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L’irrealismo è emancipativo?
di Franco Crispini
1. Postmodernismo come anti illuminismo

Questo anti illuminismo è il cuore di tenebra del moderno, il rifiuto dell’idea di progresso e della fiducia nel nesso tra sapere ed emancipazione, in grandi pensatori come De Maistre, Donoso Cortès, Nietzsche, e si sintetizza nell’idea di Baudelaire secondo cui “Trono e altare” è una massima rivoluzionaria. È a loro che l’arco postmoderno, populismo sembra aver dato ragione.

Si può partire da qui per entrare nel cuore degli assunti del saggio di Maurizio Ferraris, Il Manifesto del nuovo realismo (Laterza, Roma-Bari, 2012), una narrazione di una vicenda concettuale, solo parzialmente storica, e al tempo stesso, capire tutto il flusso di interazione di post-modernismo-anti illuminismo-populismo, che l’Autore con molteplici ragioni è venuto insinuando e illustrando. L’affermazione (p. 31) che abbiamo riportato contiene una idea guida per vedere cosa comportava la perdita e cosa comporta il recupero di quello che, non solo nei termini della filosofia ma anche di quelli della politica, il “realismo”, viene a rappresentare. Il libro di Ferraris, a parte l’obiettivo cui si è proposto di arrivare, e cioè una rifondazione del realismo liberato da ogni versione ingenua o da una concezione positivistica-scientista, si è assunto l’impegnativo compito di dare all’Illuminismo, «forse la più calunniata tra le categorie del pensiero [c’è qui un richiamo a V. Ferrone (Lezioni illuministiche, Roma-Bari, Laterza, 2012) e a J. Israel (Una rivoluzione della mente. L’Illuminismo radicale e le origini intellettuali della democrazia moderna, Torino, Einaudi, 2011): entrambi di grande rilievo], una nuova voce nella scena intellettuale contemporanea» (Il Manifesto, p. 112). Il vero problema è come dal postmoderno fino a noi si è venuta ponendo e sviluppando una “richiesta di emancipazione” in rapporto ad una idea del “sapere-potere”. In questa prospettiva, si trattava in primo luogo di configurare nei suoi molteplici tratti quello che viene chiamato “postmodernismo” di cui una delle “fallacie” è proprio l’anti illuminismo, e poi come fare entrare in scena il populismo presentato come una applicazione sociopolitica più o meno fedele dei dogmi del postmodernismo. Nel dare corpo alla nozione ed ai contenuti del “postmodernismo” molti spunti ed assai significati, non tali tuttavia da creare un legame di dipendenza concettuale e argomentativa, vengono a Ferraris da un filosofo-sociologo, che ha coniato, o più intensamente usato (precipuamente in ambito filosofico), il termine stesso, “postmodernismo”, autore di un libro che ebbe grande successo, [J.F. Lyotard, La condizione postmoderna (trad. it., Milano, Feltrinelli, 1981)]. Quale fisionomia assume, e rispetto a quali problemi di fondo si caratterizza il postmoderno nelle serrate analisi di Lyotard?
È il caso di fissare, brevemente, qualche punto da cui risulti meglio definita quella “condizione” alla quale concorrono fattori filosofici, culturali, politici, sociali in un ampio arco di tempo segnato dalle trasformazioni tecnologiche di una età postindustriale. Nel prendere in considerazione il cambiamento di statuto del sapere, sia del sapere scientifico che di quello che chiama “sapere narrativo”, Lyotard concentra la sua maggiore attenzione sulla spiegazione che viene data del “legame sociale” tra modernità e postmoderno: «L’alternativa sembra chiara, omogeneità o dualità intrinseca del sociale, funzionalismo o criticismo del sapere» (Lyotard, cit., p. 30); in altri termini, un esito positivista del sapere funzionale al “sistema”, una apertura del “sistema” riflessiva o ermeneutica (filosofica-ideologica), che «interrogandosi direttamente o indirettamente sui valori o sui fini, si oppone a qualsiasi “recupero».
«Nella prospettiva postmoderna l’immagine della società passa tutta nelle mani degli esperti, dei “decisori” non più della classe politica tradizionale; il “rapporto sociale” perde la sua centralità e si ha parimenti una “decomposizione” delle grandi narrazioni». Non si ha tuttavia una riduzione del sapere a scienza perché in esso sono comprese le idee di «saper fare, saper vivere, del saper ascoltare» per cui non si ha a che fare solo con “enunciati denotativi” cognitivi, ma anche con “enunciati prescrittivi” che investono questioni come quelle della giustizia, della felicità, della saggezza con riferimento all’individuo ed alla società. Di conseguenza, il sociale, il comunitario non può far prendere strade diverse da quelle della narrazione storica, del racconto, della cultura che non hanno bisogno di procedure formali che ne diano il fondamento. Nella postmodernità il ricorso sempre più forte del sapere alla verifica, alla prova, fa prevalere il “vincolo di legittimazione” mettendo in scacco racconto, favola, mito, ideologie. È evidente che la presenza del narrativo, il “bisogno di storia” rimangono irriducibili. Scrive efficacemente in proposito Lyotard: «il sapere scientifico non può sapere e far sapere che è il vero sapere senza ricorrere all’altro sapere, il racconto, che è l’altro sapere che per lui è il non-sapere» (op. cit., p. 55). Vi sono tanti esempi dalla antichità alla modernità che dimostrano come il narrativo insegue come l’ombra il sapere scientifico. Nella scienza moderna (dall’umanesimo rinascimentale all’Illuminismo alla filosofia idealista) la «narrazione non è più un lapsus della legittimazione» ma essa, incorporata nella problematica del sapere, «coincide con l’emancipazione delle borghesie dalle autorità tradizionali».
«Questo modo di interrogare la legittimità socio-politica si combina con la nuova attitudine scientifica: il nome dell’eroe è il nome del popolo, il segno della legittimità è il consenso popolare» (op. cit., p. 57). La “validazione del sapere” come strumento della narrazione viene a prendere due direzioni a seconda che si assume un soggetto cognitivo o pratico, come «un eroe della conoscenza o un eroe della libertà». «In ragione di questa alternativa, non solo la legittimazione perde il suo senso univoco, ma lo stesso racconto appare già insufficiente a darne una versione completa» (op. cit., p. 58). A partire da qui, si imbocca una strada in discesa che porta a schematismi sociologico-formali in cui società e protagonisti sociali restano privi di vedute convalidanti e legittimanti: i meccanismi sociali si avvolgono su se stessi, non rispondono più ad una idea di modifiche e ricambi. Cosicché, con uno sguardo
che coglie insieme attitudine cognitive del postmoderno e suo impoverimento e perdita di ragioni validative, Lyotard fa emergere soprattutto un lato specifico della cultura contemporanea postmoderna, il venir meno di una “legittimazione del sapere”: «La grande narrazione ha perso credibilità, indipendentemente dalle modalità di unificazione che le vengono attribuite: sia che si tratti di racconto speculativo, sia di racconto emancipativo» (op. cit., p. 69). Le conseguenze della “delegittimazione” sono innanzitutto visibili in una divaricazione netta tra scienza e progetto emancipativo, in una immersione nel positivismo delle conoscenze particolari, in una parcellizzazione della ricerca, in una crisi della filosofia ridotta a «studio delle logiche o delle storie delle idee là dove essa vi ha rinunciato per realismo». Contro la perdita di ogni illusione, dalla scienza il modo postmoderno apprende la «rude sobrietà del realismo» (op. cit., p. 76). La conclusione cui perviene l’Autore che ha voluto circoscrivere tutta l’area postmoderna della cultura contemporanea, è allora questa: escluso il ricorso alle “grandi narrazioni” non essendoci più la possibilità di inscenare per il discorso scientifico le trame di una “dialettica dello Spirito” o di una “emancipazione dell’umanità”, non resta che la “piccola narrazione”: il principio del consenso, il dialogo delle intelligenze cognitive e delle libere volontà: una materia, questa di nuove indicazioni narrative, che ci porta verso Habermas ed il suo “dialogo delle argomentazioni”, e verso altro, che qui non è il caso di porre in discussione.
Vediamo ora invece da quali angolazioni viene ripreso il problema del postmodernismo da Ferraris ne Il Manifesto che, fatta propria la tesi della “delegittimazione” quale elemento caratterizzante, finisce per privilegiare ancora altri aspetti teoricopolitici di tutta la vicenda culturale. In particolare, al rapporto ragione cognitiva-emancipazione viene dato un ulteriore e, in un certo senso, diverso rilievo. Più che fermarsi sulle forme che assume il sapere scientifico, tutto risolto nei “giochi linguistici”, liberato da ipoteche filosofiche, Ferraris mira a marcare le “fallacie” del postmodernismo che ha alle spalle, egli nota, «una turba cosmopolita di genitori» da Toymbee a Gehlen, il cui comune denominatore è in una «fine dell’idea di progresso» assieme ad una perdita della verità (ne vedremo il senso specifico); delle quali “fallacie” due, tra loro connesse, gli paiono fondamentali, antirealismo, anti illuminismo (il populismo sarà come vedremo un altro ramo di un medesimo tronco). Il punto nevralgico delle infondatezze del postmodernismo viene situato lungo tre direzioni: «fallacia dell’essere-sapere, fallacia dell’accertare-accettare, fallacia dell’essere-potere». Da questa somma di inconsistenze si esce, in una fase in cui «l’Occidente che ha sperimentato il postmodernismo ora sembra abbandonarlo», attraverso una «concezione del realismo», frutto di una personale elaborazione del Ferraris, il cui impianto è, insieme, «Ontologia, Critica, Illuminismo».
Vediamo nello specifico l’articolazione che prende questo tipo di reazione alle sopradette “fallacie”. Primo errore dei postmoderni: la confusione tra ontologia ed epistemologia, «tra quello che c’è e quello che sappiamo a proposito di quello che c’è» (pp. 39-30); emendativo è il realismo per il quale c’è un carattere saliente del reale e cioè la sua “indocilità”, la sua resistenza. Secondo i postmoderni inoltre l’accertamento è una accettazione, per cui «l’irrealismo e il cuore oltre l’ostacolo sono di per sé emancipatori»: un errore in quanto il «realismo è la premessa della critica, mentre all’irrealismo è connaturata l’acquiescenza» (p. 30). Infine, riguardo all’ondata anti illuminista del postmodernismo, c’è da dire che è errato il convincimento che nel sapere si nasconde un potere «negativo e che perciò il sapere invece di legarsi prioritariamente alla emancipazione si presenta come uno strumento di asservimento». Passiamo oltre le pagine in cui ne Il Manifesto si affrontano successivamente e serratamente i temi della subordinazione della realtà ai nostri “schemi concettuali”, del rapporto tra epistemologia ed ontologia, del modo di operare del “costruttivista” moderno e postmoderno, della ipotesi che «tutto è socialmente costruito» da me o da altri, «motivo in più per decretarne la irrealtà», e sino al punto in cui tutto poggia su di un «realismo minimalistico o modesto» per il quale «l’ontologia vale come opposizione, come limite». Il motivo conduttore del ragionamento viene fuori con estrema chiarezza: il bersaglio del realista è il costruzionismo, il dato c’è, il documento è “inemendabile”, derealizzazione non è emancipazione. Quello che in ultimo propone Ferraris è di evitare la via di un “pancostruzionismo” che risulterebbe politicamente dannosa. Opportunamente, tutta la parte finale di una ricerca che ha voluto essere un «trattato di pace perpetua» tra intuizioni costruzioniste e intuizioni realiste indirizzate ad una diversa sfera di oggetti, quelli naturali e quelli sociali, ed ha inteso ritrovare nel postmodernismo l’inclinazione a «mettere fuori gioco l’Illuminismo», è rivolta a recuperare appunto l’idea illuministica del «sapere come emancipazione».
Quale è dunque lo sbocco delle equazioni postmoderniste in forza delle quali cadono le forze di resistenza ad una vera «distruzione della ragione»? L’approdo tragico è il nihilismo, l’addio nicciano alla verità, il crollo dei “grandi racconti”, l’Illuminismo, l’Idealismo, il Marxismo, «accomunati nel riconoscere un ruolo centrale del sapere nel benessere dell’umanità». Le “grandi narrazioni” entrano tuttavia in crisi e Lyotard, come abbiamo visto, ha seguito questi processi, ne ha dato le matrici: qui l’idea di emancipazione girava a vuoto, cercava inutilmente un terreno di legittimazione sul quale attestarsi. Il postmoderno si avvolge in una dialettica che reclama una via di uscita, un riconoscimento dei «valori positivi della certezza, di una fiducia preteoretica che rimedi alla sindrome del sospetto, alle lacerazioni del moderno e al nichilismo del postmoderno» (p. 102). All’Illuminismo viene assegnato l’onere, una volta che lo si faccia rinascere, di costituire l’alternativa ad una decretata fine della verità e della certezza ed a un disegno reale di emancipazione. Nella dialettica del postmoderno non è certo mancato lo spazio affinché, attraverso un “antifondazionalismo” ed un “neofondazionalismo non teorico”, si aggirasse l’obiezione del “sapere-potere”. Significativamente sono proprio tre filosofi associati al postmoderno, Foucault, Derrida, Lyotard, ad avvertire l’esigenza, concettualizzata per vie diverse, di un “ritorno all’illuminismo”: sapere e verità tornano ad essere «veicoli di emancipazione, strumenti di contropotere e di virtù» (p. 109).
Quei nomi di intellettuali francesi porterebbero ad escludere che siano proprio loro a farsi portatori di un “Illuminismo radicale”, come suppone Ferraris, che li assume a postmoderni liquidatori della ispirazione di fondo del postmodernismo. Ed invece il paradosso sarebbe solo apparente: come scrive Ferraris «senza contraddizione, hanno potuto essere gli ispiratori di un movimento che si è evoluto in termini conservatori e anti illuministici e, insieme, si sono legittimamente trovati a rivendicare l’istanza emancipativa dell’Illuminismo» (pp. 110-111). È qui chiaro che tali versioni di quelle filosofie che si sono mosse più all’unisono con le principali proposizioni del postmodernismo che altro, poggiano tutte sul fatto che esse contengono una «istanza emancipativa», che tuttavia riesce difficile poggiare su ipotesi di perdita di senso della verità-realtà, di dubbio radicale su sapere-potere. È molto problematico che la dialettica del postmoderno non abbia un esito involutivo e porti invece verso «un nuovo illuminismo piuttosto che verso un vecchio oscurantismo». Se due erano le possibili risposte alla «fallacia del sapere-potere», quella «che punta sulla certezza, e quella che punta sulla emancipazione, la via che vale la pena prendere è proprio la seconda per la quale essa è in armonia con ciò che è vero e reale e trovano agio le forme di un sapere liberatorio, la kantiana “uscita dalla minorità”».
Resta sgombro il pezzo dell’arco (per non abbandonare questa immagine) occupato dal populismo. Non occorre spostarsi da quella specie di filiera, postmodernismo, anti illuminismo, populismo, ma individuare quel che trapassa e si trasmette ad una supposta ideologia populista, dalle anzidette matrici, poiché tali potrebbero considerarsi.
Chi ha potuto mettersi di fronte ad una vasta tipologia di “lettura” del fenomeno populismo (per questo può essere utile il nostro Del Populismo. Indicazioni di lettura”, Cosenza, 2011), ha incontrato tante possibili fonti ma non quella, qui in questione, da cui si originerebbero ragioni molto profonde del populismo. Bisogna quindi vedere come viene fatto, su quali basi, un avvicinamento tra post-modernismo e populismo, in una comune matrice antilluministica. I dubbi su questa genesi sarebbero tanti e di diversa specie, ma ora è il caso di non lasciarsi sfuggire il senso di un altro approccio al populismo tramite quelle culture parallele.
Su almeno tre punti va fissato un riscontro storico-concettuale che voglia chiarire la correlazione possibile tra fenomeni che non sembrano della stessa natura:
a) quali siano le implicazioni etiche e politiche del postmoderno
b) se è vero che ciò che hanno sognato i “postmoderni” l’hanno realizzato i “populisti”
c) in che senso il populismo, idra dalle cento teste, ha potuto beneficiare di un quasi involontario fiancheggiamento del “postmoderno”.

Per prima cosa, intanto, bisogna dire che accostare i due fenomeni, uno dei quali è una affascinante ipotesi interpretativa di tutto il lungo corso del pensiero giunto al punto di un crollo delle sue coordinate culturali, ideologiche, teorico-filosofiche, e l’altro è l’indicazione delle molte crisi storiche della politica comporta un bilanciamento critico su due fronti per poter dare, come ha fatto Ferraris, il nucleo teorico del primo (il postmodernismo) e la cifra della presenza e incidenza del secondo (il populismo). Per una correlazione quale è stata fatta, delle buone particolari intuizioni ci sono venute da una indagine filosofica rivolta prevalentemente ad altri scopi che poco avrebbero a che fare con un fenomeno socio-politico (per di più con connotazioni specifiche) quale è il populismo, del quale appunto si pensa di dare una ragione storico-teorica cercata nelle problematiche del postmodernismo. Si è potuto constatare, andando dietro alle argomentazioni del Ferraris, che nelle angolazioni del postmoderno una nicchia per il populismo era plausibile, anche se vedere spuntare questa filiazione dalla “condizione postmoderna” poteva sorprendere. Era sufficiente radicalizzare un “irrealismo” di sapore antilluministico coltivato dai postmoderni per avere una scaturigine del populismo?
Dal capitolo “Realitysmo. L’attacco postmoderno alla realtà – Dal postmoderno al populismo”(p. 3 e sgg.),vengono le indicazioni maggiori ai fini di quel livello interpretativo o, del tutto, di individuazione di una vera eziogenesi del populismo. Per l’altro polo del rapporto ci si è richiamati, come abbiamo visto fare a Ferraris, al piccolo ma prezioso libro, divenuto un testo canonico, di J.F. Lyotard, che riesce a dare un nome e ad aiutare a riconoscere una “condizione”, ossia un punto di vista unificante, per le molte anime sottese e confluenti nel “postmodernismo”. Il dilatarsi delle inclinazioni filosofiche ed etico politiche, nella lunga stagione del postmoderno, di cui non occorre rintracciare tutti i filoni, ha prodotto diversi effetti tra cui il declassamento dell’intelletto e della ragione a “forme di dominio” e la valorizzazione del desiderio come “forma di emancipazione”; la destabilizzazione de “fatti”, l’affidamento alle “interpretazioni” ha avuto come conseguenza un dileguarsi del “mondo vero”, un suo ridursi a “favola”. Sulla base di questi “indizi”di populismo, questa apertura di scenari su incontrollabili sottrazioni a regole disciplinatrici, si assiste con i populismi ad una “rivoluzione desiderante” ma non è più possibile segnare confini, diventa invece possibile «sviluppare una politica contemporaneamente desiderante e reazionaria»; diviene incalzante «un diffuso anti intellettualismo che di nuovo alimenta quel rispecchiamento tra popolo e sovrano in cui consiste il tratto fondamentale del populismo» (p. 17). E vi sarebbe da riprendere ed approfondire proprio questo ultimo tratto: il desiderante assoggettato, il desiderio che diviene strumento di controllo sociale, una specie di scambio delle parti di progressisti e conservatori, sulla critica della morale; affiorano senza misura su tutta questa materia “paradossi dell’arco postmoderno-populismo” che vengono fuori anche da tante altre parti ma che sono un indice di come quel “rispecchiamento popolo-sovrano”, quel “controllo sociale” tramite la “interpretazione” di una “volontà generale” anonima, istaurano una forma populistica della politica.
Su queste tesi che hanno avuto negli anni Ottanta un grandissimo successo, è stato scritto molto e ovviamente quel decreto di morte dei “grandi racconti” non ha mancato di provocare reazioni filosofiche e politiche molto forti. Il libro stimolante di Ferraris non bada certo a ripensare tutto quanto l’impianto delle analisi di Lyotard, bensì ad estrarre una specie di proposizione epistemologica delle scelte del postmodernismo. Quali siano gli assunti filosofici che guidano il percorso «Dal postmoderno al populismo» (p. 3 e sgg.) è appunto il lato specifico di un discorso più generale che ha affrontato il grande tema della “critica della modernità”. Ma qui far discendere la soluzione populista, per tanti aspetti legata al rifiuto degli approdi ideologici della modernità, da quel quadro di idee di cui si nutre il postmodernismo, è la mossa che la strategia teorica del Ferraris viene a compiere, con la finalità principale di instaurare una piattaforma di recupero e nuovo profilo del “realismo” caricato dell’impegnativo compito politico di rendere possibile ed ottenibile una autentica emancipazione. Questa “altra” utopia sarebbe la strada maestra per sfuggire agli esiti scettici e nichilistici del postmodernismo come corroborante del populismo. Due finora i punti di approdo: non lasciare il populismo disancorato da tutte le vicende culturali dell’età moderna e contemporanea; con le aspirazioni di un “nuovo realismo”, chiudere gli spazi vitali di un costruzionismo illusionistico-irrealistico che fornisce il maggior numero di elementi per le “trappole” e le ambiguità del populismo.
Certo di approfondimenti dei passaggi dal postmodernismo al populismo ne occorrono sempre molti. Quello che può legare l’uno all’altra (o portare dall’uno all’altro) i due versanti di una medesima crisi, è comunque assai problematico perché si tratta di tener ferme due polarità che tendono a sfuggire. Solamente a circoscrivere il terreno di idee su cui si è avuto lo sgretolamento dei capisaldi della modernità e sono andate a prender corpo esperienze culturali di superamento e di svolta radicale – quello che viene chiamato postmodernismo – si finisce per isolare questa o quella componente, questo o quell’orizzonte teorico-culurale, questo o quello stadio di sfaldamento delle fondamentali acquisizioni del pensiero moderno, al di fuori di fondamentali punti di appoggio dati dalla storia civile. Non vi è dubbio però che qualche assunto filosofico può anche valere a sintetizzare quanto di più incidente e ricco di implicazioni si può leggere nel profilo del postmoderno: che è poi quello secondo cui si è mosso l’Autore del Manifesto del nuovo realismo, per ricavarne un motivo ispiratore e generatore della stessa “condizione” populista. Qual è una delle idee più vistose dell’orientamento postmoderno e che si può individuare come basilare, fondativa del populismo medesimo? A seguire il discorso di Ferraris, due sarebbero i «dogmi del postmoderno: che tutta la realtà sia socialmente costruita e infinitamente manipolabile, che la verità sia una nozione inutile perché la “solidarietà” è più importante della “oggettività”». Crollati i “grandi racconti”, Illuminismo, Idealismo, Marxismo, costruzioni filosofiche su cui via via è andata portandosi la modernità, alcuni postulati che ne erano alla base sono caduti sullo sfondo e cioè: la fiducia nel progresso e l’idea che vi sia un “mondo vero” mentre invece «non ci sono fatti, solo interpretazioni». A partire da qui, sebbene non si abbiano filosofie dichiaratamente populiste (nel nostro libro abbiamo piuttosto parlato di “idee populiste tra le filosofie”) e quindi non vi sono specifici punti di richiamo teorici, non è del tutto inconcludente ritrovare nel populismo (il riferimento di Ferraris va in particolare al “populismo mediatico”) quel che ha potuto portare a puntare su di una liquidazione della verità (il mondo vero “divenuto una reality”) e sulla possibilità di far credere qualsiasi cosa. Da qui dovrebbe discendere che «ciò che hanno sognato i postmoderni», e cioè la obnubilazione dei “fatti” a vantaggio delle “interpretazioni”, l’hanno realizzato i populisti: in questa versione “teoretica”, completamente negativa del populismo, la realizzazione di una illusoria emancipazione da regole e vincoli, si è fondato un ordine sociale esclusivo, in ultimo, del soggetto “popolo”. Ma, ben più importante, come scrive Ferraris, «i danni non sono venuti dal postmoderno, il più delle volte animato da ammirevoli aspirazioni emancipative, bensì dal populismo che ha beneficiato di un potente anche se in buona parte involontario fiancheggiamento ideologico da parte del postmoderno» (p. 6).
È probabile che l’attuale attenzione, grandissima, preoccupatissima e vigile, al populismo, contribuisca ad alimentare la ricerca su tutti i fattori, molteplici, culturali, storici e sociopolitici, teorici, i quali sono capaci di dare uno spessore a quel complesso fenomeno di cui si cerca una ragione che arrivi a giustificarlo, impresa molto difficile questa ultima perché come vuole qualche sociologo, la “liquidità” sembra essere il punto di vista più rispondente agli “ondeggiamenti” di una realtà divenuta facile alle manipolazioni. Certo, avere aperto il fronte di tutta una cultura otto-novecentesca che cova soluzioni in grado di render conto della “negatività” di cui è carico un fenomeno da considerare la punta di diamante dell’anti illuminismo, cioè il populismo, è stato assai interessante ai fini di poter disporre di protocolli esplicativi in qualche misura attendibili. Le attitudini della modernità illuminista hanno, con diverse teorizzazioni, fatto sì che la filosofia politica camminasse simbioticamente con la “nuova scienza” e che l’organizzazione ed i legami sociali rientrassero dentro un sistema di regole e di norme fuori delle quali non poteva trovare attuazione nessuna “emancipazione” dalle fonti tradizionali della autorità. Vi è stato poi un vero sconquasso di processi sociali, civili, politici e, non in ultimo, filosofici, quanti ne sono avvenuti tra ’800 e ’900, per i quali sono andati smarriti non pochi dei punti di appoggio, dei valori fondanti, di una concezione della società messa al riparo dalle illusioni e dai sortilegi, i quali sono un terreno di coltura dei populismi. È troppo ottimistico pensare che una esorcizzazione dai populismi che stanno sempre più incalzando le società contemporanee, si possa avere - come dobbiamo evincere da tutta una letteratura critica cui vanno senza altro aggiunti i testi che abbiamo chiamato in causa - da un sapere della realtà sia in forma teorica che in quella pragmatica, che ripristini i diritti della ragione e, insieme, dei fatti? Forse potrebbe non esserlo.
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