Rubbettino Editore
Rubbettino
Torna alla Pagina Principale  
Redazione: Fausto Cozzetto, Piero Craveri, Emma Giammattei, Massimo Lo Cicero, Luigi Mascilli Migliorini, Maurizio Torrini
Vai
Guida al sito
Chi siamo
Blog
Storia e dintorni
a cura di Aurelio Musi
Lettere
a cura di Emma Giammattei
Periscopio occidentale
a cura di Eugenio Capozzi
Micro e macro
a cura di Massimo Lo Cicero
Indici
Archivio
Norme Editoriali
Vendite e
abbonamenti
Informazioni e
corrispondenza
Commenti, Osservazioni e Richieste
L'Acropoli
rivista bimestrale


Direttore:
Giuseppe Galasso

Responsabile:
Fulvio Mazza

Redazione:
Fausto Cozzetto
Piero Craveri
Emma Giammattei
Massimo Lo Cicero
Luigi Mascilli Migliorini
Maurizio Torrini

Progetto grafico
del sito:
Fulvio Mazza

Collaboratrice per l'edizione online:
Rosa Ciacco


Registrazione del
Tribunale di Cosenza
n.645 del
22 febbraio 2000

Copyright:
Giuseppe Galasso
 
Cookie Policy
  Sei in Homepage > Anno XIV - n. 4 > Saggi > Pag. 293
 
 
Un socialista scomodo
di Sandro Petriccione
1. Nel Partito Socialista Italiano nel quale militavo dal 1945 i venti di rinnovamento cominciavano a soffiare. Dopo anni di “frontismo”, termine che richiamava la politica del Fronte Democratico Popolare del 1948 che segnò la fine dell’autonomia dei socialisti, che rappresentavano il secondo partito dopo la Democrazia Cristiana nell’immediato dopoguerra – e la loro subordinazione al PCI in nome del “patto di unità d’azione” si moltiplicavano gli episodi che testimoniavano la vocazione di una politica autonoma la quale, anche se non si contrapponeva ancora a quella del PCI, se ne distingueva per tutto lo spirito che l’animava. Rodolfo Morandi del quale ero un seguace, che pure abbracciava il leninismo ed era fautore di una stretta alleanza col Partito Comunista, aveva avuto il merito, con l’intenso lavoro di organizzazione anche se nel quadro del “centralismo democratico”, di fare risorgere nei militanti ma soprattutto nel cosiddetto “apparato morandiano” cioè del gruppo prevalentemente di giovani che dirigevano il partito in periferia di cui io ho fatto parte, l’orgoglio di essere socialisti e di favorire una accanita competizione con i comunisti che doveva inevitabilmente costituire negli anni successivi la premessa per una politica autonoma. Nel Congresso di Torino del 1955 Morandi, qualche mese prima della sua morte, distinguendosi dall’inefficace settarismo dei comunisti che aveva avuto come risultato l’isolamento della sinistra, formula una politica di apertura verso i cattolici, premessa del dialogo con la Democrazia Cristiana. Mentre Nenni – basta leggere la sua relazione al Congresso di Torino – proponeva una politica molto più tradizionale assai simile a quella del PCI di mera contrapposizione al governo dominato dalla democrazia cristiana ed al blocco di forze economiche che lo sostenevano.
Ma dopo pochi mesi dal congresso di Torino la situazione della sinistra evolve rapidamente: nell’estate del 1955 muore Morandi e Nenni riacquista, almeno al centro, il dominio del partito; ma all’inizio del 1956 tutta la sinistra è sconvolta dalla tempesta politica in Unione Sovietica. Lo “stato guida” dell’“umanità progressiva”.
Nel febbraio1956 infatti si conclude il XX congresso del PCUS nel corso del quale di fronte ai rappresentanti dei “partiti fratelli”, Palmiro Togliatti il capo indiscusso del Partito Comunista Italiano, in prima fila e non certamente compiaciuto di quello che stava ascoltando nella relazione di Nikita Kruscev che da oscuro dirigente del partito in Ucraina era assurto al vertice del Presidium del Comitato Centrale, e facendosi interprete di sentimenti diffusi nell’Unione Sovietica denunciò il “culto della personalità” di Stalin e gli abusi, per usare un eufemismo, che aveva comportato. Si pensi che nei tempi in cui era necessaria un’autorizzazione del Comitato Centrale per accedere al “gabinetto segreto” della grande biblioteca di Mosca, dove erano raccolti gli scritti dei socialdemocratici e degli “utopisti”, Stalin fece pubblicare con grande evidenza il saggio del socialdemocratico Gheorghi Plechanov Il ruolo della personalità nella storia e si può bene immaginare quale “personalità” avesse in mente. Io conservo ancora le copie delle Izvestia che riportano il dibattito al XX congresso con la relazione di Kruscev e gli interventi caratterizzati dalla cautela che nascondeva la sorpresa dei massimi dirigenti del PCUS, tranne quello di Anastasi Mikoyan, apertamente schierato a favore della “destalinizzazione”. E lo sbigottimento dei partiti comunisti e dei loro alleati aumentò quando venne alla luce il cosiddetto “rapporto segreto” di Kruscev che denunciava in dettaglio la spietata dittatura di Stalin sul partito e su tutta la società.
Nenni con grande intelligenza e prontezza capì che un periodo storico si era concluso e pubblicò sulla rivista del PSI «Mondo Operaio» l’articolo Luci e ombre del Congresso di Mosca nel quale prendeva apertamente parte per le tesi revisioniste di Krushev e Mikoyan, uno dei componenti del Presidium del Comitato centrale che in appoggio a Kruscev si era spinto più avanti nella critica a Stalin. Fece inoltre nuovamente pubblicare il suo articolo del 1939 (se ne era dimenticato per sedici anni!) sui processi di Mosca1.
Oggi il giudizio su Nenni non è scevro da pesanti critiche per le sue responsabilità nella scissione del 1947 e per il suo filosovietismo che gli fruttò il Premio Stalin (poi restituito); ma per noi morandiani la sua, anche se tardiva presa di posizione, fu una boccata di aria fresca in una atmosfera asfittica creata dalla subordinazione ai comunisti.


2. È difficile oggi immaginare quale era il clima nel quale si viveva nei partiti di sinistra e segnatamente nel PSI in tutto il periodo della lotta “muro contro muro” cioè negli anni che seguirono le elezioni del 1948 e i pochi mesi subito dopo la scissione socialdemocratica del 1947 che avvenne al Congresso di Roma – ricordo il discorso di Simonini che apparteneva al gruppo che faceva capo a Faravelli, direttore della rivista «Critica Sociale» fondata da Turati alla quale io collaboravo, e rappresentava la “destra” del partito che ancora si chiamava PSIUP – quando Saragat ritenne incompatibile con il movimento socialista il patto di unità d’azione col PCI, sottoscritto dai socialisti durante il fascismo e sostenuto da Nenni. Gli anni che seguirono videro il mio crescente impegno nel PSI nel quadro dei grandi avvenimenti di cui fui testimone e, sia pure in minima parte, attore.
Le elezioni del 1948 che, per quello che riguarda il PSI, avvennero al tempo della segreteria di Lelio Basso il quale, come espressione del tradizionale massimalismo che in contrapposizione al riformismo di Turati di Modigliani e di Treves, era stato presente fin dall’inizio del XX secolo nel PSI, era però contrario al Fronte Democratico Popolare dominato dai comunisti, ma fu costretto ad aderirvi per la pressione di Nenni e Morandi al Congresso dell’Astoria, al quale io pure partecipai, (dal nome del cinema di via Stoppani a Roma che ora ha cambiato nome) e non gli restò che far uscire per le elezioni un grande manifesto a sfondo nero con la scritta “Un grande Partito Socialista alla testa del Fronte democratico Popolare” che fece andare in bestia i comunisti.
La campagna elettorale fu durissima ma tutto sommato civile considerata la posta in gioco che era la collocazione internazionale dell’Italia tra i due blocchi che si contrapponevano. Comunisti e socialisti – e Nenni ne era uno dei maggiori esponenti su scala internazionale – facevano parte insieme ad alcuni indipendenti (i “senza partito” come erano denominati in URSS) del movimento dei “partigiani della pace” – i pacifisti degli anni recenti – apertamente schierati dalla parte dell’Unione Sovietica. Ma già dalla fine del 1947 con l’aggravarsi della situazione internazionale dopo la presa del potere dei comunisti in Europa orientale in quelle che erano state chiamate “democrazie popolari” e che dovevano rappresentare pur nella divisione delle sfere d’influenza decise con gli accordi di Yalta, degli Stati nei quali accanto ai comunisti, spesso in minoranza, coesistevano socialdemocratici e partiti contadini e di piccoli proprietari, la costituzione del patto di Varsavia cioè di una alleanza militare in risposta all’istituzione della NATO cioè del Trattato dell’organizzazione (militare) del Nord Atlantico, concorreva in maniera decisiva all’aumento della tensione internazionale.
Il quadro politico in Europa e le aspre tensioni che in quel momento lo caratterizzavano spiega gli atteggiamenti delle sinistre in Italia e su scala più modesta a Napoli dove vivevo in quel periodo fino alle elezioni del 1948. Come giovane socialista di sinistra presi parte a molte riunioni e manifestazioni contro il “governo nero” come allora chiamavamo il governo, dominato dalla Democrazia Cristiana di De Gasperi che si era appena insediato. Io appartenevo al gruppo piuttosto esiguo che non aveva seguito la maggioranza della Federazione Giovanile Socialista la quale, dopo il congresso di Roma, pur non essendo d’accordo con le tesi socialdemocratiche, aveva aderito al partito capeggiato da Saragat, sorto dalla scissione del partito socialista.
Come altri giovani socialisti di sinistra percorrevo sulle vetture sgangherate delle Tramvie Provinciali le località della provincia dove erano “sezioni” cioè sedi del Partito Socialista per convincere i compagni della linea politica seguita da Nenni e da noi condivisa. Maurizio Valenzi, allora dirigente comunista incaricato di seguire le vicende del PSI scrisse, dopo alcuni anni, che era rimasto colpito dall’impegno col quale i giovani socialisti, senza soldi, e con un partito in sfacelo, davano il loro tempo – e non era poco – e le loro energie ad un’attività politica non riconosciuta da nessuno. Ancora conservo un ritratto a matita che Valenzi che era anche pittore, disegnò nel corso di una riunione con noi giovani. Quale era il motivo per il quale - secondo l’insegnamento di Lenin sui “rivoluzionari di professione” – ci identificavamo con il partito e per esso eravamo pronti a qualunque sacrificio? Tra i giovani era diffusa la speranza di grandi trasformazioni sociali capaci di instaurare un regime più giusto e di migliorare le condizioni di vita degli strati meno fortunati della popolazione ai quali appartenevano molti di noi. E il mito dell’Unione Sovietica, alimentato in Italia soprattutto dal PCI, esercitava una grande influenza e suscitava l’interesse per il marxismo e il leninismo – per non dire per lo stalinismo che fornivano una base ideologica al movimento socialista. Molti anni dopo Gaetano Salvemini scriveva che il marxismo è come l’oppio: prima esalta e poi abbatte. Ed io ero nella fase dell’esaltazione.
In occasione del previsto sbarco a Napoli delle prime armi della NATO – era la fine del 1947 – ci proponevamo di contrastare questa operazione Io andai insieme ad un giovane funzionario del PCI per un comizio nella zona occidentale di Napoli a via Campegna dove era la fabbrica Bomprini Parodi ed erano ubicati depositi militari. Gli operai parlavano apertamente di rimettere in funzione le mitragliatrici pesanti che erano rimaste nei depositi nelle caverne sotto la collina di Posillipo fin dai tempi della guerra. L’opposizione allo sbarco delle armi fallì completamente: Scelba che era ministro degli interni intervenne con grandi forze di polizia che presidiarono, armate anche di mitragliatrici gli accessi al porto e le terrazze degli edifici vicini, esercitando una potente forza di dissuasione.
Ci si avviò verso le elezioni fissate per il 18 aprile 1948. La tensione politica era altissima e tuttavia non si verificarono incidenti di rilievo. La sera delle elezioni mi trovavo nella sede del Fronte Democratico Popolare a Piazza dello Spirito Santo, al centro di Napoli. Maurizio Valenzi, un comunista che proveniva dalla Tunisia e che doveva diventare sindaco di Napoli, aveva la responsabilità della sede del Fronte mentre dell’attività operativa si occupava direttamente il PCI lasciando ben poco spazio ai socialisti.
Le prime notizie sui risultati delle elezioni che arrivarono erano disastrose; Maurizio Valenzi di fronte ai primi dati che la radio trasmetteva esclamava «è tutta una provocazione!» ma le notizie negative continuavano ad arrivare tra la costernazione dei presenti che avevano fortemente sperato che con le elezioni si sarebbe voltato pagina (chissà quali brutte sorprese ci avrebbe riservato una vittoria!). Poi, alla spicciolata, i presenti cominciarono a lasciare la riunione per tornare all’indomani alla vita di emarginazione e spesso di persecuzione che si erano augurati di avere lasciato alle spalle. Scendendo la sera tardi quasi da ultimi le scale, Renzo Lapiccirella un bravo ed onesto giornalista comunista, mi disse «ormai la democrazia cristiana ce la terremo per dieci anni!» Aveva sbagliato di qualche decennio.


3. Se i risultati delle elezioni furono negativi per il PCI, che aveva contato di conquistare il potere, lo furono ancor più per il PSI, nel dopoguerra il secondo partito italiano dopo la Democrazia Cristiana, che usciva ridimensionato e umiliato dalla prova elettorale e che molti dirigenti comunisti consideravano terra di conquista di scarso rilievo. Basti ricordare che il giornale, organo del Cominform – che era appena stato istituito dall’incredibile titolo «Per una pace stabile, per una democrazia popolare» scriveva che nella situazione italiana i comunisti potevano contare sulla FGCI (la federazione giovanile comunista) e sul PSI come se fossero allo stesso livello! Furono eletti a Napoli Luigi Renato Sansone, avvocato antifascista amico di Nenni, e Francesco De Martino professore universitario proveniente dal Partito d’Azione, appoggiato dai comunisti.
E proseguì, perché da qualche mese era già iniziata con la formazione del governo De Gasperi dal quale erano stati esclusi comunisti e socialisti di Nenni, la fase politica della lotta “muro contro muro” nel corso della quale si interruppe, almeno alla luce del sole, ogni rapporto tra i partiti della maggioranza e quelli di opposizione – i socialcomunisti come amavano chiamarli i principali giornali italiani – tra i quali l’egemonia del PCI si era enormemente rafforzata.
Tra i socialisti lo scontento per la disfatta elettorale ed il risentimento nei confronti dei comunisti che avevano profittato della loro egemonia per erodere il tradizionale elettorato socialista era largamente diffuso e portò ad un rovesciamento della maggioranza con l’elezione di una direzione “centrista” – come dicevamo noi la quale voleva per l’Italia la neutralità - anche in polemica con le scelte filoamericane del governo – cioè l’indipendenza dai due blocchi, mentre Nenni si schierava apertamente per quello che in linguaggio stalinista era chiamato il “campo del socialismo” cioè per l’Unione Sovietica. La segreteria del partito era stata affidata ad Alberto Jacometti, un onesto massimalista, ma in effetti la figura politicamente più rilevante tra i “centristi” era quella di Riccardo Lombardi che proveniva dal Partito d’Azione che si era sciolto recentemente e che tra l’altro aveva portato Francesco De Martino nelle file del PSI. La sinistra di Nenni ed anche di Morandi il quale ultimo acquisiva sempre più prestigio all’interno del PSI, si opponeva decisamente ai centristi. Ricordo un incontro con Jacometti a Napoli dove il partito era dominato da una maggioranza nenniana (io ero componente del comitato esecutivo)¸ la Federazione del PSI si trovava a Piazza Dante in un bel palazzo vanvitelliano ornato sulla copertura da numerose statue che rappresentavano le virtù di Carlo Borbone. L’appartamento al primo piano (il “piano nobile” dei palazzi napoletani) dove era la nostra sede portava ancora i segni di un’antica grandezza: il soffitto affrescato del salone e le settecentesche porte dipinte, ma versava in uno stato di totale abbandono dal quale non erano certo le misere finanze del partito che potevano sollevare. Tra il vociare dei convenuti Jacometti salì su di un tavolo antico coperto di marmo al centro del salone gridando «lasciatemi parlare» cosa che con grande sforzo alla fine gli riuscì ma senza che non dico le sue parole fossero condivise, ma nemmeno ascoltate.
Intanto la situazione sociale soprattutto nel Sud diveniva particolarmente tesa. La politica di stabilizzazione – come anche allora si chiamava - intrapresa da Luigi Einaudi provocava disoccupazione che nel Nord si andava gradualmente riassorbendo facendo uso di un apparato industriale praticamente intatto e degli aiuti del “Piano Marshall”. Invece nel Sud, mentre il modesto apparato industriale ubicato attorno a Napoli era stato completamente distrutto dalla guerra, la situazione nelle campagne in molte aree appariva disperata in quanto un’economia principalmente di autoconsumo si trovava a fare i conti con l’aumento dei prezzi dei beni non agricoli indispensabili per la sopravvivenza. La ribellione dei contadini si rivolse alle grandi proprietà ad agricoltura estensiva – i latifondi – e si manifestò anche col rifiuto di pagare gli affitti, spesso esosi, dove la proprietà era più frazionata. Il “movimento per l’occupazione delle terre” come venne chiamato, fu in larga misura un moto spontaneo.
Il Partito comunista non perse l’occasione di porsi alla testa di questo movimento ed inviò suoi funzionari nelle zone dove più acuta era la tensione sociale mentre i socialisti che disponevano di esigue risorse finanziarie ed organizzative si dovettero limitare a partecipare al movimento con i soli dirigenti locali. In questi frangenti alla fine del 1948 si svolse il “Congresso del popolo meridionale” a Pozzuoli nel vecchio stabilimento dell’Ansaldo sulla strada costiera che porta ad Arco Felice, dove molti contadini – e le loro organizzazioni – portarono per protesta parte delle prestazioni dovute ai proprietari; parlarono Rodolfo Morandi e Ruggiero Grieco per sostenere la necessità della riforma agraria generale in contrapposizione a quella che noi ritenevamo la politica liberista seguita dal governo De Gasperi- Einaudi. Era il tempo nel quale il comunista Emilio Sereni presentava alla pubblica opinione il suo libro Il Mezzogiorno all’opposizione che metteva in luce la drammatica situazione nella quale si venivano a trovare le regioni meridionali del Paese. Alla fine del congresso le prestazioni furono donate ai militanti comunisti e socialisti. Io ebbi un’oca che portai a casa e che visse a lungo nel giardino di nostri parenti.
È il caso di ricordare che la democrazia cristiana reagì mettendo in atto due strumenti politici di grande rilievo, la riforma agraria “stralcio” portata avanti con decisione dal ministro dell’agricoltura Antonio Segni che comportava l’espropriazione dei latifondi e l’assegnazione di terra ai contadini e la Cassa per il Mezzogiorno sostenuta dal ministro Campilli e dal Governatore della Banca d’Italia Menichella per la costruzione di infrastrutture civili nelle zone più povere del Sud e per sostenere con l’irrigazione la riforma agraria, che man mano che furono posti in atto provocarono la fine delle agitazioni e il graduale declino dell’influenza del PCI nelle campagne.


4. Le conseguenze della sconfitta del 1948 si fecero presto sentire con l’arroccamento su una dura opposizione del PCI ed anche del PSI solo in rari casi parzialmente attenuata da iniziative come la proposta del segretario della CGIL Di Vittorio di un “piano del lavoro” presto di fatto sconfessata dai vertici del PCI. In questo periodo a seguito della divisione del mondo in due blocchi contrapposti le posizioni più radicali finivano col prevalere e anche il governo di De Gasperi, il quale certamente non era un estremista, prendeva posizioni nettamente anticomuniste. La tensione giunse al massimo con l’attentato a Togliatti del 14 luglio 1948 ad appena tre mesi dalle elezioni che provocò reazioni violente in tutta Italia ma in particolare nelle regioni “rosse” del centro, mentre a Milano fu occupata la prefettura e quando Scelba, Ministro degli Interni telefonò al rappresentante del governo si sentì rispondere «qui Paietta», il dirigente comunista il quale, insieme a Secchia e a Longo, dirigeva il movimento di protesta che – anche se non era detto apertamente – voleva sfociare nel rovesciamento del governo De Gasperi con conseguenze internazionali incalcolabili (si era appena concluso in Grecia con una cocente sconfitta il tentativo del comunista Marcos di conquistare con la violenza il potere in contrasto con gli accordi di Ialta sulla divisione delle sfere d’influenza delle grandi potenze che avevano vinto la guerra) e che Togliatti non perdonò mai ai suoi collaboratori. Dopo parecchi anni nei congressi del PCI, ricordando la telefonata di De Gasperi alla prefettura di Milano quando gli doveva dare la parola Togliatti diceva sarcasticamente «qui Pajetta».
In tutta Italia le manifestazioni provocarono incidenti ed anche a Napoli si verificarono disordini. A Piazza Dante dove insieme ad altri giovani mi trovavo a manifestare la polizia in assetto di guerra (la “celere” da noi odiata) ordinò lo sgombero ma nessuno si mosse. Gli agenti cominciarono a sparare – e non solo per intimorire – io stesso vidi un agente inginocchiato che puntava il fucile mitragliatore – il mitra come lo chiamavamo verso di noi per sparare. Il mio collega della facoltà di ingegneria Giovanni Quinto, un ragazzo serio ed un po’ triste cadde per non rialzarsi più. Oggi nessuno se lo ricorda; solo una sezione del PCI che non esiste più era intitolata a Quinto e Fischetti, le due vittime a Napoli delle agitazioni.
Il periodo della lotta “muro contro muro” fu caratterizzato come era prevedibile da un aumento dell’inclinazione settaria del PCI il che comportava la lotta a qualunque iniziativa, ed anche atteggiamento sospetto di “deviazionismo” cioè di distinzione dalla linea ufficiale del partito ed allo stesso tempo la glorificazione dei dirigenti e in primo luogo di Togliatti, segretario del PCI enfaticamente definito «capo amato della classe operaia italiana» versione italiana del «culto della personalità» di Stalin in auge nell’URSS. Giulio Seniga che era stato il principale collaboratore di Secchia – vice segretario del PCI – e poi ruppe polemicamente con i comunisti, ricorda nel suo libro Togliatti e Stalin2 il ridicolo saluto del segretario del PCI di Modena «Viva il compagno Secchia vice capo amato (sic!) della classe operaia italiana!».
Il “gruppo Gramsci” era un’associazione di intellettuali napoletani che si proponeva di studiare, alla luce del marxismo-leninismo i principali problemi della società italiana e in particolare meridionale; presiedeva l’associazione con grande impegno Guido Piegari e partecipavano molti dirigenti comunisti e socialisti, tra questi ultimi Gaetano Arfè ed io stesso. L’andamento delle animate discussioni e degli approfondimenti dei temi trattati non piacque allo stesso Togliatti che individuò nel “gruppo Gramsci” i germi di un deviazionismo di sinistra e incaricò Giorgio Amendola, un rigido stalinista che chi sa perché la pubblicistica radicale fa passare per un riformatore del Partito Comunista, che aveva soppiantato Emilio Sereni alla testa del PCI a Napoli, di provvedere allo scioglimento dell’associazione il che venne eseguito con spietata decisione. Guido Piegari a seguito di questi fatti dette segni di squilibrio mentale ed entrò in uno stato di profonda depressione dalla quale non uscì più.
Quando Eugenio Reale, uno dei maggiori esponenti del PCI, uscì silenziosamente dal partito comunista, il senatore Mario Palermo che gli era amico si permise di chiedere spiegazioni sulla vicenda. ma venne subito convocato presso la federazione dove il responsabile dell’“ufficio quadri” Carlo Obici, il mazziere del PCI a Napoli, che aveva il compito di mantenere la disciplina tra i militanti, aggredì anche fisicamente il povero Palermo e lo costrinse a rinunciare a ogni perplessità.
La decisa opposizione al governo intrapresa da tutta l’organizzazione di partito (“l’apparato” come si diceva allora) mobilitava non senza richiedere pesanti sacrifici, non di rado a spese della libertà personale e della stessa integrità fisica, i militanti nelle fabbriche e negli uffici, i giovani come noi e i disoccupati che avevano fiducia, una vera e propria fede, nella vittoria del “campo socialista” cioè dell’Unione Sovietica staliniana. Era il periodo nel quale l’editore Einaudi aveva appena cominciato a pubblicare gli scritti di Antonio Gramsci che, seguendo precise direttive, venivano presentati in tutte le principali città. A Napoli Giorgio Napolitano, come un Mosè appena disceso dal monte Sinai, presentava con grande enfasi, ascoltato con religiosa attenzione da noi militanti di sinistra, le Lettere dal carcere scritte da Gramsci durante la sua detenzione a Turi, che successivamente si dovevano rivelare pesantemente epurate e rimaneggiate da Togliatti.
Ma continuava in tutte le sedi ma soprattutto tra gli operai di fabbrica organizzati dalla CGIL che allora ne rappresentava la maggioranza, la lotta senza quartiere al governo. Avvennero incidenti anche gravi come a Modena dove la polizia uccise quattro operai. Dopo qualche giorno andammo sul posto per protestare come facevano molti militanti comunisti e socialisti provenienti da tutta Italia. Subito dopo ci recammo a Genova per il Congresso delle forze del Lavoro e della Produzione e fummo generosamente ospitati dagli operai dell’Ansaldo che si resero conto che venivamo da lontano e che – ed avevano ragione – di soldi ne avevamo molto pochi. Al ritorno su una vettura di terza classe eravamo stipati in piedi nel corridoio, tanto che ispirammo compassione ai ferrovieri i quali capirono che venivamo da una manifestazione politica e, rischiando una punizione in caso di un’ispezione, ci fecero sedere in seconda classe.
Io ero allora nel comitato esecutivo della Federazione di Napoli dove il gruppo di giovani del quale facevo parte aveva emarginato il vecchio gruppo dirigente formato da avvocati antifascisti fin dai tempi del regime Lelio Porzio, Rosalbino Santoro, Mario Benvenuto, Pietro Adinolfi e, in primo luogo Luigi Renato Sansone, tutti nenniani mentre, pur riconoscendo la leadership di Nenni, il nostro punto di riferimento era Rodolfo Morandi che, come vicesegretario del partito, reggeva l’ufficio organizzazione, ed aveva cominciato a trasformare il partito secondo gli schemi leninisti. Oggi fa quasi sorridere immaginare che il nostro ideale di vita era il “rivoluzionario di professione” secondo il linguaggio di Lenin, cioè un funzionario di partito che si dedicava interamente alla lotta politica finalizzata al rovesciamento del capitalismo.
E così il vecchio PSI che era stato il partito di Turati e di Treves, gradualmente, ma con crescente velocità, si trasformava in partito leninista adottando il modello rigidamente centralista del PCUS staliniano seguito dal PCI di Togliatti e di Secchia. Noi cercavamo, non sempre con successo, di convincere i compagni delle sezioni che la linea prescelta era quella giusta e che il “centralismo democratico”, cioè la dittatura del gruppo dirigente sul partito, era spiegato dalla necessità di far fronte all’accerchiamento al quale la sinistra in Italia doveva resistere ricorrendo cioè alle stesse motivazioni che in Russia avevano portato alla dittatura leninista e staliniana eufemisticamente denominata “dittatura del proletariato”. In questo periodo Morandi si fidava poco di De Martino – anche se successivamente cambiò completamente atteggiamento – che riteneva influenzato da Lelio Basso da lui considerato un estremista di sinistra, erede della tradizione massimalista del socialismo italiano.
Io ero sempre più coinvolto nell’attività del movimento giovanile a livello nazionale con frequenti riunioni a Roma e la partecipazione, spesso in rappresentanza della dirigenza nazionale. Dario Valori che dirigeva il movimento giovanile aveva grande fiducia in me e mi considerava il suo più affidabile collaboratore in tutta l’Italia meridionale a convegni in ogni parte del Paese: da Sestri Levante a Mantova e a Ferrara.
Il Presidente degli Stati Uniti Harry Truman, quando scoppiò la guerra di Corea intervenne militarmente in difesa del regime di Seul con un grande spiegamento di forze e pesanti bombardamenti aerei mentre nel Nord il comunista Kim Il Sung da Piong Yang al confine con l’URSS e la Cina cercava di estendere il suo dominio all’intera Corea.
In Italia le sinistre manifestavano contro l’intervento americano il quale colpiva anche i civili e provocava incalcolabili distruzioni. Fu in quei frangenti che venne a Napoli il generale Ridgway comandante delle forze americane in Corea responsabile secondo noi degli eccidi e che avevamo soprannominato il “generale peste”. Scendemmo per le strade soprattutto per via Roma, la vecchia “Toledo” come era chiamata dai napoletani. La polizia intervenne con delle cariche arrestando numerosi manifestanti. Io mi trovavo nel cuore dei disordini con un compagno di Portici, e per sfuggire all’arresto ci rifugiammo in un bar dove per nostra fortuna entrò un agente in borghese che lo conosceva. Ci disse sottovoce «Scappate perché vi vogliono arrestare!» Evidentemente eravamo già stati individuati. E noi allora rapidamente fuggimmo per i vicoli a monte di via Roma – i “Quartieri” – che si inerpicano per la collina, in quei tempi molto popolati e anche oggi densamente edificati. Era una sera di una rigida giornata d’inverno, ricordo
esattamente la data: 17 gennaio, giorno di S. Antonio abate, a Napoli Sant’Antuono quando era tradizione accendere dei falò in mezzo alla strada attorno ai quali si raccoglieva la gente che guardava gettando oggetti da bruciare, sedie e mobili vecchi, cassette per la verdura, ed anche per riscaldarsi, e che illuminavano vivacemente le pareti delle povere case dei vicoli e i volti di quelli che sostavano vicino al fuoco in una scena che ricordava i quadri di Caravaggio. Salendo rapidamente per il pendio giungemmo fino al Corso, la strada di cornice costruita dai Borboni: eravamo salvi! Pietro Lezzi che aveva manifestato insieme a noi fu arrestato e pur non avendo commesso alcun reato passò un mese in carcere. I magistrati che all’epoca di “tangentopoli” lo incriminarono con accuse infamanti dalle quali, solo dopo anni fu pienamente assolto, forse non erano nemmeno nati quando noi rischiavamo la libertà e la stessa incolumità fisica, sia pure sbagliando, ma comunque pagando di persona per sostenere quegli ideali di giustizia dei quali si fanno rozzamente portavoce.
In quel periodo Aldo Venturini, uno dei collaboratori di Morandi, veniva spesso a Napoli per controllare l’attività del partito. Si fidava poco di Pietro Lezzi che pure si era dedicato interamente alla “milizia socialista” abbracciando l’austera vita di “quadro permanente” cioè di funzionario pagato con pochi soldi, quando pure arrivavano, e così scelse me per l’indiscussa fede morandiana provata dalle mie posizioni di ortodossia leninista e dall’assidua lettura dei classici del marx-leninismo per far parte – unico socialista – di una ristretta delegazione (eravamo in sette) per una visita in Unione Sovietica in occasione dell’anniversario della Rivoluzione e delle manifestazioni che avevano luogo il 7 novembre quando era ancora vivo Stalin. Erano gli anni, appena dopo la fine della guerra e ben pochi in Italia avevano avuto la possibilità di visitare il grande paese che in tutti i sensi si contrapponeva agli Stati Uniti. In quei tempi l’Unione Sovietica in Occidente era considerata un altro mondo, ignoto e inavvicinabile a seconda dei punti di vista “paradiso dei lavoratori” o “regno del male”. La visita durò una quindicina di giorni a Mosca, Leningrado e Kiev e constatammo l’arretratezza tecnica del “paese del socialismo” e le misere condizioni di vita dei cittadini ma ci consolavamo ripetendo tra di noi che si stava creando una nuova società dominata dall’“uomo nuovo del socialismo”.
Al mio ritorno in Italia ero più filosovietico di prima e mi dedicavo all’attività politica con frequenti e scomodi viaggi in tutta Italia; ricordo una lunga attesa nella stazione di Ostiglia, un piccolo paese sul Po dove, incontrai in attesa del treno per Roma, Libero Lizzadri corrispondente dell’«Avanti!» da Mosca e Carlo Crescenzi, uno dei principali collaboratori di Morandi ed insieme discutevamo della ricostruzione del PSI in senso leninista accanto al partito comunista che era l’immagine speculare del PCUS. Togliatti, ma anche Secchia e Longo erano tutti di formazione staliniana e sovietica e consideravano il PSI di Nenni e di Morandi solo un’utile appendice mentre la politica delle alleanze era perseguita su più larga scala in appoggio della politica estera dell’Unione Sovietica ricorrendo alla vecchia formula dei “fronti popolari” per mezzo del movimento dei “partigiani della pace” diretto di fatto dai comunisti – in primo luogo da quelli sovietici – ma nel quale si cercava di attrarre personaggi indipendenti di varie nazioni e politici di diversi partiti. Per questa funzione risultava particolarmente utile il PSI, unico partito socialista in Occidente a schierarsi dalla parte dell’Unione Sovietica. Nenni per primo svolse un ruolo di dirigente dei “partigiani della pace” e vinse il premio Stalin che restituì dopo la rottura con i comunisti, mentre in URSS circolava un francobollo con la sua immagine. Molti socialisti ed io tra di essi, alternavano l’attività di partito nel quadro della dura lotta politica di opposizione a quella dei “partigiani della pace” impegnando tutta la propria energia.
Così quando Dario Valori, responsabile del movimento giovanile del PSI, mi propose di trasferirmi a Roma presso la Direzione del PSI come “quadro permanente” secondo la definizione che si dava allora ai funzionari di partito, io accettai non senza qualche esitazione rendendomi conto che il partito non era in grado nemmeno di assicurare con certezza il modesto compenso che invece il PCI garantiva ai suoi funzionari.
Era il periodo più oscuro della lotta politica “muro contro muro” nel quale la sinistra non sembrava discostarsi da una opposizione di principio senza proporre praticabili alternative; il punto fermo delle alleanze a sinistra rimaneva il “patto di unità d’azione” tra socialisti e comunisti, voluto fin dai tempi dell’esilio francese da Nenni che, pur non avendo grandi doti organizzative tra i socialisti sfruttava la sua capacità di giornalista, ma soprattutto di grande oratore.


5. Il periodo dopo le elezioni de 1948 fino almeno al 1953 fu nella sinistra italiana quello dello stalinismo anche dopo la morte di Stalin quando in URSS si era insediato al potere un quadrunvirato costituito da Molotov, Malenkov, Beria e Voroscilov. In quegli anni il PCI e il PSI insieme a molti indipendenti, anche non di sinistra, si mobilitarono in difesa di Ethel e Julius Rosenberg, ebrei americani e spie dell’Unione Sovietica durante la guerra. E gli Americani con quella ferocia vendicativa che spesso li ha portati ad avere contro di loro buona parte dell’opinione pubblica mondiale, li condannarono a morte per un reato che prevedeva la pena capitale solo in tempo di guerra, ma che appariva eccessiva quando le ostilità erano da tempo concluse e comunque perché i Rosenberg non avevano spiato per un nemico, ma per un alleato.
Anche se la lotta politica in quegli anni, che era particolarmente aspra rafforzava la fiducia dei militanti nella propria causa, non mancavano episodi, anche se rari, di passaggio da un campo all’altro che erano sistematicamente trattati come “tradimento” da chi era stato abbandonato. Ed anche chi era sospettato di “deviazionismo”, in gergo staliniano e cioè di mancanza di indiscussa adesione alle tesi politiche del partito, era spesso oggetto di provvedimenti disciplinari fino all’espulsione. E il clima di fortezza assediata contagiava anche il PSI, che pure era l’erede dell’umanitarismo socialista dell’inizio del XX secolo.
Due episodi che seguii da vicino mi lasciarono una grande impressione. Il professor Giuseppe Bucco di vecchia famiglia socialista, era tipico esempio del massimalismo estremista e verboso ma tutto sommato innocuo. Possedeva un’oratoria violenta e appassionata che esercitava una notevole influenza sugli ambienti meno provveduti della sinistra (la “base” come si diceva allora) compresi molti comunisti. Per porre fine al paventato rischio per la saldezza della linea ufficiale del partito che l’attività di Bucco avrebbe comportato, i dirigenti del PCI a Napoli decisero di prendere l’iniziativa al fine di liberarsi di Bucco (di “liquidarlo” secondo la fraseologia stalinista) Maurizio Valenzi che aveva l’incarico di seguire l’attuazione del Patto di Unità d’Azione cioè in effetti del controllo politico del PSI, durante una riunione del comitato esecutivo appositamente convocato, accusò Bucco di essere un agente dell’Intelligence Service inglese, una spia. In effetti Bucco era stato solo prigioniero degli Inglesi in Egitto durante la guerra. L’accusa era infamante e molti componenti dell’Esecutivo rimasero increduli ma De Martino che allora era segretario della federazione di Napoli, intervenne con decisione a sostegno delle accuse dei comunisti. Io quel giorno non ero presente in esecutivo ma appena fui informato mi recai da De Martino che mi era amico, per esporgli tutti i miei dubbi. Lo trovai irremovibile e mi fece osservare che chiunque avesse avanzato delle obiezioni si sarebbe preso la responsabilità di indebolire il fronte della sinistra nell’aspra lotta in corso. Io con poco coraggio ma dominato dalla logica leninista non insistetti e l’espulsione di Bucco divenne definitiva. L’Italia per sua fortuna non era tra quelli che allora erano definiti “paesi del socialismo” ovvero dell’area sovietica, altrimenti la sua sorte sarebbe stata ben più triste.
L’altro episodio che vorrei ricordare e del quale io fui testimone avvenne tutto all’interno del PSI morandiano qualche anno più tardi; Luigi Ladaga, mio amico di vecchia data, intelligenza brillante e paradossale. Era laureato in medicina ma non aveva neppure iniziato la professione per abbracciare la vita di funzionario di partito. Era stato da tempo visto con sospetto dal gruppo morandiano perché ai tempi della segreteria Jacometti, come responsabile del movimento giovanile e componente di diritto della direzione del partito, pur appartenendo alla sinistra del partito, era stato affascinato dall’intelligenza di Riccardo Lombardi e non aveva esercitato, come noi chiedevamo, la funzione di deciso oppositore della maggioranza “centrista”. Era il periodo dello scisma jugoslavo e noi, seguendo i comunisti, eravamo schierati contro il “boia Tito” e la sua “banda” che insieme a lui comprendeva gli eroi della guerra partigiana Kardelj e Rankovitch, responsabili della rottura con il PCUS e quindi con l’Unione Sovietica.
Io stesso concorsi a far espellere dal partito Emanuele Tortoreto dirigente milanese, reo di aver accettato l’invito della titina Lega dei Comunisti per un viaggio in Jugoslavia. E successivamente ero quasi riuscito a far prendere provvedimenti contro Vincenzo Balzamo, allora modesto corrispondente dell’«Avanti!» da Napoli che io ritenevo legato al gruppo massimalista di Bandiera Rossa. Povero Balzamo! Se avessi interrotto la sua carriera politica forse non sarebbe morto di crepacuore quando, deputato e amministratore del PSI di Craxi si rese conto che il turbine di “tangentopoli” che allora si scatenava, lo avrebbe travolto.
Ma, per tornare alle vicende dello stalinismo socialista e di Ladaga, Dario Valori che gli era succeduto alla direzione del movimento giovanile mi chiamò dicendomi trattarsi di questione importante e riservata. Mi disse «Sandro abbiamo le prove che Ladaga è responsabile di un traffico d’armi per Tito: occorre provvedere immediatamente». Io rimasi incredulo e, uscito dalla direzione, nei pressi di piazza S. Silvestro incontrai Francesco Cacciatore, autorevole componente della segreteria del partito ed uno dei più stretti collaboratori di Morandi che informai della questione che non ancora conosceva e delle mie perplessità. Cacciatore era deputato di Salerno (lo stesso di Giorgio Amendola, dirigente togliattiano) ma soprattutto persona profondamente onesta la cui prematura scomparsa segnò l’inizio del declino del PSI a Salerno come forza politica di rinnovamento soprattutto dopo l’ingresso, provenienti dai socialdemocratici, di personaggi poco raccomandabili. Cacciatore si disse d’accordo con me che ritenevo la storia incredibile e mi disse che ne avrebbe parlato con Nenni. Quando dopo qualche giorno lo rividi era molto imbarazzato e capii che i suoi sforzi non avevano avuto successo; mi spiegò che, una volta che Ladaga era sospettato di fatti così gravi, era meglio che lasciasse la direzione del partito. Infatti la linea più dura non prevalse ma Ladaga fu esiliato nella lontana federazione di Taranto.
Nonostante episodi come quelli a cui si è appena accennato e che testimoniavano un clima di sospetto da fortezza assediata, si sviluppava il lavoro di riorganizzazione del partito perseguito a prezzo di sacrifici e di costante impegno. Io stesso dopo un incontro con Morandi che mi mandò per una ispezione del partito in Toscana dicendomi di tralasciare Firenze «perché ci sono Mariotti e Pieraccini» che non erano evidentemente politicamente affidabili, incontrai il segretario amministrativo del partito Lami che era amico di Mattei, il grande presidente dell’ENI, che gli dava qualche modesto aiuto in denaro per il PSI, mi disse «cerca di viaggiare in terza classe perché di soldi ne abbiamo molto pochi». Il viaggio in Toscana fu interessante e mi dette l’impressione di un partito vitale e combattivo; ad Arezzo insieme a dei funzionari che facevano letteralmente una vita di stenti, incontrai un giovane avvocato, Mauro Ferri che doveva in seguito diventare anche segretario del partito.


6. E l’intenso lavoro del gruppo morandiano per la ricostituzione di una reale forza politica socialista non doveva rimanere infruttuoso. Se ne accorsero, non senza preoccupazione i comunisti, quando, senza soldi e con una struttura organizzativa limitata, il PSI alle elezioni raggiunse quasi il 14% dei voti. Ed in effetti il PSI era ormai troppo grande per rinunciare a delle iniziative autonome dopo gli anni di acritica adesione alle iniziative politiche del PCI. In quegli anni Gaetano Arfè ed io ci vedevamo spesso infatti entrambi ci trovavamo a Firenze per ragioni di lavoro. Arfè si sforzava in sede storica di mettere in luce la tradizione socialista in un ambiente culturale di sinistra avverso a tutta la tradizione socialdemocratica europea compreso quella italiana di Turati, di Treves e di Modigliani incompatibile col mito leninista e stalinista e che perciò andava combattuta e, nel migliore dei casi, ignorata. È interessante che molti anni dopo col naufragio del PSI di Craxi la scena si è ripetuta con molti giornalisti che facevano a gara per gettare fango non solo su Craxi ma su tutta la tradizione socialista salvo poi a cambiare completamente il proprio giudizio quando gli ex comunisti divennero tardivi fautori della socialdemocrazia.
L’occasione di una iniziativa politica che si distingueva da quella dei comunisti fu il congresso di Torino del PSI quando Morandi che lo aveva preparato anche con non smentiti incontri con alcune gerarchie cattoliche, in particolare con i Gesuiti, fece approvare la linea dell’“apertura ai cattolici” che si contrapponeva all’immobilismo del PCI. Per la prima volta dopo il 1947 un esponente della odiata DC, Guido Gonella, partecipò al congresso dando il segno di una situazione in movimento. In quel periodo si cominciava a riflettere sul significato del leninismo-stalinismo e sulle conseguenze politiche di un suo abbandono. Ne parlai con De Martino che mi sembrò convinto ma, come era nel suo carattere, consigliò prudenza. Io sostenevo infatti che, venuta meno la concezione leninista del partito e la prassi stalinista che ne era stata la più importante conseguenza, occorreva senza indugio pensare a nuove regole e nuovi comportamenti di militanti e dirigenti socialisti.
I mutamenti della situazione politica facevano prevedere non lontano il momento di un’intesa tra socialisti e cattolici anche se il percorso appariva accidentato e caratterizzato da positivi sviluppi e da improvvisi regressi come avvenne quando presidente del consiglio era Tambroni il quale, con il sostegno di Gronchi, allora presidente delle repubblica che era stato salutato dalle sinistre come uomo del progresso, cercò di dare una svolta in senso autoritario alla politica italiana. Il tentativo fallì e subentrò il governo Moro delle “convergenze parallele”, formula che voleva significare che per vie diverse cattolici e socialisti potevano percorrere una strada comune che avrebbe portato ad una intesa e ad una collaborazione. Ed anche tra i socialisti non mancavano coloro che ritenevano auspicabile favorire il passaggio ad un nuovo ciclo storico fondato sull’intesa, pur rimanendo ampie aree di dissenso, tra socialisti e cattolici. In questo quadro va vista l’inchiesta sul PSI di Galasso e Ciranna sulla rivista «Nord e Sud» che esplorava con acute osservazioni un mondo ai più sconosciuto. Io che appartenevo alla corrente dei rinnovatori, scambiavo lettere con Venerio Cattani anche lui ex morandiano che nella direzione del partito apparteneva al gruppo che si schierava per accelerare il riavvicinamento alla DC. Il giudizio critico sul PCI non si accompagnava però a quello sul PCUS nel quale si riteneva fossero presenti posizioni critiche nei confronti dei comunisti italiani. Ma altrettanto importante era la convinzione che dal 1954 si andava facendo strada e cioè che il “patto di unità d’azione” dovesse essere abbandonato in quanto rappresentava la subordinazione dei socialisti al PCI De Martino con il quale mantenevo stretti rapporti che erano diventati di amicizia e che scherzosamente mi definiva «socialdemocratico di destra» quando per i comunisti “socialdemocratico” era un insulto, pur non sottovalutando la necessità di un riavvicinamento ai cattolici – mi ricordava la stima che aveva per il suo allievo Casavola, cattolico militante e futuro presidente della Corte Costituzionale – dava importanza a quella che definiva «unità della classe operaia» da cui derivava il rapporto col PCI.


7. Il XX Congresso del PCUS nel febbraio 1956 e la denuncia delle colpe di Stalin e del suo dominio su tutto il movimento comunista, provocarono un vero sconvolgimento nella sinistra di tutto il mondo ma in particolare nei “partiti fratelli” cioè quelli del blocco sovietico e nei grandi partiti dell’Occidente. In questi partiti il “culto della personalità” legato alla grande e terribile figura di Stalin si trasferiva ai meno autorevoli capi dei “partiti fratelli” che erano tutte creature del dittatore sia di quelli dei Paesi del “patto di Varsavia” che dovevano il loro potere alla presenza dell’esercito sovietico, sia dei grandi partiti dell’Europa occidentale e cioè il partito comunista francese e il partito comunista italiano Thorez e Togliatti che ne erano i capi temettero che il loro potere assoluto che non ammetteva discussioni fosse messo in dubbio. Di qui la freddezza con la quale furono accolte nei partiti del blocco comunista le decisioni del XX congresso e più ancora il “rapporto segreto” sulle nefandezze di Stalin che Kruscev mise in circolazione e che irritò in particolare i comunisti italiani che temettero a ragione che dal culto del “Capo amato della classe operaia” si passasse alla critica del “centralismo democratico” e dei modi di gestione del partito3. Giulio Seniga, che era il segretario di Secchia racconta che quest’ultimo incontrò a Mosca Kruscev che gli dette copia del famoso “rapporto segreto” perché se ne servisse in Italia. Secchia lo consegnò a Togliatti che, molto infastidito, non esitò a distruggerlo. Ebbe inizio il periodo della “destalinizzazione” durante il quale, fino allo sciagurato intervento anglofrancese in Egitto, anche in URSS cominciò a circolare un’aria di libertà4. La denuncia del “culto della personalità” inevitabilmente si trasferì ai satrapi dei “partiti fratelli” e giù fino ai capi delle organizzazioni locali. Si mettevano in discussione gli atteggiamenti frutto di una mentalità di fortezza assediata, in una atmosfera plumbea soprattutto nel PCI nella quale non era consentito anche il minimo dissenso mentre prevaleva uno spirito di intolleranza nei confronti di chiunque fosse o fosse stato in disaccordo con la linea politica del partito. Quando Amadeo Bordiga, uno dei fondatori del PCI e poi uscito dal partito, che non svolgeva da tempo attività politica e si guadagnava da vivere esercitando a Napoli la professione di ingegnere, si recò al porto solo per assistere allo sbarco dei resti dei partigiani italiani che avevano combattuto a fianco di Tito, fu cacciato via in malo modo: non poteva neppure essere presente!
Nella Federazione napoletana del PCI si era andata rafforzando la gestione personale e l’autorità indiscussa del segretario, Salvatore Cacciapuoti ma il clima creatosi dopo il XX congresso faceva emergere giudizi e critiche che fino ad allora erano stati tenuti nascosti. Cacciapuoti era accusato di atteggiamenti intolleranti e dittatoriali e delle umiliazioni inflitte a coloro, uomini e donne che lavoravano nel PCI. Renzo Lapiccirella e Renato Caccioppoli, noto matematico, erano tra i critici più decisi i quali ritenevano che ormai dopo il XX Congresso la politica di aperta denuncia del “culto della personalità” si dovesse attuare anche in Italia ed in particolare a Napoli. ma si scontrarono con la maggioranza dei dirigenti che accettavano solo una politica di cauti cambiamenti che poi voleva dire lasciare la sostanza immutata. Infatti il PCI non intraprese una politica di rinnovamento che, pur tra mille contraddizioni, il Pcus portava avanti consentendo una libertà di espressione fin allora inimmaginabile
La convinzione che gli spazi di libertà nel PCI, dopo le illusioni fatte nascere dal XX Congresso fossero ormai scomparsi fu una delle ragioni del suicidio di Renato Caccioppoli. Lo incontrai al Vomero il quartiere collinare di Napoli nei pressi della Funicolare di Chiaia, e esponendomi la sua amarezza per il mancato rinnovamento del PCI concluse dicendo «non mi rimane che il colpo alla nuca». Pensai si trattasse di una delle uscite paradossali che doperava.
Invece era la manifestazione di una volontà disperata che dopo pochi giorni doveva mettere in atto.
Nel PSI che era stato il maggior alleato dei comunisti, già si cominciavano a manifestare delle divergenze tra coloro che accettavano con entusiasmo le esigenze di rapido cambiamento derivanti dal XX Congresso e chi temeva l’allentamento dei rapporti unitari con i comunisti che si erano consolidati nella CGIL, nelle cooperative e nel movimento dei “partigiani della pace”. Sin dal 1954 in occasione della presentazione del “Piano Vanoni” che riprendeva molte delle proposte di Rodolfo Morandi al Convegno Economico Socialista del 1947 emersero valutazioni molto diverse anche se non ancora contrapposte.
Fu in questo periodo che quando la segreteria mi offerse di rappresentare il PSI nella Federazione Mondiale della gioventù democratica FMGD, un’organizzazione dominata dai comunisti sovietici con sede a Budapest, strumento della politica dei “fronti popolari” io accettai deludendo gli amici della corrente di rinnovamento ai quali ero legato, ma interessato a seguire da vicino le trasformazioni che si prevedevano nei Paesi dell’Europa Orientale dopo la crisi in Polonia e l’insediamento di Gomulka. Mi trasferii così a Budapest con ufficio a Benczur Utca vicino a Piazza degli Eroi dove ancora troneggiava una grande statua di Stalin che il gruppo dirigente del partito comunista non aveva ritenuto opportuno di rimuovere. Il gruppo dirigente del partito, dominato da Rakosi, comprendeva tutte personalità che avevano vissuto per lunghi anni in Unione Sovietica da Geroe a Farkas capo della polizia segreta, l’odiata AVH, e si può ben immaginare con quale entusiasmo si trovassero ad attuare la politica di destalinizzazione. Io, tenendo conto che la FMGD era un covo di stalinisti dove era perfino difficile parlare del XX Congresso del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, tanto più settari quanto appartenevano a minuscoli partiti comunisti dell’Occidente, cercai di prendere contatto con gli ambienti che si battevano per riformare il sistema dando attuazione alle decisioni del XX congresso. Fu così che incontrai all’università un gruppo di professori e studenti, tutti animati dall’odio per la dirigenza comunista e la volontà di sostenere la politica del cambiamento. Anche al Circolo Petöfi e all’Unione degli scrittori, potetti constatare che circolavano le stesse idee. Il noto scrittore Gyula Hay per primo si espose con una serrata critica alla politica del gruppo dirigente e alla sua freddezza che nascondeva l’ostilità per le decisioni del XX Congresso. In una mia fugace visita in Italia ne parlai con Nenni facendogli presente che si trattava di un segno della tensione che aumentava tra i cittadini e il gruppo dirigente “moscovita” che, come era avvenuto in Polonia, poteva provocare una crisi. Mi ascoltò senza grande attenzione, probabilmente più preoccupato come era delle conseguenze del suo incontro con Saragat a Pralognan, una località delle Alpi francesi, che aveva provocato reazioni contrapposte, per la prima volta dopo la scissione di Palazzo Barberini, tra due gruppi all’interno del PSI i riformatori che si auguravano un riavvicinamento tra socialisti e socialdemocratici e quelli che volevano mantenere immutati i rapporti di collaborazione con i comunisti. Ma si sbagliava a non prendere apertamente posizione su quanto stava avvenendo in Ungheria sottovalutando i rischi di una situazione che poteva sfuggire di mano.
Quando tornai a Budapest tutta la città era coperta da drappi neri alle finestre e ai balconi delle case in occasione della riabilitazione di Lászlo Rajk, un dirigente comunista ungherese condannato a morte dal gruppo dei “moscoviti” che lo avevano accusato di intesa con Tito. Era il segnale di una protesta popolare che non poteva tardare a acquistare momento. Infatti il 23 ottobre tornando a casa mi imbattetti in una manifestazione di migliaia di studenti che protestavano contro Rakosi, capo dell’odiato partito comunista. Era l’inizio dell’insurrezione alla quale subito concorsero gli operai di Csepel, una piccola isola sul Danubio vicino a Budapest che, secondo i canoni marxisti, avrebbero dovuto essere i primi sostenitori del regime comunista. La polizia segreta, la AVH dell’odiato Farkas reagì uccidendo numerosi manifestanti e da allora si scatenò anche l’odio popolare per il regime, le sue istituzioni e i suoi alleati, in primo luogo l’URSS; le librerie sovietiche vennero devastate e i libri sparsi in mezzo alla strada. Ma a sostegno della polizia intervenne l’esercito sovietico nel quadro del patto di Varsavia. Durante la notte sentii sferragliare dei carri armati che passavano per la piazza Mórics Szigmond dove abitavo con mia moglie. Dopo qualche giorno dovemmo rifugiarci insieme a tutti gli abitanti dello stabile negli scantinati per ripararci dalle cannonate dei carri armati.
Ricordavo gli anni della guerra a Napoli quando mia madre, maledicendo Mussolini, ci portava nel ricovero cioè nello scantinato della casa dove abitavamo. Dopo poco alcuni insorti ci pregarono di lasciare la nostra abitazione perché dovevano collocare delle mitragliatrici. E così riparammo nell’albergo Gellert che era famoso per le riunioni del Patto di Varsavia ma che non si poteva dire attrezzato come un albergo di lusso come in passato era stato; tuttavia si trovava a Buda nella parte della città sulla sinistra del Danubio dove abitavamo perché i ponti erano bloccati dai carri armati e non si poteva transitare neppure a piedi.
Seguì un periodo di relativa calma: la dirigenza sovietica era in attesa degli eventi e in particolare delle decisioni anglo-francesi di intervento militare in Egitto; ne approfittai per andare – a piedi – alla sede improvvisata del partito socialdemocratico a Vaci Utca dove trovai una grande confusione, segno del clima che regnava nel Paese. Era come se improvvisamente un coperchio fosse saltato da una pentola in ebollizione e tutto si fosse messo in movimento in tutte le direzioni. Si può bene immaginare quanto fosse difficile per Imre Nagy, che alla fine – ma ahimè troppo tardi – aveva sostituito Rakosi, governare in una situazione simile. Io volevo portare ai socialdemocratici ungheresi la solidarietà dei socialisti italiani. A Vaci Utca si trovava la sede provvisoria dei vecchi partiti. Gruppi e gruppetti, persone che si richiamavano alle formazioni politiche sciolte dai comunisti, circoli religiosi ed altri pubblicavano volantini, organizzavano riunioni. C’era una grande folla vociante ed era difficile trovare qualcuno che parlasse inglese o francese. Alla fine riuscii a parlare con dei dirigenti che mi trattarono con diffidenza in quanto ancora il PSI di Nenni era considerato l’alleato dei comunisti. Mi dissero che Anna Ketly, ministro degli esteri, che era più informata sui socialisti italiani, era andata negli Stati Uniti per chiedere un impossibile aiuto e per esporre la proposta concreta, ma irrealizzabile di dichiarare la neutralità dell’Ungheria che significava uscire dal patto di Varsavia creando una fascia di paesi neutrali che avrebbe compreso la Svizzera e l’Austria.
In un momento di relativa calma, quando a Mosca evidentemente regnava ancora l’incertezza sul da farsi, mi recai con mia moglie al centro della città nei luoghi di Pest dove aveva infuriato la battaglia; i ponti erano sempre bloccati dai carri armati, ma si poteva passare a piedi. La scena che si presentava di fronte ai nostri occhi era impressionante: dappertutto erano i segni dell’insurrezione i fiori e le croci nei luoghi dove avevano combattuto ed erano morti gli insorti, le pietre divelte dalla pavimentazione stradale, le librerie governative e sovietiche devastate e distrutte. Le chiese erano stracolme e si manifestava un fervore religioso che era auspicio di una meno triste esistenza. La sede della FMGD era sbarrata e a piazza degli Eroi la statua di Stalin era stata distrutta; sul piedistallo rimanevano solo gli stivali del dittatore.
Erano intanto arrivati giornalisti da tutto il mondo e tra gli italiani Montanelli e Fossati dell’«Avanti!» (che poi scrisse un breve libro Qui Budapest) che io però non incontrai perché facevano riferimento all’ambasciata italiana dove poi rimasero bloccati, prima di essere espulsi, nel corso del secondo intervento delle truppe del Patto di Varsavia.
L’inizio del disastroso intervento militare anglo-francese in Egitto mi convinse che le cose volgevano per il peggio. In Ungheria le richieste sempre più radicali dei gruppi di insorti i quali non si rendevano conto che le sorti del governo Nagy erano appese ad un filo ed erano compromesse dalle loro pretese sempre più radicali, dall’altra le minacciose dichiarazioni dei dirigenti sovietici i quali di fronte all’intervento militare anglo-francese in Egitto minacciavano ritorsioni, mi convinsero che le speranze di una pacifica soluzione delle crisi erano sfumate.
Nel turbine degli eventi maturava in me un senso di rivolta morale per il modo col quale i regimi comunisti gestivano il potere: l’avere constatato di persona la brutalità della repressione di fronte a richieste che quando iniziò l’insurrezione apparivano pienamente giustificate e l’apprendere delle infamie perpetrate dal regime di Rakosi con l’impiego della polizia segreta, suscitavano in me l’odio per tutti i regimi instaurati dai comunisti e il rifiuto di giustificarne il comportamento. Così la critica alla doppiezza e all’ambiguità dei comunisti italiani che noi socialisti contrapponevamo alla destalinizzazione e al “disgelo” di Kruscev che ci sembrava aprire la strada ad una evoluzione più umana e democratica del comunismo e sulla base della quale avevo deciso la mia presenza a Budapest nella fase della destalinizzazione, si trasformava nella condanna di tutto il mondo sovietico e dei suoi metodi.
Quando dalla FMGD mi comunicarono che era pronto il trasferimento con un battello fluviale a Bratislava io rifiutai nettamente contando di rientrare in Italia appena possibile. Mia moglie si recò all’ambasciata inglese dove per fortuna incontrò una sua amica Ella Munroe che era l’assistente dell’ambasciatore e che le disse che erano informati che nel giro di poche ore le truppe del Patto di Varsavia avrebbero ripreso l’offensiva e ci offrì di uscire subito dall’Ungheria con un camion che trasportava alcuni ungheresi-inglesi: accettammo prima che le frontiere venissero chiuse e che tutti i giornalisti fossero obbligati a rimanere nelle rispettive ambasciate, prima di essere espulsi.
Tornato a Roma Nenni mi ricevette immediatamente e questa volta mi ascoltò con grande attenzione gli raccontai quello che avevo visto e ne fu grandemente impressionato. Era presente Pertini che, quando dissi che anche gli operai avevano combattuto esclamò «non ci credo». Stavo per rispondergli quando Nenni, in maniera molto più brusca di quanto avrei detto, lo zittì. Intanto Tullio Vecchietti che doveva poi diventare il capo della sinistra del PSI nonostante fosse già in disaccordo con Nenni, fece pubblicare in prima pagina sull’«Avanti!», di cui era il direttore, una mia intervista sui fatti di Budapest nella quale denunciavo la responsabilità dei Sovietici. Si può bene immaginare la reazione dei comunisti italiani nel momento in cui lo stesso Togliatti intitolava un suo articolo sui tentativi di Imre Nagy: La voce del nemico.
Intanto a conferma dei dubbi che ancora regnavano nel PSI, quando telefonai a De Martino che si trovava a Napoli mi disse che i compagni erano rimasti molto turbati dalla mia intervista e capii che anche lui si preoccupava in primo luogo della traumatica rottura con i comunisti. A riprova della confusione nel PSI mi venne offerta una occupazione nella CGIL dove avrei dovuto lavorare accanto ai comunisti. Rifiutai nettamente e me ne tornai a Napoli dove scrissi un articolo per «Il Ponte» la rivista di Calamandrei5 nel quale descrivevo l’evolversi della situazione dal periodo della “democrazia popolare” dell’immediato dopoguerra fino alla crisi del 1956 della quale ero stato testimone.
Intanto la polemica tra chi appoggiava l’insurrezione, cioè tutti gli organi di stampa e i partiti, eccettuati i comunisti, e questi ultimi che – isolati nella pubblica opinione internazionale – parlavano di “controrivoluzione” aggrappandosi ad alcuni gravi episodi di violenza contro la polizia segreta che avevano caratterizzato l’insurrezione.
La posizione del PSI era singolare avendo per anni collaborato con i comunisti in Parlamento, nella CGIL e nelle istituzioni del frontismo. A Napoli parlai ad una assemblea affollatissima e attenta che mi considerava – ed aveva ragione – proveniente da un altro mondo. Antonio Lombardi, uno dei migliori sindacalisti socialisti di grandissima onestà intellettuale mi confessava dopo anni «non avevo creduto alle cose di cui parlavi». Nel partito ero completamente isolato e l’unico punto di riferimento era Nenni e quei pochi che individualmente prendevano posizione a favore dell’insurrezione ungherese tra i quali il mio amico Venerio Cattani col quale ci scambiavamo delle lettere. Anche nel PCI la crisi aveva provocato dubbi e lacerazioni; Furio Diaz e Antonio Giolitti uscirono dal partito mentre anche nella CGIL vi era chi non accettava la violenta repressione degli operai ungheresi. Per i comunisti convinti delle tesi sovietiche la crisi ungherese fu un trauma che li portò su posizioni ancor più rigide e settarie di piena giustificazione degli orrori perpetrati su direttiva del PCUS. Perfino la proditoria deportazione in Romania e poi l’uccisione, dopo un processo farsa di Imre Nagy, del generale Maleter e di altri fu presentata come un doveroso atto contro i nemici di classe.
Ci si avviò al congresso del PSI che si doveva svolgere a Venezia e, dopo molti anni, il partito si presentava diviso sulla vitale questione del giudizio in merito ai “fatti di Ungheria” – come si diceva allora – cioè sulla stessa collocazione internazionale dei socialisti italiani ed andava dalle posizioni dei più decisi seguaci di Nenni, e della sua ormai aperta denuncia delle colpe e dei crimini del regime sovietico, i quali volevano la definitiva rottura dei rapporti coi comunisti, fino ai fautori dell’“unità di classe” che dovevano poi costituire la corrente di sinistra e alla fine alla scissione del PSIUP che nella struttura del partito erano indubbiamente molto forti Io naturalmente mi trovavo con i primi e andai in giro per l’Italia a tenere conferenze sulla crisi ungherese. Luciano Paolicchi a Pisa e Venerio Cattani a Ferrara, tra i più convinti seguaci di Nenni organizzarono delle riunioni di partito nelle quali io esposi le mie idee sui fatti di Ungheria e le conclusioni alle quali giungevo.
Il congresso di Venezia suscitò una grande attenzione nell’opinione pubblica italiana e dell’Europa Occidentale. Le posizioni di Nenni di aperta rottura con i comunisti rappresentavano un forte cambiamento della collocazione internazionale del PSI, uno dei maggiori partiti socialisti europei ed un riavvicinamento ai partiti socialisti dell’Occidente.
Io per le posizioni anticomuniste che avevo preso in un partito dove ancora era forte il mito dell’“unità di classe”, non fui scelto tra i delegati al congresso e dovette intervenire la direzione del partito che mi nominò nella segreteria del congresso dandomi, tranne l’eventuale esercizio del voto, tutti i diritti dei delegati ed in più il compito di seguire le delegazioni estere. Infatti erano presenti delegazioni dei principali partiti socialisti. Conoscendo bene l’inglese mi dedicai alla delegazione del Labour Party discutendo a lungo con David Crossman, l’autorevole esponente della sinistra laburista.
La relazione di Nenni fu impostata sugli avvenimenti di Ungheria e sulla ferma condanna della dirigenza sovietica e dei regimi imposti in Europa Centrale e Orientale. «A Budapest tutti sapevano e nessuno parlava» disse riferendosi alle infamie del regime comunista e le sue parole furono seguite da una grandissima ovazione di tutto il Congresso: era la definitiva liberazione dalla tutela del comunismo e del togliattismo che durava dal 1948. Forse ciò dipese dal fatto che i socialisti si rendevano conto di essere chiamati a svolgere un ruolo importante in un momento che nella storia di un Paese rappresentano un punto di svolta. E Nenni seppe cogliere i sentimenti di larga parte della sinistra non comunista e, come scriveva Pareto, ebbe la capacità di suscitare delle forti emozioni che sono quelle che dominano i punti nodali della politica.
Ma, come avvenne in altre congiunture storiche, i socialisti non si mostrarono all’altezza dei doveri che la situazione imponeva. Nenni, straordinario oratore non aveva alcuna capacità di organizzatore e forte dell’indiscutibile prestigio acquistato al congresso, invece di prendere tutte le misure per consolidare la sua posizione e quella del nuovo assetto che si imponeva al partito affidò il compito dell’elezione del Comitato Centrale ad un vecchio socialista l’onorevole Matteucci del tutto inadatto per energia e per competenza a un compito così vitale. Si votò su un’unica lista aperta – cioè senza mozioni che si ricollegassero alle posizioni di Nenni. Il risultato fu disastroso: mentre tutti i giornalisti e le delegazioni straniere davano per certa la prevalenza della linea anticomunista, ottennero maggiori consensi gli esponenti della sinistra che si opponeva al riavvicinamento alle socialdemocrazie europee e coloro che non si erano apertamente schierati. Vittorio Foa, un ex azionista, ricevette più voti di Nenni con un discorso demagogico e privo di ogni accenno alle scelte che si imponevano. Molti “nenniani” – ed io tra questi – non furono eletti nel comitato centrale mentre prevalsero quelli che noi scherzosamente chiamavamo “carristi” cioè non ostili all’intervento sovietico in Ungheria.
Il contraccolpo fu enorme i rappresentanti laburisti e degli altri partiti socialdemocratici che erano convinti che Nenni dominasse il partito, rimasero sconcertati e si rafforzò in loro il convincimento della inaffidabilità degli Italiani. La Democrazia Cristiana che, pur senza ammetterlo esplicitamente, era preoccupata per la nascita, anzi la rinascita, di un grande partito socialista che, come negli altri Paesi occidentali, potesse costituire una alternativa democratica ai partiti al governo, trasse un sospiro di sollievo: lo status quo ante non si modificava.
Si aprì un periodo politico di incertezza, la maggioranza congressuale di “carristi” non poteva ignorare la forza dei seguaci di Nenni e la polemica della sinistra non comunista ed – eccetto il PCI togliattiano – di tutta l’opinione pubblica italiana ed internazionale. Si dovette attendere il Congresso di Napoli – dopo due anni – perché gli “autonomisti” come si cominciava a chiamarli conquistassero la maggioranza nel PSI. Ma la grande occasione storica del Congresso di Venezia era passata e ci volle una lunga e tormentata fase politica perché negli anni Sessanta del XX secolo si giungesse ad un accordo tra socialisti e cattolici.













NOTE
1 Articoli di P. Nenni pubblicati nel numero speciale della collana del PSI – “L’attualità” XX Congresso del PCUS – e cioè Luci e ombre del Congresso di Mosca, I Processi di Mosca (del 1938) Il rapporto Krusciov e la polemica sul Comunismo e Primo bilancio della polemica sul XX Congresso di Mosca.^
2 G. Seniga, Togliatti e Stalin, Milano, Azione Comune, 1961.^
3 Cfr. S. Petriccione, Budapest e la svolta del 1956, in «Mondo Operaio», 2006, articolo scritto in occasione del cinquantenario della rivolta ungherese.^
4 S. Petriccione, La crisi del comunismo in Ungheria, in «Il Ponte», dicembre 1956.^
5 S. Petriccione, La crisi del comunismo in Ungheria, «Il Ponte», dicembre 1956.^
  Cosa ne pensi? Invia il tuo commento
 
Realizzazione a cura di: VinSoft di Coopyleft