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La presidenza della Repubblica in alcuni aspetti storico-istituzionali (1948-2013)*
di Giuseppe Galasso
1. Fra i poteri, le funzioni e i doveri che la Costituzione fissa per il presidente della Repubblica rientra esplicitamente (per l’articolo 87 della Carta) quello di rappresentante dell’unità nazionale. Che questo ufficio di rappresentanza richieda un impegno attivo e particolare di difesa e di sostegno del principio unitario che la Costituzione pone a base di tutta la (per così dire) filosofia e scala dei valori che essa vuole proclamare e garantire, è, peraltro, indubitabile.
La rappresentanza nazionale di cui parla l’articolo 87 può essere, tuttavia, concepita in termini puramente di protocollo e di cerimonialità, come una funzione di mero valore, significato ed effetto simbolico? Il presidente è, da questo punto di vista, soltanto uno stemma animato della Repubblica?
Sono interrogativi suggestivi, che qui non toccheremo. È, comunque, notevole che a lungo nella storia della Repubblica una specifica questione dell’unità nazionale e della relativa funzione rappresentativa del capo dello Stato non si sia posta. Malgrado qualche polemica al riguardo, la configurazione costituzionale della funzione rappresentativa dell’unità assegnata al capo dello Stato è rimasta, in pratica, indiscussa, quasi un naturale presupposto morale e istituzionale della vita civile del paese.


2. Ciò non vuol dire che con tutti i presidenti della Repubblica la prassi di tale funzione presidenziale sia stata la stessa.
Con De Nicola, ad esempio, si ebbe una certa impressione di avere a che fare con una funzione di capo di Stato praticata in continuazione della figura del sovrano nel precedente ordinamento monarchico. Fu, piuttosto, col suo successore Luigi Einaudi che il distacco dalla precedente esperienza monarchica e il passaggio alla funzione rappresentativa nazionale del capo dello Stato si avviarono alla piena realizzazione.
Con Giovanni Gronchi non fu lo stesso. Pur con una biografia politica del tutto rispettabile, e benché eletto col concorso della sinistra, egli finì con l’apparire nel 1960 sbilanciato a favore del governo Tambroni, imputato di tendere a una drastica svolta a destra della vita politica del paese.
La presidenza di Antonio Segni durò solo due anni per la sua sopravvenuta inabilità psico-fisica. Gli successe Giuseppe Saragat, socialista, ma strenuo militante della causa democratica e occidentalista; e ben si può dire che sia stato lui il primo presidente ad aver dato l’idea e a incarnare con il necessario vigore i valori di base della Repubblica.
Con Giovanni Leone, eletto nel 1971, non fu lo stesso. Leone era un giurista molto apprezzato nell’università italiana, e con grandi qualità di eloquio e capacità di mediazione, che, malgrado fosse stato eletto coi voti solo del centro e della destra, gli assicurarono molte simpatie. A travolgerlo valse, però, il cosiddetto “scandalo Lockeed”, per cui dovette dimettersi un po’ prima della scadenza del suo mandato nel giugno 1978 (poi in tribunale Leone uscì mondo delle accuse rivoltegli).
Che il suo settennato avesse segnato una fase non positiva anche nella rappresentatività dell’ufficio presidenziale lo si capì ancora meglio quando a lui successe Sandro Pertini, a tutt’oggi, per la stragrande maggioranza degli italiani, il presidente più popolare e più amato, con una certa analogia con la figura di papa Giovanni Paolo II, eletto anch’egli nel 1978 e di gran lunga il papa più popolare del secolo XX. Antifascismo, Resistenza, Costituzione erano il perno dell’ottica politica della sua presidenza, così come lo erano state per i suoi predecessori, e in particolare per Saragat. Pertini diede di quel trittico una versione che si rivelò efficacissima e segnò uno dei pochi periodi in cui lo si poté considerare di più larga condivisione nel paese, nonostante ci si trovasse in una fase politica difficile per molti e importanti motivi; e anche per questo si può ben dire che con lui la formula del “presidente di tutti gli italiani” abbia ricevuto una delle sue migliori e più ampie espressioni.


3. Il successore di Pertini, Francesco Cossiga, eletto nel 1985 a 57 anni: il più giovane dei presidenti, fu salutato da un assai ampio consenso parlamentare. Intrinseco di Aldo Moro, Cossiga era ministro dell’Interno al momento del suo assassinio, che gli procurò una profonda crisi psicologica. Aveva indubbia competenza giuridica, molto fiuto politico, molta pratica della macchina dello Stato, come confermarono i primi anni di tale mandato. Che cosa poi lo spingesse a mutare registro negli ultimi due anni del suo mandato non fu chiaro allora, né, si può dire, ancor oggi. Certo, egli entrò in conflitto con le forze politiche, coi maggiori organi dello Stato, compresa la Corte Costituzionale; entrò nel merito di questioni riguardanti i servizi segreti; affermò e deprecò l’obsolescenza della Costituzione.
Di tutto ciò la sua funzione rappresentativa non poteva che risentire gravemente, e così, infatti, fu, ed egli preferì dimettersi due mesi prima della scadenza. E due mesi prima della scadenza si dimise pure il suo successore, Oscar Luigi Scalfaro, eletto da una maggioranza eterogenea, per calcoli e convenienze politiche di quel momento. Egli si trovò a navigare nelle acque difficilissime della crisi nazionale degli anni ’90. In un tale travaglio politico fungere da “presidente di tutti gli italiani” era di certo più difficile che di solito. Ma, quali che fossero le sue propensioni e lo spirito della sua azione, Scalfaro restò lontano da quel modello rappresentativo, e, a torto o a ragione, fu spesso giudicato uomo di parte.


4. Con Cossiga e ancor più con Scalfaro la funzione presidenziale aveva perso, così, molto del suo smalto. Lo conferma la ripresa che se ne ebbe già con Carlo Azeglio Ciampi, succeduto a Scalfaro nel 1999. La sua indiscussa competenza monetaria e bancaria (provata già come governatore della Banca d’Italia, e poi come ministro e capo del governo) lo fecero apparire una personalità tecnica e di piena affidabilità, preziosa dopo le difficoltà delle due precedenti presidenze, mentre le altre sue qualità umane e culturali fecero sì che con lui si potesse riparlare di una popolarità del presidente.
Ciò gli consentì, fra l’altro, di rilanciare un discorso esplicito e chiaro sui valori nazionali, appannati dal precedente corso delle cose italiane. Il suo invito a cantare collettivamente in ogni opportuna occasione l’inno nazionale, accolto e passato da allora in prassi consueta, è rimasto un po’ l’emblema di questa particolare inflessione della sua presidenza, degna di essere ricordata come una fase di rilancio istituzionale e politico non solo della figura del presidente.
Con Giorgio Napolitano il rilancio si è poi tradotto, dal 2006, in un’evidente e molteplice realtà istituzionale e politica che alla figura del presidente ha restituito appieno lo smalto di suoi momenti migliori. Sorretto da una lunga esperienza politica nazionale e internazionale, protagonista e testimone in prima persona della profonda trasformazione della sinistra già comunista in una forza politica sostanzialmente socialdemocratica, educato alla stretta relazione fra politica e cultura e sensibilissimo alle lezioni della cultura nazionale nelle sue varie maggiori espressioni, sempre più impegnato sul terreno della costruzione di una Europa davvero comunitaria, Napolitano ha meritatamente iscritto il suo nome accanto a quelli di Einaudi e di Saragat per la complessità delle sue posizioni e di Pertini e di Ciampi per la sua popolarità.
Prescindiamo qui dalla parte da lui svolta in anni di estrema difficoltà per la rovinosa crisi economica e finanziaria che ci si è trovati ad attraversare e per le sue conseguenze, nonché, almeno altrettanto, per gli sviluppi difficilmente governabili di una condizione politica ancora più logorata. Vorremmo, invece, sottolineare qui che Napolitano ha portato ben al di là di Ciampi un suo originale ruolo di indirizzo politico-culturale ed etico-politico. Nella fattispecie del momento egli – tutelando sempre il trittico Antifascismo-Resistenza-Costituzione, fondativo nella tradizione della vita morale della Repubblica quale fu avviata fra il 1945 e il 1948 – si è concentrato, in particolare, sulla difesa dell’unità nazionale, contestata non solo da movimenti e partiti sul piano politico, ma anche da una serie di revisionismi, in sostanza, di negazione del Risorgimento, dei suoi valori, della storica legittimità e positività dell’unificazione nazionale e dei grandi progressi che hanno portato l’Italia unita nel gruppo dei paesi più avanzati d’Europa e del mondo. Discorso che, svolto in molteplici forme e occasioni. ha avuto nel paese un’eco sostanziale molto intensa e profonda.
Da notare è, fra l’altro, che Napolitano ha sviluppato sui temi storico-politici ed etico-politici sui quali è intervenuto o ai quali si è richiamato una posizione organica, concretata anche in qualche pubblicazione che ha riscosso un’attenzione particolare al di là di quella ovvia dell’opinione pubblica (e alcuni ipercritici hanno parlato, perciò, con chiaro eccesso, di una “storiografia presidenziale” debordante).


5. È così, comunque, che la funzione rappresentativa nazionale del presidente della Repubblica ha trovato in Napolitano, con un consenso molto ampio, una versione molto intensa. Del valore della sua esperienza presidenziale non si poteva, del resto, dare testimonianza migliore di quanto è accaduto alla scadenza del suo mandato. Egli aveva categoricamente escluso – crediamo, anche per ragioni di prudenza sanitaria – ogni eventualità di sua rielezione. Le cose sono poi andate in modo tale che alle forze politiche e ai gruppi parlamentari quella rielezione è apparsa inevitabile, e si è proceduto ad essa con largo consenso, permettendo di uscire così da una crisi prolungata, contrassegnata dalla incapacità politico-parlamentare di esprimere una maggioranza convergente nella elezione di un nuovo presidente. È vero che questa incapacità derivava essenzialmente da un blocco interno del partito democratico, che faceva fallire successivamente i due candidati del partito alla prima carica dello Stato, su almeno uno dei quali sarebbe stato sicuro riuscire allo scopo sol che i democratici si fossero tenuti compatti, poiché sul nome in questione c’era anche l’assenso del centro-destra. Così non essendo stato, è apparso necessario, e, insieme, anche prudente, ripiegare sulla rielezione di Napolitano, che è stato messo allora in una condizione morale e politica tale da non consentirgli più di rifiutare il reincarico da lui, inizialmente, così recisamente escluso.
La immediata facilità della sua rielezione comprova, come si è detto, il rilevante profilo del suo esercizio della presidenza. Non solo questo noi vorremmo, però, sottolineare qui. Vorremmo, piuttosto, richiamare un dato di cronaca di grande importanza dallo stesso e da altri punti di vista: il fatto, cioè, che a una rielezione di Napolitano si era da molte parti pensato in partenza, ben prima che si determinasse lo stallo politico-parlamentare che, di fatto, ha portato poi a quella rielezione. E questo vuol dire, evidentemente, che nel suo primo mandato Napolitano aveva navigato in modo tale da fornire una bussola e da seguire una rotta rassicuranti in una fase della vita politica nazionale che non aveva bisogno dello stallo poi verificatosi nelle prime votazioni per un nuovo presidente per apparire, qual’era, e quale si è confermata, priva di una sua effettiva e sufficiente capacità di orientamento e di svolgimento. Il che non solo solleva Napolitano da ogni e qualsiasi eventuale osservazione sul suo ripensamento, ma dice pure che dalle elezioni del 2013 il problema italiano non è stato affatto chiarito nelle sue prospettive politiche anche più generali.
Molti hanno poi detto che questo secondo mandato è considerato dallo stesso interessato, nonché dalla massima parte del mondo politico, del tutto a tempo. Noi non lo sappiamo, e non riteniamo né saggio, né opportuno avanzare ipotesi o auspici al riguardo. Tutto dipenderà dai tempi e dai modi in cui la crisi politica italiana, non meno grave di quella economica e sociale, e dalle direzioni che essa andrà prendendo nel prossimo futuro. Il solo augurio che ci facciamo è che la seconda esperienza presidenziale di Napolitano lasci una traccia non minore della prima nella storia dell’istituzione presidenziale e del suo esercizio.


6. Ma perché tanta necessità di una particolare evidenza della funzione rappresentativa dell’unità nazionale da parte del presidente della Repubblica?
La risposta ha una radice remota nelle polemiche che hanno accompagnato la formazione dell’unità nazionale fin dal suo nascere. Non si era ancora concluso, e già il Risorgimento, coi suoi protagonisti, i suoi momenti topici, i suoi esiti, cominciò a essere discusso nei termini fortemente critici. Fu, dapprima, la contestazione dei mazziniani, repubblicani, garibaldini e altri della sinistra risorgimentale alla soluzione monarchica che aveva portato i Savoia, imputati di essere stati riluttanti alle idee liberali e nazionali fino al 1848 e intesi solo a espandersi verso la meta ambita da secoli della Lombardia e di Milano, sul trono dell’Italia unita. Una soluzione che apparve come una sorta di esproprio o di usurpazione nei riguardi dei veri attori e autori della soluzione unitaria: Mazzini e Garibaldi, soprattutto. Quando Garibaldi capitanò i tentativi dell’Aspromonte (1862) e di Mentana (1867), il contrasto si acuì. A Mentana Garibaldi fu fermato dai francesi di Napoleone III, ma sull’Aspromonte fu l’esercito della nuova Italia a sparare su di lui, ferendolo, e sulle sue schiere. Mazzini addirittura finì esule in patria e morì (1872) clandestino, sotto il nome di James Brown, a Pisa nella casa dei Rosselli.
Da un’altra parte della democrazia risorgimentale, che si ispirava a Carlo Cattaneo, venne contestato soprattutto l’ordinamento centralizzato, di tipo francese e napoleonico, dato al nuovo Stato. Cattaneo pensava a un ordinamento federale, una sorta di Stati Uniti d’Italia, molto sul modello svizzero, a salvaguardia della personalità storica e civile dei sette diversi Stati confluiti nell’unità italiana e, ancora di più, delle autonomie comunali e provinciali, che la legge del 1865 uniformò all’ordinamento dei vecchi Stati sabaudi in questa materia.
Se contestazioni così radicali venivano dagli uomini che avevano avuto una parte rilevantissima nel Risorgimento, riserve sotterranee, ma non minori permanevano in tutti coloro che erano legati alle precedenti tradizioni e alle forze dominanti degli Stati italiani pre-unitari, e soprattutto nei nostalgici dei Borboni nel Mezzogiorno continentale. Nessuno – né democratici e repubblicani, né nostalgici dei caduti regimi precedenti – contestava ormai la soluzione unitaria, che la sinistra risorgimentale considerava pur sempre un grande progresso etico-politico del paese. Verso quella soluzione permaneva, però, un senso di renitenza o di rifiuto, come verso una realtà politica che solo in parte era davvero patrimonio comune della nazione costituita ora in unità politica. Una realtà certamente sentita estranea e avventizia specialmente dalle classi popolari, soprattutto delle campagne, legate alle vecchie culture regionali e ai loro valori tradizionali, che – come poi si osservò – non erano state coinvolte nell’unificazione, e ne sopportavano i pesi (nuove tasse, coscrizione obbligatoria, nuova legislazione), senza capirne le ragioni e senza intendere le idee e gli ideali ora proclamati (nazione, libertà).
Molto peggio fu quando nel 1870 la nuova Italia si insediò a Roma, facendo così sparire del tutto il potere temporale dei papi. Il Vaticano adottò allora una linea di condanna del nuovo Stato e vietò ai cattolici italiani di partecipare alla vita politica del nuovo Stato, sul quale faceva pesare l’ostracismo dell’autorità spirituale per essi suprema. Ciò non impedì la partecipazione dei cattolici alla vita e alle lotte amministrative locali, in cui ebbero una larga presenza, e non impedì, di fatto, neppure la partecipazione, a titolo individuale, di cattolici alla vita politica, ma stese sulla nuova Italia il velo di una illegittimità politicamente sempre meno avvertita, ma reale e incisiva sul piano della vita morale di una gran parte degli italiani di tutti i ceti e le classi.
Alla renitenza e al rifiuto cattolico si aggiunsero poi, alla fine del secolo XIX, la renitenza e il rifiuto delle cospicue masse mobilitate e portate a una inedita coscienza politica dalla diffusione delle idee e del movimento socialista, mentre anche sul piano sindacale si muovevano passi sempre più decisi verso una parallela, nuova coscienza di classe. Fu in questi ampi settori che specialmente allignò l’idea dello Stato di classe, in cui i valori nazionali erano ritenuti una maschera dei grandi interessi della borghesia e del padronato, corrispondente sul piano politico all’ufficio di “oppio dei popoli” attribuito alla religione e alla prassi religiosa. Fiorirono allora i miti dell’internazionalismo e della rivoluzione fatale e vicina che avrebbe rovesciato la macchina del potere borghese e instaurato un nuovo ordine politico e sociale.
Agli inizi del secolo XX i gruppi nazionalistici più accesi vedevano in tutto ciò un segno di profonda debolezza della consistenza morale e politica della nazione e di corrispondente debolezza di prestigio, autorità e potere dello Stato uscito dal Risorgimento, considerato incapace di realizzarne gli ideali di grandezza nazionale.


7. Alla vigilia della prima guerra mondiale l’opinione pubblica più echeggiata in discorsi e dibattiti e soprattutto gli intellettuali italiani sembravano, quindi, avere del paese e della sua storia unitaria un concetto variamente negativo: diverso nelle ragioni della negatività secondo le idee e le propensioni di ciascuno, ma negativo in modo tale da proiettare sul prossimo futuro più dubbi che certezze. Era, però, veramente questo lo stato delle cose? In realtà, non solo l’unità era un dato ormai scontato al punto da costituire il presupposto di ogni discorso sul presente e sul futuro dell’Italia, ma la stessa struttura politica del paese dimostrava di reggere bene a una storia sociale contrastata e agitata più che in altri paesi, e nessuno finiva col negare i grandi progressi realizzati in cinquant’anni di unità nazionale. L’unità appariva, anzi, come una specie di compenso e di riscatto dai due secoli di “decadenza” e di dipendenza dagli stranieri dopo i fulgori del Rinascimento, e l’assonanza tra Rinascimento e Risorgimento convalidava questo diffuso giudizio, che già la scuola faceva circolare tra le più giovani generazioni. Perfino per la monarchia la protesta repubblicana risorgimentale sembrava ormai inattuale: qualcuno diceva che in Italia la Repubblica si sarebbe risolta soltanto nel cambiare le insegne pubbliche sulle cassette postali e sulle tabaccherie. Il disaccordo sulla storia nazionale riguardava, in effetti, la storia recente del paese, ma senza sconvolgerne alla radice la coscienza etico-politica, essendo evidente il nesso tra i giudizi negativi e le posizioni politiche di quelli che li formulavano.
L’andamento della guerra, tanto più lunga, sanguinosa, costosa, drammaticamente alterna di quanto si era previsto provò che una solida struttura del paese come organismo statale e come comunità nazionale esisteva ed era in grado di reggere anche a prove così severe. E, ciononostante, pur avendo superato gli esami di maturità del grande conflitto, proprio da quella guerra prese a farsi più aspro il giudizio sul paese, sugli italiani, con una crescente tendenza a proiettarsi su tutto l’arco della storia nazionale, non più soltanto sullo Stato nazionale unitario nato dal Risorgimento. Già le tragiche circostanze del disastro di Caporetto avevano, durando ancora la guerra, profondamente agitato le acque anche da questo punto di vista. Dopo la guerra il mito della rivoluzione bolscevica, il mito della “vittoria mutilata”, il prepotente ingresso dei cattolici sulla scena politica del paese, nuove tendenze democratiche e radicali, le difficoltà dimostratesi insuperabili di assicurare la normalità e la sicurezza dell’ordinamento costituzionale accentuarono fortemente i motivi di critica della storia unitaria del paese e ne diedero visioni sempre più al negativo. Quando poi dal travaglio del dopoguerra uscì vincente il fascismo di Mussolini e questi instaurò in Italia una dittatura che nessuno avrebbe, fino all’ultimo, previsto, la revisione della storia nazionale divenne amplissima e investì in pieno la qualità morale degli italiani. Si risaliva fino alla insanabile faziosità della vita dei Comuni; si accentuava il giudizio molto diffuso sulla scarsa eticità, sul culto del “particulare”, in cui era naufragata la grande Italia del Rinascimento; si recriminava che fra gli italiani non avesse allignato la riforma protestante, che ne avrebbe svegliato la coscienza morale; lo stesso Risorgimento appariva ora come una vicenda modesta, che aveva interessato una minoranza degli italiani, né sarebbe mai giunta a buon fine senza l’appoggio degli stranieri, la storia nazionale italiana appariva sempre più come anomala rispetto a quella delle altre maggiori nazioni europee, e lo Stato uscito dal Risorgimento una velleitaria versione italica dei grandi modelli europei, con una forte intensificazione di tutte le critiche precedenti, tanto da giudicare frequentemente il fascismo come una via di uscita dalla crisi di quello Stato connaturata in tutta la sua sessantennale storia dal 1860 in poi.
Il fascismo, pur considerando una Italietta quella dal 1860 al suo avvento, coprì questo ribollire – che permeò largamente di sé la cultura italiana degli anni ’20 e ’30 e molto fu dovuto all’antifascismo sopravvivente in patria e a quello in esilio – con una sua ortodossia storico-politica, imposta a tutti i livelli della vita nazionale, a cominciare dalle scuole, che assicurava sulla grandezza morale degli italiani, sul loro destino di grandezza imperiale, sulla saldezza politica e militare della “patria fascista”, sulla sua parte decisiva nella storia del ’900 contro la sovversione bolscevica e contro il dominio economico-finanziario delle demo-plutocrazie occidentali. E non si può dire che la tirannica imposizione di queste “verità” non trovasse alcun ascolto in Italia e non abbia lasciato alcuna traccia dietro di sé.
Che, tuttavia, ne fosse davvero compenetrato a fondo lo spirito del paese non si può dire. Pur imperando il fascismo, libri come la Storia d’Italia dal 1871 al 1915 e la Storia d’Europa nel secolo decimonono di Benedetto Croce ebbero vastissima eco. A sua volta la conciliazione, nel 1929, fra Stato e Chiesa, che chiuse la “questione romana” nata nel 1870 e instaurò uno Stato della Città del Vaticano che ridava una sua indipendenza politica alla Chiesa, fu certamente accolta in generale come assai positiva, e tale rimase nell’opinione di gran lunga prevalente, ma anche alimentò nuove polemiche. Molti vi videro, infatti, un cedimento sul punto della laicità dello Stato. E, quando giunse il momento della verità, e il 25 luglio 1943 il re Vittorio Emanuele III destituì Mussolini, si vide che l’”Italia fascista” era molto minore dell’Italia che serbava fede alle autorità dello Stato unitario o che vi si adattava per continuare la lotta antifascista.


8. La ripresa della vita liberale e democratica del paese dopo la nuova e ben più disastrosa guerra mondiale si svolse sulla base di tutti questi precedenti. Si moltiplicarono i libri sul “carattere degli italiani” che ne davano una immagine deteriore e vedevano ancorato a ciò il mediocre livello della storia moderna dell’Italia. Più tardi si sono avuti libri di stranieri che hanno rilevato nella storia degli italiani il marchio deteriore di un’assenza di civismo, di spirito civico, a cui si addebita il basso tono attribuito alla loro tradizione di governo, di vita pubblica e di partecipazione dei cittadini ad essa. Le esaltazioni italiane di questa diagnosi sono state poi incredibilmente numerose e ferventi, così come l’adesione alle tesi dei numerosi storici stranieri autori di analisi impietose della storia italiana, con una totale inversione di tono rispetto alla simpatia della precedente storiografia europea per l’Italia risorta.
Dopo il 1945 la discussione e revisione della storia risorgimentale e unitaria del paese, con larghi riflessi anche su quella anteriore, che si fece da parte di alcuni settori della storiografia italiana (quello gramsciano, quello cattolico), inasprì di molto i motivi post-risorgimentali di critica allo Stato nazionale che abbiamo visto presenti fin dalla conclusione stessa del Risorgimento: limiti sociali del movimento risorgimentale e prassi politica e sociale nell’Italia unita; limiti di classe, che avevano dato alla soluzione unitaria un deprecato carattere borghese; limiti concernenti la genesi e l’aggravarsi della “questione meridionale”; limiti riguardanti la scarsa modernizzazione del paese; limiti che avevano la loro forse massima espressione nelle radici che il fascismo avrebbe trovato nel precedente cinquantennio di unità.
Per questo verso si trattava di una ripresa e trasformazione di vecchi motivi, ma vi si aggiunse, come dato nuovo, il dibattito sull’antifascismo e, in particolare, sulla Resistenza, che si discuteva se fosse stata guerra civile o guerra nazionale, e da varie parti si riteneva strumentalizzata specie da parte comunista, nonché proseguita con azioni delittuose della stessa parte a cose concluse. Fatto è che non in tutto il paese e da tutti gli italiani, nonostante la scontata ufficialità, la Resistenza è stata considerata davvero patrimonio ed elemento della memoria nazionale da condividere.
La storiografia revisionista di cui si è detto ebbe grande diffusione nelle scuole e nell’opinione colta, e, insieme con le altre discussioni sulla Resistenza e sull’Italia pre-unitaria, contribuì a rendere il bilancio storico che gli italiani si potevano fare del loro passato recente e meno recente più problematico di quanto mai fosse stato prima. Certo, una tale eco non si sarebbe avuta se nell’organismo nazionale non si fossero prodotte le crepe per cui l’Italia del 1945 era tanto diversa da quella del 1915. Comunque, neppure allora si toccò davvero il punto essenziale dell’opportunità e legittimità dell’unificazione del paese e la sua pratica irreversibilità. Questo limite venne oltrepassato solo sullo scorcio del secolo XX, con la diffusione del movimento della Lega Nord e i suoi discorsi secessionistici, con le rinnovate discussioni sull’unificazione di cui si mise sempre più in luce il carattere di violenza fatta all’autentica realtà italiana pre-unitaria, con il diffondersi di una nostalgia incredibilmente atteggiata per i vecchi Stati italiani (salvo che per quello pontificio), con la rivalutazione storico-politica dei fenomeni che avevano tormentato la vita dell’Italia unita nei suoi primi anni (il brigantaggio meridionale, soprattutto), con il dibattito sulla vera realtà della Resistenza e con altri aspetti di una crisi culturale ed etico-politica, per la quale davvero può dirsi che il rapporto degli italiani con la loro storia sia giunto a un punto tale da considerare del tutto anomalo nel quadro europeo il caso nazionale italiano e da rendere evanescente e spesso negativo il discorso sulla identità nazionale.


9. Un tale esito di un secolo e mezzo di unità non sarebbe neppure immaginabile senza considerare il travaglio del paese dagli anni ’90 del ’900 in poi, per l’ondata giudiziaria di “mani pulite” o “tangentopoli”, il crollo del precedente quadro politico della Repubblica, e per il discredito proveniente da vicende giudiziarie che dopo il ceto politico hanno coinvolto altri settori di una “società civile” presunta sana e oppressa e sfruttata dalla “casta” dei politici: imprenditoria, università, libere professioni, pubblica amministrazione, la stessa magistratura e le forze dell’ordine. Il minimo che potesse nascere da una tale crisi di identità nazionale e di coscienza storica del proprio essere nazione era la diffusione di una “coscienza infelice”, che ha assunto spesso i tratti di una inquietudine esistenziale a livello sia individuale che collettivo e che sembra aver paradossalmente e spontaneamente realizzato quella larga unità di pareri in tutte le parti sociali invano e così a lungo vagheggiata per la nuova Italia.
Sarebbe un panorama nerissimo e disperato se le resistenze a tutto ciò non continuassero a manifestare una sempre rinnovata continuità e capacità di reattivo e positivo sviluppo. E anche di ciò le figure degli ultimi due presidenti della Repubblica sono indubbiamente una significativa testimonianza, cui le celebrazioni del 150° dell’unificazione hanno dato il conforto di un’adesione inattesamente larga, che conferma la visione di chi ritiene per nulla anomalo il caso nazionale italiano, non assente lo spirito civico dalla storia italiana, e, soprattutto, le ragioni dell’unificazione italiana più forti, nel passato e in prospettiva, delle ragioni in contrario.







NOTE
* Quello che qui si presenta è il testo, in parte ampliato, del contributo dell’autore a Il grande gioco del Quirinale, a cura di Marzio Breda, pubblicato dal «Corriere della Sera» nel marzo 2013.^
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