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Nuovo Presidente, nuovo governo
di G. G.
Dopo sessanta giorni all’incirca dalle elezioni di febbraio è stato formato il nuovo governo. Le particolarità di questo lungo e non del tutto necessario intervallo sono state parecchie. Una, però, risalta subito: la conclusione che si è avuta è la stessa che era stata preconizzata fin dal primo momento, e avrebbe potuto perciò essere fin dallo stesso primo momento messa in campo e varata.
Questa è la logica del buon senso che dovrebbe sempre far parte di ciò che ci si propone di fare e si fa in ogni momento della vita, magari per mandare a mare il buon senso, e prendere decisioni di altra ispirazione, indirizzo e valore. Non è, invece, la logica della vita e della storia. Nella fattispecie, è certamente giusto far gravare su Pierluigi Bersani il peso, se non esclusivo, certamente maggiore, del ritardo poi da tutti deprecato di una soluzione già così sotto gli occhi di tutti. Ingiusto sarebbe, però, rendere esclusiva questa responsabilità.
Bersani ricercò, come è noto, tenacemente un’intesa, quale che fosse, con il Movimento 5 Stelle che gli consentisse di varare il governo, della cui formazione aveva avuto incarico dal presidente Napolitano di esplorare la possibilità, perché a governo varato ed entrato nella pienezza dei suoi poteri e funzioni, si aveva ragione di ritenere che, come i 5 Stelle esplicitamente e ripetutamente proclamavano, sui singoli problemi del governo essi avrebbero potuto senz’altro, se rispondenti alle loro vedute, convenire. Nello stesso tempo gli stessi 5 Stelle adottavano verso il partito di Bersani un atteggiamento di esplicita e sprezzante condanna come elemento del sistema che essi si proponevano di scalzare e distruggere (si ricordi la definizione del Partito Democratico come “PD senza Elle”, per definire i democratici in tutto uguali al Popolo delle Libertà, PDL). Come si poteva conciliare un tale atteggiamento, spesso addirittura ingiurioso, con una qualsiasi prospettiva di collaborazione politica in materia di governo?
Bersani evitò sempre di affrontare questo problema. Diede, anzi, l’impressione di non porselo affatto. Egli si muoveva sulla linea di un completo rifiuto della cosiddette “larghe intese” per la formazione di un governo e della relativa maggioranza. Precluse in modo assoluto, incondizionato ogni prospettiva in tal senso. Rinnovò la condanna in toto del “ventennio berlusconiano”. Ripeté nei fatti se non nelle parole l’affermazione di Casini nella campagna elettorale, seconda la quale Berlusconi non stava nel problema italiano, era egli stesso da solo e tutto il problema italiano.
Tesi tutte discutibilissime. Il deprecato “ventennio” non fu per nulla soltanto berlusconiano. In venti anni ha governato Berlusconi per più o meno dieci anni, la sinistra per più o meno otto anni, e Monti, in ultimo, per il resto. Che Berlusconi abbia condizionato con la sua presenza tutto il ventennio è sostenibilissimo, ma altrettanto si può dire della sinistra e di chiunque altro di questo periodo, e comunque non può configurare una responsabilità esclusiva e totale (si dovrebbe ammettere altrimenti che gli altri, sinistra in testa, nel ventennio non siano stati capaci di combinare e fare alcunché). Che il caso Berlusconi sia un caso di non comune complicazione di elementi giudiziari e di interessi interferenti con un del tutto ordinario svolgimento della vita pubblica, lo possono negare solo Berlusconi e i suoi. I quali hanno, peraltro qualche ragione di negarlo, visto che negli anni della maggioranza di sinistra nulla è stato neppure tentato per ovviare a ciò, e visto che indubbiamente è piuttosto sorprendente che dal 1994 a oggi siano stati avviati contro Berlusconi una quarantina quasi di processi, dei quali oltre una trentina si è conclusa a suo favore (e qui non vale osservare che alcune volte è intervenuta una prescrizione, perché la prescrizione è un diritto del cittadino e una garanzia di tale diritto, e non è un atto di clemenza). Che valore aveva, considerato tutto questo, la condanna e il rifiuto di ogni rapporto politico con Berlusconi?
Quest’ultimo ha avuto un successo elettorale di notevole portata e rappresenta oggi una parte dell’elettorato del tutto analoga e pari a quella rappresentata dalla coalizione facente parte capo al partito di Bersani. Questo partito ha avuto un’ampia maggioranza alla Camera dei Deputati solo per una legge elettorale che ha fatto giocare a suo favore un premio conseguito con appena 24.000 voti in più (su oltre trenta milioni di votanti) rispetto al partito di Berlusconi. Perciò il presidente Napolitano ha poi parlato – del tutto a ragione e con la sua consueta e non facile franchezza – di una “sovrarappresentanza” del Partito Democratico. Bersani pretendeva inoltre non solo di stabilire alcuni punti programmatici di governo da accettare a scatola chiusa dagli altri partiti, ma anche che si governasse su un doppio binario: per l’attività di governo in senso stretto col criterio del “chi ci sta, ci sta”, e per le riforme istituzionali con un’ampia convergenza delle forze rappresentate in Parlamento. Binario, invero, peregrino, e poco accettabile dagli altri, perché significava non solo accettare il programma di governo di Bersani, ma anche di confondersi col suo partito nelle riforme istituzionali, e quindi in tal modo rafforzandolo.
Su queste basi avevano un tono davvero patetico i ripetuti appelli di Bersani agli altri partiti affinché consentissero la nascita del nuovo governo, poiché la formazione di un governo era un preciso interesse nazionale. Egli si trovò, peraltro, di fronte Berlusconi che fin dal primo momento dichiarò di accettare, sia pure formalmente bofonchiando, l’elezione tutta PD dei presidenti di Camera e Senato, ma aggiunse che si poteva anche accettare una designazione PD per la presidenza della Repubblica, e, ancora, una guida PD del nuovo governo, e ciò anche nella persona dello stesso Bersani, purché tale governo nascesse sulla base delle “larghe intese” da Bersani spregiate e rifiutate. Il che è stato quanto sessanta giorni dopo è puntualmente avvenuto, con Bersani sconfitto ed emarginato invece che, comunque, arrivato primo alle elezioni.
Inettitudine, errore o altra grave insufficienza politica di Bersani? Lo si può ammettere, ma solo in parte. Bersani si muoveva anche sulla linea di un antiberlusconismo viscerale, di un partito per il quale la distruzione politica di Berlusconi rappresenta il presupposto e la condizione esauriente di qualsiasi politica italiana che possa riuscire soddisfacente, e poco importa che questa distruzione avvenga per via giudiziaria o per qualsiasi altra via. Che poi, eliminato Berlusconi, i problemi italiani restino tali e quali; che nelle condizioni attuali del paese la responsabilità di altri, oltre che di Berlusconi, sia macroscopica ed evidente; che l’elettorato rappresentato da Berlusconi sia da lui aggregato sulla base di motivi che vanno ben oltre le sue posizioni e i suoi problemi personali; che sia grave il non capire questa parte del paese che in Berlusconi si riconosce non solo per volgari ragioni di pancia, come scioccamente si ama ripetere; che sulla base del solo o dominante antiberlusconismo non si sia riusciti mai a determinare una stabile maggioranza politica ed elettorale: queste e varie altre considerazioni affini o connesse sembrano non toccare minimamente la sinistra antiberlusconiana. E, perciò, pur rendendosi conto dei molti e importanti motivi per cui Berlusconi ha suscitato contro di lui una tale animosità, e pur condividendo largamente molti di tali motivi, non è possibile condividere le deduzioni politiche che da tali motivi si traggono e che sono più volte apparse e riapparse politicamente del tutto inconcludenti e infeconde.
Bersani si è mosso, quindi, in base anche alla conoscenza di questi umori del suo partito, che imponevano ineludibilmente lo slogan “mai con Berlusconi”. E che non si sbagliasse è dimostrato dalla votazione per Marini candidato alla presidenza della Repubblica: al candidato ritenuto gradito alla destra e foriero di un’intesa sono mancati ben 200 voti, ossia un terzo all’incirca di quelli del PD. In realtà, non era solo la questione Berlusconi a rendere infido il PD. Per Prodi sono mancati 101 voti, un quarto di quelli PD, e fu subito chiaro che la defezione era subdolamente diretta anche contro lo stesso Bersani, che ne trasse correttamente la dovuta deduzione delle sue, a quel punto necessarie, dimissioni da segretario del PD. E in entrambi i casi la coalizione con Vendola, che ha consentito al PD la sua lievissima, trascurabile maggioranza elettorale, su questo ostacolo si è subito sfasciata.
L’ostinazione di Bersani rimane, perciò, inescusabile. Egli aveva esordito, dopo le elezioni, dichiarando che il PD era arrivato primo, ma non aveva vinto. Una dichiarazione intelligente, che faceva sperare in un suo atteggiamento responsabile e costruttivo. Poi si è chiuso in una ostinazione, di cui si è visto l’esito. Ma la sua responsabilità non è poco attenuata dalla consapevolezza, in lui presumibile, di aver a che fare con un tale partito.
Si è arrivati così al governo Letta, e prima ancora si è arrivati alla rielezione di Napolitano, che l’interessato aveva più volte assolutamente escluso.
A Napolitano non si può che essere profondamente grati. Quando per lui si è parlato di “sacrificio” che egli faceva nell’interesse del paese, al quale è stato sempre devoto, si è usato un termine – lo si sappia o meno – da prendere nel suo significato letterale di “rinuncia a una propria volontà e a un proprio interesse in vista di un interesse superiore”. Dubitare di ciò sarebbe non solo del tutto errato, ma anche del tutto meschino. E, ciò, a prescindere dall’augurio, che molti (fra i quali, si licet, chi scrive qui) si facevano fin dall’aprirsi della questione della elezione di un nuovo presidente della Repubblica, che fosse ancora Napolitano il designato. Fosse ancora Napolitano non solo in considerazione delle sue qualità di acume, di equilibrio, di lungimiranza e di buon senso politico, né solo per le sue qualità di misura e di sobrietà, né, ancora, solo per il grandissimo e meritato prestigio, vera risorsa della Repubblica, che egli si è acquistato negli anni della sua presidenza. Fosse ancora Napolitano perché era a tutti evidente come le elezioni di febbraio avessero aperto un periodo di imprevedibili complicazioni e sviluppi nella vita politica del paese, per cui conservare un polo di orientamento autorevole ed esperto era assolutamente opportuno.
Napolitano ha inaugurato il passaggio dalla repubblica parlamentare a quella presidenziale? Lasciamo queste ardue elucubrazioni a commentatori più acuti e bravi e anteveggenti di noi. A noi basta che il sopradetto augurio si sia realizzato e che se ne siano subito visti i frutti.
Senonché, nel momento stesso in cui con la costituzione del governo Letta si vedevano questi primi frutti, si avevano anche ulteriori episodi e avvenimenti che non incoraggiano a una semplice valutazione positiva in tal senso. La sostituzione di Bersani alla segreteria del PD si è rivelata un affare molto più complesso e difficile di quanto si fosse pensato. L’elezione di Guglielmo Epifani ha significato il ricorso a un nome aureolato del prestigio non solo di venire dal mondo sindacale, ossia dal mondo del lavoro al quale il PD in teoria dovrebbe essere e si considera più legato, ma anche di essere stato, in quanto segretario della CGIL, un esponente di grande spicco di questo mondo. Un segretario dimezzato, si è detto, perché eletto allo scopo di “traghettare” (è la parola che imperversa al riguardo) il partito dalla confusa situazione attuale al congresso. Dimezzato, però, anche perché (occorre notarlo) eletto bensì con l’85% dei voti, ma in un’assemblea nella quale si è corso il rischio di invalidità per mancanza del numero legale, essendo presente poco più del 50% degli aventi diritto, come da norma, sul totale dei componenti (536 su 930): un indizio macroscopico della condizione in cui attualmente quello che per cinquant’anni è stato di gran lunga il primo fra i “partiti di massa” italiani e che vantava una militanza ferrata e compatta. La scelta è stata, inoltre, accompagnata da manifestazioni dei contrasti e delle divisioni interne che non fanno presagire nulla di buono per un dibattito congressuale vigoroso, ma costruttivo, e del quale ancora non si è capito quali siano per essere i protagonisti e le tesi in discussione. Infine, è impressione diffusa che il PD senta sempre più il morso concorrenziale e condizionante del M5S, aggravando così le sue note deteriori di estremismo, demagogia, insensibilità alle esigenze istituzionali e tutti i molti e varii annessi e connessi.
Sul fronte del governo è tutto ancora da vedere. Se doveva essere un governo dei rooseveltiani “100 giorni”, al 12 maggio occorre aggiungere, per la decorrenza di tale termine, le prime due settimane di vita dello stesso governo, in cui non si è fatto un bel nulla. E parliamo del 12 maggio, perché è, come si sa, la data del ritiro promosso dal presidente Letta del suo governo in una abbazia toscana: per “fare spogliatoio”, ha detto (ma che espressione infelice!), e per individuare l’agenda immediata delle materie su cui intervenire in primissima istanza. Non è qui il caso di discutere su ciò che ne è venuto fuori, ma, alla vigilia del ritiro abbaziale, ancora il presidente Letta ha dichiarato all’assemblea del PD che il suo governo non risponde al suo ideale di governo, e che egli lo ha fatto e lo guida perché le circostanze lo hanno reso necessario. Ed è questo lo spirito dal quale si dovrebbe sperare un’azione di governo dal respiro e dalla portata richiesto dalle circostanze alle quali Letta si è riferito? Momenti come questi richiedono slanci e convinzioni profondi; richiedono le ansie e gli entusiasmi, le profonde persuasioni e le forti spinte di volontà e di idee che sono necessarie ad affrontare i drammatici travagli di una fase come questa. Figuratevi se Churchill avesse fatto ai Comuni un tale discorso, prendendo in mano il governo, anche in quel caso imposte dalle circostanze, anche in quel caso un governo di “larghe intese”, imposto da circostanze anche più drammatiche delle nostre attuali, e con il rischio di una celere vittoria di Hitler, precisando che, dovendo egli collaborare dentro e fuori il governo con gli aborritissimi laburisti, quello non era il governo da lui preferito! Churchill fece, invece, il discorso delle “lacrime e sangue” come sua unica possibile promessa in quel momento, e blindò strettamente il suo governo nella tensione del gigantesco sforzo che bisognava sostenere.
Ma, mi si dirà, tu pensi nientemeno che a Churchill e alla eroica Inghilterra del 1940! È vero: è un non perdonabile eccesso di memoria. Qui siamo in Italia e con una classe politica in crisi. In una Italia il cui il senso delle istituzioni si è così perduto che il capo del M5S (un terzo dei voti!) invita il capo del governo a fare un decreto per ridurre alla metà le retribuzioni dei parlamentari, come se il governo potesse ordinare alcunché a un organo sovrano qual è la Camera, depositaria prima e più diretta (col Senato) della sovranità del vero titolare di essa, ossia il popolo. Siamo in una Italia in cui, a torto o a ragione, i casi giudiziari di Berlusconi (un altro terzo dei voti!) costituiscono materia di primaria importanza, e non se ne può non tenere conto, per cui la contestazione delle decisione giudiziarie diventa anch’essa un punto di questa materia. In una Italia in cui la politica, innanzitutto come classe politica, è scesa al gradino più basso che si potesse pensare, e se non va “povera e nuda”, come per la filosofia lamentava il Petrarca, se non è negata e avvilita in ogni sua minima esigenza di decoro e di prestigio, se non è mortificata mettendola all’ultimo posto fra ogni altra occupazione dal punto di vista della considerazione retributiva, non si è contenti (e, naturalmente, è vano ricordare che anche in questo caso la reazione agli eccessi della politica e della classe politica è peggiore e più dannosa di tali eccessi. Qui ci fermiamo, per ora, e ci pare di aver già messo troppa carne al fuoco. Ma il fatto è, purtroppo, che questa ampia messa al fuoco tocca una parte ancora lontana dalla realtà e dal necessario. Avremo modo – speriamo con qualche maggiore indizio di positività – nei prossimi mesi.
Ora tocca al governo Letta dimostrare quel che deve dimostrare. E tocca ai partiti, e in primo luogo al PD, di riassumere appieno la funzione sociale a cui sono per loro compito di istituto chiamati. Con un augurio anche a questo proposito: e cioè di non dover ricominciare tutto da capo, come se tra il 24-25 febbraio e il 30 aprile non fosse nulla accaduto.
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