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La mia vita tra i libri*
di Giuseppe Galasso
L’amore al libro e alla lettura l’ho appreso a scuola. Più tardi avrei trovato espresso in Giovanni Gentile il criterio pedagogico che giustifica quel che è capitato a me e a chissà quanti altri. «Ogni maestro – dice Gentile – deve avere un sano ed esatto concetto della lettura, che è il focolare maggiore della cultura scolastica che il maestro possa accendere». E io ebbi la fortuna di trovare in terza elementare, dopo l’ottima maestra che avevo avuto in prima e seconda, la signorina Maria Conte, un educatore di pari valore, il maestro (allora a Napoli tutte le maestre erano “signorine” e tutti i maestri erano “professori”) Luigi Sala.
Aveva fatto la prima guerra mondiale, era stato ferito piuttosto gravemente, mi pare, sull’Isonzo, e per noi ragazzi, ancora bambini, era una grande emozione quando egli ci mostrava la ferita da baionetta che gli aveva lasciato su uno dei polpacci una vistosa e ancora rosseggiante cicatrice. Sala fin dai primi giorni di scuola dedicava almeno un’ora alla lettura dei libri che riteneva più interessanti per noi. Ricordo che ci lesse fra gli altri il libro Cuore, Pinocchio, più di uno dei romanzi di Salgari. Era un lettore formidabile. Dava espressione vibrante o delicata, ammiccante o ingenua, a seconda dei casi, a ogni pagina, per non dire a ogni parola. Ancora nell’orecchio mi risuona la sua voce, che non era di napoletano, ma ugualmente familiarissima (credo che fosse di qualche parte dell’Appennino campano).
Noi tra la piccola vedetta lombarda e il piccolo scrivano fiorentino, gli Appennini e le Ande, Sandokan e il Corsaro Nero, mastro Geppetto e Pinocchio, lo seguivamo con un’attenzione totale. Era, in effetti, la lettura, uno dei pochi casi in cui non aveva corso l’indomabile e indisciplinata irrequietezza napoletana di quella masnada di scugnizzi che eravamo noi alunni. Non so quanto i miei compagni di classe capissero, e riuscissero a seguire, di quelle letture abili e impegnate, visto che, quando poi il maestro chiedeva qualcosa in merito a qualcuno di noi, le risposte erano il più delle volte del tutto inappropriate, e talora addirittura comiche. Io, invece, eccellevo, e, interrogato sulle letture del giorno, rispondevo non solo come dovevo, ma spesso collegando la nuova con le precedenti letture.
Credo che sia stato anche questo a far nascere nel mio maestro l’idea di suggerire ai miei genitori di non farmi fare la quinta elementare, che egli giudicava superflua per come ero preparato, e di farmi fare subito l’esame di ammissione al corso inferiore della scuola secondaria. E fu così che io rimasi senza licenza elementare e che, per di più, nell’ordine degli studi non seguii la riforma Bottai, che istituì la scuola media e che andò in vigore nel 1940, e continuai con la riforma Gentile del 1924, e non me ne sono trovato affatto scontento.
Non so se ora, finita, alle elementari, l’epoca dell’unico insegnante, o se già prima quando ancora c’era l’unico insegnante, o se con l’avvento di computer e tablet e altri ordigni del genere, vi sia ancora la pratica di letture in classe come quelle che a noi faceva il maestro Sala. Tendo a credere di no, ricordando che già Umberto Saba, con quel suo stile così colloquiale e poeticamente efficace, notava in una sua lirica: Un giorno / fu che tornavo di scuola. Il maestro / ci aveva fatta, e ad alta voce, come / allora usava, le lettura. “Allora usava”: quindi non più alquanto dopo la guerra, quando Saba scriveva. Vero è che ora, coi nuovi strumenti informatici e informativi a disposizione, non è cambiato solo l’ordine delle strumentazioni e delle cose. È cambiato il quadro delle necessità, delle possibilità, dell’immaginario, dei desideri e delle speranze. È cambiato il contesto, e sarebbe addirittura sciocco istituire confronti a metro e a senso unico. Tuttavia, se si potesse spezzare una lancia in favore della lettura, bisognerebbe farlo. Anche la lettura è una istituzione della civiltà, e non è un fiore che fiorisca sempre facilmente o del tutto spontaneamente. Vorrei citare ancora un poeta. «La lettura, il più difficile degli studi ed esercizi mentali – dice Carducci – voi la conquistate col sudore della vostra fronte virile». Non badate a quel “virile”. Non è un’affermazione maschilista, e significa qui semplicemente “umana”, determinata, costante, non superficiale. E per ciò Carducci consigliava pure, a un giovane, «di riordinare le [sue] letture a quel che chiedono i programmi elementari e tecnici, ma di [studiare] sui classici». E perché sui classici? È Croce a dircelo, ammonendo che «i vocabolari e i libri di grammatica non hanno mai insegnato ad alcuno a parlare e a scrivere, le quali cose si apprendono solo dal conversare e dalla lettura degli scrittori».
Leggere e conversare: due regole che in Italia sono tuttora alquanto poco osservate, e verrebbe la tentazione di fare qualche discorso, e, magari, qualche predicozzo, al riguardo, ma me ne asterrò per tornare subito alla “mia vita fra i libri”, come qui è mio compito. Non posso, però, fare a meno di pensare al Carducci, che richiamava gli italiani «all’esempio […] della Germania, e massime della Prussia! Ivi, in ogni villaggio, librerie e giornali letti da tutti, e associazioni di più famiglie in comune alle opere periodiche».
Nonostante fossi rimasto subito affascinato dal piacere che mi procuravano le letture in classe, non pensavo allora di poter possedere dei libri. La mia famiglia, come quasi tutte quelle del quartiere popolarissimo in cui abitavamo, di Tarsia-Montesanto, avevano di rado qualche pratica di libri posseduti al di fuori dei libri di scuola e al di fuori di qualche particolare ragione. L’analfabetismo era ancora assai diffuso, e l’osservanza dell’obbligo scolastico, nonostante la prassi autoritaria fascistica di quel tempo, era molto frequentemente evasa o elusa. Nella mia stessa famiglia il più avanzato negli studi era stato mio padre, il quale aveva frequentato la sesta classe elementare, una classe facoltativa ancora in vigore nei primi anni del ’900.
Ai miei libri scolastici io mi ero, però, subito affezionato, e specialmente dalla terza classe in poi, quando al libro di lettura si accompagnava il sussidiario, che in quarta diventava doppio, uno per matematica e scienze, l’altro per storia, geografia, religione. Più tardi avrei saputo che quei libri per le elementari erano stati scritti da studiosi di prim’ordine (ricordo, per la storia, Roberto Paribeni, archeologo e studioso ben noto di storia romana). Il fascismo aveva imposto il testo unico. Si studiava in tutta Italia e in tutte le scuole sugli stessi libri, e tutti avevano uno stesso fine e trasmettevano lo stesso messaggio: l’Italia fascista è un paese grande, felice e potente, e questo lo si deve al capo del fascismo, Benito Mussolini, genio assoluto che giorno e notte lavora per la grandezza e la felicità dell’Italia. Il messaggio era semplice e chiaro, e veniva corroborato da tutto quel che si diceva e si sentiva fuori della scuola. Però, per quanto strumenti del totalitarismo, quei libri erano didatticamente ben fatti, e chi minimamente vi si applicava, ne traeva sicuro giovamento. A me giovarono moltissimo e il mio maestro lo notò certamente tanto da interessarsi a me, come ho detto, al di là dei suoi doveri e coscienza di insegnante.
Imparai, comunque, ben presto tutto quel che c’era da imparare su quei sussidiari, e soprattutto mi appassionai ai libri di lettura.
Su quello di terza elementare ricordo che mi piacque molto una poesia, di cui notai tutto tranne l’autore: un bambino giocava sulle rive di un ruscello, e, incantato da quel gioco con l’acqua che gli scorreva dinanzi, pregava il ruscello di non scorrere, di fermarsi lì, a giocare con lui. E il ruscello rispondeva: vorrei, non posso, il cuor mi vola, ho fretta, e spiegava il perché, e cioè che aveva molto da fare a valle per quelli che erano laggiù, il mulino che doveva macinare il grano per tutti, e la massaia che doveva sciacquare la sua tela per sciorinarla al sole, e il gregge che doveva abbeverarsi. Quante volte mi è venuto a mente, in tutta la mia vita, quel verso, che poi seppi essere di Angiolo Silvio Novaro.
Così, pure, sul libro di quarta notai un’altra poesia, che come la precedente imparai a memoria, e non ho più dimenticato: un piccolo paesino, con tre casettine dai tetti aguzzi, un verde praticello, e un cipresso, ma nel cielo c’è una stella, che pressappoco occhieggia la cima del cipresso, una stella che forse non ce l’ha neppure una grande città. Questa volta era Rio Bo, di Aldo Palazzeschi, uno del Novecento italiano che poi avrei amato moltissimo; e anche quel poetico paragone del paesino con le grandi città non mi sarebbe più uscito di mente.
Sul libro di quarta quel che, però, più mi appassionava e trascinava erano le vicende del dubat Ahmed Asciòd, che costituivano l’asse narrativo portante del libro. I dubat erano i soldati somali arruolati fra le truppe italiane in colonia, così come lo erano gli àscari in Eritrea. Ahmed Asciòd aveva partecipato alla conquista dell’Etiopia. Era fedele, alto, snello, valoroso, veloce, disciplinatissimo, devoto alla bandiera italiana, anche nelle più difficili traversie. La mia simpatia per lui era illimitata, e leggevo e rileggevo avidamente e insaziabilmente delle sue avventure e disavventure al servizio dell’Italia.
Di libri miei, dunque, oltre quelli di scuola, non ne avevo, ma, come ho detto, quelli mi furono, e mi sono poi sempre rimasti, così cari che, perdutili nelle traversie di tanti anni, ho cercato una quarantina o cinquantina di anni dopo di ricomprarli, e ho ritrovato e comprato i sussidiari, ma non i libri di lettura, almeno quello di quarta, col mio simpaticissimo dubat. Di mio ebbi in regalo, quando feci la prima comunione, dalla mia maestra Conte – che continuò a seguirmi e a informarsi di me anche dopo che avevo lasciato la seconda elementare da tempo – un piccolo libro di preghiere, rilegato, con bianche copertine madreperlacee. Anche quello lessi e rilessi tantissime volte, e questo era facile che avvenisse, visto che la pratica religiosa era una grandissima parte della vita sociale di allora, e bambini e ragazzi frequentavano assiduamente chiese e oratorii. Feci, però, un salto decisivo nel mio rapporto coi libri quando al mio primo anno di scuola secondaria, nel 1939-1940, il fratello di mio padre, Gennaro, ebbe l’idea di abbonarmi alla “Biblioteca circolante” di Via Latilla.
Questo tipo di biblioteche, come, sempre in seguito, avrei saputo, erano una gloriosa istituzione di quel grande sforzo di popolarizzazione della cultura che nell’Italia della seconda metà dell’800 era stato fatto sotto la pressione delle ideologie politiche e sociali di allora. Con l’avvento del fascismo avevano cominciato a rarefarsi. Non so come sopravvivesse a Napoli quella di Via Latilla, né se in città ve ne fossero altre. In pratica, con una piccola quota di associazione mensile si potevano prendere in prestito per la lettura i libri disponibili nella biblioteca, uno alla volta, prendendo il successivo dopo aver restituito il precedente, e rendendosi responsabili, ovviamente, della buona condizione del libro che si riconsegnava.
Non so da dove venisse a mio zio Gennaro questa idea. Certo di interessi culturali non lo si poteva sospettare. Solo, seguiva le vicende politiche del paese nella ferma convinzione che Mussolini potesse tutto affrontare e superare, al contrario di mio padre, molto scettico a questo e ad altri riguardi. A quello stesso zio debbo di aver visto le mie prime partite di calcio e, in più, dei combattimenti di pugilato, di cui egli era appassionatissimo.
Della biblioteca di Via Latilla divenni, comunque, subito un cliente tanto assiduo che all’inizio il gestore diffidò ben presto di me, perché io ero velocissimo nel leggere e prendevo in prestito non meno di una diecina di libri al mese. «Ma tu li leggi davvero, questi libri?», mi chiese più di una volta perplesso. Altrettanto presto si convinse, però, che io non solo li leggevo, ma sapevo riassumerne bene e chiaramente la trama. Erano romanzi di ogni genere, anche dei maggiori classici italiani e stranieri, libri gialli, libri rosa, libri di avventure, libri per ragazzi, libri di viaggi e di vario altro genere: quanto, insomma, si poteva pensare per una cultura popolare, ma non proprio banale o di accatto. Io passai rapidamente dai libri di Salgari e dai romanzi di Maurice Leblanc che avevano a protagonista Arsenio Lupin, “il ladro gentiluomo”, o da quelli come I ragazzi dell Via Paal, che si svolgeva a Budapest e narrava vita e lotte di gruppi di bambini, ai grandi narratori italiani e stranieri dell’Otto e del Novecento, facendo sempre più strabiliare quello della Biblioteca alla quale mio zio, nonostante le tante e tante difficoltà di quegli anni di guerra, continuava a mantenermi abbonato.
Nell’estate del 1943, quando prima cadde Mussolini e poi vi fu l’armistizio, mi ero già fatta una buona cultura in fatto di narrativa. Vero è che di molti di quei libri che avevo letto non ero stato in grado di seguire tutto il senso più autentico e di coglierne le vere e maggiori caratteristiche di invenzione e di rappresentazione, per non parlare del loro significato storico o storico-letterario. Questi altri aspetti li avrei capiti poi, rileggendo quei libri in altri momenti della mia vita e correlandoli con tutto quel che nel frattempo avevo letto e appreso. Per allora era già tanto la figura che facevo con coloro che mi conoscevano o coi quali parlavo e a scuola, dove facilmente e sempre primeggiavo. Ero anche passato a leggere libri di storia e di viaggi, che mi appassionavano moltissimo. La biografia di Napoleone, di Alessandro Dumas padre, mi avvinse fortemente, e fu l’inizio della mia passione napoleonica, poi sempre coltivata.
Sempre nel 1940 il dottor Spadaccini, funzionario della Riunione Adriatica di Sicurtà, una società assicurativa per la quale mio padre svolgeva spesso perizie e lavori di vario genere, apprezzando la mia ormai notoria bravura scolastica, e sentendomi parlare delle mie curiosità, mi prestò da leggere il primo dei cinque volumi della Storia d’Italia di Paolo Giudici, quello dedicato a Roma e all’età antica. Era un’opera di divulgazione popolare, pubblicata da tempo a fascicoli dalla casa editrice Nerbini di Firenze, in grosso formato, che ad ogni sedicesimo recava una illustrazione relativa ai fatti narrati, dai colori fin troppo forti e dal tratto non meno forte. Storia dei puri e semplici fatti, vi si descrivevano accuratamente anche tutte le battaglie grandi e piccole della storia romana, con l’ammontare, i caratteri e lo schieramento degli opposti eserciti e del successivo svolgersi della battaglia. Io ero letteralmente travolto dalla curiosità e dall’appassionamento per questa lettura. Dopo il primo, lessi anche il secondo volume. Poi le cose andarono in modo da dover ben presto pensare a tutt’altro che alla Storia di Giudici e alla Biblioteca circolante. Ma mi è caro ricordare che una quarantina di anni dopo una mia giovane amica, che sapeva di quanto ho detto, mi regalò tutta la Storia del Giudici, e io l’ho riguardata con un piacere che intender non lo può chi non lo prova, come dice uno scrittore a me caro, e non senza un velo di intima commozione e di malinconia.
Alla fine della guerra, andando, ancora ragazzo, a lavorare, e realizzando i miei primi guadagni, comprai pure i primi libri di mio acquisto. Furono piuttosto casuali: erano una raccolta delle poesie del Parini nella edizione Barion (una casa editrice popolare e di grandi meriti sociali e culturali, di cui avrei poi acquistato molti altri volumi) e un volume rilegato delle poesie del Giusti. Due poeti, perché mi ero intanto molto assuefatto alla lettura di poesie, e le leggevo con sempre maggiore partecipazione o addirittura passione. A quei due libri si aggiunsero i due che contemporaneamente mi regalò mio padre, del tutto inesperto di tali acquisti, che, però, come, del resto, avevo fatto io stesso per il mio primo acquisto, si era soffermato un giorno dinanzi a una delle bancarelle, allora diffusissime a Napoli, di libri usati a prezzi quasi irrisorii, e, pensando a quel suo figlio così bravo che tanto leggeva, gli portò due volumi: una edizione dei Promessi sposi con gli Inni sacri, rilegata in una bella e robusta tela rossa, e con molte illustrazioni, un po’ troppo scure e cupe ai miei occhi, ma indubbiamente atte a rompere la pesantezza di un testo stampato in pagine molto fitte, e la Storia delle storie di Gabriele Rosa nell’edizione originale del 1865, con una debole copertina cartacea, in piccolo formato in 8°. A questo volume non dedicai allora nessuna attenzione, non invitato né dal titolo, né dal testo appena scorso, ma che solo alquanto più tardi avrei apprezzato come, nientemeno, che la prima storia italiana della storiografia, e una delle poche italiane di cui tuttora si disponga. Ai Promessi sposi mi assuefeci, invece, ben presto come a una lettura fra le più fini e partecipate possibili, e credo di dovere a quel regalo di mio padre il senso che ho subito avuto del romanzo manzoniano come un libro non scolastico e per nulla noioso, come suona una consolidata, e un po’ sciocca, tradizione o luogo comune italiano. Degli Inni sacri, riportati in appendice, dapprima non mi interessai molto. Li avrei scoperti solo molto più tardi come pagine, in molte loro parti, di vera e grande poesia.
In effetti, anche in questi anni della mia giovinezza, come nella mia infanzia, fu la scuola la maggiore fucina della mia formazione anche in materia di libri. Io presi prima l’abilitazione magistrale, nel 1946, al “Pasquale Villari”, poi l’anno dopo, la licenza liceale all’“Umberto”, da privatista. A scuola trovai insegnanti quasi sempre di prim’ordine, e, per la lettura, al “Pasquale Villari”, nell’anno scolastico 1945-1946, il professor Cacace.
Cacace, se ricordo bene, era della penisola sorrentina, e, ufficiale di marina, era rimasto mezzo sordo in operazioni di guerra, trovando poi lavoro come supplente da noi in quell’anno. La sua voce aveva una musicalità sonora o delicata o sfumata in mille modi o sottile e insinuante, che scendeva in profondità negli scolari che, come me, ma eravamo la maggior parte della classe, venivamo sedotti dal fascino della sua lettura, bravi o non bravi che fossimo. Egli spiegava poco di storia letteraria vera e propria, e la lasciava alla nostra iniziativa e allo studio dei libri di testo. Preferiva leggere molto dei testi letterari degli autori che dovevamo studiare, e in particolare dei poeti. Le sue letture dei nostri poeti ottocenteschi da Foscolo a D’Annunzio mi entrarono nel profondo dello spirito e mi dettero un indimenticabile senso della poesia quale componente irrinunciabile di ogni vera umanità. E non parlo della lettura di Leopardi, che Cacace amava di un amore particolare e leggeva, trasmettendo a noi che lo seguivamo tutta la pregnanza della sua altissima lirica.
A scuola trovai pure alcuni testi che hanno avuto per me una grande importanza: la letteratura latina di Marchesi, quella greca di Perrotta, quelle italiane di Russo, Sapegno e Sansone, la filosofia di Lamanna e quella del compendio di De Ruggiero. Io, però, leggevo molti altri testi oltre quelli scolastici. Lessi, in particolare, la letteratura italiana del Flora, a cui debbo moltissimo. Ma soprattutto leggevo i classici, gli antichi, i moderni, gli italiani, gli stranieri. Leggevo, un po’ avventurosamente, filosofi antichi e moderni, e ben presto mi appassionai di Hegel e di Croce. Leggevo libri di politica, di geografia, di storia, di economia, disordinatamente, ma con molta applicazione, e con una vera ansia non solo di apprendere, ma anche di saldare ciò che apprendevo a quel che già ritenevo di sapere.
Insomma, fra il 1943 e il 1948 costruii il mio piccolo edificio culturale personale, l’edificio in cui culturalmente ho poi sempre abitato, cercando di spalancarne quanto più possibile le porte, le finestre, i balconi, e di aggiungervi molti, consistenti e varii corpi di fabbrica. Fu pure allora che cominciai a frequentare le biblioteche pubbliche, e della Nazionale di Napoli divenni un cliente assiduo, quasi fisso.
Avevo già raccolto in quegli stessi anni molti libri di mia proprietà, e ne contai, al momento della licenza liceale, nel 1947, quasi trecento. Ne sentivo, per la verità, molto ingenuo e sprovveduto orgoglio. Mi sentivo come il don Ferrante di cui parla Manzoni: «Don Ferrante passava di grand’ore nel suo studio, dove aveva una raccolta di libri considerabile, poco meno di trecento volumi». Come me, dunque. Senonché, di questa presuntuosa, sconsiderata certezza venni ben presto crudelmente punito. La casa di mio padre in cui allora abitavamo, in Via Montesanto 52, era, oltre ogni dire, piccolissima. I miei libri li avevo potuti collocare solo in una cassapanca, dove giacevano senza possibilità di esservi del tutto ben ordinati con qualche criterio preciso, e dalla quale li traevo, quando volevo, con qualche difficoltà. Un bel giorno dovemmo scoprire che quella cassapanca aveva subito l’invasione di un esercito di animalacci, che avevano rovinato quel mio prezioso patrimonio. Dovemmo rassegnarci a eliminare quella cassapanca, e con essa i libri che vi erano contenuti. A stento ne salvai qualcuno, e ancora oggi posseggo quella Storia delle storie di Gabriele Rosa, regalatami da mio padre, che è per me un suo caro ricordo, e della quale mi sono avvalso più volte.
La delusione e, più, la sofferenza furono grandi. Da principio decisi di non aver più una mia biblioteca personale che non fosse di libri di testo. Ma fu decisione di estrema labilità. Un anno dopo, trovata una migliore sistemazione domestica per i miei libri, potei constatare di avere, in pratica, già ricostituita una mia nuova biblioteca di consistenza quasi pari a quella così crudelmente perduta. E da allora in poi la mia biblioteca non ha fatto che crescere, formando anche la croce e la delizia della mia vita familiare dopo che nel 1956 mi sposai.
Debbo a mia moglie Elena di aver potuto accumulare il gran numero di volumi di cui sono venuto via via in possesso. Fu lei, col suo genio pratico e organizzativo, a studiare le migliori scaffalature possibili per conciliare la consistenza del deposito con la maneggevolezza dell’uso. Fu lei a incoraggiarmi ad avere un altro appartamento, oltre il nostro, già tutto invaso dai libri, da destinare esclusivamente a biblioteca. Fu lei a trovare un facile sistema di catalogazione da far seguire alle signore o ragazze che mi hanno via via aiutato nella gestione di una biblioteca che ha oggi superato i 35.00 volumi.
Naturalmente, tutto ciò non fu senza conflitti, che, per essere domestici e amorevoli, non erano meno aspri. Mia moglie cercava di evitare la completa occupazione libraria di tutti gli spazi della casa, ma per fortuna amava anche lei moltissimo questi ospiti ingombranti e pesanti. Lei era una donna di un ordine e di una autodisciplina razionali ed esemplari, io di un disordine molto estemporaneo e opportunistico. Quando lei metteva mano, per necessità più o meno gravi o urgenti, a fare ordine nel mio disordine, quella era la volta che io non trovavo più nulla di quel che mi interessava, laddove nel mio disordine trovavo tutto e subito. Da questi e da altri motivi continue discussioni, ma io sapevo bene di avere in Elena una complice indefettibile, non solo per il suo amore ai libri e alle cose della cultura, ma ancor più per la sua profonda, mai in alcun modo smentita, solidarietà con me quale persona di studio e di scuola.
Debbo aggiungere che già dai primissimi mesi dell’Università avevo cominciato a studiare, se posso dire così, da studioso, ossia con criterio e metodo, come suol dirsi, scientifico, e specialmente da quando decisi di avviarmi agli studi di storia. Alla passione degli studi debbo anche che la mia biblioteca non ha mai assunto il carattere proprio di quelle dei bibliofili. Ho anch’io la mia vena di bibliofilo, e ho varii volumi di cinquecentine, edizioni rare, prime edizioni, edizioni di pregio. Ma è una parte minima della mia biblioteca. Il grosso è quello di una biblioteca di servizio, funzionale agli studi che nel corso del tempo sono andato coltivando, ma con una totale, ininterrotta apertura alle mie passioni, curiosità e applicazioni letterarie o di altro genere culturale, alle quali non ho mai rinunciato. Sono, infatti, un lettore onnivoro, che all’invito della carta stampata non sa resistere, ma la cui eventuale resistenza è organicamente inficiata dalla molteplicità degli interessi che ho sempre nutrito nel mio spirito e della quale non ho mai voluto fare a meno.
In questo quadro il libro ha sempre figurato, per me, con immediatezza e, direi quasi, con prepotenza, nella sua materialità di oggetto fisico, di realtà cartacea. Non ho mai condiviso un’affermazione di Emilio Cecchi che a suo tempo mi colpì, secondo la quale «il libro è meglio stampato quanto meno ci si accorge, quanto meno si è costretti a pensare che è stampato, che è un libro». Per me la fisicità cartacea e tipografica del libro è dominante e indispensabile.
La lettura, con questa premessa, non può essere soltanto un fatto di piacere. È anch’essa un qualcosa di molto concreto, quasi l’incarnazione delle spinte culturali o di altro genere che spingono alla lettura. Do ragione, in questo al Leopardi, quando diceva che «chi legge un libro (sia il più piacevole e il più bello del mondo) non con altro fine che il diletto, vi si annoia, anzi se ne disgusta alla seconda pagina». Vuol dire che dev’essere corposo, moralmente e psicologicamente parlando, anche l’impulso a leggere e la sua realizzazione nel fatto concreto del leggere.
Questo senso del libro e della lettura l’ho nutrito e lo nutro anche come autore di ormai molti libri. Ricordo sempre, tra divertito e commosso, Federico Chabod, uno dei miei maggiori maestri, che a quasi sessant’anni, dopo tanto leggere e tante cose da lui scritte, al ricevere un suo nuovo libro o estratto o fascicolo di rivista, lo odorava quasi percorrendolo per questa o quella pagina col naso, e percependo quindi l’odore della stampa fresca o recente, che la tecnica tipografica di oggi non consente più, se non per rarissima eccezione, di avvertire: un bisogno di spirituale sensualità nella quale si traduce quella incarnazione delle spinte alla lettura di cui ho accennato. E perciò posso dire anch’io, quale autore di libri, quel che diceva di sé D’Annunzio, e cioè che per lui «il lettor vero non è già chi mi compra, ma chi mi ama»; e io lo dico anche per i libri altrui, che ho comprato e compro: li considero miei non perché li abbia comprati, ma perché li amo. Amo, cioè, quel che del libro fa non solo uno strumento o un oggetto, ma un compagno di strada, un compagno di vita. E scherzo coi miei amici, dichiarando di non essere sicuro di avere imparato a scrivere, ma di essere molto sicuro di avere imparato a leggere.
Questo può forse rendere comprensibile la mia identificazione della lettura col possesso dei libri, anche di quelli di biblioteche e di altri che mi accade di leggere in prestito o per caso; e l’identificazione, d’altra parte, del possesso, con un legame fisico: come un prolungamento del mio corpo non fisico, ma intellettuale, se di corpo intellettuale si può mai parlare.
Non meraviglierà, credo, se dico, quindi, che in un’età da definire poco più che infantile la lettura è diventata per me una parte costitutiva e integrante del mio ritmo di vita. Direi che da allora non siano mai stati più dell’uno o due per cento i giorni dell’anno in cui io non legga qualcosa, e non parlo, naturalmente, dei giornali, quotidiani o settimanali che siano. Da decennii ho poi anche contratto l’abitudine di non prendere sonno senza prima leggere a letto qualcosa, a volte per pochi minuti, a volte per molto di più.
Nella lettura può fermentare l’ansia e la tensione dello studio o di altri motivi che alla lettura mi spingono. Oppure, per altro verso, può dipanarsi il ritmo proprio della narrativa e dei suoi tanto diversi e singolari tempi e scenari, o possono rincorrersi le onde della poesia. Sempre mi pare di vivere così l’esperienza di uno straordinario, e tuttavia familiare e diretto colloquio, con persone di altri tempi, paesi, lingua etc., e diventano persone anche le immagini, le idee, le impressioni, le suggestioni fra le quali la lettura si muove.
Proprio per ciò trovo sempre assolutamente ammirevole la straordinaria lettera che Machiavelli scriveva a Francesco Vettori il 10 dicembre del 1513. È la lettera in cui annunciava anche di aver finito di scrivere «uno opuscolo De principatibus», certamente uno dei più importanti “opuscoli” (notate la modestia dell’autore nel definire così il suo capolavoro) mai scritti, ossia quello a cui noi abbiamo dato il titolo Il principe. La lettera era scritta «in villa», ossia in campagna, ove allora il Machiavelli si trovava; e qui, diceva, occupava la giornata, andando dapprima a sorvegliare il taglio di un bosco di sua proprietà, trattenendosi coi tagliatori, che avevano sempre qualche guaio da raccontargli «o fra loro o co’ vicini»; poi trascorreva qualche ora di amene letture poetiche e letterarie; quindi, si recava all’osteria, dove pranzava, e dopo pranzo si dava a occupazioni e divertimenti da gaglioffo, giocando a carte, litigando e imprecando con quelli del luogo. A sera, però, tornato a casa, e qui indossati «panni reali e curiali», entrava «nelle antique corti degli antiqui uomini», e «da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio, e che io nacqui per lui, dove io non mi vergogno parlare con loro, e domandarli della ragione delle loro azioni, e quelli per loro umanità mi rispondono, e non sento per 4 ore di tempo alcuna noia, sdimentico ogni affanno, non temo la povertà, non mi sbigottisce la morte, tutto mi trasferisco in loro».
Non è come si vede un’astratta idealizzazione di quel che la lettura significa, nel profondo, ma anche nella sua più immediata e semplice esperienza. Non è che i libri insegnino a vivere. La vita si impara dalla vita. Non credo, però, né di esagerare, né di fare retorica se dico che una vita senza libri è vissuta meno pienamente, e insegna di meno, di una vita, se non passata fra i libri, almeno passata anche con libri.
Avete letto tutti questi libri, mi chiedono a volte amici che vengono in visita da me, e io debbo spiegare che la mia è, come ho già detto, una biblioteca di servizio: alcuni libri si prendono solo quando studi e ricerche ce ne fanno sentire il bisogno, e, anche allora, solo per le pagine che in quel momento ci interessano. La risposta è chiara ad alcuni e li persuade subito, lascia perplessi altri. Ma direi che la domanda stessa esprime l’oscura sensazione, e un po’ anche l’aspettativa, che una intera vita si possa passare solo a leggere libri.
Che se poi qualcuno pensasse qui o altrove che tutti questi sono discorsi di un passato tramontato, o in procinto di esserlo, per l’avvento dei media e della strumentazione, comunicazione e offerta informatica, e pensasse che il web, la ragnatela, la rete manderanno definitivamente in pensione libri e biblioteche, e che a sopravvivere sarà soltanto l’e-book, lo pensi pure. Lo pensi pure perché, in realtà, nel momento stesso in cui si dice e si profetizza questo, non si fa altro che affermare che vi sarà una nuova maniera di compilare e leggere libri, mentre leggere, e sempre di più, si dovrà per forza, dato l’ampliamento e l’approfondimento universale del processo di civilizzazione in corso in tutto il mondo e in tutti i paesi. L’uomo ha letto da molto, molto prima che fossero inventati la scrittura e i libri. Legge da sempre in quello che non a caso ha finito col chiamarsi “il libro della natura”; legge in se stesso e negli altri, nel suo e altrui presente, passato, futuro. Leggerà sempre, e non è un caso che la metafora del libro torni nelle più avanzate condizioni di civiltà. Uno straordinario intellettuale qual era Vittorini si trovò una volta a parlare delle «città ideali che sorgono nell’America anglosassone», e si chiedeva: «città? Sono libri, potrei dire».
Intanto, però, che questo futuribile si avveri, lasciate, per cortesia – a chi, come tutti i suoi coetanei, e come gli uomini tutti fino a oggi, fra i libri e la carta stampata è cresciuto e ha vissuto – di continuare a provare per i libri e la carta stampata tutta l’antica irreprimibile tenerezza per ciò che essi hanno significato e significano e l’incolmabile gratitudine per ciò che essi continuano a dare senza limiti di tempo, spesso maltrattati e ignobilmente dimenticati, o addirittura deturpati e usati ai più vili bisogni, o addirittura bruciati e distrutti. Lasciate coltivare l’amore per questo vecchio arnese, che ha sempre un qualche suo pregio, anche quando fa perdere soltanto tempo, visti i tanti libri inutili e superflui o proprio sciocchi che non si smette mai di scrivere. E conservate per sempre i libri belli, veri capolavori di arte e di tipografia, che pure sono tanti e tanti, e si potranno continuare a produrre senza alcun condizionamento tecnologico (io stesso, che, come ho detto, non sono propriamente un bibliofilo, ne ho più di uno, di questi libri di indiscutibile bellezza estetica, e non vi rinuncerei per nessun prezzo o ragione). Conservate, però, anche i libri non belli, quelli di uso e di servizio, quelli economici o, per altri motivi, arrangiati alla bell’e meglio, che sono anch’essi creature della vita, di quella vita di cui anche noi siamo parte e partecipi. Ricordo i «libri veglianti», di cui parla un autore italiano di non grande nome, e cioè, i libri correnti della contabilità, che riportano crediti e debiti, «tralasciati indietro negli antichi libri come infogniti»: e quest’idea di qualcosa che infognisca perché giace in antichi libri mi diverte, e anche mi mobilita a un’ideale difesa di quegli antichi libri. Libri quant’altri mai di servizio, come i «libri magistrali» di cui parlava il Beccaria.
Ognuno, credo, vagheggia un suo modo di morire. Vi dirò il mio, che si rifà al Petrarca. In una chiara mattina di metà luglio del 1374, alla vigilia del suo 70° compleanno, egli si pose di buon’ora a leggere, stando a una finestra della sua casa ad Arquà, presso Padova, che guarda i Colli Euganei, e che tanto amava, e lì dopo un po’, in vista di quelle dolci colline, reclinò il capo, e lo trovarono, così addormentato nel sonno ultimo, col libro fra le mani.






NOTE
* Per l’inaugurazione (24 giugno 2013) del Festival della Letteratura, tenuto a Salerno dal 24 al 30 giugno, a cura di Francesco Durante.*
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