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Ancora sul libro di Eugenio Di Rienzo
di Aurelio Musi
È noto che, a conclusione delle celebrazioni per il centocinquantenario del l’Unità italiana, il volume di Eugenio Di Rienzo Il Regno delle Due Sicilie e le potenze europee 1830-1861 (Soveria Mannelli, Rubbettino, 2012) abbia rappresentato un contributo prezioso alla conoscenza e alla discussione di un aspetto che non ha ricevuto la dovuta attenzione nelle iniziative editoriali e scientifiche e nelle differenti e pur importanti manifestazioni: il rapporto tra il Regno delle Due Sicilie e le potenze europee nel trentennio che precede l’unificazione italiana. Ora, la lettura della apprezzabile recensione di Valentina Sommella nel numero precedente di questa rivista, mi spinge a organizzare meglio le mie idee al riguardo di un lavoro che ha, tra l’altro, il merito di non concedere nulla a intenti celebrativi, e di non aver inteso allinearsi a collaudate e rassicuranti posizioni storiografiche. Al contrario. La collocazione controcorrente è spesso fin troppo esibita dall’autore, che, malgré lui per così dire, finisce, a mio avviso, per sposare le ragioni e le argomentazioni ricorrenti di movimenti, orientamenti e gruppi pro fondamente antiunitari e nostalgici neoborbonici.
Fin dalle prime pagine, l’autore costruisce il suo impianto argomentativo su una tesi che merita di essere criticamente discussa: il Regno delle Due Sicilie è “il più grande piccolo Stato della penisola”. Giocando sull’ossimoro, Di Rienzo lascia dunque supporre al lettore che dal sovrano borbonico Ferdinando II potesse essere dispiegata una politica estera da media potenza; e che, se ciò non avvenne, la responsabilità fu in larga misura delle grandi potenze europee, soprattutto Inghilterra e Francia, della loro real politik, del loro doppio e triplo gioco. È appena il caso di notare a questo proposito, come del resto ricorda lo stesso Di Rienzo, che alla fine degli anni Cinquanta dell’Ottocento, nel linguaggio delle cancellerie e della diplomazia internazionale, il Regno delle Due Sicilie è sempre considerato uno “small State”. Ma altre considerazioni vanno tenute presenti se dal piano della breve durata ci si sposta a quello della media e della lunga durata.
La prima considerazione è la seguente. Napoli è un piccolo Stato in un insieme di piccoli Stati. Il Regno ha vissuto, a partire dal Medioevo, una lunga storia di integrazione in quadri politici più ampi: è stato cioè parte di sistemi e solo attraverso questa via è riuscito a svolgere un ruolo limitato, ma reale e indiscutibile, nel concerto degli Stati europei. “Ruolo limitato” ha significato la difficoltà, per non dire l’impossibilità, di assumere in prima persona l’iniziativa tra equilibrio ed egemonia nel contesto internazionale. Poi, a partire dal 1734 e dalla conquista del “re proprio e nazionale” Carlo di Borbone, la storia è in parte cambiata, ma non tanto da superare una condizione plurisecolare che peserà e condizionerà il Regno fino all’Unità.
La seconda considerazione è legata alla posizione geopolitica del Regno al centro del Mediterraneo: più precisamente al gap tra questa posizione e la capacità di far fronte ai corposi interessi di Inghilterra e Francia nel “Mare Nostrum”. Come ben dimostra Di Rienzo, utilizzando soprattutto le fonti delle cancellerie e le corrispondenze diplomatiche, la posta in gioco del controllo del Mediterraneo guida le mosse della Francia e dell’Inghilterra verso il Regno delle Due Sicilie e la penisola italiana fino al 1848 e oltre. Questo spiega l’interesse francese a contrastare qualsiasi ipotesi di costruzione politica unitaria dell’Italia e a prefigurare invece una confederazione sotto il controllo della Francia. Ma spiega altresì l’interesse dell’Inghilterra a conservare e consolidare il controllo economico innanzitutto, ma anche politico, della Sicilia, fondamentale centro strategico del Mediterraneo, e a contrastare i disegni egemonici della Francia.
Nel 1849 l’intervento francese contro la repubblica romana spiega assai bene la logica che guida la politica di questa potenza negli affari italiani: tesa da un lato a sbarrare la strada all’Austria, dall’altro a estendere il controllo francese nella penisola. Così è da condividere il giudizio di Di Rienzo per il quale «l’intervento di Parigi rappresentava un’abile mossa politica e strategica e non soltanto un cedimento di Luigi Bonaparte alle pressioni del Parti de l’ordre e a quelle dei gruppi clericali. In realtà, l’azione che portava all’occupazione della capitale dei domini pontifici costituiva, infatti, una scelta obbligata finalizzata a controbilanciare l’occupazione austriaca di Ancona del 21 giugno e a costituire un avamposto francese nella penisola. Con l’expédition de Rome Parigi creava le condizioni per attraversare la via a Vienna, per impedire di estendere oltre la sua influenza nella penisola e per sostituire ad essa la Francia come centro di attrazione e di gravità della politica italiana» (p. 53). Ma il tentativo, da parte di Ferdinando II, di costruire un asse Napoli-Parigi fu controproducente e aumentò l’isolamento del sovrano borbonico. «La manovra di Ferdinando II non ottenne l’effetto sperato presso le Tuileries e suscitò invece le perplessità di Russia, Austria e Prussia. Se queste furono rapidamente superate, non lo fu, invece, la reazione assolutamente negativa dell’Inghilterra ostile a un’intesa franco-napoletana che poteva rivelarsi molto pericolosa per i suoi vitali interessi nell’Adriatico, dove essa doveva misurarsi anche con le antiche e mai sopite ambizioni di San Pietroburgo di assicurarsi una presenza di rilievo in quel mare» (p. 57).
A produrre un sensibile mutamento dell’assetto politico stabilito nel 1815 è la guerra di Crimea. Se Di Rienzo coglie assai bene le conseguenze delle scelte di politica internazionale, effettuate da Ferdinando II in questa occasione, e cioè la neutralità nei confronti dell’impero zarista, meno rilevato, mi pare, è il peso che sulla più complessiva storia italiana ha la scelta cavourriana. La guerra di Crimea rappresenta una svolta decisiva non solo nella storia d’Europa ma anche nella storia d’Italia. Non è sfuggito ad alcuni storici come G. Craig il fatto che la guerra di Crimea abbia distrutto le condizioni che avevano ispirato il quadro delle relazioni internazionali fra il 1830 e il 1854: l’autolimitazione nazionale, il rispetto per i trattati, il “concerto europeo”. Denis Mack Smith ha invece attraversato due fasi. In una prima ha sottovalutato l’intervento di Cavour: l’intervento nella guerra di Crimea sarebbe stato solo l’indiretta conseguenza del tentativo del re di ristabilire l’autorità della Corona. In una seconda fase, Mack Smith ricostruisce tutti i retroscena della decisione di Cavour, riconosce l’importanza del fatto e scrive che «il Piemonte vede aumentare il proprio prestigio per il fatto di essere l’unico Stato italiano rappresentato a un congresso internazionale». In realtà Cavour ottiene di più: la partecipazione all’impresa di Crimea come alleato e non come subordinato. Per la prima volta le potenze europee accettano il ruolo di un “piccolo Stato” italiano. Il progetto di Cavour è esattamente quello di far accettare il “piccolo Stato” sabaudo-piemontese in funzione del “grande Stato” nazionale italiano. È una vera svolta all’epilogo di una plurisecolare storia. È l’evento che rompe la marginalità e la rassegnazione italiana di lunga durata. La storiografia italiana, pur rilevando l’abilità diplomatica di Cavour e la sua capacità di inserirsi nel gioco delle potenze, ha oscillato a lungo fra l’esaltazione di un patriottismo ante litteram e l’iscrizione della politica del Conte nella tradizione diplomatica sabauda. Solo grazie alla biografia di Romeo e alle acute riflessioni di Galasso si è giunti ad una più esatta valutazione del peso dell’evento nella storia italiana.
Ma torniamo a Di Rienzo. Tra il 1855-56 l’isolamento internazionale di Ferdinando II appare in tutta la sua gravità. Nel triennio successivo l’atteggiamento dell’Inghilterra e della Francia sarà ancor più condizionato dalla posta in gioco del Mediterraneo. I disegni francesi e i disegni inglesi pesano notevolmente, secondo l’autore, sulla stessa dinamica del processo di unificazione italiana. Di Rienzo critica la “longa manus” del ministero whig nel successo della “liberazione del Mezzogiorno” e il ruolo della Mediterranean Fleet nell’assicurare il successo dei Mille. In pratica l’autore sottovaluta il processo di decomposizione interna del regime borbonico e il moto risorgimentale come fattori di accelerazione dell’unificazione del paese. Sostiene invece che a provocare il crollo borbonico fu la pressione delle grandi potenze marittime: esse trasformarono il Mezzogiorno in una colonia economica e in un avamposto funzionale alla loro strategia mediterranea. Da un lato la Francia intavola trattative per separare la Sicilia dal Regno borbonico sotto un ramo della Casa regnante napoletana, ottenere la concessione di costituzioni a Palermo e a Napoli e un patto d’alleanza tra Napoli, il nuovo Stato siciliano e il Piemonte. L’Inghilterra naturalmente si oppone a questo disegno (p. 163). Così, per Di Rienzo, l’ingresso del Mezzogiorno nel Regno sardo fu «più causa di una lotta di potere e di una fortunata e fortuita congiuntura internazionale» che di «una rivoluzione nazionale e una decisione condivisa dalla maggioranza della popolazione » (p. 175). L’Unità fu, dunque, nella sostanza “conquista del Sud” e fu pagata in termini di costi morali, politici, sociali ed economici elevatissimi.
Il libro di Di Rienzo, che ci ha abituato con i suoi lavori più recenti a fare i conti con analisi controcorrente, è sicuramente apprezzabile nella lettura e nell’organizzazione di fonti edite e inedite. Più problematiche risultano l’interpretazione complessiva e una prospettiva che privilegia il sistema delle relazioni internazionali e la dipendenza economica e politica del Regno delle Due Sicilie, quasi una “colonia”, dalle grandi potenze mediterranee come fattori decisivi, per non dire unici, del crollo del regime borbonico. Inoltre la visione dell’Unità come “conquista regia” induce Di Rienzo a far propri molti argomenti della propaganda neoborbonica come la “farsa” dei plebisciti, la distruzione dell’apparato economico e industriale del Mezzogiorno, la sopravvalutazione del numero delle vittime della repressione sabauda, un’interpretazione a senso unico del brigantaggio, il regime feroce e duro delle carceri del Regno d’Italia, ecc. Infine un leit-motiv caratterizza l’intero lavoro: il pregiudizio sfavorevole nei confronti della “perfida Albione”.
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