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Il conservatorismo tra disposizione e ideologia
di Alessandro Della Casa
È stato pubblicato per la prima volta in Italia Conservatorismo: sogno e realtà (Soveria Mannelli, Rubbettino, 2012) di Robert Nisbet, a cura di Spartaco Pupo, autore di una interessante monografia sul sociologo statunitense (Robert Nisbet e il conservatorismo sociale, Milano-Udine, Mimesis, 2012). Il lavoro di Nisbet, scritto nel 1986, rappresentava il tentativo di effettuare una ricognizione ‘anatomica’ del moderno pensiero conservatore, esplorandone il «pre-politico» (R. Nisbet, Conservatorismo, cit., p. XXXVIII) e rinvenendo i princìpi in esso contenuti, allo scopo di organizzarli in un «corpus organico di idee morali, economiche, sociali e culturali» che potesse essere affermato nell’ambito della politica (op. cit., p. XXXV). L’aspirazione di Nisbet era, in effetti, quella di conferire al conservatorismo la ‘dignità’ di ideologia politica, rigettandone la definizione in chiave di mera inclinazione psicologica ad opporsi ai cambiamenti sociali, che potrebbe ritrovarsi nelle teorie di Michael Oakeshott e di Russell Kirk, e ponendolo sullo stesso piano del socialismo e del liberalismo.
La genesi del conservatorismo politico era da Nisbet classicamente indicata negli scritti di Edmund Burke, «il profeta» (op. cit., p. XI), e di Alexis de Tocqueville, nei pensatori tradizionalisti e nella loro critica alla Rivoluzione francese e ai princìpi razionalisti che l’avevano preceduta e su cui essa si era basata. Il pensatore su cui, viceversa, si concentrava la condanna nisbettiana è il Jean-Jacques Rousseau teorizzatore della volontà generale, una volontà disincarnata che mirava a superare ogni appartenenza particolare, sradicando la fedeltà individuale ai differenti gruppi tradizionali, che «subirono una vera e propria neutralizzazione» (op. cit., p. 12) al fine di abbattere le strutture sociali che avevano sorretto la società. La «modernità», figlia della Rivoluzione e dell’industrialismo, mostrava quindi la dialettica, accolta dal pensiero liberale classico, tra due attori soltanto: l’individuo e lo Stato. Il primo ridotto a un costrutto sociologico astratto, al contempo atomizzato e uniformato; il secondo trasformato in una nazionale «comunità assoluta» onnipervasiva e onnicompetente. «Da Rousseau a Lenin», affermava Nisbet, «è stata questa l’interpretazione collettivista della libertà» (op. cit., p. 62).
All’indagine dei fatti reali si era allora sostituita la formulazione delle teorie generali; l’«individualizzazione» si accompagnava alla «razionalizzazione di qualsiasi cosa» (op. cit., p. 14); il passato era giudicato «inutile» (op. cit., p. 23), dal momento che la storia era intesa come una lineare marcia trionfale del progresso.
Il modello che Nisbet contrapponeva e su cui fondava la «dogmatica del conservatorismo» era quello tratto dalla società «feudale-medievale» (op. cit., p. 26), articolata in comunità molteplici – «la chiesa, la famiglia, la corporazione e la classe sociale» (op. cit., p. 27) –, capaci di resistere alle «pressioni politiche ed economiche della modernità» (op. cit., p. 46) e quindi di mantenere intatto il pluralismo, essendo inscritte in un sistema statuale non assoluto, ma strutturato, secondo la definizione tomista, come una communitas communitatum. Per tale aspetto il pensiero di Nisbet, come nota Pupo (p. XII), se già con The Quest for Community (1953) aveva anticipato alcune delle tematiche sviluppate in seguito dal Communitarian Network, si manteneva comunque irriducibile alla visione di Charles Taylor, Robert Bellah e Amitai Etzioni, non concedendo, differentemente da essi, una visione organica ed integrale della comunità statale.
Alla dicotomia sociale tra individuo e Stato, Nisbet opponeva piuttosto, con un’argomentazione dichiaratamente tocquevilliana, la necessità di operare il decentramento amministrativo restituendo spazio ai corpi intermedi (op. cit., pp. 52-53), che già agli occhi del pensatore francese erano sembrati i principali argini al dispotismo delle masse e dello Stato democratico e, di conseguenza, al livellamento sociale e alla riduzione della diversità culturale. Lo Stato moderno, aveva intuito Tocqueville, possedeva la capacità di esercitare sull’individuo un potere non concesso allo Stato dell’Antico Regime. Sempre a Tocqueville, ma anche a Benjamin Constant, si deve ancora guardare per ritrovare i primi riferimenti, condivisi da Nisbet, sul rischio di una degenerazione tirannica favorita dall’individualismo totalizzante ed egoista e dalla disattenzione nei confronti della società.
All’inutilità della storia proclamata dai rivoluzionari e dai razionalisti Nisbet rispondeva poi con l’esaltazione del suo valore di «esperienza». Se un contratto tra gli uomini sussiste, non è formulato astrattamente e non riguarda esclusivamente il presente. Esso è invece, come quello della visione burkeana, vincolante per «i vivi, i morti e coloro non ancora nati». La storia per i conservatori si esprime infatti nella «persistenza di strutture, comunità e abitudini, segnando il destino di generazioni e generazioni di uomini». Il metodo storico più conseguente non era allora individuato nell’indagine del passato, ma nello «studio del presente con l’obiettivo di farne emergere il contenuto, ossia l’infinità dei modi di comportamento e di pensiero che non può essere compresa pienamente se non attraverso il riconoscimento del suo ancoraggio nel passato» (op. cit., pp. 30-31). L’accenno a Oakeshott che Nisbet fa seguire a quest’ultimo passaggio pare suggerire una sostanziale adesione all’interpretazione, data dal filosofo britannico in Political education (1951), della politica come «perseguimento delle indicazioni» di una tradizione di comportamento.
Sono quindi i valori che emergono concretamente dalla storia di un popolo, e il modus vivendi che ne deriva, a rappresentarne la costituzione reale, non i diritti attribuiti all’uomo in quanto tale che, come Nisbet rilevava sulla scorta di Joseph de Maistre, in realtà non esiste (op. cit., p. 35), essendo l’identità di ciascuno sviluppata all’interno di una tradizione culturale e storica, che esprime e delimita un orizzonte valoriale.
Da ciò, scriveva Nisbet, non doveva discendere l’avversione per il cambiamento, ma per lo «spirito d’innovazione», per la «“superstizione” progressista» (op. cit., p. 112), ossia per la tensione al cambiamento in sé, che priva gli uomini della necessaria e rassicurante continuità del legame con le generazioni che lo hanno preceduto (op. cit., pp. 35-36).
Conservatorismo usciva negli Stati Uniti di Ronald Reagan, «il primo presidente della storia americana a dichiararsi fieramente conservatore» (op. cit., p. 123), allora al suo secondo mandato. E quegli anni, come Nisbet notava, segnavano, almeno parzialmente, il «trionfo» (op. cit., p. 133) del variegato movimento che aveva mosso i primi passi negli anni ’50, con le opere di Friedrich von Hayek – che invero negava la sua appartenenza al movimento –, di Eric Voeglin e di Kirk, ed era progressivamente uscito dalle università fino a raggiungere il «notevole traguardo» di rendere «popolari nel pensiero e negli scritti degli americani» parole quali conservatore e conservatorismo (op. cit., p. 123). Un processo similare, del resto, si era verificato anche in Gran Bretagna, durante i governi di Margaret Thatcher.
Tale coincidenza si presta ad un interessante confronto, utile a porre nuovamente l’attenzione sulla possibilità, affermata da Nisbet, di riconoscere il conservatorismo quale ‘ideologia’. Nel 1993, infatti, era data alle stampe la raccolta di John Gray, Beyond the New Right, contenente alcuni saggi scritti quando l’autore era ancora esponente del pensatoio della “New Right” inglese. Oggetto della critica di Gray era la tendenza dei teorici conservatori della fase thatcheriana, allora già tramontata, a dimenticare il carattere originariamente anti-ideologico della loro corrente. Al riconoscimento, tipicamente conservatore, del «carattere della vita politica come arte pratica di accomodamento reciproco» era stata preferita «l’applicazione di princìpi universali». «I politici della Nuova Destra perciò», continuava Gray, «hanno trascurato le basi storiche dell’appartenenza politica ad una storia condivisa e ad una cultura comune», che sola può mantenere stabile un’istituzione. (J. Gray, Beyond the New Right. Market, government and the common environment, London, Routledge, 1993, p. VIII).
Il risultato era stato quello di credere nella possibilità di estendere universalmente il sistema che si era creato in ambito anglosassone (op. cit., p. XIX). Così Gray, sulla base dell’insegnamento oakeshottiano e in nome della salvaguardia del pluralismo, riteneva che i conservatori dovessero abbandonare la «politica procusteana degli schemi utopici» (op. cit., p. 48). Il conservatorismo può bensì attuare una politica radicalmente riformatrice, ma tali «riforme dovrebbero essere nel solco del carattere nazionale e della tradizione» (op. cit., p. 49). Proprio per questo Gray rivendicava al conservatorismo il carattere di disposizione e rifiutava quello di ideologia.
Il ragionamento nisbettiano, in realtà, non appare particolarmente distante da quello del filosofo inglese. Lo stesso Nisbet effettivamente scriveva di ritenere «la più grande idiozia storica partorita dalla mentalità progressista del secolo Diciannovesimo» la «glorificazione della società occidentale come la migliore della storia umana» e come meta comune a «tutti i popoli della terra» (R. Nisbet, Conservatorismo, pp. 117-118). Il corollario dell’attenzione al pluralismo degli stili di vita e alle tradizioni culturali, come alle differenti comunità ed istituzioni che ne erano l’espressione, era un approccio inevitabilmente contestualista che difficilmente poteva coincidere con la pretesa di delineare una coerente e immutabile ideologia. Ad ulteriore dimostrazione di ciò stava anche la difesa burkeana, da Nisbet ricordata e condivisa, delle «origini» e della «storia» del popolo americano, indiano e irlandese «contro il “potere arbitrario” del governo britannico» (op. cit., p. 7): «la preoccupazione più volte ribadita da Burke nei suoi discorsi sui coloni americani e sui popoli dell’India e dell’Irlanda era proprio per la libertà degli esseri umani di vivere secondo i propri costumi e le proprie tradizioni» (op. cit., p. 45).
Il conservatorismo, perciò, anche nella lezione nisbettiana pare doversi riconoscere soprattutto in un metodo che consenta di orientarsi nelle scelte di fronte ai conflitti intraculturali tra i valori e che mantenga un approccio pluralista nei rapporti interculturali. Se l’annosa questione relativa alla possibilità di raggiungere una sintesi ideologica in chiave conservatrice più volte si è risolta con un esito negativo – basti pensare, tra gli altri, all’articolo di Samuel Huntinghton, Conservatism as Ideology (1957), e all’analisi storica di Anthony Quinton, The Politics of Imperfection (1976), entrambi piuttosto pessimisti in proposito –, non per questo il pensiero conservatore deve risultarne screditato e, anzi, potrebbe vantare una maggiore efficacia per via di quel realismo che sembrerebbe talvolta precluso alla corrente socialista e liberale, quest’ultimo almeno nelle sue varianti razionaliste e universaliste.
Nel momento attuale, da parte di alcuni, si indica nei tentativi di uniformazione sovranazionale in atto nel nostro continente l’intenzione di condannare persino le comunità nazionali – già oggetto del biasimo di Nisbet per il loro intento totalizzante – alla stessa neutralizzazione riservata alle comunità tradizionali nella visione rousseauviana e, al contempo, si ritiene che i disegni dei «sofisti, degli economisti e dei calcolatori» minaccino di estinguere, se non «la gloria d’Europa», le speranze di unità nella pluralità (in tal senso si veda la sferzante analisi di H.M. Enzensberger Il mostro buono di Bruxelles ovvero l’Europa sotto tutela, Torino, Einaudi, 2013). Seppure sotto sembianze meno raffinate rispetto a quelle che Nisbet aveva delineato nel 1953, si vede allora emergere una nuova “richiesta di comunità” e di appartenenza che, se potrà avere un merito, sarà forse quello di richiamare l’attenzione su una dimensione e una necessità della vita umana a lungo colpevolmente trascurate.
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