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Salvatore Tommasi medico riformatore*
di Antonio Borrelli
Salvatore Tommasi si spense a Napoli il 13 luglio 1888, nella sua casa in via Santa Monica, non lontana dall’Ospedale Gesù e Maria. La notizia si diffuse rapidamente fra gli amici, negli ambienti accademici, nella comunità scientifica e in Parlamento, e il giorno dopo fu riportata dai giornali locali e nazionali. Gli articoli si aprivano ricordando l’opera e il pensiero di Tommasi, il suo contributo al rinnovamento della medicina e alla rifondazione delle istituzioni universitarie della nuova Italia, il suo ruolo nella formazione dello Stato unitario, e si chiudevano, con dovizia di particolari, sull’organizzazione del funerale, che si sarebbe svolto, con rito civile, nella tarda mattinata del 16. Anche nei giorni successivi i giornali continuarono a occuparsi della scomparsa di Tommasi, riportando telegrammi di importanti personaggi, come quelli del presidente del Consiglio dei ministri Francesco Crispi e del rettore dell’Università di Napoli Salvatore Trinchese, e fornendo una dettagliata cronaca del funerale. Gli articoli apparsi il 17 luglio concordavano tutti sull’imponente manifestazione di cordoglio che aveva accomunato per le strade di Napoli, in quel caldo mattino d’estate, autorità politiche e accademiche, professori e studenti, ammiratori e gente comune. Il «Corriere di Napoli» descrisse una «folla grande, enorme, indimenticabile»1, che si assiepava a San Potito e che fece da ala al passaggio del corteo in via Salvator Rosa, in Piazza Cavour e in via Foria.
In buona parte delle persone che parteciparono al funerale c’era la convinzione che stessero partecipando a un evento importante, a cui non bisognava mancare, perché con la scomparsa di Tommasi si chiudeva non solo l’esistenza di un grande medico, filosofo e riformatore, di una persona dalle rare capacità umane e intellettuali, ma una stagione politica e culturale che era stata fondamentale nella più recente storia d’Italia. Tommasi aveva impersonato, come pochi altri nell’età del Risorgimento, il bisogno di unità politica e amministrativa della nazione, che andava accompagnata, come scrisse Ai giovani medici del napoletano il 20 gennaio 18632, da una radicale riforma della vita intellettuale e morale. Un bisogno che aveva, per così dire, modellato il suo carattere, pronto a combattere con il necessario vigore, fino alla polemica e allo scontro, per ottenere ciò che era necessario per raggiungere tale scopo.
Nell’organizzare il funerale, il Comitato di cittadini abruzzesi, istituito per l’occasione, aveva stabilito che lungo il percorso del corteo dovevano essere affissi striscioni di carta su cui vi era il motto «Il rinnovatore della medicina», e che il feretro doveva essere seguito da un pennone su cui vi era invece il motto «O evoluzione o miracolo», parole, com’è noto, pronunciate da Tommasi nella celebre Commemorazione di Carlo Darwin del 25 maggio 1882.
I membri del Comitato avevano voluto compendiare e rendere visibile il contributo maggiore dato da Tommasi come scienziato e come politico, per l’appunto il rinnovamento della medicina italiana, e quella che era stata una delle sue principali convinzioni in campo filosofico e scientifico, vale a dire la teoria evoluzionistica. E la Commemorazione di Carlo Darwin, tenuta nell’aula magna dell’Università di Napoli affollata all’inverosimile, soprattutto, come si legge ancora sul «Corriere di Napoli», da «un oceano tempestoso di vivaci teste giovanili»3, era stata l’ultima apparizione in pubblico di Tommasi, l’ultima sua conferenza, in quanto in quell’epoca, già molto ammalato, non usciva quasi più di casa.
Rinnovatore della medicina, seguace di Darwin, maestro di diverse generazioni di medici, oratore che trasmetteva entusiasmo e passione a coloro che lo ascoltavano, durante le lezioni universitarie e le conferenze: sembrano questi i tratti principali della complessa e poliedrica personalità dello scienziato abruzzese4.
I biografi di Tommasi concordano tutti sul fatto che, a incidere profondamente sulla sua formazione e sul suo progetto di rinnovamento della medicina, più dei corsi all’Università di Napoli, dove ebbe, fra l’altro, ottimi docenti come Pietro Ramaglia e Francesco Prudente, fu la frequentazione dell’Accademia degli aspiranti naturalisti e l’amicizia con il suo fondatore, il pugliese Oronzo Gabriele Costa5. L’Accademia, che iniziò le sue attività nel 1838, era un consesso che, per organizzazione e finalità della ricerca, rappresentava una novità nel variegato panorama di istituzioni simili a Napoli e fuori. Nel 1840 il giornale «Il Lucifero» la definì «una giovanile accademia […] tutta operosa e per così dire militante». La definizione era quanto mai appropriata: l’Accademia degli aspiranti naturalisti era costituita, infatti, quasi esclusivamente da giovani, che non dovevano superare il numero di dieci, e si proponeva, con l’ausilio del metodo sperimentale, di elaborare un tipo di scienza innovativa e utile alla società. Oltre a Tommasi, figuravano tra i soci Angelo Camillo De Meis, Leonardo Dorotea, Antonio De Martini, Pasquale La Cava, Michele Tenore e Achille Costa, figlio di Oronzo. Un piccolo gruppo, come si vede, ma coeso e combattivo, che aveva in Tommasi il suo indiscusso leader. Non a caso, quando si trattò di rispondere agli attacchi esterni al consesso, l’incarico fu affidato a Tommasi, che già allora fece conoscere il suo stile pungente e il tono sprezzante delle sue critiche. Il gruppo fece la prova del fuoco ed ebbe il battesimo ufficiale con la partecipazione al VII Congresso degli scienziati italiani, che si tenne a Napoli nell’autunno del 1845, dove intervennero diversi soci, fra i quali lo stesso Tommasi6.
Le ricerche naturalistiche compiute dall’Accademia, essenzialmente di anatomia comparata, si basavano, in ambito scientifico, sull’assunto che gli organi erano formati da tessuti e che questi, a loro volta, erano composti da cellule, e, in ambito filosofico, sulla convinzione che negli organi operasse un «principio vitale» che – affermò De Meis nella seduta accademica del 16 gennaio 1848 – «informa e lega insieme le cellule, penetra i tessuti, regna negli organi, abbraccia tutto l’individuo, si estende alla specie intera, ai generi, alle famiglie, agli ordini, alle classi, e lega ogni cosa in un sol tutto; a questo tutto comunica realtà e concretezza, e di tante membra sparse forma un vasto organismo, un solo essere vivente»7. Queste idee, che si richiamavano, com’è noto, alla filosofia della natura di Hegel e di Schelling e alla fisiologia di Burdach, erano condivise anche da Tommasi, che l’anno precedente, in apertura della prima edizione delle Istituzioni di fisiologia, pubblicata a Napoli dal tipografo Azzolino, nel paragrafo Necessità dello studio complessivo di tutti quanti gli esseri che vivono, aveva scritto che gli organismi individuali facevano parte di un tutto e che una era la legge che li governava, una la vita, una l’organizzazione. In altre parole, negli organismi individuali e nel tutto si esprimeva la «vita ideale» e l’«organizzazione ideale».
I lavori di Costa e dei soci dell’Accademia non innovarono solo le scienze naturali, ma, grazie a De Meis, a De Martini e soprattutto a Tommasi, anche la medicina, che doveva perdere le sue caratterizzazioni regionalistiche, abbandonare i suoi vari «ismi», per diventare, con l’ausilio della fisiologia sperimentale e dell’anatomia patologica, una scienza, né «napoletana», né «toscana», né «lombarda», ma universale, come lo era in Francia, Inghilterra e Germania, paesi dei quali Tommasi avrebbe conosciuto l’organizzazione della ricerca medica e le strutture ospedaliere durante i viaggi di studio compiuti nel 18638. Nei primi anni Quaranta Tommasi si era convinto che per attuare il suo ambizioso programma c’era bisogno di operare su diversi piani, da quello dell’insegnamento a quello della produzione scientifica, una convinzione che rimase costante per il resto della sua vita.
Fino alla prigionia e all’esilio per la partecipazione ai moti del 1848, Tommasi aveva attuato questo programma con l’apertura di una scuola privata, il conseguimento nel 1845 della cattedra di Patologia speciale, la pubblicazione di articoli e libri e la fondazione nel 1844 della rivista «Il Sarcone». Non è il caso di descrivere, in questa sede, lo stato di decadenza in cui versava l’Università di Napoli ai tempi in cui la frequentava Tommasi, uno stato al limite della decenza, descritto, fra l’altro, da De Meis nella lettera dell’11 luglio 1889 all’amico Jacob Moleschott9, lettera che contiene anche un accenno alla scuola di Tommasi: «Laureato che fu, Tommasi aprì, secondo il costume, il suo Studio privato, e fu grande accorrere dei giovani, attratti dalla sua meravigliosa facondia e più ancora dalla novità e dall’altezza delle idee, tanto conforme al genio napoletano»10. Lo stesso successo ebbero le sue lezioni universitarie, «Il Sarcone» e le tre edizioni delle Istituzioni di fisiologia, come ovviamente «Il Morgagni»11, il più importante periodico medico italiano del secondo Ottocento, da lui diretto dal 1862, quando subentrò a Ramaglia, che ne era stato direttore, seppure nominalmente, dal 1857 al 186012.
Tommasi, con il suo insegnamento e i suoi scritti, si sforzò sempre di formare nuovi medici con la nuova medicina. Per questo si rivolse costantemente ai giovani, a Napoli, a Torino, a Pavia e poi di nuovo a Napoli, nella sua scuola privata e all’Università, dalle pagine del «Sarcone» e del «Il Morgagni». Ma egli sapeva bene che gli scritti e l’insegnamento non erano sufficienti per cambiare in profondità la medicina e soprattutto il pensiero medico. Era necessario intervenire anche sulle strutture ospedaliere, che dovevano diventare dei luoghi, oltre che di cura e didattica, anche di ricerca, nei quali compiere terapie. Tommasi aveva avuto modo di vedere ciò che sognava per il suo paese, in Germania, in particolare all’Istituto anatomico di Berlino, diretto da Rudolf Virchow. In questa struttura, appositamente costruita, si trovava tutto ciò che era «necessario per le ricerche anatomiche, chimiche e microscopiche». Ai giovani che studiavano costantemente sotto la guida del professore e dei suoi assistenti, non mancava nulla: «[…] locali puliti e ben riscaldati, buoni microscopii, reagenti chimici, polarizzatori, metodi speciali per fare e conservare le preparazioni, e sopra ogni altra cosa istruzione profonda e completa che il Virchow» largiva «loro con infaticabile operosità»13. A questo proposito, nella lettera a Isacco Gallico del 20 novembre 1863, direttore del giornale «L’Imparziale» di Firenze, Tommasi scriveva che da tempo andava sostenendo «che tutti gli Ospedali, qualunque» fosse «la loro origine e i loro diritti autonomi», dovevano dipendere «non dal Ministero dell’Interno, ma da quello dell’Istruzione». E aggiungeva: «Gli Ospedali non devono servire solamente a ricoverare gl’infermi, ma anche alla scienza. I medici non possono istruirsi che negli Ospedali; dunque se il Ministro dell’Istruzione vorrà prendere qualche determinazione necessaria, per provvedere all’istruzione, non ci sia alcuno che possa porvi ostacolo»14.
Nel 1860 Vittorio Emanuele aveva proposto a Tommasi di ritornare a insegnare all’Università di Napoli. Seppure con qualche perplessità iniziale, Tommasi, che era molto legato all’ex capitale del Regno delle Due Sicilie, accettò l’invito, ma vincolò il suo ritorno a una ben precisa richiesta: la realizzazione di un ospedale dove fossero raccolte le cliniche universitarie, che versavano da anni in una condizione pietosa nell’Ospedale degl’Incurabili. Il re diede le necessarie assicurazioni a Tommasi, che il 13 novembre 1863, in occasione dell’inizio dei lavori di adeguamento dell’ex Monastero Gesù e Maria, scelto dalle autorità competenti per allocarvi l’ospedale clinico, tenne un breve discorso nel quale ricordava le carenze logistiche delle vecchie cliniche e gli appena trecento posti letto destinati ad «accogliere le malattie acute» in una città di circa mezzo milione di abitanti. I locali che ospitavano le cliniche nel vecchio nosocomio erano così «angusti o disacconci», affermava, «che non i mille studenti che sono in Napoli, ma né anche quei pochi che frequentano le Università di second’ordine dell’Italia, avrebbero potuto capirvi»15. Parole simili usò, nello stesso anno, il rettore Giuseppe De Luca in una relazione sull’Università inviata al corpo accademico16.
Da quanto finora detto, appare chiaro che la necessità di creare un ospedale clinico a Napoli non era legato solo alla reale mancanza di spazi per le cliniche e alla loro endemica carenza di attrezzature, ma a un ben preciso piano scientifico e didattico di Tommasi: quello di formare un docente universitario che doveva diventare sempre più un clinico, cioè un medico che stava al letto dell’ammalato e un ricercatore che trascorreva molte ore in laboratorio. Un piano che emergeva in tutta la sua pregnanza teorica nella prolusione Le dottrine mediche e la clinica, con la quale aprì il corso di Clinica medica a Napoli nel novembre 1865. Un piano che per poter essere realizzato aveva bisogno certamente di nuove strutture, ma anche di uomini che condividessero le sue idee e fossero pronti a sostenerle contro gli avversari, che non erano pochi. Intorno a Tommasi, nella redazione del «Morgagni» e nell’Ospedale Gesù e Maria, si creò un gruppo di medici, che si erano formati quasi tutti in Germania, alcuni direttamente alla scuola di Virchow. Ne facevano parte Antonio Di Martini, Arnaldo Cantani, Luciano Armanni, Giuseppe Albini, Otto von Schrön e Diodato Borrelli. Come ai tempi dell’Accademia degli aspiranti naturalisti, si trattava di un piccolo gruppo, i cui membri, a differenza dei soci di quel battagliero consesso, tutti giovani e poco conosciuti, erano, al pari di Tommasi, apprezzati scienziati e affermati professionisti, conosciuti in tutta Europa. Insieme con loro Tommasi poté realizzare ciò che era sempre mancato a Napoli e nel resto d’Italia: l’unione tra medicina e ricerca scientifica, un rapporto che in altre nazioni europee si era concretizzato già nella prima metà dell’Ottocento. Ciò fu reso possibile grazie all’impegno che Francesco De Sanctis aveva profuso nel 1861-62, in qualità di ministro della Pubblica istruzione, nella riforma dell’Università di Napoli e in particolare della Facoltà di medicina, quando aveva chiesto, fra l’altro, consigli e suggerimenti a Tommasi e De Meis17.
Il ritorno di Tommasi a Napoli segnò anche il suo definitivo distacco dall’idealismo e la sua convinta adesione al positivismo. Con Il naturalismo moderno di Tommasi, prolusione inaugurale degli studi universitari del 1866-67, e con Il positivismo nella medicina dell’amico e collega Cantani18, prolusione inaugurale al corso di Clinica medica del 1868-69, il positivismo faceva il suo ingresso ufficiale nella Facoltà di medicina e vinceva, nell’ateneo napoletano, la sua battaglia con l’idealismo. Tommasi e Cantani, richiamandosi all’insegnamento dei grandi medici italiani del Settecento, dichiaravano che, in quanto medici e scienziati, non potevano occuparsi di «cose immateriali», né tanto meno dedicarsi alla ricerca delle «essenze» delle malattie, ma dovevano attenersi solo ed esclusivamente ai fatti, solo ai «minimi particolari» e «alla loro statistica». Insomma i medici dovevano sforzarsi di trovare nei fenomeni dell’organismo «rapporti fissi», leggi costanti, così come avveniva nella fisica e nella chimica. Senza andare oltre, senza avere la pretesa, fra l’altro impossibile, di conoscere cosa fossero in se stesse le malattie. Nessun fisico si era mai sognato di poter cogliere «l’essenza della gravitazione»19. «L’organismo umano era figlio della natura», affermava Cantani, e per questo andava studiato, come tutte le altre cose della natura, con il metodo sperimentale, quello elaborato da Galilei20.
Se si confronta la considerazione accordata al metodo galileiano nel Proemio della seconda edizione delle Istituzioni di fisiologia (1852), assente nella prima, e nel Naturalismo moderno, si avverte l’evoluzione intellettuale che Tommasi aveva avuto in poco più di un decennio. Nel Proemio, soffermandosi sulla scienza all’epoca di Galilei, scriveva: «In questo tempo però l’idea di un principio vitale era supposta, ma non contemplata, né dimostrata; ondeché i naturalisti, indettati unicamente dai precetti di Galilei e di Bacone di Verulamio, ed in prosieguo alla scuola sensualista, non ad altro intesero che alla disamina dei fatti particolari, considerati dapprima nelle loro forme estrinseche, dipoi nella loro sostanzialità (quanto era possibile) e da ultimo nelle loro scambievoli attinenze»21. Nel Naturalismo moderno si cambia decisamente registro: «Noi siamo della scuola di Galilei – proclamava Tommasi. Sappiamo assai bene che la natura è più ricca dell’esperienza, e le istanze baconiane, onde si fa uso, domani potranno esser contraddette da un fatto negativo. Ebbene, pazienza, si ricomincia da capo! Oggi però la scuola di Galilei ha cultori numerosi in tutti gli angoli della terra; i mezzi sperimentali crescono ogni giorno di finezza e di precisione; le dottrine avverate sono già molte, e queste servono di critica e di riprova; e la matematica viene ormai annoverata tra le scienze naturali»22.
I positivisti elessero a loro nume tutelare Galilei. Lo fecero i naturalisti, i medici, i filosofi e perfino gli storici. Lo fece Tommasi, lo aveva fatto Pasquale Villari con lo scritto Galileo, Bacone e il metodo sperimentale (1864) e la prolusione La filosofia positiva e il metodo storico (1865). Con il suo metodo Galilei aveva trovato un giusto equilibrio tra i fatti e le idee, aveva rigettato per sempre il puro empirismo, aveva fatto uso della matematica. Tutto ciò portava a una conclusione che sembrava essere, oltre che scientifica, anche filosofica ed etico-morale: il medico, in quanto scienziato e naturalista, doveva abbandonare «ogni dottrina vitalistica e teleologica», doveva, in altre parole, abbandonare la metafisica. «A noi non è concesso – affermava Tommasi – sorpassare di una linea sola le condizioni anatomiche e chimiche dell’organo infermo e i processi funzionali che ne dipendono». I cultori di altre discipline erano liberi di continuare a percorrere la vecchia strada. «La metafisica, se lo crede, passi oltre; e noi la rispetteremo; ma a noi ci lasci fare; perché, al contrario dei rimproveri che ci fanno, abbiamo già mostrato di saper fare»23, affermava ancora Tommasi. Un’affermazione che è strettamente connessa a quella molto conosciuta della prolusione Le dottrine mediche e la clinica: «Noi rispettiamo il cielo della filosofia; anche noi serbiam fede al progresso delle scienze morali; ma in quanto medici, negheremmo noi stessi se non fossimo materialisti»24. In questa prolusione Tommasi sanciva il definitivo distacco dall’approccio metafisico, aveva ritratto lo sguardo, con modestia e rispetto, dal «mondo dello spirito». E facendo un’aperta autocritica alle posizioni sostenute in precedenza, aggiungeva: «È già molto tempo che io ho rotto questi ceppi lusinghieri; e parmi davvero di muovermi ora con più destrezza e disinvoltura a 52 anni, che non avessi potuto a venticinque o trenta!»25. Una scelta che gli procurerà forti avversità sul piano personale, al punto da perdere l’amicizia di vecchi colleghi, come accennava a De Meis, con un po’ di rammarico, nella lettera del 23 maggio 186826. Una scelta che lo porterà sempre più lontano dalle posizioni dello stesso De Meis, a cui peraltro fu sempre legatissimo. Il medico di Bucchianico non accettò mai che la medicina rinunciasse alla speculazione, che il «parlar di filosofia in medicina» fosse, come affermava Tommasi, «un controsenso»: posizione, questa, che lo portò nel 1863 a preferire la cattedra di Storia della medicina a quella di Clinica medica nell’Università di Bologna27 , perché evidentemente la prima, molto più della seconda, gli avrebbe permesso di «far breccia nelle idee di una gioventù educata da medici ostili alla speculazione»28.
Naturalmente resta il problema, al quale qui voglio solo accennare, della posizione di Tommasi nella polemica con Luigi De Crecchio sulle psicopatie, alla quale partecipò, com’è noto, anche Bernardo Spaventa: posizione che, non legando esclusivamente i problemi psichici ad alterazioni molecolari del cervello, sembrava porre dei limiti al suo materialismo. In realtà, come ha spiegato bene Marco Segala, Tommasi «non mise in discussione il principio della materialità della malattia»29, ma considerò le patologie psichiche, per l’insufficienza degli studi sul cervello e le sue funzioni, qualcosa che non avesse solo radici organiche, ma che fosse legato a fattori più generali, come l’educazione, l’ambiente socio-culturale e il periodo storico in cui il malato era vissuto e viveva, argomento su cui si è soffermato Raffaele Colapietra nella sua biografia sul medico abruzzese30.
Il messaggio che Tommasi e Cantani rivolgevano, con le loro prolusioni, alle giovani generazioni era simile a quello che scaturì dalle scoperte copernicane e galileiane. Agli albori della rivoluzione scientifica il ritrovamento, in cielo e in terra, di nuovi mondi, di nuove realtà, la perdita della centralità dell’uomo nell’universo, avevano costretto scienziati e filosofi ad abbandonare la propria superbia intellettuale e a studiare la natura con la necessaria modestia, ma anche con la consapevolezza di poterla conoscere meglio. Nella seconda metà dell’Ottocento era successo qualcosa di simile: il progresso scientifico aveva rivelato all’uomo che la natura non gli aveva concesso alcun privilegio, che al pari di tutti gli esseri viventi era «una forma transitoria nell’eterno ciclo della natura», destinata a dissolversi nel nulla come una piccola insignificante cellula. Eppure questa consapevolezza, questo senso di precarietà, doveva portare gli scienziati a proseguire nello studio dei fatti, in qualsiasi branca delle conoscenze, tralasciando una volta per sempre le questioni «umanamente insolubili». Abbandonare «i deliri della speculazione» e rinunciare al «palazzo etereo delle fate» – sono parole di Cantani – significava rompere il secolare connubio tra filosofia e scienza, significava scegliere di essere medico-tecnico e non medico-filosofo. Dietro le posizioni dei positivisti vi era anche un problema più ampio e generale, che atteneva alle dinamiche sociali dei gruppi professionali. Nell’ultimo trentennio dell’Ottocento gli scienziati italiani, attraverso una più marcata professionalizzazione delle loro attività, intesero ricoprire un ruolo sempre più centrale nelle istituzioni pubbliche e nella gestione dello Stato, un ruolo ricoperto tradizionalmente dagli umanisti.
Quello che stava succedendo nell’Università di Napoli con il gruppo di Tommasi, stava succedendo anche in quella di Torino, dove insegnava Moleschott, e nell’Istituto di Studi Superiori di Firenze, dove insegnava Moritz Schiff, Paolo Mategazza e il giovane Aleksandr Herzen. E fu proprio questo positivismo degli scienziati, apertamente materialistico e sostenitore delle teorie darwiniane, a riscuotere, per oltre un decennio, un grande successo, anche nel pubblico dei non specialisti31.
Intanto a Napoli, la fondazione dell’Ospedale clinico e le prolusioni di Tommasi e Cantani suscitarono ben presto la reazione degli avversari dei positivisti. Il Gesù e Maria, la creatura di Tommasi, appena inaugurato, divenne il loro bersaglio principale, perché non erano pochi i medici che non credevano nel valore scientifico della clinica e quindi nella necessità di quell’istituzione. Una polemica violentissima scoppiò fra Tommasi e il professore straordinario di Clinica chirurgica Ferdinando Palasciano, divenuto celebre per aver guarito nel 1862 Garibaldi da una ferita al piede dopo Aspromonte32. La polemica sembrava non avere connotazioni ideologiche. Palascino riteneva che non fosse opportuno, per ragioni d’igiene, trasportare l’insegnamento della chirurgia nell’Ospedale clinico, dove si curavano anche le malattie acute e infettive. In realtà dietro quel fatto, molto concreto, si nascondeva la sua avversione all’intero progetto di trasloco delle cliniche dall’Ospedale degl’Incurabili a quello di Gesù e Maria. La polemica, che si svolse nel Consiglio Comunale di Napoli, in Parlamento, nell’Università, sui giornali di opinione e su quelli specializzati, si chiuse con la sconfitta di Palasciano, che, in segno di protesta, dopo aver pronunciato il 19 febbraio 1866 la Prelazione al corso di Clinica chirurgica nella nuova sede della Facoltà di medicina, diede le proprie dimissioni dall’insegnamento universitario.
Per più di un decennio continuarono gli attacchi a Tommasi, al suo pensiero medico e all’Ospedale clinico. L’ultimo e teoricamente più consistente fu sferrato da Mariano Semmola, professore di Materia medica nell’Università di Napoli e direttore dell’annesso Gabinetto, con il suo fortunato libro Medicina vecchia e medicina nuova, pubblicato a Napoli nel 1877, dove fu ristampato nel 1879 e nel 1880, e tradotto in tedesco nel 1885. Semmola, che aveva avuto un violento scontro con Tommasi proprio nel 1877, criticava, senza mezzi termini, le cliniche e i «clinici da laboratorio». Per lui era molto più efficace la vecchia medicina, quella tradizionale che si faceva nelle corsie degli ospedali, che la nuova, quella scientifica e sperimentale, che si faceva nei laboratori, e arrivava a sostenere che coloro che disprezzavano la medicina del passato ingannavano «la gioventù medica con le malattie fittizie del laboratorio» e facevano «loro credere che le malattie» non erano altro «che perturbazioni fisiologiche accidentali della salute 33. I suoi strali si appuntavano soprattutto sull’insegnamento, su quella prassi, che aveva preso piede anche in Italia, di mostrare i malati agli studenti non nelle cliniche, ma negli anfiteatri, quasi fossero «oggetti di curiosità»34. Infine, accusava i clinici di occuparsi più di diagnosi che di terapia, più di patologia che di prevenzione. Insomma Semmola accusava Tommasi e i suoi colleghi di essere più scienziati che medici.
Per concludere, le aspre polemiche tra Tommasi e Semmola sono la spia che la ferita apertasi tra la vecchia e la nuova medicina nella seconda metà dell’Ottocento non solo non si era ancora rimarginata, ma che stava provocando conseguenze anche sul piano della professione medica. Le innovazioni apportate alla medicina e alle strutture ospedaliere da Tommasi finivano col mettere in allarme e preoccupare i medici più tradizionali, soprattutto sul piano del cosiddetto «mercato della salute». Con la creazione dell’Ospedale clinico e con il successivo sviluppo della Facoltà di medicina, il prestigio dei clinici crebbe enormemente nelle istituzioni sanitarie napoletane. Non a caso, alla fine degli anni Ottanta, qualche anno dopo la scomparsa di Tommasi, l’amico Cantani, clinico di riconosciuto prestigio in Italia e all’estero, e il famoso Antonio Cardarelli, risultarono, nella graduatoria dei contribuenti, tra i più ricchi della provincia di Napoli35.







NOTE
* In occasione del bicentenario della nascita.^
1 «Corriere di Napoli», a. XVII, n. 197, 16 luglio 1888, p. 2.^
2 S. Tommasi, Ai giovani medici del napoletano, in Id., Il rinnovamento della medicina in Italia. Introduzione di M. Segala, bibliografia a cura di F. Masedu, l’Aquila, Facoltà di Medicina e Chirurgia, Università dell’Aquila, 2003, pp. 123-137: 137 (edizione che riproduce quella curata da R. Maturi, Napoli, R. Stabilimento De Falco e figlio, 1883).^
3 Rostignac, Salvatore Tommasi, in «Corriere di Napoli», a. XVII, n. 195, 14-15 luglio 1888, pp. 1-2: 1.^
4 Per gli ultimi studi su Tommasi (R. Colapietra, G. Cosmacini, P. Di Giovanni, M. Segala) cfr. il nostro Recenti studi su Salvatore Tommasi, in «Scrinia. Rivista di archivistica, paleografia, diplomatica e scienze storiche», 3 (2006), n. 1, pp. 115-122.^
5 Sull’Accademia e l’attività svolta in essa da Tommasi cfr. il nostro L’Accademia degli aspiranti naturalisti. Napoli 1838-1869, in Istituzioni culturali in Italia nell’Ottocento e nel Novecento, a cura di G. Tortorelli, Bologna, Pendragon, 2003, pp. 95-128; e più in generale sulla scienza a Napoli negli anni in cui operò l’Accademia cfr. M. Torrini, Scienziati a Napoli 1830-1845. Quindici anni di vita scientifica sotto Ferdinando II. Prefazione di G. Galasso, fotografia di F. Donato, con appendice di E. Ragozzino, R. Rinzivillo, E. Schettino, Napoli, CUEN, 1989.^
6 Sul VII Congresso degli scienziati italiani cfr., anche per la bibliografia, E. Schettino, La VII Adunanza degli scienziati italiani tenuta in Napoli dal 20 di settembre à 5 di ottobre 1845, in La scienza nel Mezzogiorno dopo l’Unità d’Italia. Tomo I, Soveria Mannelli, Rubbettino Editore, 2008, pp. 327-352.^
7 A.C. De Meis, Dello stato e del carattere attuale delle scienze naturali detto nella pubblica adunanza del 16 gennaio 1848, Napoli, Stabilimento tipografico all’Insegna dell’ancora, 1848, p. 11.^
8 Sul viaggio in Germania, nazione dalla grande «ospitalità scientifica», cfr. S. Tommasi, Breve relazione intorno ad alcuni istituti di Germania, in «Il Filiatre-Sebezio. Giornale delle scienze mediche», v. LXIV, 33 (1863), pp. 121-128.^
9 C. De Pascale, A. Savorelli, L’Archivio di Jakob Moleschott (con documenti inediti e lettere di F. De Sanctis, S. Tommasi, A.C. De Meis), in «Giornale critico della filosofia italiana», sesta s., v. VI, a. LXV (LXVII), fasc. II, maggio-agosto 1986, pp. 216-248: 245-248.^
10 Ivi, p. 247.^
11 Su «Il Morgagni» cfr. M. Torrini, Il Morgagni di Salvatore Tommasi, in Le riviste a Napoli dal XVII secolo al primo Novecento. Atti del Convegno Internazionale, Napoli, 15-17 novembre 2007, a cura di A. Garzya, Napoli, Accademia Pontaniana, 2008, pp. 223-229.^
12 Nel 1860 Ramaglia chiese a Pietro Cavallo, fondatore e proprietario del giornale, di togliere il suo nome dal «Morgagni», perché temeva «con la stampa libera, anzi allora un po’ sfrenata, si potesse trasmodare ed implicare quindi il suo nome in polemiche o quistioni personali, da cui rifuggiva l’animo suo» (P. Cavallo, Un ricordo in famiglia, Napoli, Tipografia italiana, 1877, p. 13). Nella fase «d’interregno» tra la direzione di Ramaglia e quella di Tommasi, il giornale fu diretto dallo stesso Cavallo.^
13 S. Tommasi, Breve relazione, cit., p. 114.^
14 S. Tommasi, Sui Congressi della Associazione Medica Italiana. Lettera al Prof. Gallico, in Id., Il rinnovamento, cit., pp. 159-164: 163.^
15 S. Tommasi, Nell’inaugurazione dell’Ospedale Clinico di Napoli fatta dal Gran Re Vittorio Emanuele, 13 novembre 1863, in Id., Il rinnovamento, cit., pp. 191-192: 191. Sulle vicende dell’Ospedale Clinico si rimanda al nostro Innovazione medico-scientifica, formazione sanitaria e polemiche accademiche nella Napoli di fine Ottocento: le travagliate vicende della Clinica chirurgica, in «History of Education & Children’s Literature», 3(2008), fasc. 2, pp. 379-394.^
16 G. De Luca, Relazione intorno all’Università di Napoli indirizzata dal rettore al corpo accademico universitario, Napoli, Stamperia della R. Università, 1863.^
17 Cfr. L. Russo, Francesco De Sanctis e la cultura napoletana (1860-1885). terza edizione, Firenze, Sansoni, 1959, pp. 2-75; G. Landucci, De Sanctis la scienza e la cultura positivistica, in Francesco De Sanctis nella storia della cultura, a cura di C. Muscetta, Roma-Bari, Laterza, 1984, pp. 185-234.^
18 Sulla figura di Cantani e i suoi rapporti con Tommasi cfr. la nostra Introduzione a A. Cantani, Il positivismo nella medicina e altri scritti, a cura di A. Borrelli, Napoli, Denaro Libri, 2010, pp. 7-52.^
19 Cfr. S. Tommasi, Ultima lezione dell’anno 1867, in Id., Il rinnovamento, cit., pp. 225-238: 226-227.^
20 Sulla fortuna di Galileo a Napoli ai tempi di Tommasi cfr. F. Tessitore, La lettura di Galileo nella cultura napoletana del secondo Ottocento e A. Savorelli, Spaventa e Galileo, in Galileo e Napoli, Atti del convegno, Napoli, a cura di F. Lomonaco e M. Torrini, 12-14 aprile 1984, Napoli, Guida, 1987, pp. 449-468 e 469-481.^
21 S. Tommasi, Istituzioni di fisiologia. Proemio, seconda edizione, Torino, Stabilimento tipografico Fontana, 1853, 2 voll., I, pp. VII-XIV.^
22 S. Tommasi, Il naturalismo moderno, in Id., Il rinnovamento, cit., pp. 207-224: 210.^
23 Ivi, p. 208.^
24 S. Tommasi, Le dottrine mediche e la clinica, in Id., Il rinnovamento, cit., pp. 193-205: 194-195.^
25 Ivi, p. 195.^
26 S. Tommasi, Sul libro Dopo la laurea, in Id., Il rinnovamento, cit., pp. 239-242: 242.^
27 Cfr. R. Passione, Angelo Camillo De Meis medico e storico della medicina, in A.C. De Meis, Scritti medici e filosofici, a cura di R. Passione, premessa di M. Segala, L’Aquila, Edizioni L’Una, 2011, pp. XIII-L: XXXIV-XLI.^
28 G. Oldrini, Le idee napoletane a Bologna, in Filosofia e scienza a Bologna tra il 1860 e il 1920, a cura di G. Oldrini e W. Tega, Bologna, Cappelli, 1990, pp. 11-45: 23, passo riportato in R. Passione, Angelo Camillo De Meis, cit, p. XXXVII.^
29 M. Segala, Introduzione a S. Tommasi, Il rinnovamento, cit., pp. XV-XLIV: XXXIX.^
30 R. Colapietra, Per la biografia di Salvatore Tommasi, con un intervento di F. Di Orio, L’Aquila, Edizioni Libreria Colacchi, 2004, pp. 50-59; ma cfr. anche V.D. Catapano, Neurologia e psichiatria a Napoli nella seconda metà dell’Ottocento, Napoli, Luciano Editore, 1996, pp. 25-30.^
31 F. Restaino, Note sul positivismo in Italia (1865-1908). Gli inizi (1865-1880), in «Giornale critico della filosofia italiana», sesta s., v. V, a. LXIV (LXVI), gennaio-aprile 1985, pp. 66-96: 86.^
32 Su questa polemica cfr. il nostro Innovazione medico-scientifica, cit. ^
33 M. Semmola, Medicina vecchia e medicina nuova. Terapia empirica e terapia scientifica. Prolegomeni allo studio della terapia, terza edizione, Napoli, Comm. G. De Angelis e figlio, 1880, p. 8 ^
34 L. Stroppiana, , in «Medicina nei secoli», 12 (1975), n. 3, settembre-dicembre, pp. 347-362: 351.^
35 Cfr. P. Frascani, Medicina e società nella Napoli post-unitaria, in Sanità e società. Abruzzi, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria. Secoli XVII-XX, a cura di P. Frascani, Udine, Casamassima, 1990, pp. 291-323: 302.^
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