo, cioè ogniqualvolta l’equilibrio internazionale si rompe o minaccia di rompersi. L’Italia si è mantenuta fedele alla linea allora liberamente scelta, linea essenzialmente difensiva e pacifica. E che quella fosse la politica giusta è dimostrato dal fatto che, raggiunto l’equilibrio tra le forze, si è potuto, dopo la scomparsa di Stalin, cominciare a parlare di distensione e muovere, all’inizio cautamente e poi più apertamente, i primi passi in quel senso63.

Si trattava, a questo punto, di capire quali conseguenze avrebbe avuto, per gli equilibri interni alla NATO, l’affermarsi del pragmatismo del presidente Johnson e la sostituzione del “grande disegno” kennediano con un atteggiamento meno caratterizzato da un orientamento atlantico della politica estera americana. Nel 1964, gli Stati Uniti erano ideologicamente impreparati alla nuova fase di distensione internazionale; nonostante i notevoli passi avanti compiuti nel dialogo con l’URSS, gli americani non avevano ancora elaborato una dottrina della coesistenza pacifica.

L’argomento usato per affermare che la NATO non è più indispensabile alla nostra difesa – scriveva Manlio Brosio, dopo la nomina a segretario generale dell’Alleanza atlantica, nel maggio 1964 – è, in generale, che ormai l’Unione Sovietica non rappresenta più una reale minaccia militare all’Europa; che il blocco sovietico non è più monolitico perché roso dal tarlo del nazionalismo e del policentrismo; che il dissidio tra Cina e URSS ha spostato l’interesse di quest’ultima verso l’Asia e diminuito la sua pressione in Europa […] Se è vero in una certa misura che la minaccia militare in Europa appare meno attuale, è d’altra parte vero che noi nulla o assai poco sappiamo delle reali intenzioni dei capi sovietici […], per cui ad una politica può succederne un’altra dall’oggi al domani, e guai se questi cambiamenti ci trovassero deboli e impreparati […] La nostra unione è quindi più che mai necessaria alla nostra sicurezza e alla pace […] Scopo della nostra unione è la preservazione della pace, il che possiamo fare essendo forti, beninteso senza provocare nessuno. E questa capacità di forza e di moderazione è stata mostrata dall’Alleanza e da quella che è indubbiamente la potenza leader dell’Alleanza stessa, gli Stati Uniti […], a Cuba. Illusione […] pericolosa sarebbe quindi il ritenere che, per giungere ad una soluzione delle questioni aperte con coloro che ci stanno di fronte – e noi vogliamo giungervi nel rispetto dei nostri nonché dei loro legittimi interessi –, la rinuncia all’Alleanza o l’affievolimento di questa sia un prezzo che meriti di essere pagato64.

Per il governo americano – che dopo l’ascesa al potere di Breznev e la vittoria di Johnson sembrava oramai aver accettato le nuove dinamiche policentriste – l’unità europea non doveva essere solo economica ma anche politica e militare, e soprattutto legata agli Stati Uniti attraverso la MLF e il Kennedy round. Fino alla metà del 1964, grazie al Trattato di amicizia franco-tedesco firmato con Adenauer, de Gaulle riteneva di aver definitivamente ostacolato questa strategia americana per l’Europa; a seguito della nomina a cancelliere di Erhard, invece, gli obiettivi dell’azione diplomatica francese divennero essenzialmente tre: rilancio dell’alleanza franco-tedesca; rapida soluzione della questione relativa ai prezzi agricoli nel MEC; riorganizzazione della NATO come alleanza tra Stati Uniti, Gran Bretagna e paesi del MEC, guidati dalla Francia. Dopo il viaggio di de Gaulle in America latina, la concessione di crediti finanziari ai paesi comunisti e dinanzi al continuo boicottaggio francese in seno all’ONU, Johnson, invece, si era convinto che a de Gaulle non interessassero né l’Alleanza atlantica né l’unità europea, ma soltanto il prestigio della Francia. Per queste ragioni, gli Stati Uniti decisero di procedere con maggiore convinzione verso la creazione di una forza atomica multilaterale, ragionando su una riorganizzazione della NATO senza la presenza della Francia e discutendo con i paesi alleati dell’Europa occidentale una ridefinizione degli assetti comunitari nell’eventualità in cui de Gaulle avesse deciso di far uscire la Francia dal Mercato comune europeo.



Prove di rilancio dell’integrazione europea. Il piano Saragat

Grazie alla spinta americana, il dibattito sulla creazione di una forza difensiva multilaterale si fece più intenso; i continui avvertimenti e le minacce di de Gaulle, tuttavia, ebbero l’effetto di condizionare l’atteggiamento di alcuni paesi del MEC, orientati per lo più a sostenere le posizioni del governo francese, soprattutto dopo la presentazione del progetto d’integrazione politica europea elaborato da un comitato intergovernativo dei sei paesi comunitari, presieduto dal deputato francese Fouchet. Il piano Fouchet prevedeva la creazione di un organismo per la definizione di politiche comuni sia nel campo degli affari esteri sia in quello della difesa65. In realtà, ciò che la Francia proponeva agli altri cinque Stati membri era di sganciarsi dagli Stati Uniti, per collocarsi inizialmente sotto la protezione di un deterrent esclusivamente francese; solo successivamente, quando l’Europa avesse raggiunto quell’unità perseguita da de Gaulle, si sarebbe discusso di una difesa comune.
Nel settembre 1964, il Ministro degli Esteri belga, Spaak, nella riunione della Commissione politica dell’Unione europea occidentale (UEO), presentò a sua volta un progetto che, in realtà, concedeva molto a de Gaulle in cambio di un suo concreto impegno per il rilancio del dialogo europeo. Sulle effettive possibilità di un’unione politica europea, il ministro Saragat, criticando il piano Spaak per il suo eccessivo appiattimento sulle posizioni francesi, riconosceva l’esistenza di “molte e serie perplessità”, derivanti soprattutto dal fatto che se, da una parte, era molto difficile pensare ad un’integrazione europea senza la partecipazione francese, dall’altra, la Francia gollista si ispirava ad impostazioni ideologiche e politiche «diametralmente opposte alle nostre, senza mostrarsi per ora disposta a compromessi di rilievo». Tuttavia – proseguiva Saragat – l’assoluta necessità di «risolvere complessi e difficili problemi di armonizzazione legislativa e di unificazione monetaria, rendono urgente l’avvio di un processo unitario anche sul piano politico generale se si vuole evitare che la battuta d’arresto imposta da de Gaulle nel gennaio 1963, col veto opposto all’ingresso del Regno Unito nel MEC, porti gradualmente ad uno sfaldamento anche nel processo d’integrazione economica europea» 66.

Caro Nenni – scriveva Saragat –, […] le dichiarazioni di Spaak ai parlamentari dell’U.E.O. hanno smosso le acque: mi sembra sia di conseguenza urgente e opportuno far conoscere il nostro pensiero, anche per rettificare tempestivamente certe impostazioni non molto realistiche e che non condividiamo dello stesso Spaak […] Ti accludo una nota sulle riflessioni […] circa le attuali prospettive europee e circa il contributo che potremmo dare per favorire una graduale, positiva evoluzione della situazione […] Ho inviato analoga lettera all’On.le Presidente del Consiglio [Moro]67.

Nel novembre 1964, quindi, anche l’Italia presentò una proposta di piano per l’integrazione politica europea, che il Ministro degli Esteri, Saragat, illustrò ai rappresentanti diplomatici dei paesi comunitari con lo scopo di chiarire definitivamente la posizione italiana sulla mancata adesione dell’Inghilterra al MEC, sulla riforma del Parlamento europeo e sull’integrazione militare con gli Stati Uniti.

Ci troviamo oggi a dieci anni dalla Conferenza di Messina – scriveva Gian Piero Orsello –, che segnò il rilancio europeo e che gettò le premesse dei trattati d’Europa; vi era allora un clima politico che per le prospettive europee era legato alle idee e all’influenza di De Gasperi, di Einaudi, di Sforza. Esisteva allora una posizione diversa nei vari Paesi d’Europa verso la prospettiva unitaria: e ciò, per quanto riguarda il nostro Paese, ove la strada della unità politica si è portata avanti con grande coerenza (anche il piano Saragat, ha avuto il significato di riaprire un discorso di carattere democratico sulla Europa, non semplicemente quello di riprendere contatto sul piano politico). Oggi […] accanto ai cinque Paesi del Mercato comune […] vi è un sesto Paese, la Francia, ove i termini sono mutati, in quanto non v’è più la posizione Schuman, non v’è più la posizione Pleven, che diedero origine ai trattati comunitari; anche la posizione di Monnet […] è oggi minoritaria; vi è invece una posizione gollista, che ancora oggi dichiara clamorosamente che si opporrà sempre ad una Europa sovranazionale68

La proposta italiana, considerata da Saragat utile «sia […] per iniziare un colloquio con gli altri ‘partners’europei, sia […] per rispondere alla iniziativa di Spaak o a future iniziative tedesche»69, manteneva inalterato l’obiettivo finale che era quello di giungere ad una reale integrazione politica, superando la semplice cooperazione economica. A differenza della proposta Spaak, il piano Saragat non riprendeva l’impostazione del piano Fouchet ed era aperto alla Gran Bretagna; impegnava i sei paesi membri ed il Regno Unito ad elaborare politiche comuni sulle principali questioni internazionali; prevedeva la stipulazione, entro un certo periodo di tempo, di un trattato per l’istituzionalizzazione del processo unitario europeo anche sul piano politico, lasciando tempo agli inglesi per decidere su una loro eventuale adesione. Rispetto al piano Spaak, il documento italiano si ispirava alla dichiarazione di Bad Godesberg, sottoscritta, a Bonn, nel luglio 1961, dai sei governi comunitari, ed accettata anche dal Regno Unito, per dare un nuovo impulso all’integrazione europea. Parallelamente alla presentazione di una sua proposta ufficiale, il governo Moro, secondo il ministro Saragat, avrebbe dovuto ribadire presso l’opinione pubblica nazionale ed estera la ferma volontà italiana di creare «un’Europa democratica, aperta verso l’esterno, in rapporto di ‘partnership’ con gli Stati Uniti: una Europa che sia al sicuro, nei suoi futuri sviluppi, da ogni pericolo di ripiegamento verso forme di nazionalismo e di esclusivismo»70.

È stato proprio – dichiarava il ministro Saragat, rispondendo ad un ordine del giorno comunista – «considerando l’incertezza e la precarietà in cui attualmente versano la politica e le prospettive stesse delle comunità europee» […] che il Governo italiano ha ritenuto non fosse più sufficiente perseverare nella sua azione di contatto e di persuasione presso gli altri governi in favore del rilancio dell’unificazione politica europea, instancabilmente condotta già da vari mesi, ma fosse giunto il momento di presentare proposte proprie. Desidero […] sottolineare che il principio che ci ha ispirato nel redigere questo documento e che di sé informa tutte le sue parti, sia quelle sostanziali sia quelle procedurali, è uno solo: costruire una comunità profondamente democratica, nelle istituzioni e nel funzionamento, capace – per tale sua caratteristica – di contribuire alla distensione internazionale, alla solidarietà con i paesi in via di sviluppo, al consolidarsi di strette relazioni tra Europa e Stati Uniti d’America. A tale imperativo rispondono, come risulta da un’attenta lettura, le varie caratteristiche del nostro documento; la gradualità del processo di unificazione fissata in un periodo sperimentale di tre anni in cui, senza accordi formali di sorta, i ministri responsabili con frequenza trimestrale ed i capi di Stato e di governo con frequenza annuale cercheranno di elaborare politiche comuni, “l’apertura” della Comunità verso il Regno Unito e gli altri Stati europei che accettino i principi e gli obiettivi dei Trattati di Roma, la salvaguardia delle esistenti Comunità europee; e soprattutto lo sforzo di conseguire la piena attuazione di quelle disposizioni e indicazioni contenute nei Trattati di Parigi e di Roma che tendono a realizzare la elezione a suffragio universale dei membri del Parlamento europeo ed a rafforzare i poteri del Parlamento europeo. Proposte diverse, ma un unico intento: “contribuire” – vi leggo la conclusione della prima parte del nostro documento – «alla piena, progressiva democratizzazione delle istituzioni comunitarie»71.

Nel redigere il piano italiano, Saragat sottolineò due esigenze ritenute fondamentali: in primo luogo, rinunciare alla sottoscrizione immediata di un testo formale di trattato, in quanto solo l’esperienza di un triennio avrebbe potuto stabilire se i tempi fossero maturi per l’unione politica europea; in secondo luogo, pervenire gradualmente ad una intesa preliminare sugli obiettivi da perseguire.

Dobbiamo sapere che Europa desideriamo costruire e perché – dichiarava il ministro Saragat. Dopo questa auspicata comparazione preliminare, tutto diverrà più facile e più durevole. Questa iniziativa si colloca in un momento particolarmente delicato ma, proprio per tale ragione, non abbiamo esitato ad assumere le nostre responsabilità, anche a costo di qualche possibile delusione. Le prime reazioni sono state finora incoraggianti, ma il negoziato vero e proprio è ancora lontano. Ciò che conta è che, in una fase di delusione e forse di pessimismo, la nostra voce risuoni immutata nell’incoraggiamento a proseguire nello sforzo verso la giusta direzione72.

In realtà, quella “fase di delusione e pessimismo” portò, già nel 1965, ad una sospensione dei negoziati per la creazione di una Unione politica europea, senza, tuttavia, che ciò avesse particolari ripercussioni sui processi d’integrazione economica o sul rafforzamento degli organi della CEE.



Difesa comune: la vera sfida per un’Europa unita?

Al di là delle varie proposte per un’integrazione politica europea, nel 1964, appariva oramai chiaro che la questione più complessa da affrontare per gli Stati membri erano i forti dissensi con de Gaulle sul problema dell’organizzazione di una difesa comune. Inoltre, mentre i conservatori inglesi avevano accettato, sia pure con riserve, la forza multilaterale73, i laburisti, vincitori delle ultime elezioni politiche (ottobre 1964), pur riconoscendo la necessità di una interdipendenza militare, erano contrari al progetto. Nel giugno 1964, alla Camera dei Comuni, il futuro Ministro degli Esteri inglese, Walker, aveva dichiarato:

La nostra avversione alla forza multilaterale non è dovuta al fatto che sul grilletto nucleare ci sarebbe anche il dito della Germania. Riconosco che il veto americano e quello degli altri partecipanti escluderebbe questo pericolo […] Siamo contrari alla forza multilaterale […] perché è, a nostro avviso, una artificiosa invenzione. Dividerà l’alleanza atlantica. E in particolare la dividerà se si procederà alla costituzione d’una forza esclusivamente americana e tedesca. Non soddisferà gli appetiti che dovrebbe calmare, anzi stimolerà in Europa le aspirazioni ad armamenti nucleari indipendenti. Non c’è dubbio che renderà più difficili i negoziati per il disarmo. Stornerà in Europa le spese dalle forze convenzionali a quelle nucleari e tenderà a consolidare l’alleanza orientale proprio nel momento in cui anche là, anzi più là che qua, dei legami cominciano ad allentarsi […] Io non dubito che qualche alternativa si possa trovare fra noi per dare al Regno Unito, alla Germania, all’Italia e alla Francia, ove lo voglia, una reale partecipazione all’elaborazione e al controllo della politica nucleare dell’alleanza. Alla fine, solo una riorganizzazione di questo tipo, e non un piccolo, illusorio surrogato come la forza multilaterale, potrà mantenere il vigore e l’unità della NATO74.

Sulla stessa linea era il Ministro della Difesa inglese, Healey: «La Gran Bretagna dovrebbe integrare le sue attuali forze atomiche in una nuova organizzazione collettiva della NATO che potesse soddisfare l’aspirazione tedesca a influenzare maggiormente la strategia atomica dell’alleanza, ma evitasse lo spreco economico e i pericoli politici impliciti nella proposta d’una forza multilaterale»75.
Respingendo un ordine del giorno presentato, nel dicembre 1964, da alcuni deputati comunisti, con cui si chiedeva al governo Moro di dare parere negativo alla costituzione della forza multilaterale, il ministro Saragat, ribadendo l’autonomia della politica estera italiana, contestò l’affermazione secondo cui con la vittoria dei laburisti in Inghilterra fossero «maturate anche le condizioni politiche auspicate dai partiti della maggioranza e dagli stessi richieste per concretare la propria opposizione nei confronti della istituenda M.L.F.»76.

Ciò non mi sembra esatto – ribatté Saragat. In primo luogo, per quanto grande possa essere l’interesse che noi portiamo all’atteggiamento del governo britannico, per quanto simili siano taluni nostri orientamenti, e per quanto di affine ci possa unire nella nostra comune avversione verso gli armamenti nucleari nazionali, la nostra decisione non potrà non essere presa autonomamente, avendo di mira prima di tutto i nostri interessi. In secondo luogo, sbagliano i firmatari dell’ordine del giorno se ritengono che l’attuale governo britannico sia meno deciso di quello precedente nel partecipare, anche con le armi nucleari, alla difesa del mondo occidentale. Né ha alcun fondamento il ritenere in particolare che il governo britannico sia orientato contro forme di integrazione della difesa nucleare (perché a questo mira la formula della forza multilaterale). Al contrario, proprio in questi giorni da parte britannica altre idee sono in gestazione che, se possono differire in qualche aspetto dal progetto di forza multilaterale […], sono ad esso strettamente legate e si ispirano agli stessi principi di interdipendenza nucleare, di opposizione alla disseminazione delle armi nucleari, di responsabilità e di controllo collettivo di dette armi, di opposizione ai deterrenti nazionali […] Noi siamo convinti che la distensione, il dialogo tra est e ovest e lo stesso disarmo sono resi possibili dal mantenimento dell’equilibrio esistente, e che rafforzando tale equilibrio si aumentano anche le possibilità di sviluppi del genere. Noi siamo altresì convinti che, nella situazione strategica attuale, nella quale missili sovietici di medio raggio sono tuttora puntati sull’Europa […] una difesa multilaterale costituirebbe un rafforzamento e non un turbamento dell’equilibrio militare esistente77.

Nel dicembre 1964, il Ministro degli Esteri francese, Couve de Murville, concluse il suo intervento al Consiglio della NATO con dichiarazioni più favorevoli al processo di distensione mondiale; dopo aver criticato il progetto di una forza multilaterale atlantica, dichiarò: «Non drammatizziamo i nostri dissensi. Pazienza e tolleranza sono virtù cardinali specie tra amici e alleati. Non ci troviamo di fronte a nessun pericolo immediato: e questo ci dà la possibilità di discutere e di valutare»78. I rappresentanti di Stati Uniti, Italia, Gran Bretagna e Repubblica federale di Germania, con i loro successivi interventi, sembrarono accogliere l’invito del collega francese ad una maggiore cautela; e questo perché, in effetti, la necessità di una riflessione più approfondita sull’opportunità di una forza difensiva multilaterale era inevitabilmente imposta dalla situazione internazionale. Un’espansione armata del comunismo oltre la linea dell’Elba sembrava oramai impossibile: l’Unione Sovietica, infatti, da un lato, con la firma del Trattato di Mosca, aveva sostanzialmente accettato la potenza atomica americana, dall’altro, si trovava ad affrontare gravi problemi di politica interna, con il blocco europeo orientale investito dal processo di evoluzione policentrica e da un conseguente desiderio di maggiore apertura delle relazioni economiche e commerciali.
Cominciò a diffondersi, quindi, la sensazione che una forza multilaterale di difesa andasse contro le necessità di quel periodo e, alla fine del 1964, si rafforzò la convinzione che il suo scopo principale dovesse essere quello di far riacquistare alla Repubblica federale di Germania uno status di potenza europea, per impedire che i tedeschi dell’ovest assecondassero tentazioni atomiche, seguissero la Francia gollista, imboccassero la via del neutralismo o dell’accordo con i paesi comunisti. In Germania occidentale – come si è detto – il problema della riunificazione, che con Adenauer era stato, di fatto, posto in secondo piano, tornò a giocare un ruolo primario e, alla metà degli anni Sessanta, un numero crescente di tedeschi cominciò a chiedersi fino a che punto un legame organico con l’Occidente, e quindi il sostegno ai processi d’integrazione europea, non costituissero un ostacolo per la riunificazione con la Germania orientale. Ciò a cui i tedeschi aspiravano, in realtà, era la sicurezza di essere difesi nell’ipotesi, in verità abbastanza remota, di un attacco nucleare dell’URSS; e un accordo bilaterale con gli Stati Uniti, dal quale sarebbe stato sempre possibile svincolarsi, sembrava più conveniente della partecipazione ad una forza militare multilaterale.
Negli Stati Uniti, Johnson riteneva che, per quanto ancora esistessero elementi di tensione internazionale – con la Cina comunista oramai divenuta una potenza mondiale –, non vi fosse più il reale pericolo di un conflitto atomico globale; gli USA avviarono, quindi, un progressivo ridimensionamento degli impegni militari, cercando di stabilire nelle regioni periferiche una nuova forma di equilibrio che non si reggesse esclusivamente sulla presenza delle truppe, ricorrendo all’intervento militare solo per quei settori dove gli interessi americani fossero in evidente pericolo 79. In questo senso, ciò che, in quella fase, avrebbe maggiormente impegnato l’amministrazione Johnson sul fronte internazionale fu la guerra in Vietnam, che proprio dal 1965 vide una imponente escalation della presenza militare americana nel sud del paese.

Ci rendiamo […] conto – dichiarava il ministro Saragat, confermando il suo giudizio nei confronti dell’intervento statunitense in Vietnam – che gli americani, nel sudest asiatico, difendono la libertà di paesi recentemente assurti all’indipendenza. A questo proposito, vorrei ricordare che non esiste il problema di una dilatazione dell’area del Patto atlantico. Vi è una grande differenza fra una visione univoca dei problemi mondiali ed un impegno univoco in tutte le aree del globo. L’impegno univoco sulle aree non coperte dai trattati cui siamo vincolati non può sorgere che da deliberazioni delle Nazioni Unite. La visione univoca sorge, invece, da una concezione comune dei grandi problemi della libertà e della pace. Tale visione univoca vi è stata con gli Stati Uniti nel corso della prima e della seconda guerra mondiale; tale visione univoca si manifesta oggi con gli Stati Uniti sui grandi problemi dell’indipendenza dei popoli e della pace80.

Sul fronte europeo, infine, gli USA si convinsero che spettasse agli Stati membri trovare una soluzione al problema della difesa comune; il governo americano, cioè, avrebbe seguito lo sviluppo degli eventi, senza un coinvolgimento diretto e attendendo, soprattutto, di vedere come si sarebbe evoluto il giudizio della Gran Bretagna nei confronti del processo d’integrazione europea. Questo nuovo atteggiamento degli Stati Uniti, tendenzialmente isolazionista, rappresentava un’altra evidente manifestazione del più articolato fenomeno di disgregazione degli schieramenti internazionali nati e consolidatisi nel secondo dopoguerra.




Conclusione

Nel corso del 1964, l’evoluzione degli equilibri mondiali verso un assetto policentrico aveva di fatto decretato la fine del mondo bipolare e della guerra fredda, almeno per come i governi e l’opinione pubblica internazionale l’avevano conosciuta e vissuta. La conclusione pacifica della crisi di Cuba dimostrava che il timore di un conflitto atomico e l’umano istinto di sopravvivenza avevano prevalso sul desiderio dei due blocchi contrapposti di affermare la propria supremazia. Fu l’inizio di profondi cambiamenti sulla scena internazionale. La Cina ruppe gli equilibri nel mondo comunista e fra i paesi asiatici non allineati; in Europa, de Gaulle cercò a tutti i costi di imporre la “grandeur” francese, scontrandosi con il desiderio dei tedeschi dell’ovest di rialzare la testa, mentre la diffidenza degli inglesi nei confronti dei partner europei andava rafforzandosi e l’Italia cercava di mediare posizioni difficilmente conciliabili. L’Unione Sovietica si trovò a dover gestire le prime spinte autonomiste interne e gli Stati Uniti, contestati dai paesi dell’America latina e sempre più disinteressati alle continue diatribe europee, restrinsero i propri campi di intervento. Nel 1965, infine, il progetto di una forza militare multilaterale venne abbandonato, pur restando attuale la necessità di una difesa nucleare dell’Europa occidentale.

La difesa della pace – dichiarava Saragat – è […] il primo dovere dei legislatori, degli uomini di governo e dei Capi di Stato. Ma la pace si persegue creando con tenacia e con pazienza le condizioni che la rendano inviolabile […] La tecnica ha reso possibile la costruzione di armi mostruose che, se impiegate, farebbero scomparire ogni traccia di vita sul nostro pianeta […] La pace, che oggi è garantita dall’equilibrio delle forze – equilibrio a cui l’Italia contribuisce partecipando all’alleanza difensiva atlantica con le grandi Democrazie – deve diventare inviolabile con il disarmo progressivo, simultaneo e controllato. La via che porta al disarmo è quella della distensione internazionale, del colloquio tra governi che rappresentano sistemi politici, economici e sociali diversi, è la via della comprensione e della tolleranza. Anche la costruzione – a cui l’Italia partecipa- di una Europa democratica economicamente e politicamente integrata è un potente fattore di pace81.

Con queste parole pronunciate durante il discorso di insediamento, il 29 dicembre 1964, Saragat si presentava al Parlamento riunito in seduta comune, subito dopo la sua elezione a Presidente della Repubblica 82. Trascorso appena un anno dalla nomina a Ministro degli Affari esteri, il nuovo Capo dello Stato italiano proseguì con la stessa ferma volontà a sostenere l’unità europea, esaltandone il processo d’integrazione economica e auspicando una sempre maggiore collaborazione anche sul fronte politico, come avvenne, ad esempio, durante il significativo incontro con il presidente francese de Gaulle in occasione dell’inaugurazione del traforo del Monte Bianco. Nel corso dei suoi viaggi all’estero e in Italia, il presidente Saragat non mancò di ricordare le difficoltà nel processo di unificazione europea – sottolineando il dovere delle istituzioni e dei partiti e movimenti politici di richiamarsi sempre all’idea europeista con una decisa condanna del nazionalismo – e di valorizzare quelle strategie internazionali volte a rendere l’Europa unita e alleata, su basi paritarie, con gli Stati Uniti d’America.





ALLEGATO


Il piano Saragat

Il Governo italiano, nel perseguimento dell’obiettivo finale di una Europa federata e democratica, politicamente ed economicamente unita, ritiene auspicabile convocare nei prossimi mesi una nuova riunione dei Capi di Stato o di Governo dei Sei Paesi, per dare esecuzione alla parte della dichiarazione di Bonn del 18 luglio 1961 che comportava l’impegno di confrontare ad intervalli regolari i diversi punti di vista e di concertare le direttive politiche atte a favorire l’unità politica dell’Europa rafforzando così l’Alleanza atlantica.
Tale riunione, che potrebbe aver luogo a Roma, dovrebbe essere preceduta da uno o più incontri fra i Ministri degli Affari esteri, tendenti a chiarire la possibilità di dar l’avvio, in via pragmatica e provvisoria e per un periodo sperimentale di tre anni, a delle consultazioni politiche che dovranno favorire il processo di unificazione europea.
Negli incontri dei Ministri degli Esteri si dovrebbero in particolare concordare:
a) i termini di una nuova “Dichiarazione” dei Capi di Stato o di Governo.
b) le modalità di attuazione del periodo sperimentale.

PROGETTO DI DICHIARAZIONE


1. Nel continuo e fermo perseguimento dell’obiettivo finale dell’unità politica ed economica dell’Europa democratica, i Sei Governi ritengono necessario che, accanto al processo di integrazione economica, già in fase di attuazione sulla base dei Trattati di Parigi e di Roma, si dia l’avvio ad un processo di unificazione politica.
2. Ciò gioverebbe anche: all’approfondimento continuo della distensione internazionale; alla realizzazione di una politica di solidarietà verso i Paesi ancora in via di sviluppo economico ed al consolidarsi di strette relazioni, su basi di parità, tra Europa e Stati Uniti d’America.
3. L’unità dell’Europa democratica potrà costruirsi gradualmente, sotto la spinta della coscienza popolare, sulla base, non di questo o quello schema, ma di esperienze e di azioni comuni e con la partecipazione armonica di tutti gli Stati interessati, che si impegnano ciascuno ad avviare un processo di comprensione e approfondimento degli altrui punti di vista, al fine di giungere insieme ad una equilibrata visione di sintesi dei problemi mondiali.
Essa dovrà realizzarsi per soddisfare le esigenze politiche, economiche e sociali e per rispondere alle aspirazioni ideali di tutti i popoli europei, nel giusto contemperamento degli interessi dei singoli Stati nazionali.
4. L’avvio del processo di unificazione politica deve concretarsi nell’elaborazione di politiche comuni che valgano a consolidare il carattere aperto, non esclusivista ed autarchico, della Comunità Europea.
5. Tale avvio dovrà avvenire nella piena salvaguardia della totale ed autonoma attuazione dei Trattati di Parigi e di Roma e senza intaccare i poteri e le competenze delle Istituzioni delle Comunità Europee.
6. Di pari passo con l’avvio del processo di unificazione politica, occorrerà continuare a perseguire: un sempre migliore e democratico funzionamento del sistema istituzionale delle Comunità Europee, nonché la piena attuazione delle disposizioni e delle indicazioni contenute nei Trattati di Roma e di Parigi.
7. Nell’immediato è necessario:
- ribadire la necessità di un’azione comune che assicuri, anche attraverso il funzionamento di opportuni organi di coordinamento e di esecuzione, il contemperamento degli interessi nazionali e ne favorisca una sintesi;
- riaffermare il carattere aperto della Comunità Europea per stimolare e facilitare l’adesione alla Comunità stessa del Regno Unito e degli altri Stati europei che accetti no i principi fondamentali e gli obiettivi dei Trattati di Parigi e di Roma e siano in grado di adempiere agli obblighi relativi;
- favorire, attraverso una positiva conclusione del “Kennedy round”, l’espansione degli scambi mondiali, un armonico sviluppo degli scambi intraeuropei e più stretti ed armonici rapporti economici tra la Comunità e gli Stati Uniti d’America.
- studiare, in esecuzione degli articoli 21 del Trattato per la C.E.C.A. e 138 e dei Trattati per la C.E.E. e per la C.E.E.A, le misure necessarie per realizzare la elezione a suffragio universale dei membri del Parlamento europeo tenendo presente che questo ultimo ha presentato al riguardo un suo progetto fin dal 20 giugno 1960 e tenendo anche presente la proposta presentata al riguardo dal Governo italiano alla sessione dei Consigli C.E.E. e C.E.C.A. del 24-25 febbraio 1964;
- provvedere, contemporaneamente alla fusione delle tre Comunità esistenti, a rafforzare i poteri del Parlamento europeo trasferendo ad esso, in particolare, i poteri di controllo man mano sottratti ai Parlamenti nazionali sulle risorse comunitarie, con l’intento di contribuire in tal modo alla piena e progressiva democratizzazione delle istituzioni comunitarie.


SCHEMA DELLE MODALITÀ DI ATTUAZIONE
DEL PERIODO SPERIMENTALE DELL’UNIONE POLITICA


Con queste premesse, nel quadro di questi orientamenti e nel perseguimento di questi obiettivi si decide che:
- a partire dal........ i Capi di Stati o di Governo dei Sei Paesi si riuniranno, a turno nelle capitali dei Sei Paesi, almeno una volta l’anno o più frequentemente se lo sviluppo degli avvenimenti lo renderà opportuno;
- i Ministri degli Esteri dei Sei Paesi si riuniranno trimestralmente a......... o......... nella sede delle Istituzioni delle Comunità europee ove si ritenga opportuno far partecipare all’esame di particolari problemi anche i rappresentanti delle Istituzioni comunitarie (ciò, del resto, è stato già deciso a Strasburgo il 23 novembre 1959);
- i Ministri competenti per l’insegnamento, la cultura e la ricerca potranno anch’essi partecipare, quando necessario, alle riunioni dei Ministri degli Esteri.
- Nel corso delle riunioni precitate si procederà non solo al confronto dei rispettivi punti di vista su tutta la situazione mondiale, ma, di volta in volta, anche alla elaborazione di “politiche comuni” (stabilite d’accordo fra tutti ma poi ugualmente impegnative per tutti) su singoli problemi di politica internazionale o di cultura o di ricerca. (A titolo puramente esemplificativo si potrebbero indicare come problemi da affrontare fra i primi, i seguenti: rapporti con i Paesi comunisti; rapporti con i Paesi africani; rapporti con i Paesi dell’America Latina; problemi della “partnership” con l’America; Università Europea, scambi universitari e conferimento del “carattere europeo” ad Università e Istituti di ricerca nazionali). Potranno anche essere trattati, nella misura in cui ciò appaia conveniente per i riflessi di politica estera generale, gli orientamenti dei Governi in materia di difesa.
- Una “Commissione politica”, composta da rappresentanti dei singoli Governi, si riunirà periodicamente a......... per preparare le riunioni sopra indicate e per contribuire alla elaborazione delle “politiche comuni”;
- a......... avrà ugualmente sede il Segretariato di detta “Commissione Politica”. Nel definire la costituzione ed i compiti di tale Segretariato ci si potrà ispirare ai principi contenuti nel punto 2 della Risoluzione del Parlamento europeo del 21 dicembre 1961;
- nel quadro delle riunioni trimestrali a livello Ministri del Consiglio dell’UEO, il Regno Unito sarà, fin dall’inizio, tenuto costantemente al corrente delle discussioni intervenute e delle eventuali conclusioni raggiunte a Sei. Il Governo di Londra avrà così modo di partecipare all’elaborazione delle “politiche comuni” e, se d’accordo, di accettarle e conformarvisi;
- nel corso dell’annuale “colloquio” tra il Parlamento Europeo e gli Esecutivi delle tre Comunità una giornata dovrebbe essere riserbata a:
- esaminare e discutere le iniziative concrete assunte dai Governi per favorire l’unità politica dell’Europa;
- dibattere le linee generali di evoluzione dei problemi politici dell’Europa, sulla base di una relazione predisposta dai Governi. Ovviamente per parte sua l’Assemblea è libera di discutere i problemi politici nel corso delle sue normali riunioni;
- entro il termine massimo del 1° gennaio 1968 (dopo cioè che sia intervenuta, secondo gli orientamenti attuali, anche la “fusione” delle tre esistenti Comunità Europee) si dovrà procedere, attraverso questo stesso meccanismo e sulla base della esperienza acquisita e dei risultati conseguiti, alla stipulazione di un trattato per istituzionalizzare il processo unitario europeo anche sul piano politico generale.








NOTE
1 Atti del Parlamento italiano (abbr.: API), Camera dei Deputati, Discussioni, intervento di Saragat, 24 gennaio 1963, pp. 37150-37154. Per un approfondimento delle vicende internazionali trattate in questo saggio, cfr. E. Di Nolfo, Storia delle relazioni internazionali dal 1918 ai nostri giorni, Roma-Bari, Laterza, 2008; B. Olivi, L’Europa difficile. Storia politica dell’integrazione europea 1948-2000, Bologna, il Mulino, 2001. Brevi cenni biografici sull’esperienza di Saragat alla guida del Ministero degli Affari esteri sono riportati in A.G. Casanova, Saragat, Torino, ERI Edizioni RAI, 1991, pp. 180-185; F. Fornaro, Giuseppe Saragat, Venezia, Marsilio, 2003, pp. 267-271.^
2 La nomina di Saragat a Ministro degli Esteri seguì ad una breve esperienza (luglio-dicembre 1963) del leader socialdemocratico alla presidenza della Commissione Esteri della Camera dei Deputati. Sul contributo dei socialdemocratici italiani alla nascita del primo governo Moro, cfr. M. Donno, I socialdemocratici di Giuseppe Saragat e la nascita del centro-sinistra (1958-1968), in «L’Acropoli», 14(2013), pp. 75-85.^
3 Cfr. E. Di Nolfo, op. cit., pp. 1116-1119.^
4 Ivi, pp. 995-1009.^
5 Cfr. API, cit., Documenti, Ratifica ed esecuzione del Trattato per il bando degli esperimenti di armi nucleari nell’atmosfera, nello spazio cosmico e negli spazi subacquei, firmato a Mosca il 5 agosto 1963, disegno di legge presentato dal Ministro degli Affari Esteri (Saragat), 5 marzo 1964. Cfr. anche E. Di Nolfo, op. cit., pp. 1009-1020.^
6 API, cit., Discussioni, intervento di Saragat, 5 marzo 1964, p. 5506.^
7 Cfr. Archivio Centrale dello Stato (abbr.: ACS), Archivio Aldo Moro (abbr.: AAM), Comunicato stampa della riunione del Consiglio dei Ministri, 13 febbraio 1964, busta (abbr.: b.) 40, fascicolo (abbr.: f.) 2, p. 6.^
8 API, cit., Documenti, Ratifica ed esecuzione del Trattato per il bando degli esperimenti di armi nucleari nell’atmosfera, nello spazio cosmico e negli spazi subacquei, firmato a Mosca il 5 agosto 1963, cit., pp. 1-2.^
9 Cfr. E. Di Nolfo, op. cit., pp. 1069-1087.^
10 G. Martino, I valori politici dell’alleanza atlantica, in «Democrazia liberale», agosto 1959. Nel 1956, il Consiglio Nord Atlantico nominò un comitato di tre “saggi” (Halvard Lange, Gaetano Martino, Lester B. Pearson, rispettivamente Ministri degli Esteri di Norvegia, Italia e Canada), presieduto da Gaetano Martino, allo scopo di «suggerire al Consiglio modi e mezzi per ampliare la cooperazione nei settori non militari e per rafforzare l’unità della Comunità atlantica ». Il Rapporto del Comitato dei Tre sulla cooperazione non militare nella NATO venne approvato nel maggio 1957. Cfr. Il rapporto dei “Tre Saggi”: 50 anni dopo, in «Rivista della Nato», primavera 2006.^
11 API, cit., Discussioni, intervento di Saragat, 5 marzo 1964, pp. 5502-5503.^
12 Cfr. L. Nuti, Gli Stati Uniti e l’apertura a sinistra. Importanza e limiti della presenza americana in Italia, Roma-Bari, Laterza, 1999, pp. 574-583.^
13 Cfr. G. Mammarella, Destini incrociati. Europa e Stati Uniti nel XX secolo, Roma-Bari, Laterza, 2000, pp. 199-201. «Il Governo – dichiarava il Presidente del Consiglio dei Ministri, Moro – rende omaggio reverente e commosso alla memoria del grande Presidente [Kennedy] ed esprime al Presidente Johnson, che raccoglie con ammirevole fermezza una così difficile eredità, la sua solidarietà in spirito di profonda amicizia per l’ardua opera di Governo alla quale si accinge in un momento come questo alla guida del popolo degli Stati Uniti». Commosso omaggio a John Kennedy, in «Il Popolo», 13 dicembre 1963.^
14 Sui “limiti” del processo di distensione internazionale e le sue contraddizioni, cfr. E. Di Nolfo, op. cit., pp. 1158-1173.^
15 Ivi, pp. 1072-1079.^
16 API, cit., Discussioni, intervento di Saragat, 5 marzo 1964, p. 5503.^
17 A questo proposito, cfr. M. Donno, Socialisti democratici. Giuseppe Saragat e il PSLI (1945-1952), Soveria Mannelli, Rubbettino, 2009, pp. 269-398.^
18 Sulla politica estera del centro-sinistra guidato da Moro, cfr. A. Varsori, L’Italia nelle relazioni internazionali dal 1943 al 1992, Roma-Bari, Laterza, 1998, pp. 132-170.^
19 I punti programmatici concordati fra i 4 partiti del centro sinistra. Premesse e indirizzi politici, in «Il Popolo», 26 novembre 1963. Cfr. anche L’unità della NATO resta la base di un proficuo sviluppo del dialogo, in «Il Popolo», 18 dicembre 1963.^
20 ACS, AAM, Il Ministro degli Affari esteri, Saragat, al Presidente del Consiglio dei Ministri, Moro, Appunto, 10 dicembre 1963, b. 40, f. 2.^
21 I punti programmatici concordati fra i 4 partiti del centro sinistra. Premesse e indirizzi politici, cit.^
22 Nel febbraio 1962, il governo spagnolo, guidato da Franco, chiese ufficialmente l’avvio di trattative in vista di una eventuale associazione della Spagna alla Comunità europea. Nel 1964, gli Stati membri decisero di avviare dei negoziati limitati esclusivamente alle questioni economiche; solo nel giugno 1970, si giunse alla firma di un accordo commerciale preferenziale. Cfr. B. Olivi, op. cit., pp. 227-234. «Siamo certi – dichiarava Saragat, nel 1963 – che è opinione del Governo che una avventata proposta di ammissione nella Comunità della Spagna di Franco troverebbe da parte del nostro Governo il ‘no’ più reciso». API, cit., Discussioni, intervento di Saragat, 24 gennaio 1963, p. 37154.^
23 I punti programmatici concordati fra i 4 partiti del centro sinistra. Premesse e indirizzi politici, cit.^
24 API, cit., Discussioni, intervento di Saragat, 5 marzo 1964, pp. 5508-5509.^
25 Ivi, pp. 5504-5505.^
26 Cfr. G. Quagliariello, De Gaulle e il gollismo, Bologna, il Mulino, 2003, pp. 578-592.^
27 Cfr. B. Olivi, op. cit., pp. 87-91.^
28 API, cit., Discussioni, intervento di Saragat, 5 marzo 1964, p. 5504.^
29 Cfr. B. Olivi, op. cit., pp. 104-105.^
30 ACS, AAM, Il Ministro degli Affari esteri, Saragat, al Presidente del Consiglio dei Ministri, Moro, Appunto, cit.^
31 Cfr. B. Olivi, op. cit., pp. 87-91.^
32 API, cit., Discussioni, intervento di Saragat, 5 marzo 1964, pp. 5505-5506.^
33 Le posizioni espresse da Saragat erano condivise dall’intera maggioranza di centro-sinistra e impegnavano, ovviamente, anche i socialisti di Nenni, i quali abbandonavano così le antiche posizioni neutraliste, riconoscendo – sottolineava Saragat – che il socialismo affondava le sue radici in quei valori di giustizia e libertà alla base della civiltà occidentale. Questo nuovo atteggiamento, inoltre, permetteva al PSI di prendere le distanze dal più intransigente Partito comunista italiano, nei confronti del quale – secondo il ministro Saragat – ogni discriminazione sarebbe venuta meno se i comunisti avessero accettato le regole del gioco del MEC e il suo quadro istituzionale, «pur ripromettendosi d’operare al di dentro di quelle istituzioni per modificarle». Sul “riallineamento” del PSI e la sua partecipazione al primo governo Moro, cfr. L. Nuti, op. cit., pp. 624-632.^
34 Cfr. ACS, AAM, Comunicato stampa della riunione del Consiglio dei Ministri, 24 aprile 1964, b. 40, f. 2, p. 1.^
35 Cfr. ACS, AAM, Comunicato stampa della riunione del Consiglio dei Ministri, 4 settembre 1964, b. 40, f. 2, p. 2.^
36 API, cit., Discussioni, intervento di Saragat, 5 marzo 1964, p. 5506.^
37 Cfr. D. Caviglia, Aldo Moro e la crisi del sistema monetario internazionale, in AA.VV., Aldo Moro nell’Italia contemporanea, a cura di F. Perfetti, A. Ungari, D. Caviglia, D. De Luca, Firenze, Le Lettere, 2011, pp. 735-739.^
38 Cfr. ACS, AAM, Comunicato stampa della riunione del Consiglio dei Ministri, 3 gennaio 1964, b. 40, f. 2, p. 1.^
39 API, cit., Discussioni, intervento di Saragat, 5 marzo 1964, pp. 5509-5510.^
40 Ivi, p. 5507.^
41 Ibidem.^
42 Cfr. API, cit. Documenti, Riordinamento dell’Istituto agronomico per l’oltremare, con sede in Firenze, disegno di legge presentato dal Ministro degli Affari esteri (Pella), 20 novembre 1959. Sulla riorganizzazione dell’Istituto, operata da Saragat a seguito della sua nomina a Ministro degli Esteri, cfr. ACS, AAM, Lettera del Ministro degli Affari esteri, Saragat, al Presidente del Consiglio dei Ministri, Moro, 13 gennaio 1964, b. 74, f. 1.^
43 Cfr. ACS, AAM, Comunicati stampa delle riunioni del Consiglio dei Ministri, 7 agosto 1964 e 3 dicembre 1964, b. 40, f. 2, rispettivamente p. 1 e p. 1. Sui rapporti dell’Italia con la Somalia, cfr. L. Monzali, Aldo Moro, la politica estera italiana e il Corno d’Africa (1963-1968), in Aa.Vv., Aldo Moro nell’Italia contemporanea, cit., pp. 658-662.^
44 Cfr. ACS, AAM, Comunicato stampa della riunione del Consiglio dei Ministri, 22 ottobre 1964, b. 40, f. 2, p. 3.^
45 Cfr. ACS, AAM, Comunicati stampa delle riunioni del Consiglio dei Ministri, 31 gennaio 1964, 25 marzo 1964, 22 maggio 1964, 11 novembre 1964, b. 40, f. 2, rispettivamente p. 5, p. 2, p. 6 e p. 1.^
46 Cfr. ACS, AAM, Comunicato stampa della riunione del Consiglio dei Ministri, 31 gennaio 1964, b. 40, f. 2, p. 5.^
47 Sulla ratifica ed esecuzione della “Carta sociale europea”, per la tutela dei diritti fondamentali dei cittadini nel campo del lavoro e della sicurezza sociale, firmata dai paesi membri del Consiglio d’Europa, a Torino, nell’ottobre 1961, cfr. ACS, AAM, Comunicato stampa della riunione del Consiglio dei Ministri, 31 gennaio 1964, cit., p. 5. Sulla ratifica ed esecuzione della “Convenzione internazionale del lavoro n. 105”, per l’abolizione del lavoro forzato, firmata a Ginevra nel giugno 1957, cfr. ACS, AAM, Comunicato stampa della riunione del Consiglio dei Ministri, 22 maggio 1964, b. 40, f. 2, p. 6.^
48 API, cit., Discussioni, intervento di Saragat, 5 marzo 1964, p. 5511.^
49 Ivi, pp. 5503-5504.^
50 Cfr. A. Varsori, La Gran Bretagna e l’Europa dalla CED alla richiesta di adesione alla CEE, in Aa.Vv., Atlantismo ed europeismo, a cura di P. Craveri e G. Quagliariello, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003, pp. 537-542.^
51 Cfr. G. Quagliariello, op. cit., pp. 594-596.^
52 Cfr. W. Reinhard, Storia del colonialismo, Torino, Einaudi, 2002, p. 321.^
53 Cfr. E. Di Nolfo, op. cit., pp. 986-987.^
54 Ivi, pp. 1139-1140.^
55 API, cit., Discussioni, intervento di Saragat, 4 dicembre 1964, p. 11792.^
56 Ivi, p. 11793.^
57 Ibidem.^
58 Cfr. G. Quagliariello, op. cit., pp. 590-592.^
59 Cfr. G. D’Ottavio, L’Europa dei tedeschi. La Repubblica federale di Germania e l’integrazione europea, 1949-1966, Bologna, il Mulino, 2012, pp. 205-213; F. Scarano, La diplomazia tedesca, Aldo Moro e il primo centro-sinistra, in Aa.Vv., Aldo Moro nell’Italia contemporanea, cit., pp. 453-457.^
60 Cfr. E. Di Nolfo, op. cit., pp. 1202-1203.^
61 Cfr. D. De Luca, Aldo Moro e la politica atlantica di sicurezza (1963-1968), in AA.VV., Aldo Moro nell’Italia contemporanea, cit., pp. 416-418.^
62 Cfr. ACS, AAM, Comunicato stampa della riunione del Consiglio dei Ministri, 3 gennaio 1964, b. 40, f. 2, p. 1. «Caro Saragat – scrisse il Presidente del Consiglio, Moro –, ho avuto modo di ben apprezzare durante la preparazione e, successivamente, durante tutto lo svolgimento della visita a Roma del Cancelliere Federale Erhard, la tua collaborazione personale e quella del Ministero degli Affari esteri. Tengo a ringraziartene vivamente, pregandoti inoltre di esprimere il mio apprezzamento al Segretario generale Ambasciatore Cattani ed a tutti i funzionari che hanno prestato la loro efficace opera in questa occasione. Gradisci, caro Saragat, i miei più cordiali saluti». ACS, AAM, Lettera del Presidente del Consiglio dei Ministri, Moro, al Ministro degli Affari esteri, Saragat, 30 gennaio 1964, b. 74, f. 1.^
63 API, cit., Discussioni, intervento di Saragat, 5 marzo 1964, p. 5502.^
64 M. Brosio, Validità attuale dell’alleanza atlantica, in «Battaglie democratiche», quindicinale del Movimento di Democrazia liberale, novembre 1965. La nomina di Manlio Brosio a segretario generale della NATO fu sostenuta anche da Stati Uniti e Francia, che non avendo ancora raggiunto alcuna intesa su una riforma dell’Alleanza atlantica, concordarono, tuttavia, sulla necessità di impedire un ulteriore irrigidimento delle posizioni; la “candidatura di garanzia” di Brosio fu pienamente condivisa dal Ministro degli Esteri italiano, Saragat.^
65 Cfr. B. Olivi, op. cit., pp. 73-78.^
66 Lettera di Saragat a Nenni, 19 settembre 1964, in Carteggio Nenni-Saragat 1927-1978, Manduria-Bari-Roma, Lacaita, 2001, p. 160.^
67 Ivi, p. 158.^
68 G. P. Orsello, Europa: andare avanti!, in «Battaglie democratiche», settembre 1965. Gian Piero Orsello fu segretario generale del Movimento europeo internazionale e vice presidente del Consiglio italiano del Movimento europeo.^
69 Lettera di Saragat a Nenni, 19 settembre 1964, cit., p. 161.^
70 Ibidem. «Sembrerebbe necessario – proseguiva Saragat –, ad un certo momento, svolgere l’opera opportuna per illustrare la nostra azione all’opinione pubblica italiana perché essa venga compresa e vi riceva favorevole accoglienza e per ottenere i necessari consensi in tutti i settori politicamente più sensibili della maggioranza governativa […] Infine sembrerebbe in ogni caso indispensabile che la ripresa da parte italiana del dialogo europeo fosse accompagnata da una riaffermazione solenne di quei principi fondamentali sui quali si fonda la nostra concezione dell’Europa».^
71 API, cit., Discussioni, intervento di Saragat, 4 dicembre 1964, p. 11796. Per il testo del documento, pubblicato in Carteggio Nenni-Saragat 1927-1978, cit., pp. 175-178, vedi l’Allegato. Cfr. anche Fondazione di Studi storici Filippo Turati, Archivio della Direzione nazionale del Partito socialista democratico italiano (1951-1967), Piano Saragat, busta 4, serie 3, sottoserie A, fascicolo 9.^
72 API, cit., Discussioni, intervento di Saragat, 4 dicembre 1964, p. 11796.^
73 Nel dicembre 1962, a Nassau (Bahamas britanniche), si incontrarono il presidente americano Kennedy e il primo ministro inglese Macmillan. L’Inghilterra si rese disponibile a partecipare ad una forza nucleare multilaterale da costituire all’interno della NATO. Cfr. E. Di Nolfo, op. cit., pp. 1075-1077.^
74 Cfr. «Socialismo democratico», settimanale del PSDI, 20 giugno 1964.^
75 Ibidem.^
76 API, cit., Discussioni, ordine del giorno presentato da Pajetta, Alicata, D’Alessio, Sandri, Ambrosini, Pezzino, Diaz Laura, Serbandini, Bernetic Maria, Di Vittorio Berti Baldina, Tagliaferri, Melloni, 4 dicembre 1964, p. 11791.^
77 API, cit., Discussioni, intervento di Saragat, 4 dicembre 1964, pp. 11794-11795.^
78 Cfr. «Socialismo democratico», 28 dicembre 1964.^
79 Cfr. E. Di Nolfo, op. cit., pp. 1079-1081.^
80 API, cit., Discussioni, intervento di Saragat, 5 marzo 1964, p. 5504.^
81 G. Saragat, Messaggio alle Camere riunite in seduta organica, in Discorsi e messaggi del Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat, 29 dicembre 1964 - 31 dicembre 1965, a cura del servizio stampa della Presidenza della Repubblica, Roma, Eliograf, 1966, p. 6.^
82 «Il Presidente del Consiglio [Moro] – si legge in un comunicato stampa della Presidenza del Consiglio dei Ministri – ha rinnovato al Presidente della Repubblica, on. Saragat, un deferente saluto, ricordandone in particolare l’attività di Ministro degli Affari esteri con la quale ha onorato il Governo ed esprimendo il più fervido e devoto augurio per un felice settennato presidenziale. I ministri si sono unanimemente associati alle parole del Presidente del Consiglio». ACS, AAM, Comunicato stampa della riunione del Consiglio dei Ministri, 29 dicembre 1964, b. 40, f. 2, pp. 1-2.^
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