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Monasteri di Provincia
di Valeria Cocozza
Seguendo il fil rouge del monachesimo femminile nel Settecento napoletano, Marcella Campanelli, Monasteri di provincia (Capua secoli XVI-XIX), Milano, Franco Angeli, 2012), riunisce alcuni suoi saggi in parte già editi in volumi collettanei e pubblicati ora in una veste ampliata. Essi sono stati integrati dagli esiti di nuove ricerche che hanno dato contorni più definiti al personaggio di Maria Angela del Divino Amore (al secolo Angela Marrapese). La storia di quest’ultima, protagonista indiscussa della storia di Capua nel XVIII secolo, è stata l’occasione per analizzare con maggiore dettaglio la dimensione monastica nella periferia del Regno.
Assai vasta è la produzione storiografica che, soprattutto nell’ultimo decennio, si è interessata al monachesimo femminile con esiti sempre originali e con l’intento di ricostruire la geografia e la storia delle istituzioni monastiche, in un panorama che si arricchisce di dettagli sempre più cristallini e che ormai sembra non lasciare neanche vuoti geografici (da ultimo si veda F. Terraccia, In attesa di una scelta. Destini femminili ed educandati monastici nella Diocesi di Milano in età moderna, Roma, Viella, 2012).
La Campanelli, in tal senso, avvalendosi di questo bagaglio di saperi, eterogenei e globali, con il volume che qui si discute ha contribuito ad arricchire la storia del monachesimo femminile meridionale in un momento storico, come fu il XVIII secolo, denso di cambiamenti, proponendo soluzioni e scenari molto interessanti.
Capua, città regia nonché via d’accesso al Regno, «con le sue 51 chiese, 6 conventi maschili, 5 monasteri femminili e 6 conservatori per circa 7.000 abitanti, rientra a pieno nel novero delle città che, nel corso dell’età moderna, connotarono lo spazio urbano con la presenza di svariate istituzioni ecclesiastiche», scrive la Campanelli (p. 15). Nel corso dell’età moderna la città campana fu uno dei più importanti centri della provincia di Terra di Lavoro, per quel che atteneva la fitta trama di funzioni amministrative, civili, militari, produttive e, non da ultime, religiose che in essa si svolgevano. In questo contesto, le istituzioni monastiche, com’è noto ormai, ebbero un ruolo di prim’ordine nelle strategie di aggregazione e conflitto tra le forze politiche e aristocratiche, ancor di più in realtà territoriali in cui i rapporti tra centro e periferia si mostrarono talvolta più complessi del solito. Da questo punto di vista la Campanelli ricostruisce la rete monastica capuana rispetto al mutare degli equilibri politici e delle intricate dinamiche cittadine, in un gioco di forze che si estrinsecava anche nel controllo delle istituzioni monastiche presenti nel territorio. Dal binomio aristocrazia/monachesimo, asse portante delle maggiori istituzioni monastiche del Regno di Napoli di Antico Regime, si parte, per esempio, quando, nel libro si parla di “monasteri femminili e patriziato cittadino a Capua in età vicereale” (pp. 63-85) (per queste tematiche si veda anche E. Novi Chavarria, Monache e gentildonne. Un labile confine. Poteri politici e identità religiose nei monasteri napoletani, secoli XVI-XVII, Milano, Franco Angeli, 2001).
Fatta questa doverosa premessa sulla composizione della rete monastica capuana, l’attenzione dell’Autrice è incentrata sui mutamenti prodotti nel corso del Settecento dalla politica anticuriale e, con essi, dall’avvio del processo di secolarizzazione. Il rinnovato clima culturale, che interessò tutti gli antichi stati italiani nel corso del XVIII secolo, lambì anche gli ambienti ecclesiastici e il dibattito giurisdizionalista napoletano toccò l’apice proprio con la polemica sul sistema delle doti monastiche, le cui voci più rappresentative furono quelle degli esponenti dell’apparato istituzionale, che meglio conoscevano il sistema monastico e, nella fattispecie, l’entità delle doti da sborsare per consentire l’ingresso di una fanciulla in monastero. Per questo, la Campanelli torna a esaminare dimensione e portata della politica anticuriale nell’ambiente politico e giuridico della Napoli negli anni Quaranta e Cinquanta del Settecento, che passò attraverso gli scritti di Stefano Patrizi, consultore del Cappellano Maggiore e di Francesco Vargas Macciucca, delegato della Real Giurisdizione. Dall’altro lato, però, nel volume si analizza anche la reazione che a questa polemica si ebbe negli ambienti monastici ed ecclesiastici.
In questo senso, diventa centrale la figura di Alfonso Maria De Liguori, personaggio già studiato dalla nostra Autrice in Centralismo romano e «policentrismo» periferico. Chiesa e religiosità nella Diocesi di Sant’Alfonso Maria De Liguori (secoli XVI-XVIII) (Milano, Franco Angeli, 2007). Vescovo della diocesi di Sant’Agata dei Goti dal 1762 al 1775, il De Liguori partecipò al cambiamento della vita religiosa femminile con la sua azione pastorale e con lo scritto La vera sposa di Gesù Cristo, stampato a Napoli tra il 1760 e il 1761. Egli in più occasioni provò a definire e a guidare gli ambienti monastici verso un nuovo modello religioso più consono ai nuovi tempi. L’esemplarità del vescovo campano traspare anche nella fitta e costante corrispondenza epistolare che egli mantenne con alcune religiose dei monasteri napoletani, in un impegno assiduo nel confortare le monache, sostenerle nelle difficoltà e correggerle nei comportamenti devozionali. Lo studio dell’epistolario alfonsiano condotto dalla Campanelli offre l’occasione per entrare nell’universo monastico del Settecento e conoscere la quotidianità materiale ed emotiva della vita claustrale.
Sono proprio le fonti alfonsiane a fornire, per altro, le prime notizie su suor Maria Angela del Divino Amore, amica del De Liguori. Insieme al suo padre spirituale il carmelitano Salvatore Pagnani, ella fondò nel 1738 il monastero di S. Gabriele, meglio noto come il Ritiro, ultimo in ordine di tempo istituito a Capua e l’unico riaperto durante la Restaurazione, chiuso poi solo dopo le soppressioni postunitarie nel 1880. All’interno de il Ritiro la Marrapese svolse gran parte della sua vita, fino alla morte avvenuta nel gennaio 1789. Ella trasformò quel monastero di provincia in una realtà di più ampio respiro, all’interno del quale si districarono le dinamiche della politica regnicola e le relazioni tra centro e periferia. Il bacino di utenza de il Ritiro, infatti, si presentava, sia sotto il profilo territoriale che sotto quello sociale, variegato ed eterogeneo, con una ampia presenza di religiose provenienti da famiglie “forestiere” e spagnole in particolare afferenti al panorama politico-istituzionale del Regno e della Corte napoletana.
Il monastero, per altro, come sovente accadeva, accolse anche regine e nobildonne, partecipando così alla vita aristocratica e di corte tipica della realtà del tempo (si veda, a proposito dei salotti aristocratici, E. Novi Chavarria, Sacro pubblico e privato. Donne nei secoli XV-XVIII, Napoli, Guida, 2009 e della stessa Autrice il già citato Monache e gentildonne). Tra tutte va ricordata Maria Amalia di Borbone abituale frequentatrice del monastero durante il suo soggiorno a Napoli. Accolte in monastero per brevi o lunghi periodi, ma anche per semplici visite, le nobildonne spesso si recavano o pernottavano nei chiostri (si veda, a questo proposito, anche il caso più tardo di Maria Luisa di Borbone, ospite del monastero dei SS. Domenico e Sisto di Roma in La rivoluzione in convento. Le Memorie di Anna Vittoria Dolara (secc. XVIII-XIX), a cura di S. Ceglie, Roma, Viella, 2012).
La Marrapese mantenne un legame costante con la corte borbonica anche quando la regina Maria Amalia fece ritorno in Spagna e, dopo la morte di quest’ultima, continuò una fitta corrispondenza con il Re e la famiglia reale. Dall’epistolario di suor Maria Angela emergono, infatti, la familiarità e il tono confidenziale che ella ebbe con gli altri membri della famiglia reale, seguendone le vicende private e consolandoli, di volta in volta, nei momenti difficili o per chiederne, talvolta, un sostegno politico.
Il volume della Campanelli, dunque, studia anche il binomio monachesimo/ regalità, nella misura in cui il potere regio partecipò costantemente alla vita del S. Gabriele e alle vicende della sua fondatrice. Per questo, in Monasteri di provincia ci sembra di poter scorgere un interessante punto di vista per studiare la vita di corte nel Settecento, consentendoci di calare il libro in quel filone di studi ampliato recentemente, proprio per il XVIII secolo, dal lavoro di Elena Papagna (La corte di Carlo di Borbone il re “proprio” e “nazionale”, Napoli, Guida, 2011).
Le vicende biografiche della Marrapese vengono ricostruite con attenzione e dovizia di particolari, grazie alla «breve cronaca della sua infanzia, scritta da lei stessa in chiara chiave autoreferenziale» (p. 116) dalla quale si deducono le doti di santità che la monaca capuana mostrò sin dalla più tenera età. Il suo personaggio fece discutere a lungo i contemporanei, ma svolse indubbiamente un ruolo di primo piano diventando una sorta di emblema di passaggio tra il vecchio e il nuovo. Ella, con i suoi tormenti notturni e le estasi di stampo cateriniano, a distanza ormai di tempo evocava il prototipo delle “sante vive” delle corti rinascimentali, che avevano rappresentato nei secoli precedenti quei modelli di santità visionaria incarnata da molte carismatiche napoletane del Cinque e Seicento e che ad oggi incontrano una ricca bibliografia di riferimento (G. Zarri, Le sante vive. Profezie di corte e devozione femminile tra ’400 e ’500, Torino, Rosenberg & Sellier, 1990; V. Fiorelli, Cupio dissolvi. Destini di donne tra profetismo e ascesi monastica, in Donne e religione a Napoli (secoli XVI-XVIII), a cura di G. Galasso, A. Valerio, Milano, Franco Angeli, 2001). Per Maria Angela, però, non fu mai avviato alcun iter cultuale e nessuno creò attorno alla sua figura un culto cittadino.
A seguito della morte del carmelitano Salvatore Pagnani, nel gennaio 1771, la Marrapese si impegnò a promuovere un processo di canonizzazione in suo favore. Di quest’ultimo, nel volume, sono tracciati tempi, spazi, costi, modalità e profilo dei vari «attori sociali» che vi parteciparono, tra Capua, Melfi e Aversa. A nulla, però, valsero gli sforzi della Marrapese a ingraziarsi i protagonisti del processo e ancor meno le testimonianze di quanti avevano ricevuto miracoli dal carmelitano, proseguiti anche dopo la sua morte.
Il processo, infatti, si risolse con un nulla di fatto, in un contesto politico e religioso che iniziava a essere sempre più diffidente nei confronti di percorsi di santità troppo legati ai modelli tradizionali (a questo proposito si rinvia a M. Caffiero, La politica della santità. Nascita di un culto nell’età dei Lumi, Roma, Laterza, 1996 e al recente lavoro di Palmieri, che ha posto un’attenzione particolare alla dimensione meridionale della santità nel Settecento e ai casi del Pagnani e della Marrapese, I taumaturghi della società. Santi e potere politico nel secolo dei Lumi, Roma, Viella, 2012).
Per quanto il progetto della Marrapese non abbia raggiunto i risultati da lei sperati, «Maria Angela è, senza dubbio, una donna che ha saputo costruire intorno alla propria immagine di claustrale un ruolo pubblico, destinato a rivelarsi importante nella cultura religiosa e non solo, del tempo. Finì con l’esercitare un potere che non le derivava né per nascita, né per eredità, ma che aveva raggiunto, giorno per giorno, con intelligenza e oculatezza, e di cui era pienamente consapevole. [Ella] fu una delle tante “donne di palazzo”, che dal suo chiostro influenzò le scelte di molti e segnò con la sua presenza per vari anni, la storia di una città» (p. 163).
La realtà capuana in Monasteri di provincia non è altro che una chiave di lettura, una delle prospettive possibili per entrare nel vivo delle molteplici dinamiche socio-politiche che animarono, per tutta l’età moderna, i rapporti tra sacro e laico, tra pubblico e privato e tra centro e periferia.
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