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L’India nell’Europa moderna: la storia della costruzione di un'idea
di Rita Paolini
Massimiliano Vaghi ci propone, nel suo libro L’Idea dell’India nell’Europa Moderna (secoli XVII-XX) [Mimesis ed., 2012], la rilettura di una storia complessa e affascinante: quella del modo in cui gli europei, nel corso dei secoli seguiti al viaggio di Vasco de Gama, hanno elaborato la propria visione dell’India. Entrati a contatto con un mondo percepito come diverso e multiforme, contesi tra attrazione e rifiuto, come hanno costruito e consolidato un’idea complessiva che permettesse di dare ragione di queste differenze?
A partire dal famoso volume di Edward Said, Orientalism, i temi legati alla visione occidentale degli “altri” popoli e al rapporto tra la costruzione di queste “immagini” e l’imposizione di un dominio coloniale da parte dell’Europa su larga parte del mondo hanno attratto grande attenzione e hanno suscitato notevoli polemiche. L’India, sebbene l’opera di Said si riferisca in modo predominante al mondo islamico, è stata negli ultimi anni al centro di molte ricerche (si ricordino, tra gli altri, solamente l’opera di Roland Inden, Imagining India o gli studi sviluppati nell’ambito del gruppo formatosi attorno a Subaltern Studies).
Il libro di Vaghi mostra come i tempi siano ormai maturi per lavori di sintesi che, avvalendosi delle ormai numerose raccolte e sistemazioni disponibili, nonché di opere in traduzione da un gran numero di lingue europee, di libri, documenti, corrispondenza e racconti di viaggio, cerchino di fare il punto e trarre delle conclusioni generali su un tema tanto complesso. Se Said ha dato lo spunto per una lunga serie di lavori, sia direttamente ispirati dal suo approccio, sia polemici nei suoi confronti, ora è possibile raccogliere i frutti di queste ricerche. Vaghi ci propone una lettura del processo di costruzione di una certa “immagine” dell’India in Europa che ripercorre criticamente i temi di questo intenso dibattito, riconoscendo l’importanza delle questioni poste, spesso riprendendo alcuni spunti e diverse tematiche, ma senza sposare in toto le tesi del celebre critico dell’orientalismo.
L’autore si inserisce dunque in una ormai consolidata tradizione di studi che hanno evidenziato le caratteristiche fondamentali della visione orientalistica classica dell’India. Come ricorda Michelgugliemo Torri, cui spesso anche Vaghi fa riferimento, l’India veniva descritta, in queste opere, come un mondo radicalmente diverso da quello europeo, totalmente Altro, caratterizzato da strutture socio-economiche immutabili – il sistema castale, l’induismo, l’economia di villaggio –, dalla presenza di un unico sistema politico – il dispotismo orientale – e dall’assenza di sviluppo che, al di là di un caotico ma superficiale succedersi di dinastie, imperi e guerre, implicava un sostanziale immobilismo di fondo. Questa percezione, che nel corso dell’Ottocento diventa assai comune e condivisa, non è qualcosa di dato fin dall’inizio dell’età moderna, né si tratta di una coerente e lineare elaborazione: è invece una laboriosa costruzione, caratterizzata da un suo sviluppo complesso che ha visto momenti di ripensamento, svolte e ritorni e ha presentato eccezioni, anche notevoli.
Vaghi si propone proprio di delineare questo percorso e di mostrarci queste categorie nella loro evoluzione secolare, partendo dalla loro incubazione, nel corso del XVII secolo e seguendone gli sviluppi che le portano a maturità nell’epoca dell’orientalismo Ottocentesco, in piena età coloniale, fino poi alla recente messa in discussione.
Uno dei meriti indubbi del libro è la pluralità di testimonianze che complessivamente costituiscono un insieme assai ricco: introdotto da un densissimo saggio di Silvia Pizzetti, che propone una visione teorica di grande spessore, il libro di Vaghi sembra invece muovere in una direzione almeno parzialmente diversa; pur non rinunciando certo a fornire una cornice interpretativa agli autori che via via presenta, il libro conduce il lettore attraverso una grande varietà di approcci e immagini con una notevole quantità di esempi concreti: autori e testi, ciascuno con un suo specifico atteggiamento e una sua peculiare visione del mondo, indiano come europeo, spesso irriducibile a categorie troppo rigide. Dovendo condensare una storia secolare, non sempre lineare e spesso contraddittoria, in poco più di duecento pagine, l’autore ha dovuto necessariamente e consapevolmente incorrere in semplificazioni e omissioni. Infatti Vaghi non si stanca di ricordarci che, nel tracciare i lineamenti di questo processo, l’Europa non si è mai espressa in modo unanime e che, sia nei momenti di maggiore attrazione verso l’India sia in quelli di più netto rifiuto e chiusura, ci sono state voci dissonanti.
Tra gli autori sono presenti laici e uomini di chiesa, intellettuali ma anche amministratori, militari e mercanti, uomini con diretta e lunga esperienza del subcontinente e persone che non vi avevano mai messo piede. La loro provenienza spazia su gran parte delle regioni d’Europa, con particolare attenzione riservata alle aree tedesca, francese e britannica. Le fonti appartengono, a loro volta, a generi diversi: da racconti di viaggio a opere di storia o di filosofia, così come corrispondenza privata. È da sottolineare anche l’importanza delle lunghe citazioni tratte da queste fonti, soprattutto nella prima parte del libro, che hanno il vantaggio di permettere al lettore, pur nei limiti imposti dalle scelte editoriali, di assaporare direttamente il clima culturale e intellettuale delle varie epoche.
In linea generale il libro propone una scansione cronologica che corrisponde a momenti di attrazione o di repulsione verso l’India: se nel diciassettesimo secolo si vede prevalere una indofobia su basi religiose, il cosmopolitismo dei Lumi, nel secolo successivo, presenta una marcata indofilia. Nell’Ottocento torna poi a prevalere un sentimento di indofobia, ma le coordinate generali della questione sono ormai cambiate e si è affermato il senso di superiorità europea proprio dell’epoca coloniale matura.
La prima parte del libro ha un andamento più chiaramente cronologico e vede come primi protagonisti i missionari europei, sia cattolici sia protestanti, alle prese con le prime indagini sull’induismo e la società indiana. Tra Sei e Settecento vediamo così delinearsi alcuni topoi che suscitano in primo luogo la curiosità degli osservatori e che, negli anni successivi, resteranno al centro dell’attenzione di ogni racconto di viaggio e descrizione dell’India: l’istituzione della casta, il fenomeno della (o del) sati, la pluralità di riti e divinità – mentre alcuni, come Abraham Roger, evidenziano la presenza di un “vero” induismo che va ricercato oltre le multiformi e incoerenti manifestazioni di religiosità popolare.
Emerge intanto l’immagine dell’indiano come buon selvaggio: docile, pacifico e tollerante ma anche pigro e irrazionale, destinato ad essere incapace di difendersi e quindi inevitabilmente preda inerme della conquista islamica.
Nel Settecento illuminista queste caratteristiche sono invece declinate in una visione generale decisamente positiva: Vaghi dedica grande attenzione ai philosophes e all’immagine che nei loro scritti viene data ell’India.
Si pone dunque in evidenza l’interesse per la religiosità indiana e soprattutto per la “saggezza” del paese, culla della civiltà, così come viene dato grande rilievo al dibattito sull’utilità delle colonie.
È questo il secolo che si pone come snodo fondamentale nelle vicende delineate dal libro: esso è infatti il momento dello sviluppo di un orientalismo embrionale in pensatori come Anquetil-Duperron o Coeurdoux. Questi autori hanno una conoscenza diretta e approfondita delle lingue e dei testi della tradizione indiana e non si accontentano più della mediazione di “esperti” locali. Allo stesso tempo, proprio nei loro scritti, si cristallizzano alcuni temi che diventeranno classici nell’orientalismo maturo che si sarebbe sviluppato di lì a poco: la cupidigia e la crudeltà dei bramini, l’incapacità degli indiani a governarsi da sé e a darsi leggi certe e coerenti, la loro incapacità di concepire una storia non mescolata a “favole”, la decadenza e il predominio di superstizione e ignoranza. La sintetica presentazione di William Jones, riconosciuto come padre del vero e proprio orientalismo, chiude il secolo dei Lumi.
Una trattazione separata è dedicata agli autori di area germanica, tra illuminismo e romanticismo, con autori che coprono tutto il corso del Settecento fino a Ottocento inoltrato: da Lessing, Kleuker e Forster in pieno Settecento a Herder, Majer e Schlegel a cavallo tra i due secoli, per finire con gli atteggiamenti contrastanti di Hegel – ormai assai lontano dall’indofilia settecentesca – e Schopenhauer – che invece si distingue per la sua attrazione verso il subcontinente, in un’epoca in cui un diverso orientamento era ormai prevalente.
Con l’Ottocento, infatti, l’indofilia diventa un’eccezione e i caratteri dell’orientalismo “classico” giungono a maturazione: gli indiani sono sempre più spesso descritti come bambini immaturi da educare, superstiziosi, inaffidabili e ingrati, infedeli e decadenti, per i quali un illuminato e benevolo governo britannico è la soluzione migliore che si possa immaginare.
Per la parte finale, dedicata all’orientalismo vero e proprio, l’autore delinea innanzitutto lo sviluppo che, partendo da Warren Hastings, conoscitore di numerose lingue indiane ed estimatore delle letterature e culture locali ma, allo stesso tempo, uno dei principali protagonisti della conquista britannica, porta alla famosa Minute on Indian Education di Thomas Babington Macaulay secondo cui un solo scaffale di libri inglesi valeva più di tutta la letteratura dell’India e dell’Arabia e tutte le notizie storiche che erano state raccolte da tutti i libri scritti in sanscrito valevano meno di quelle che si potevano ricavare dal più modesto compendio in uso in una scuola inglese. Veniva intanto anche introdotto il nuovo ordinamento giuridico che, con l’illusione di recuperare il “vero” diritto indù e musulmano, si concretizzava in una artificiosa e arbitraria selezione di “testi originari”, trascurando la prassi del diritto consuetudinario e giustificandosi sulla base dell’idea di un mondo immobile.
Dopo aver introdotto questi personaggi fondamentali e alcuni autori classici, tra i quali è emblematico l’esempio di James Mill, Vaghi passa poi a una presentazione tematica di alcuni celebri topoi dell’immagine dell’India vista dall’occidente: dispotismo orientale, assenza di una proprietà privata della terra, il dibattito relativo all’invasione arya e il tema della sati. Due ulteriori tematiche sono affrontate tramite un confronto tra le due edizioni della Cambridge History dedicate all’India: la relazione tra la Compagnia delle Indie Britannica e gli stati principeschi indiani nel periodo della conquista e la Grande Rivolta del 1857, definita a seconda degli opposti punti di vista, anche Grande Ammutinamento o Guerra di Indipendenza.
L’ultima parte del libro è dedicata ad una annosa questione: il rapporto della civiltà indiana con la storia. La questione è stata posta in termini assai diversi ed è tra le più attuali per gli storici indiani o che, a vario titolo, si occupano del sub-continente. Come mostra la già citata Minute on Indian Education di Macaulay, l’idea che l’India antica, per lo meno fino al contatto con l’Islam, non possedesse un senso della storia, è stata assai diffusa. Questa convinzione è stata spesso associata ad una visione eurocentrica ed orientalista, secondo la quale la modernità in India sarebbe totalmente frutto del contatto con l’occidente e, ad esempio, la riscoperta della storia del paese, sarebbe da attribuire in toto ai lasciti dell’influenza occidentale. La civiltà indiana, statica nella sostanza e priva di un vero sviluppo oltre il caos delle conquiste e dei rivolgimenti politici, sarebbe stata una società priva di storia. Oggi studiosi come Romila Thapar hanno orientato il dibattito lungo altre linee, interrogandosi non solo e non tanto sulle ragioni per cui in India – con le dovute eccezioni che restano però spesso periferiche sia in termini geografici che sociali – non si sia per lungo tempo sentita l’esigenza di un genere letterario storiografico con le stesse caratteristiche di quello sviluppatosi in Occidente, quanto sulle forme diverse e peculiari che il “senso della storia”, certamente non assente come si era creduto, ha assunto nel subcontinente soprattutto in età antica.
Libri come quello di Vaghi stimolano certamente l’interesse per queste questioni e contribuiscono a fare il punto di un dibattito storiografico che si apre ora a nuove sfide e a nuove indagini. Se la diffusione di un sentimento nazionale e poi di un vero e proprio movimento ha promosso una reazione e un ripensamento della stessa “identità” indiana che rovesciasse molti dei giudizi di valore espressi dai colonizzatori, spesso la loro visione è stata introiettata anche da chi avrebbe voluto opporvisi. Nuovi studi, già in corso in Occidente come in India, riguardano sia la percezione europea dell’Altro, sia gli effetti che essa ha avuto, oltre alle reazioni che ha suscitato.
Vaghi confronta le due edizioni della Cambridge History of India, la prima pubblicata tra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta e la seconda a partire dagli anni Ottanta. Da un paragone tra esse è subito evidente che quelle impostazioni che venivano strenuamente difese ancora negli anni Trenta, sono state travolte con la decolonizzazione e, ancora a maggior ragione, con l’esaurirsi della guerra fredda. La storia dell’India, così come quella di altre civiltà e quella dei loro reciproci rapporti, si è arricchita e approfondita; hanno trovato spazio fenomeni sociali, politici e culturali assai rilevanti che erano in precedenza passati sotto silenzio; molti preconcetti e molte posizioni ormai irrigidite sono stati abbandonati; nuove e assai ricche direzioni di ricerca sono state intraprese. Il prezzo che si è pagato è stato quello della perdita di omogeneità: i curatori della nuova Cambridge History of India, infatti, hanno dovuto rinunciare a un’unica opera integrata per adottare invece la forma di una raccolta di saggi, seppur articolati attorno a una certa linea editoriale e ad alcuni fili conduttori.
Già nel 1968 Giorgio Borsa, in un saggio citato da Vaghi, divideva la storiografia sull’Asia in tre grandi gruppi: una storiografia “coloniale” – che vedeva la storia antica dell’Asia come una storia di civiltà senza tempo e quella moderna semplicemente come la proiezione extra-europea della storia d’Europa –, una altrettanto unilaterale reazione “nazionalista” che si proponeva di rovesciare le posizioni coloniali e, infine, una “nuova storiografia copernicana” che riportasse al centro dell’attenzione le stesse società asiatiche. Oggi è possibile fare un bilancio di questa rivoluzione copernicana, approfondirla e rilanciarla in nuove direzioni.
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