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Incerto autunno: una questione di carattere
di G. G.
Se l’autunno del 2006 sarà così fecondo di discorsi, e “parlate” politiche come lo è stata l’estate, non sarà un bell’autunno: si può prevederlo con la relativa sicurezza con cui si possono prevedere le cose politiche in un paese, qual è l’Italia, nel quale l’asse non solo del dibattito politico, bensì della stessa dialettica politica denuncia da troppi anni una sostanziale e di gran lunga più spesso deludente che promettente mutevolezza.
Ad alcuni mesi ormai dalle elezioni e dalla formazione del nuovo governo la maggioranza non è ancora riuscita a dimostrare una rassicurante disposizione a fungere da coalizione politica nella quale la linea da tenere sulle questioni dirimenti e decisive di politica interna e di politica estera sia sufficientemente garantita e le divergenze al riguardo siano chiaramente marginali o, per così dire, fisiologiche. Al contrario, quel che la maggioranza ha dimostrato è una fin troppo appariscente disposizione delle sue molte (troppe) componenti a salvaguardare la propria individualità con le connesse (e per lo più pretenziose) posizioni (come suol dirsi) di programma o di principio. Col risultato, ovvio, di nuocere alla tenuta della maggioranza e, cosa ben più importante, di nuocere alla stabilità e all’efficacia del governo e della sua base politica e operativa.
A sua volta, l’opposizione aveva, del tutto comprensibilmente, molto recriminato sull’esiguo margine che ha deciso della sua sconfitta; e da una tale sconfitta appariva inizialmente ritemprata fino a promettere di svolgere nel modo più interessante e proficuo per essa e per il paese la funzione costituzionale e politica a cui la chiama la sua ampia presenza parlamentare. Dopo pochi mesi, però, anche l’opposizione ha rivelato una difficoltà di tenuta che alla metà di settembre faceva già nettamente presagire per essa difficoltà addirittura maggiori di quelle manifestatesi nella maggioranza. Un’intera sua componente, l’UDC, faceva capire di non credere più nella coalizione che aveva governato il paese fino al maggio precedente e, soprattutto, di non riconoscere più il ruolo di Berlusconi non solo quale
leader di quella coalizione, ma addirittura quale personalità politica alla quale sia ancora riservato un avvenire nella vita pubblica del paese. Si era parlato, in precedenza, delle “intemperanze” di Follini quale esponente dell’allora maggioranza di governo. Le “intemperanze” settembrine di Casini sono apparse ancora meno plausibili non tanto in ciò che le ha caratterizzate per la critica alla Casa delle Libertà e al suo leader quanto rispetto alle prospettive future del partito politico di cui è a capo. Prospettive, si aggiunga, che non sono apparse meglio delineate, anzi sono apparse alquanto peggio rappresentate dal segretario stesso di quel partito, Cesa, e sostanzialmente proclamate indifferenti per le proprie scelte dal redivivo Follini. Berlusconi, dopo le roboanti proclamazioni post-elettorali, si è in pratica eclissato dalla scena politica, lasciando il campo di sua influenza politica privo di un presidio dimostratosi subito (bisogna riconoscerlo) difficilmente sostituibile: lo si sapeva – è vero – ma ora si può dire di saperlo molto meglio. Di leadership alternativa di quel campo neppure l’ombra finora, mentre Fini si conferma come la personalità che in tanta magmatica incertezza sembra la più ragionevole e prudente.
Insomma, se non si vede in alcun modo ridere la maggioranza, l’opposizione piange pressoché a dirotto. Che dedurne per le prospettive politiche e per il governo del paese in un fase che si annuncia oltremodo difficile sul piano internazionale e sul piano interno? Dedurne che per l’orizzonte politico italiano non v’è alcuna prospettiva e che, in vario modo, tutto è destinato a ristagnare pesantemente, se non ad andare completamente a rotoli?
Per fortuna, ma anche sul piano più oggettivo che si possa praticare con gli strumenti dell’analisi politica, non è così. Che la fase presente di incertezza (il termine è piuttosto eufemistico, ma non disconviene alla realtà delle cose) corrisponda alla laboriosa gestazione di nuovi assetti e di più duraturi equilibri del sistema politico italiano è stato spesso affermato, ma – è la nostra impressione – non quanto la realtà, appunto, delle cose comporterebbe. Forse, perché, in gran parte della classe politica, così come in gran parte della cultura cosiddetta militante e negli ambienti dell’informazione più legati a quelli politici, si è divulgata l’idea che, sovvertite dalla “famosa” Tangentopoli le sorti di una Prima (presunta) Repubblica, vi sia stato l’immediato avvento di una altrettanto presunta Seconda Repubblica, nata pressoché perfetta dalla rovina della Prima. Ma ormai anche ai più interessati e parziali degli osservatori e degli studiosi appare chiaro che questa nascita di una nuova Repubblica è stata di gran lunga più proclamata che riscontrata nei fatti. Neppure è, tuttavia, recepibile l’immagine di un’Italia politica consegnata a un destino di perpetuo marasma, quale la dipingono alternativamente i due schieramenti che da una dozzina di anni si affrontano nel paese, naturalmente attribuendone la responsabilità, ciascuno, allo schieramento avverso. Chi del paese ha la doverosa comprensione, che è anche una feconda ragione di migliore intelligenza delle cose, non può aver dubbi: l’innegabile incertezza, che da ormai troppo tempo si protrae, è grave e dannosa e non ne guadagna niente nessuno, ma non è un cieco agitarsi a vuoto.
Qualcosa è emerso e qualcosa sta emergendo. La lunga durata e l’imprevista faticosità di questa emersione sono probabilmente in rapporto, per una parte, con la frettolosa e inopportuna (e per qualche verso addirittura iniqua) negazione e liquidazione del precedente sistema (o Prima Repubblica, che dir si voglia). In altra parte, è certamente in rapporto con i profondi mutamenti che si sono dovuti registrare almeno dal 1990 in poi in tutta la realtà politica internazionale e, per quel che riguarda l’Italia, in particolare nella realtà europea. In altra parte ancora sarà in rapporto, come molti vogliono, con una insufficienza e una inadeguatezza ai suoi compiti di una larghissima sezione della classe politica che, per le vicende finali sopra accennate della Prima Repubblica, si è trovata insperatamente proiettata in una posizione di potere e di responsabilità che avrebbe richiesto ben altra qualificazione storica e politica di quella che è stata possibile per la effettiva qualità di quella larghissima sezione: osservazione che, per quanto possa apparire (e magari essere) malevola, è, tuttavia, fin troppo confermata dalla pletora di partiti e partitelli, quasi sempre improvvisati e senza altra ragion d’essere che la volontà di esserci di questo o quel gruppo o gruppetto, e più spesso soltanto di questo o quel personaggio della cronaca politica (e non politica) del paese. Una prova? Tre o quattro gruppi che si richiamano al comunismo, altrettanti alla Democrazia Cristiana, due o tre al vecchio Movimento Sociale Italiano e alla sua Fiamma, almeno quattro alla tradizione socialista e socialdemocratica, un paio a quella repubblicana, un paio a quella radicale. Che si vuole di più per dubitare della fisiologia di questo mondo politico?
Ma qualcosa – come abbiamo detto – è emerso e qualcosa sta emergendo. I Democratici di Sinistra sono una realtà, ancora (e moltissimo) da rivedere e da definire e ridefinire, ma insomma una realtà indubbia, e non più riportabile tutta e soltanto al vecchio Partito Comunista Italiano, pur essendone indubbiamente la storica prosecuzione. La Margherita appare come un mondo ancora più largamente bisognoso di essere rivisto, definito e ridefinito, ma è anch’essa un punto che appare sempre più fermo nel panorama politico attuale.
Forza Italia, che mostra sempre di essere legata a fil doppio alla personalità e alla presenza di Berlusconi, appare oggi meno suscettibile di ieri di un’immediata dissoluzione appena Berlusconi si eclissasse. Alleanza Nazionale ha dimostrato di aver acquisito intorno a Fini una stabilità, le cui acque possono ricorrentemente,e anche parecchio, agitarsi, ma senza grossi pericoli per la tenuta dell’insieme. In effetti, a parte il pulviscolo delle formazioni minori, sono i due settori della cosiddetta sinistra radicale e dello spazio cattolico, o presunto o sedicente tale, che agita il verbo di un nuovo centrismo, a denunciare una condizione di ancora davvero eccessiva carenza di definizione, se non altro, dei rispettivi obiettivi sia prossimi che meno vicini.
Nella trattazione e risoluzione delle due principali questioni che si sono già poste e ancor più si porranno all’Italia politica nei prossimi mesi – la questione del Medio Oriente e la questione della legge finanziaria – è presumibile che le forze (o ritenute tali, e, comunque, le debolezze) del mondo politico italiano siano costrette dalla logica stessa delle cose a darsi e farsi (verrebbe quasi voglia di dire) un carattere, e un forte carattere, anche. E, come per le persone si dice che avere un carattere significa molto spesso avere quel che si definisce un cattivo carattere, così per le forze politiche dell’Italia attuale è auspicabile che la loro nuova e maggiore definizione abbia tanta energia e chiarezza da ridurre al minimo effettivamente possibile gli equivoci, i compromessi e tutto quel che nella prassi politica si può fare apparire come facilitazione e semplificazione vantaggiosa o come presunta inderogabile necessità e che, invece, sono snaturamenti e alterazioni deterioranti e indebolimenti fatali dell’azione politica e delle sue più essenziali esigenze. Insomma, anche i gruppi politici – almeno in una fattispecie così complessa e importante come quella di cui parliamo – dovrebbero mostrare tanto carattere da accettare il rischio di passare per “persone politiche” di cattivo carattere. Non ne verrà che bene ad essi e al paese. Se poi si aggiunge che le due questioni da noi richiamate sono leprincipali e più urgenti, ma tutt’altro che le sole – basti ricordare la questione del diritto di famiglia e delle unioni di fatto – è ancora più facile intendere quanta forza di carattere dovranno dimostrare le forze politiche che abbiano l’ambizione di dare all’Italia un ancoraggio di sistema e di prassi politica adeguato alla storia del paese e a quella del mondo in cui esso è vissuto e vive.
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