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Com’è difficile essere un ateo virtuoso: tra La Mettrie e Diderot1
di Giuseppe Farinetti
La moda francese della felicità

Tutti gli uomini concordano nel desiderio di essere felici. La natura ha fatto della nostra felicità personale una legge valida per tutti noi. Tutto ciò che non è felicità ci è estraneo: essa soltanto ha un marcato potere sul nostro cuore, vi siamo tutti trascinati da una ripida china, da un incantesimo possente, da un’attrazione irresistibile; è un’impressione incancellabile della natura, che l’ha incisa nei nostri cuori, ne è il fascino e la perfezione2.

L’abate Pestré, autore di questo articolo dell’Encyclopédie, esprime efficacemente la vocazione della cultura, laica e religiosa, del Settecento: esaltare la naturale felicità che l’uomo può trovare in questo mondo, senza negare o umiliare la sua natura sensibile, la ricchezza delle sue capacità, la varietà delle sue potenzialità. Moralisti (atei e cristiani), libertini, filosofi condividono il pieno recupero della radice naturale della felicità, il piacere, e la riabilitazione dell’amore di sé e delle passioni, sottratti a una condanna storica. Sullo sfondo, rassicurante, agisce la certezza della «sociabilità» naturale dell’uomo: tra la prospettiva del bisogno d’interazione, quella di un amore di sé in tensione verso l’umanità e quella della «benevolenza» innata, tutte le strade vengono percorse per affermare l’esistenza di una disposizione dell’uomo alla virtù, intesa come bienfaisance e azione utile al bene della società, che la storia e il progresso civile, da una parte, adeguati programmi di riforma educativa e politica, dall’altra, potrebbero sviluppare in un sistema di convivenza sotto il segno della giustizia.
Emergono diversi modelli: un tipo di felicità come bilancio attivo tra beni e mali, tra stati piacevoli e stati dolorosi, frutto di una diagnosi sulla propria esistenza3; un tipo di felicità come risultato della valutazione che ciascuno dà sul livello di stabilità interiore raggiunta, più o meno arricchita da piaceri moderati4; un tipo di felicità come adesione intima alla parte più nascosta e riparata di se stessi5; infine un tipo di felicità come effetto dell’attivazione progressiva delle proprie capacità, come esperienza della propria controllata espansione, che permette di godere di diversi piaceri, gerarchicamente classificati secondo parametri di durata, intensità e purezza; una gerarchia al culmine della quale si trova il piacere generato dalla virtù, l’azione benefica nei confronti degli altri, che produce il migliore senso di sé6. Così, si sostiene volentieri, la varietà e l’esercizio in successione delle nostre capacità realizzano lo stesso effetto raffinato della differenza degli accordi in un’unica composizione musicale, aprendo la strada al premio definitivo, il sentimento interiore della perfezione (tema caro a Cartesio, Leibniz, Shaftesbury e a tanti altri).



La sfida di La Mettrie7: felicità senza virtù

Al di fuori di questi modelli, che cercano sempre di indicare, in maniera più o meno esplicita, un archetipo di felicità da raggiungere, si colloca la sfida di La Mettrie, il quale affronta il tema con una dose di allegra spigliatezza (non sempre sorretta dalla facilità di penna, tuttavia), che lo rende sospetto anche agli occhi di qualche philosophe, timoroso di trovarsi di fronte a una specie di eccentrico libertino, al limite dell’immoralismo.
Nel suo percorso teorico, a partire dal 1745, da medico materialista che non intende rinunciare a scrivere ciò che pensa (dapprima sotto anonimato, poi più liberamente, grazie alla protezione di Federico II)8, La Mettrie si impegna innanzitutto a smontare le assurdità derivanti dal dualismo cartesiano, indagando le proprietà della materia e ipotizzando che le facoltà superiori attribuite all’anima dipendano «a tal punto dalla specifica organizzazione del cervello e di tutto il corpo» da non essere «che questa stessa organizzazione»9. Per questo, sottolinea, «anima altro non è che un termine vano di cui non si ha nessuna idea e di cui una buona intelligenza non deve servirsi se non per nominare la parte che pensa in noi»10. Detto in altri termini, l’attività di ciò che viene chiamato anima altro non è che un effetto dell’organizzazione dinamica e complessa del cervello, che agisce in relazione al resto del corpo a causa della circolazione del sangue e degli «spiriti animali» (che, tramite il sangue, guidano il sistema nervoso)11. È questa la conclusione cui giunge chi si lascia guidare dall’esperienza, cercando «di discernere in qualche modo l’anima attraverso gli organi del corpo» e di raggiungere «il più alto grado di probabilità possibile su questo argomento».
Infatti, non si può scoprire con certezza in che modo l’organizzazione del cervello lasci emergere la mente, producendo la proprietà di pensare e, soprattutto, di immaginare (il suo «più meraviglioso e incomprensibile risultato», scrive La Mettrie12): possiamo arrivare soltanto «a connettere alla materia la mirabile proprietà di pensare senza che sia possibile vederne i legami, in quanto il soggetto di tale attributo ci è essenzialmente ignoto»13.
Questi limiti sono connessi alla più generale difficoltà a delineare, «con evidenza»14, quale sia la natura dell’uomo, tenuto conto del fatto che su molte questioni (come la nostra origine e il nostro destino15) siamo davvero costretti, se vogliamo raggiungere la felicità e non perdere tempo in inutili ricerche, ad accettare «un’invincibile ignoranza»16.
Che cosa è possibile dire, allora, dell’uomo e della sua incoercibile inclinazione a cercare la felicità, testimoniata, senz’ombra di dubbio, dall’esperienza, la prima guida di un vero filosofo? Che in questa ricerca egli dipende, innanzitutto, dalle «cause interne», cioè dal potere dominante dell’«organizzazione» del cervello. Tra le «cause esterne», o accessorie, un ruolo primario e di rilievo spetta all’educazione, nel bene e nel male (come vedremo tra poco, parlando della virtù e del rimorso). In seconda battuta, giocano la loro parte anche altre cause «accessorie», come i piaceri dei sensi, la buona reputazione, la ricerca degli onori e delle ricchezze17.
Attestato dunque su un rigoroso determinismo biologico (che egli, in linea con il lessico del proprio tempo, chiama «fatalismo»), secondo il quale ciascun uomo «recita la parte che gli fanno recitare gli ingranaggi di una macchina pensante che non è montata da lui»18, sulle questioni della felicità e della virtù La Mettrie esprime alcune sicure convinzioni (che in parte condivide con i suoi contemporanei). Ecco quelle fondamentali.
Tutti gli uomini cercano la felicità e sono sospinti irresistibilmente verso di essa dal desiderio di godere dei piaceri più naturali (la felicità viene dal «sentire» e consiste in una certa «modificazione abituale dei nervi impressionati in maniera piacevole»19).
A determinare la felicità è, in prima istanza, la disposizione individuale di ciascuna macchina, la sua organizzazione: dunque, tante le macchine, tante le forme (e le idee) di felicità20.
Ciascun individuo, orientato, in maniera assoluta, a realizzare il suo bene, non può che preferire sempre e solo se stesso agli altri (potere dell’amor proprio21).
Lungi dall’identificarsi banalmente con il piacere, la felicità in senso proprio è uno stato, una condizione permanente, di cui il piacere è modello e fondamento (è per questo che la maggior parte degli uomini gode soltanto di «lampi di felicità»22, éclairs de bonheur).
Il più fortunato tra gli uomini, per quanto ciò possa sembrare paradossale, è colui che può godere pienamente della «felicità organica», il «bonheur organique» o «bonheur de tempérament», che è stato dato «a quei beati mortali che per esserlo [felici] non hanno bisogno d’altro che di sentire»23 (anche se a noi possono sembrare solo degli imbecilli).
Se dipendiamo dalla sensibilità, nella maggior parte degli esseri umani è l’immaginazione, però, che trasforma e metamorfizza i desideri e rende l’illusione un tassello fondamentale per la ricerca della felicità24.
Con il nome «virtù» si indicano soltanto le azioni che portano vantaggi alla società25.
L’uomo, «virtuoso senza merito e vizioso senza colpa», non è responsabile per la sua perfidia e per la sua malvagità più di quanto lo sia l’albero per «i frutti marci che porta», dal momento che «il germe di tutto sta nel carattere26».
Anche se tra tutti i generi di felicità La Mettrie preferisce, per se stesso, quello che deriva dal potenziare l’«organizzazione» attraverso un training educativo, tendendo al perfezionamento sia fisico sia intellettuale (come insegna il vecchio Aristotele)27, egli mira, però, a smontare ogni gerarchia assoluta di valore tra i piaceri e a sostenere, di conseguenza, che nessun tipo umano può rappresentare il paradigma dell’uomo migliore: dal momento che il piacere è alla portata di tutti, dei buoni e dei cattivi, perché tutti «sentono con piacere il loro modo di esistere e di agire», se ne deduce «che i più virtuosi non sono i più felici, oppure, se lo sono, è soltanto perché essi sentono con piacere la loro maniera di esistere e di agire»28. E se ne inferisce pure
che, se manca questa modificazione dei nervi, i buoni possono essere infelici, mentre quei cattivi soggetti che sono a se stessi la loro patria, i loro amici, il loro amante, la loro moglie e i loro figli, eterni spregiatori della virtù e dei cosiddetti veri beni, vivono contenti soli e inutili al mondo, pondus inutile terrae, nel godimento dei falsi beni, che a quanto pare sono falsi soltanto di nome29.

La Mettrie evoca così l’ordine creato dall’egoista intorno a se stesso e al proprio diritto naturale alla felicità, mentre cataloga, un po’ alla rinfusa, la pluralità di strategie che gli uomini hanno a disposizione, pur dipendendo sempre e comunque dall’organizzazione che li domina.
Troviamo così la descrizione del criminale felice, che vive «in una tale familiarità col delitto che i vizi sono per lui come una virtù» e possiede, di conseguenza, quando agisce, «il meraviglioso dominio di una tranquillità che nulla può turbare»30. E troviamo l’elogio iperbolico dell’uomo voluttuoso (al quale dare lezioni di temperanza sarebbe come parlare di umanità a un tiranno31); oppure la pagina dedicata alla «felicità organica» prodotta dall’oppio, esempio lampante di quanto siano inutili, a molti uomini, le facoltà superiori dell’anima32.
Se la felicità organica, «automatica o naturale»33, non richiede neppure la riflessione e l’immaginazione ed è la più costante e la più difficile da turbare (in quanto puro effetto di un fortunato temperamento), anche la felicità connessa all’educazione può essere sufficientemente dolce: a patto che l’anima che ne è coinvolta si lasci trascinare passivamente e con piacere dai sentimenti che essa le ha ispirato, senza opporre resistenza. Si può essere felici persino tenendosi lontani dalle azioni che suscitano rimorso, anche se in questo modo spesso ci si astiene da ciò che dà piacere e che si ama e si desidera veramente, vivendo una banale «felicità da bambini»34. Soltanto i veri filosofi, del resto, precisa La Mettrie a questo riguardo, sanno contrastare l’educazione e le sue conseguenze nefaste, compiendo quel capolavoro che consiste «nel dissipare i pregiudizi dell’infanzia, e nel purificare l’anima, con la fiaccola della ragione»35.



La virtù e il rimorso

Più che su questioni come quella della felicità organica, La Mettrie infastidisce i contemporanei quando parla di virtù e di rimorso.
Sulla faccenda della virtù, egli, innanzitutto, affonda con facilità il suo attacco contro l’esaltazione della «felicità privativa», fondata sul controllo di sé e delle proprie passioni: in questo modo non fa che riproporre una critica ormai ben radicata, in quanto nel suo tempo pochi difendevano il modello di vita stoico, alla maniera dei Catone, essendo la loro virtù poco attraente e inseguita soltanto da qualche ipocrita mosso, in realtà, da interesse, vanità, avidità di gloria36. Poi, ricorda come l’unica vera virtù consista nell’azione utile alla società e alla politica e che, prima della codificazione attuata dalla legge, non esistevano né il bene né il male, né il giusto né l’ingiusto37. Le molteplici virtù sociali, diverse per ogni ceto38, hanno, dunque, un’origine artificiale e sono indispensabili per sostenere e abbellire l’ordine in cui gli uomini vivono, trattenuti dal potere, che usa (o dovrebbe usare) tutti gli strumenti di cui dispone.
Infatti, scrive La Mettrie, «in generale gli uomini nascono cattivi», cioè privi di disposizioni al bene comune, e, per questo, una buona azione educativa (che non disdegni l’uso illuminato della religione39) dovrebbe integrare la potenza coercitiva delle leggi, al fine di garantire una migliore coesione sociale e di limitare l’uso della forza e del patibolo.
In questo modo si potrebbe cercare di intervenire sulle inclinazioni40, facendo continuamente leva sulle ricompense, sulle lusinghe dell’amor proprio, sulla vanità, su quei mille motivi che generano le virtù sociali41. Senza coltivare troppe speranze, tuttavia, in quanto l’effetto dell’educazione, per quanto possa apparire momentaneamente efficace, è quasi sempre temporaneo, tanto è forte il richiamo delle «disposizioni primitive»42. Nel caso di definitivo insuccesso pedagogico resta sempre il primato dell’interesse pubblico (dietro il quale si nasconde quello dei potenti), che rende legittimo «incatenare i pazzi, ammazzare i cani arrabbiati e schiacciare i serpenti»43.
È proprio questa la sorte che rischia il criminale vizioso e felice, privo di pentimento, coerente e rigoroso con se stesso nelle azioni che compie44. È inutile, infatti, per il filosofo, cercare di strapparlo alla sua «infelice felicità», alle sue inclinazioni cui è «perfettamente giusto» che egli ceda. Il compito di fargli pagare le conseguenze della sua azione spetta alla politica, madre della giustizia, che si serve a sua volta dei boia e dei patiboli, strumenti ben più temibili del richiamo agli dei o alla coscienza. La «coscienza», infatti, è una «vera e propria chimera dell’educazione» e della filosofia (in quanto «essa ha un minor rapporto con le cose di quanto l’ombra ne abbia con il corpo»): è perciò del inutile appellarsi ai tormenti interiori, mentre la politica può rimediare al crimine sancendo la «necessità di strangolare una parte dei cittadini, per proteggere il resto, così come si amputa un membro in cancrena per la salvezza del corpo»45.
Bisogna dunque evitare di evocare entità inesistenti (come la coscienza) e di attribuire una reale responsabilità a chi agisce spinto da forze che non può dirigere: lasciamo soltanto che la società si difenda e punisca esemplarmente chi ne minaccia la stabilità, anche se, propriamente, la “volontà” criminale non esiste.
Da parte sua, in questa situazione, il filosofo deve esprimere tutto il suo dispiacere. Infatti, nel momento in cui analizza cause ed effetti degli eccessi generati da temperamenti dissoluti e ineducabili, La Mettrie ritiene di dover esibire tutta la compassione di cui si dice capace46, senza vestire i panni del moralista e, tanto meno, quelli del giudice con la bilancia di Themis in mano47: il filosofo compiange i viziosi senza odiarli, in quanto essi non sono altro, ai suoi occhi, che uomini malfatti, dotati dalla natura di una macchina difettosa. In ragione della sua posizione materialista e determinista, egli richiama all’indulgenza e alla
«moderazione nei supplizi, che si devono ordinare con rimpianto», dal momento che la virtù è «una specie di costruzione accessoria, un ornamento estraneo, sempre pronto a fuggire, oppure a cadere, senza un sostegno»48.

Quando poi si cala, per un momento, nella parte di un ipotetico legislatore, dotato del potere straordinario e demiurgico di «impastare» da capo gli uomini, per farli vivere felici in società, li immagina con tutte le virtù sociali possibili, «senz’altra ambizione che quella di essere utili, senz’altro desiderio che quello di esser amabili»49: cittadini esemplari, capaci di godere di quella tranquilla e serena felicità che avrebbe trovato il consenso del mite Gassendi50.
Sulla questione del rimorso, artificio perverso di cui si serve la morale pubblica e privata, istillando precocemente nei bambini i suoi veleni51, che nuoce ai buoni (che non ne avrebbero bisogno) e non è in grado di porre un freno ai malvagi52, nell’Anti-Sénèque La Mettrie rivendica la sua fama di innovatore53, liberandosi progressivamente di alcune cautele mostrate negli scritti precedenti.
Nell’Homme machine del 1747, infatti, mentre contesta il riduzionismo cartesiano che nega la sensibilità e il pensiero agli animali, egli sembra favorevole ad accettare l’ipotesi di un’inclinazione naturale al rimorso, comune sia agli uomini sia agli animali, effetto della «legge naturale» che «non si può distruggere»54. Si tratterebbe di un «sentimento, che ci insegna ciò che non dobbiamo fare, perché non vorremmo che fosse fatto a noi»55; un tipo «di timore o di paura, altrettanto salutare alla specie che all’individuo», che ciascuno prova alla prospettiva di perdere ciò che gli è più caro (la vita o i beni) e di subire ritorsioni da parte degli altri; un sentimento che non è generato né dall’educazione, né dalla legislazione, né dalla religione rivelata56, ma dall’istinto di autoconservazione, che si è evoluto, nell’uomo, nella cura esclusiva dell’interesse personale.
Stando a questa soluzione, il rimorso si manifesterebbe come un sentimento interiore che colpisce chi è dominato dalle sue inclinazioni e agisce contro il proprio interesse; una pena cui non si può sfuggire e che, per molti aspetti, sembra del tutto sufficiente a punire chi compie «un male involontario»57.
A questa legge naturale che guida tutti, farebbe eccezione l’ateo, cui La Mettrie concede, nell’Homme machine, uno spazio da ospite di riguardo. Se il mondo fosse integralmente ateo dice infatti il misterioso «amico francese», che possiamo considerare una controfigura dello stesso autore, se fossero tagliati e distrutti tutti i rami della religione,
la natura, infettata da un sacro veleno, riprenderebbe i suoi diritti e la sua purezza. Sordi a ogni altra voce, i tranquilli mortali seguirebbero soltanto i consigli spontanei della loro propria individualità, i soli che non si possono disprezzare impunemente e i soli che ci possono condurre alla felicità, attraverso i piacevoli sentieri della virtù58.

Questa appare dunque, nell’ipotesi dell’«amico francese», la vera e sola legge naturale dell’universo ateo, abitato da uomini in grado di essere legge a stessi, ben diversi da quelli che, nell’opinione di La Mettrie, hanno bisogno di un padrone per vivere ordinatamente in società.
Nell’Anti-Sénèque del 1748, la posizione del medico di Saint-Malo sul rimorso si precisa, con la diagnosi definitiva sulla sua innaturalità e pericolosità. La Mettrie lascia cadere ogni riferimento alla legge naturale e risolve la questione dell’obbligazione morale richiamando, da una parte, il tema hobbesiano della paura59, dall’altra, la forza dell’amor proprio60. A questi moventi (tra i quali La Mettrie sembra non scegliere) bisogna ricorrere per spiegare la genesi del principio «non fare agli altri quello che non vorresti che fosse fatto a te».
Per quanto riguarda il rimorso, La Mettrie propone un’esplicita autocritica61, denunciando l’errore «volontario»62 commesso nell’Homme machine, dovuto ad un eccesso di pavidità che gli ha impedito di dire fino in fondo la verità63, cioè di comportarsi da filosofo. Egli si allinea ora con le posizioni che ha trovato espresse nell’Examen de la réligion64 dove leggiamo che «i rimorsi non sono altro che un sentimento interiore» derivato dai «pregiudizi», cioè dall’«educazione e da una disposizione particolare dei nostri organi»65. Essi mutano in relazione ai sistemi culturali e religiosi e si attivano per effetto della costituzione della «nostra macchina»: quando questa «è estenuata dagli spiriti agitati dalle passioni, allora le idee più remote si risvegliano, molto facilmente fanno impressione, e causano i rimorsi»66.
Se stiamo a Spinoza (che è l’ispiratore lontano di queste tesi67), i rimorsi hanno la loro origine nascosta nei rimproveri dei genitori alle azioni considerate cattive, rimproveri che lasciano tracce indelebili nella memoria e dispongono, potremmo dire, con Freud, all’emergere dell’istanza del Super-Io: diversi i costumi e le religioni, diverse le ragioni del rimorso, dice Spinoza, di quel «pentimento» che si identifica con la «tristezza che accompagna l’idea di un certo fatto, che crediamo di aver compiuto per un libero decreto della Mente»68 (mentre in realtà sono il potere degli affetti e il condizionamento educativo a spiegare il meccanismo del senso di colpa).
È questa la strada che segue anche La Mettrie, per il quale, alla luce dell’«ipotesi»69 fatalista, è del tutto assurdo voler punire qualcuno per inclinazioni che non dipendono dalla sua volontà e non sono, dunque, in suo potere70. Bisogna spazzare via, allora, i rimorsi e la disposizione a sentirsi in colpa per quello che si è, frutto di una perversa educazione religiosa che odia i piaceri naturali:
Risaliamo fino alla nostra infanzia; […] vi ritroveremo l’epoca dei rimorsi. Dapprima il rimorso non era che un semplice sentimento, accolto senza esame e senza scelta, e che si è impresso nel cervello con la stessa forza di un sigillo sulla cera molle. La passione, padrona sovrana della volontà, può certo soffocare questo sentimento per un certo tempo: ma esso rinasce, quando quella viene a mancare, e principalmente quando l’anima, restituita a se stessa, riflette freddamente. Infatti, allora i primi principi, quelli che formano la coscienza, quelli di cui essa è stata originariamente imbevuta, ritornano, ed è ciò che si chiama rimorso, i cui effetti variano all’infinito. Il rimorso non è dunque che una fastidiosa reminiscenza, una vecchia abitudine di sentire, che riprende il sopravvento. Si tratta, se si vuole, di una traccia che si rinnova, e, di conseguenza, di un vecchio pregiudizio, che la voluttà e le passioni non riescono ad addormentare così bene che prima o poi non si risvegli quasi sempre. Così, l’uomo porta dentro di sé il più grande dei suoi nemici71.

Il rimorso è una costruzione artificiale, indirizzata a far considerare innaturali anche i piaceri più innocenti, voluta da chi ha il potere di controllare l’anima fin dall’infanzia, «una vecchia abitudine di sentire che riprende il sopravvento » e dispone dell’uomo, meccanicamente, anche in età adulta72. Perciò, quest’inclinazione, nata quando siamo solo «cera molle», dovrebbe essere combattuta e cancellata con un’altra educazione, altre abitudini, «altre tracce dominanti», «altri sentimenti»73.
L’obiettivo filantropico e anti-religioso di La Mettrie è quello di liberare, con la forza del ragionamento, la coscienza dei buoni da un inutile sovraccarico; se di questa terapia beneficeranno anche i cattivi, ciò non potrà produrre alcun peggioramento nelle loro disposizioni, che possono essere tenute sotto controllo solo dalla minaccia della legge74.
Ai pochi honnêtes hommes in grado di comprendere il suo messaggio va l’invito dell’epicureo e libertino La Mettrie a gustare i piaceri con la stessa leggerezza con cui una rondine volteggia sull’acqua: se il piacere è «una terra paludosa sulla quale non bisogna fermarsi troppo» (come suggerisce Elisabetta di Inghilterra nella rappresentazione di Fontenelle evocata da La Mettrie75), è meglio lasciarsi ingannare dall’immaginazione e bagnarsi appena l’estremità delle ali.
Se dice queste verità e si rifiuta di dare «realtà a spettri», la filosofia è per questo pericolosa, si chiede La Mettrie? Egli pensa che la filosofia sia affare che riguarda un’élite ristretta, mentre il popolo non è che un gregge di ignoranti e non può trarre giovamento da essa; per questo essa è del tutto innocua, e ridicola appare l’accusa che le viene rivolta di trasformare i buoni in cattivi (e di mettere a tacere il legittimo rimorso dei cattivi), solo perché dichiara che «i rimorsi sono pregiudizi dell’educazione e che l’uomo è una macchina governata imperiosamente da un fatalismo assoluto»76.
È importante sottolineare come La Mettrie non creda proprio che sia possibile un «contagio»77 prodotto dalle idee filosofiche: è assurdo pensare che lo spirito del popolo possa essere modellato da quello dei filosofi, «troppo al di sopra della sua portata»78, in quanto la filosofia può essere trasmessa solo a «menti già illuminate»79. Per cui i potenti e i legislatori dovrebbero accettare una sana divisione del lavoro: se a essi spetta spingere i sudditi a contribuire al vantaggio della società, che è poi il loro stesso vantaggio, ai filosofi deve essere lasciata la possibilità di affermare, senza remore e censure, quelle «verità speculative»80 che non sono per nulla pericolose, in quanto il popolo non le capisce. Ecco come La Mettrie si rivolge direttamente ai magistrati e ai politici, invitandoli a trarre beneficio dalla vera filosofia:
conosciamo come voi quest’idra dalle cento e centomila teste folli, ridicole e imbecilli; sappiamo quanto è difficile guidare un animale che non si lascia condurre; applaudiamo alle vostre leggi, ai vostri costumi e anche alla vostra religione, quasi altrettanto che alle vostre forche e ai vostri patiboli. Ma alla vista di tutti gli omaggi che noi rendiamo alla saggezza del vostro governo non siete tentati di renderne a vostra volta alla verità delle nostre osservazioni, alla solidità delle nostre esperienze, e, infine, alla ricchezza e all’utilità (la cosa più importante) delle nostre scoperte81

Dunque, i potenti, invece di perseguitare ciecamente i filosofi, che sono inoffensivi, dovrebbero usare le verità speculative sull’uomo come uno strumento, laddove esso possa essere usato per mantenere l’ordine e il potere. Il filo conduttore della riflessione di La Mettrie è chiaro, quando distingue tra il compito del filosofo e quello del politico: il filosofo
esamina ciò che gli sembra vero o falso prescindendo da tutte le conseguenze», interpreta la natura mostrando quello che gli uomini sono o desiderano essere; il legislatore, invece, «senza inquietarsi della verità, anzi temendo forse […] ch’essa si manifesti, non si occupa che del giusto e dell’ingiusto, del bene e del male morale82.

Per questo, «la morale della natura o della filosofia» è assolutamente diversa da quella della religione o della politica: il filosofo cerca la verità, indicando i moventi naturali o artificiali degli uomini, mentre il legislatore usa i metodi adeguati a garantire la sussistenza della società e a ridurre all’ordine gli uomini, «animali indocili, difficili da domare e tali da correre spontaneamente verso il loro benessere per fas et nefas»83.
Infine, La Mettrie rivendica la sua buona fede e la sua diversità rispetto ai cialtroni che si spacciano per «predicatori» della virtù (ma che in realtà si approfittano dei loro discepoli84). Infatti, a chi lo rimprovera per il fatto di non perseguitare i vizi e i crimini «con uno stilo di ferro», risponde che lascia questo compito «agli scrittori satirici e ai predicatori»: «non moralizzo, non predico, non declamo; io spiego; ancora una volta, non costruisco che un sistema»85.
Esibendo, come prova a favore, la bontà del suo carattere86, La Mettrie rivendica il diritto alla duplicità nell’azione: all’essere, cioè, un filosofo e un puro seguace della verità nel suo studio e nei suoi scritti, e un buon cittadino per strada e nelle conversazioni da salotto, dove è utile preferire «l’errore», cioè non mettere in pratica quello che si crede vero. Scrive a questo proposito, in un lungo passaggio che merita di essere citato integralmente:
quali che siano le mie speculazioni nella tranquillità del mio studio, il mio comportamento nel mondo non vi assomiglia affatto; a voce non moralizzo nello stesso modo in cui ne tratto per iscritto. A casa mia scrivo ciò che mi sembra vero; agli altri dico ciò che mi sembra buono, salutare, utile, vantaggioso. Qui preferisco la verità, in quanto filosofo; là preferisco l’errore, in quanto cittadino. L’errore è, infatti, più alla portata di tutti; è il nutrimento generale delle menti, in tutti i tempi e in tutti i luoghi; che cosa v’è di più degno che illuminare e condurre questo vile gregge di imbecilli mortali? In società non parlo per nulla di tutte quelle alte verità filosofiche che non sono fatte per la moltitudine. Se dare una potente medicina a un malato senza speranza significa disonorarla, intrattenersi con quelli che non sono iniziati ai grandi misteri, e dunque hanno occhi che non vedono e orecchie che non sentono, significa profanare e prostituire l’augusta scienza delle cose. In una parola, in quanto membro di un corpo da cui traggo tanti vantaggi, è giusto che mi comporti senza ripugnanza in base a principi ai quali (data la malvagità della specie) ognuno deve la sicurezza della propria persona e dei propri beni. Ma, in quanto filosofo, legato con piacere al carro glorioso della saggezza, innalzandomi al di sopra dei pregiudizi, gemo sulla loro necessità, addolorato che il mondo intero non possa essere popolato da uomini che si lasciano guidare dalla ragione. Ecco la mia anima messa a nudo. Per avere detto liberamente ciò che penso non c’è bisogno, dunque, di credere ch’io sia nemico dei buoni costumi, né che ne abbia di malvagi. Si impura est pagina mihi, vita proba. Non sono spinozista per aver scritto l’Uomo macchina ed esposto il Sistema di Epicuro più di quanto non sia malvagio per aver scritto una satira contro i miei confratelli più ciarlatani, o vano per aver criticato le nostre belle menti, o dissoluto per aver osato maneggiare il delicato pennello della voluttà. Infine, benché come filosofo abbia avuto la mano pesante sui rimorsi, se la mia dottrina fosse pericolosa (sfido il più accanito dei miei nemici a dimostrarlo) ne avrei io stesso, come cittadino87.

L’autodifesa diventa così l’apologia del filosofo, che, «mentre scrive contro la legge naturale, la segue con rigore»88, che, mentre pone in questione la giustizia, la rispetta. Infatti, «non vi è alcuna relazione necessaria fra il credere in un solo dio o il non credere in nessuno ed essere un cattivo cittadino»89. Gli uomini, come sappiamo, si astengono dal nuocere agli altri solo perché spinti dal timore o dall’amor proprio, ma nel caso dell’ateo (di cui nella storia, scrive La Mettrie, «non ne trovo uno solo il quale non abbia ben meritato della patria e del suo prossimo»90) la fonte della virtù sembra essere «l’umanità»: guidato da questa voce interiore, da «questo sentimento innato di tenerezza, che ha impresso questa legge nel suo cuore», il filosofo «sarà umano, dolce, onesto, affabile, generoso, disinteressato, avrà una vera grandezza d’animo e riunirà, in una parola, tutte le qualità dell’uomo dabbene, con tutte le relative virtù sociali»91. Per questo, la virtù nell’ateo può avere «radici più profonde» di quella del devoto (la cui probità è spesso legata solo «a un filo», quello della punizione divina), in quanto è indipendente da ogni convinzione fideistica e legata solo al possesso di «una felice organizzazione»92. Il passaggio è importante, in quanto rinvia all’immagine del «temperamento» filosofico, di un tipo d’uomo che incarna una superiore inclinazione al bene, l’unico che abbia veramente scolpita nel suo «cuore» la legge naturale93; è solo questo tipo di uomo a sapere che «si prova tanto piacere a fare del bene, a sentire, a riconoscere quello che si riceve, e si prova tanta contentezza a praticare la virtù, ad essere dolci, umani, teneri, caritatevoli, indulgenti e generosi (questa sola parola racchiude tutte le virtù)», da dover ritenere «abbastanza punito chiunque abbia la disgrazia di non essere virtuoso»94.
Qual è la fonte di questa umanità e di questi piaceri e che cosa impedisce al filosofo (e all’ateo in particolare) di rinunciare alla virtù (visto che non si attende dal suo esercizio nessuna ricompensa) e di abbracciare il vizio (visto che non teme la punizione divina)? Il filosofo sarà guidato dal timore della legge, dice La Mettrie, solo «quando ha la disgrazia, cosa che è rara, di non essere guidato dall’amore dell’ordine»95. Si coglie qui la vicinanza di la Mettrie all’influente testo clandestino anonimo Le philosophe96, nel quale si legge che un uomo è dabbene se agisce non per timore della legge o di Dio ma perché guidato dall’«esprit d’ordre»97, cioè dalla ragione (ed è questo che caratterizza specificamente «il temperamento del filosofo»98); che «le passioni tranquille del filosofo possono certo portarlo al piacere, ma non al crimine», in quanto la sua ragione ben coltivata «non lo conduce mai al disordine»99; che il filosofo non può mai abbandonarsi ad un’azione contraria alla probità, in quanto essa non sarebbe conforme alla sua «disposizione meccanica»; che egli «è impastato, per così dire, con il lievito dell’ordine e la regola»; che per questo, infine, la sua facoltà di agire è «come una corda di uno strumento musicale accordata su un certo tono», che non potrebbe mai «produrne uno contrario», in quanto il saggio non può essere in conflitto con se stesso100.
I filosofi hanno dunque in sé, nella propria ragione che li guida all’«amore dell’ordine», il principio della virtù e dell’armonia e per questo, come aveva già insegnato Bayle, potrebbero ben dare vita ad una società virtuosa: si tratta infatti di uomini cui non si può rifiutare la propria fiducia, «amici della pace, nemici del disordine e del torbido», menti dotate
di sangue freddo, la cui immaginazione non si scalda mai e che decidono soltanto dopo un esame approfondito, ragionando da filosofi, talvolta portando lo stendardo della verità, di fronte alla stessa politica, talvolta favorendo tutte le convenzioni arbitrarie di quest’ultima, senza credersi, né essere realmente, per questo, colpevoli, né verso la società, né verso la filosofia101.

Questo sono gli uomini che potrebbero abitare l’universo felice perché ateo, di cui parla l’«amico francese» nell’Uomo macchina, i soli che non hanno bisogno di un padrone esterno per essere virtuosi e felici al tempo stesso.
Le tesi sul rimorso da proscrivere e sulla convenzionalità della virtù procurarono a La Mettrie alcuni fastidiosi attacchi, tra cui spicca quello comparso, in forma satirica, sulla Biblioteque raisonnée nel 1750102. A essi La Mettrie rispose nella prefazione all’edizione dell’Anti-Sénèque pubblicata nel 1751, l’anno della sua morte. In questa difesa, scritta in un momento in cui egli si credeva tutelato nella licenza di parola da Federico II, suo ammiratore, La Mettrie rivela anche l’impossibilità di tacere sulle cose che più urtano i critici, visto che segue, come tutti, le sue inclinazioni e non ha perciò «l’onore di essere libero». Egli ritorna così sull’irrilevanza del potere della filosofia, incapace di incidere sull’immaginazione degli uomini: consapevole che le ragioni avanzate contro il rimorso non possono dar vita ad alcun reale subbuglio sociale (figuriamoci se con la sola forza della ragione si possono liberare folle di criminali dai lacci dei sensi di colpa, ammesso che li provino103), egli può constatare, con piacere, che è davvero molto difficile che la sua teoria venga messa in pratica dai malvagi, mentre può aiutare i voluttuosi (come lui), i quali contribuiscono al piacere della società senza provocare in essa il minimo disordine104.
Nonostante chiami a raccolta i migliori spiriti forti affinché si liberino dai pregiudizi con la filosofia, La Mettrie finisce per essere oggetto di improperi da parte dei philosophes suoi contemporanei, irritati non poco dalla sua libertà di parola e probabilmente toccati in qualche nervo scoperto. Essi non gli perdoneranno di aver affermato senza remore e cautele che le regole morali non hanno un legame diretto con la felicità, che ciò che è necessario dal punto di vista della società è sentito come naturale soltanto da una piccola élite di individui ben nati, che ciascun individuo non può che seguire le proprie inclinazioni, quali che esse siano, sotto «l’empire de l’organisation»105, e, soprattutto, che il rimorso non è un utile segnale che nasce dalla consapevolezza di aver procurato del male agli altri (come molti filosofi amano immaginare) o, addirittura, di aver mancato di fronte a Dio (come vorrebbero far credere preti e teologi), ma solo un artifizio perverso e crudele dell’educazione tradizionale, che dovrebbe essere cancellato con giusti ragionamenti, per restituire all’uomo il piacere di disporre di sé e dei suoi naturali desideri.
Per La Mettrie, se solo il sano timore delle leggi può tenere a freno i malvagi, allora il rimorso è un’inutile tortura che rischia di «sovraccaricare macchine che sono da compiangere per quanto sono mal regolate, essendo trascinate verso il male come i buoni lo sono verso il bene»106. Per cui, conclude il medico, dal momento che «i rimorsi sono un vano rimedio agli accidenti che minacciano e affliggono la società, che essi non possono essere un palliativo per i nostri mali, né addolcire le tigri della nostra specie, che essi intorbidano anche, per così dire, le acque più chiare senza chiarificare quelle più torbide», allora bisognerebbe distruggerli: lasciamo che ad averli siano solo gli «schiocchi», scrive,
e che non vi sia più della gramigna mescolata al buon grano della vita, e che questo crudele veleno sia infine scacciato per sempre, soprattutto dallo spirito di quelle amabili persone che si abbandonano soltanto alla più saggia voluttà107.

Agendo da filosofo e anatomista dell’uomo, dunque, La Mettrie precisa ciò che più sembra stargli a cuore, quando ragiona risalendo alle cause e facendo astrazione dalle conseguenze, per quanto esse siano incresciose: e cioè che egli non invita affatto al crimine, ma, soltanto, «per una conseguenza del sistema teorico, alla tranquillità nel crimine»108.
Non accetteranno questa posizione neppure i più radicali tra i philosophes materialisti, come d’Holbach e Diderot, che, in modi diversi tra loro, considereranno il rimorso un effetto positivo generato dalla natura sociale dell’uomo, una spia interiore capace di far vergognare di sé (quasi tutti) i malvagi, privandoli della loro tranquillità interiore.



Un confronto a distanza

Con la sua diagnosi realistica della natura politica della virtù, con la sua esaltazione del filosofo ateo virtuoso, con la sua battaglia personale contro il rimorso, il filantropo La Mettrie suscita dapprima l’imbarazzo di Maupertuis (che, dopo avergli aperto la strada alla corte di Federico II, nel 1749 gli contrappone il ragionevole Essai de philosophie morale), poi lo sdegno pubblico degli altri philosophes, a cominciare da Voltaire, che lo aveva conosciuto a Potsdam nel 1750 e che contro di lui scrive il Poeme sur la loi naturelle109.
Più complessa la posizione di Diderot110. Prima della morte di La Mettrie (1751), tra i due si era stabilito una sorta di rapporto a distanza, con esplicite citazioni (da parte di La Mettrie) e alcuni cauti (e talvolta indiretti) riferimenti (da parte di Diderot).
Nelle Pensées philosophiques (1746) Diderot segue passo a passo sia la logica che porta a sostenere la presenza di Dio nell’armonia del più piccolo frammento di universo, sia le argomentazioni che portano a negare valore di prova a quest’ordine, contrapponendo allo schema finalistico una spiegazione probabilistica (per cui è ammissibile che un ordine, anche di straordinaria complessità, possa scaturire dal caos, a patto che infinito sia il numero dei tentativi a disposizione). Partendo da una posizione in apparenza deista (simile a quella di Shaftesbury), Diderot legittima, in realtà, tutte le perplessità che portano al permanere di uno scetticismo di fondo: non sembrano esistere argomenti decisivi per sconfiggere l’ateismo, ma ci sono buoni motivi per desiderare che Dio esista e per mantenere in vita, dunque, almeno il dubbio che questa possibilità si dia. È il rovesciamento, in positivo, della posizione scettica, ottenuta con una mossa analoga alla scommessa di Pascal: «compiango i veri atei scrive Diderot , dal momento che ogni consolazione è morta per loro»111. Sulle questioni decisive dell’esistenza di Dio, della realtà del bene e del male e dell’immortalità dell’anima, l’ateo si pronuncerà negativamente, rimanendo senza speranza, mentre lo scettico conserverà almeno la possibilità di vivere come se si potesse rispondere positivamente: per questo, egli avrà «un motivo in più» dell’ateo «per essere virtuoso» «e qualche ragione in meno del deista». Ma, se seguiamo le argomentazioni delle Pensées philosophiques, il deista in realtà non ha nulla da obiettare all’ateo sull’ordine del mondo (anche se nel testo sembra che resti ancora aperto il problema degli esiti morali della posizione atea112).
Non è per niente certo che l’ateo con cui qui Diderot dialoga a distanza sia La Mettrie113, ma quest’ultimo si sentì certamente chiamato in causa, se l’anno successivo, nell’Homme Machine, ritenne di dover replicare al «medico Diderot»114, definendo le Pensées philosophiques un’«opera sublime», incapace però di «convincere un ateo»115 (cosa di cui peraltro Diderot sembra perfettamente consapevole, essendosi già posto come interprete delle ragioni dell’ateismo). Presentandosi, cautelativamente, con le vesti del «pirronista» che non intende prendere partito tra deismo e ateismo, La Mettrie suggerisce, da un lato, che l’ordine indubbiamente presente nelle cose naturali non fornisce argomenti incontrovertibili per supporre un ordinamento finalistico antropocentrico, sovraordinato rispetto al semplice funzionamento della struttura delle cose; dall’altro, che l’ateismo non impedisce di prendere in considerazione ragionamenti morali basati sul fine del proprio utile allargato, inclusivo dei legami sociali, poiché essi sarebbero altrettanto naturali di quelli basati sull’interesse ristretto. Il che equivale a dire che non è dimostrabile che un ateo sia incapace di avere una morale sociale naturale se segue le sue inclinazioni.
Nel frattempo, da parte sua, Diderot si era già mosso, con apparente cautela, verso una posizione filosofica più problematica, mettendo in dialogo tra loro deisti, scettici, spinozisti e atei nella Promenade du sceptique, dove l’ultima parola sembra spettare allo spinozista Oribaze, che però accoglie e integra le argomentazioni dell’ateo contro il deista, sostenendo l’eternità della materia organizzata e l’inutilità di pensare a Dio come autore del presunto ordine delle cose.
Se pensiamo (ma è lecito dubitarne116) che la Promenade sia stata scritta dopo le Pensée philosophiques, nel 1747 (e non più rimaneggiata in maniera significativa dal suo autore, prima di essere sequestrata dalla polizia nel luglio del 1749 per sparire così, definitivamente, dalle carte di Diderot), è possibile congetturare (anche se con tutte le cautele del caso) che nelle coerenti argomentazioni del personaggio di nome Athéos ci possa essere qualche traccia delle tesi di La Mettrie sull’anima117, dal personaggio considerata esclusivo «effetto dell’organizzazione»118, cioè della materia sensibile di cui è composto il corpo119. Il tema è certamente importante, per Diderot, che nelle Pensées sur l’interpretation de la nature (scritte tra il 1753 e il 1754) analizzerà il dibattito tra Buffon e Maupertuis per seguire poi la strada che lo porterà definitivamente alla convinzione che la sensibilità sia «una proprietà universale della materia» e che da essa si generino tutte le facoltà attribuite dai metafisici all’anima.
Nella Promenade il filosofo Athéos sostiene con forza, di fronte a un interlocutore cieco e devoto, un altro tema caro a La Mettrie: si può vivere e agire bene, e tranquillamente, senza credere nel Dio che premia e punisce. Tesi drammatica, nella cornice della Promenade. Al ritorno a casa, infatti, dopo la distensiva passeggiata con gli altri filosofi nel viale dei castagni, Athéos, che aveva sostenuto contro il cieco devoto la tesi che a guidare l’uomo siano solo la natura, le inclinazioni, la ragione e il rispetto della legge civile, trova la sua donna rapita, i figli sgozzati, la casa saccheggiata. Il sospetto cade proprio sul cieco, al quale Athéos, così commenta Cléobule il narratore, «aveva insegnato il disprezzo della coscienza e delle leggi della società ogni volta che sia possibile affrancarsene senza rischio»120; e, continua il narratore, «l’effetto più penoso di questa avventura, per il povero Athéos, è il fatto di non aver neppure la libertà di lamentarsi a voce alta, perché, in fondo, il cieco era stato conseguente»121. Se l’ateo è virtuoso e inconseguente, in quanto guidato nella sua vita in società dal suo carattere da uomo dabbene e non, meccanicamente, dalle sue convinzioni filosofiche, un allievo cattivo e inadeguato per indole, come il devoto, abituato a obbedire passivamente ai dogmi della religione, una volta convertito potrebbe prendere alla lettera l’insegnamento ricevuto e usarlo come una scusante per lasciar agire liberamente le sue passioni naturali, che a fatica la religione tiene a bada con la minaccia del Dio vendicatore. Questo serve a ricordare (almeno così sembrerebbe) che certe verità non vanno rivelate (proprio ciò che ha fatto La Mettrie con i suoi libri) a chi non possiede il giusto temperamento, l’amore dell’ordine, la capacità di essere guida a se stesso.
I filosofi, in generale, qualunque orientamento seguano, se sono uomini dabbene devono dunque stare attenti a scegliersi gli interlocutori (ammesso che sia loro garantita la libertà di parola). Vale qui la clausola di tutela che il saggio Cleobulo espone nel Discours préliminaire della Promenade al suo più giovane amico Ariste, che vorrebbe divulgare pubblicamente ciò che Cléobule gli ha raccontato: per quanto sia opera nobile e importante illuminare gli uomini, bisogna tener conto del fatto che
presentare la verità a certa gente significa […] introdurre un raggio di luce in un nido di gufi. Serve soltanto a ferire i loro occhi, e a eccitare le loro grida. Se gli uomini fossero ignoranti soltanto per non aver imparato nulla, forse li si potrebbe istruire. Ma il loro accecamento è sistematico. Aristo, non avete soltanto a che fare con della gente che non sa nulla, ma con della gente che non vuole sapere nulla122
.
Un dilemma, questo, che seguirà Diderot per tutta la vita: come deve agire il filosofo di fronte alla verità? Deve illudersi di poter parlare liberamente per illuminare una massa di ignoranti sulle questioni su cui non si dovrebbe tacere (la religione, il governo, i costumi), con il rischio concreto di non ottenere alcun risultato e di mettere a rischio se stesso, la propria persona e la propria reputazione? Nel Discours préliminaire della Promenade il terzo personaggio, Alciphron, consiglia di andare a pubblicare i racconti di Cléobule all’esterno, mettendosi sotto la protezione di Federico II. Da parte sua Diderot, sceglierà di dissimulare spesso e volentieri la verità anche a costo di apparire oscuro, dal momento che, a volte, ci sono «delle buone ragioni per non essere troppo chiaro»123.
Se ora usciamo dalla Promenade e rientriamo nella realtà dei fatti, possiamo vedere come, da parte sua, La Mettrie sembrasse voler continuare il dialogo a distanza con Diderot, trattando di questioni morali.
Nell’edizione del 1748 dell’Anti-Sénèque egli invoca l’aiuto dei «philosophes» (e tra essi richiama esplicitamente proprio Diderot, come traduttore di Shaftesbury e autore dell’Essai sur le mérite et la vertu) a sostegno della tesi che virtù è «tutto ciò che è utile alla società», mentre «il resto è il suo fantasma»124. Si tratta di una chiamata alle armi contro chi sostiene che la virtù abbia radici dentro l’uomo (cioè nella legge naturale) e che il rimorso sia la punizione che si merita giustamente chi agisce contro la legge divina. Introducendo in questo modo la sua perorazione contro il rimorso, La Mettrie invita i filosofi a lasciar perdere i teologi (ma anche Voltaire, diventato paladino del rimorso come sola virtù del delinquente125), a lasciar «declamare gli ignoranti e i fanatici» e ad avviarsi sul cammino della migliore filosofia, «quella dei medici»126.
Quasi in conclusione dell’opera, poi, La Mettrie lancia una specie di provocazione, scrivendo: «forse molte persone saranno scioccate dal mio modo di pensare, soprattutto sulla virtù e sui rimorsi, tanto più per il fatto che esso è sia nuovo sia ardito; infatti non ho consultato né Hobbes né Milord S…. e ho attinto tutto alla natura»127. Il richiamo qui sembra ancora indirizzato all’Essai sur le merite et la vertu e serve a rafforzare l’invito al «medico Diderot» a studiare l’uomo per quello che è, senza coprirsi le spalle con l’autorità di moralisti come Hobbes e Shaftesbury.
Ma La Mettrie fa di più. Nel Discorso preliminare del 1750 (preparato per l’edizione berlinese delle sue opere del 1751), richiamando i filosofi a un maggior coraggio nel dire la verità, li apostrofa trasformando Diderot (incarcerato nell’estate del 1749 a Vincennes, in seguito alla pubblicazione della Lettre sur les aveugles) in una sorta di eroe del pensiero: egli, La Mettrie, costretto ingiustamente all’esilio, e il giovane Diderot, «al quale è bastato un cieco per illuminare l’universo»128 e per farsi chiudere in «crudeli prigioni»129, sono, in un certo senso, i nuovi martiri della filosofia.
Nello stesso anno, prende ancora le difese di Diderot contro Polier de Bottens, che nel 1747 aveva attaccato le Pensées philosophiques130, lasciando intendere, tra le righe (pur manifestando qualche dubbio) che l’autore potesse essere proprio La Mettrie131. La Mettrie risponde a Polier de Bottens rivelando che il vero autore (di cui non fa il nome, in quanto lo ritiene ormai noto a tutti) «è un’intelligenza che si può comparare «a Minerva che esce armata dal cervello di Giove», uno spirito dotato di grande immaginazione e di un genio che brilla anche negli errori, insomma «una delle migliori intelligenze che la natura abbia prodotto e l’arte educato»132. E altrove, nella stessa opera, non manca di ricordare Diderot come una delle poche intelligenze contemporanee veramente degne di considerazione, un genio precoce, un giovane talento133.
Nonostante simili encomi e l’importanza che La Mettrie assegna alla Lettre sur les aveugles (che egli ha bene in mente, quando rifinisce, nel 1750, il Système d’Épicure), nelle edizioni del 1750 e del 1751 dell’Anti-Sénèque il medico omette i due riferimenti diretti a Diderot: forse per un gesto di delicatezza, dopo l’umiliazione subita da Diderot a Vincennes? Troppo tardi, comunque, verrebbe da pensare, in quanto l’edizione dell’opera che circolerà e verrà ristampata più volte (a partire dal 1752) sarà sempre quella del 1748, con il richiamo esplicito al traduttore di Shaftesbury.
Da questa rete di riferimenti, capiamo perché Diderot potesse sentire rivolta a lui, più che ad altri, la provocazione lanciata da La Mettrie, che lo aveva dapprima sfidato ad assumere una più coerente posizione materialista, poi aveva apprezzato con entusiasmo la svolta contro il deismo della Lettre sur les aveugles, un brillante scritto antimetafisico134.
In uno dei primi articoli scritti per l’Encyclopédie, «Accoucheuse», in effetti Diderot tratta con ogni riguardo la Mettrie, citato come autorevole fonte medica135, e in seguito accoglierà senz’altro l’invito a diventare fisiologo dell’uomo (come potrebbe fare un acuto e diligente auto-didatta)136. Ma scoprirà anche quanto potesse essere sconveniente, per la gestione della sua immagine pubblica, subire accostamenti con il medico di Saint-Malo: dopo l’arresto del 1749 (che gli peserà moltissimo137), più grave sarà l’affronto subito nel 1760, con l’affaire Palissot138, in cui l’ormai defunto La Mettrie giocherà un ruolo non secondario, ai danni dei philosphes e di Diderot in particolare.
Se, da una parte, è innegabile che il medico di Saint-Malo sia stato riferimento importante per Diderot, per i suoi studi sulla natura, sull’uomo, sul cervello139, altri indizi ci dicono che la sua ombra di presunto immoralista lo abbia accompagnato per lunghi tratti, rappresentando, al tempo stesso, una sfida e una minaccia. Una sfida, per chi era deciso a difendere l’idea della virtù come componente essenziale della felicità e a tentare di fondare una morale di specie senza rinunciare a fare del rimorso il segnale naturale del disordine interiore. Una minaccia, per chi voleva conquistarsi la gloria dei posteri l’unico fine trascendente, che, in assenza del paradiso, possa dare un senso all’esistenza e difendere fino in fondo il buon nome dei philosophes, costantemente insidiato da nugoli di nemici, pronti a fare dei migliori uomini in circolazione dei campioni del vizio o, più semplicemente, del ridicolo140.
L’atto conclusivo del rapporto tra i due si avrà soltanto tra il 1778 e il 1782, con l’eclatante condanna di La Mettrie da parte di Diderot, contenuta nelle due edizioni del saggio dedicato a Seneca: per difendere i «veri» atei virtuosi egli lancerà i suoi strali contro chi è stato «apologeta del vizio e denigratore della virtù»141.
Forse La Mettrie, che da filosofo scriveva quel che credeva vero mentre in società tesseva lodi di maniera della virtù e si atteneva alle ipocrite credenze degli ignoranti imbecilli, si era spinto troppo in là, incapace di riservare a pochi ciò che i più non dovrebbero sapere, finendo così per mettere in pericolo la reputazione e la libertà di parola dei philosophes?










NOTE
1 Questo articolo è parte di un più ampio lavoro inedito.^
2 Articolo «Bonheur» (1752), Encyclopédie, ou dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers, II, p. 322.^
3 In questo caso si pensa che ciascun individuo possa calcolare, in progress o alla fine della propria vita, il tasso di felicità di cui gode, con uno schema aritmetico che contempla diversi criteri di cui tenere conto: cfr. P-L. Moreau de Maupertuis, Essai de philosophie morale, Berlin, 1749.^
4 Cfr. il breve trattato di Bernard de Fontenelle, Du bonheur (in Oeuvres complètes, t. III, a cura di A. Niderst, Corpus des oeuvres de philosophie en langue française, Paris,1989): scritto nell’ultimo decennio del Seicento, ma apparso solo nel 1724, esso ispira l’articolo «Bonheur» dell’Encyclopédie.^
5 Si tratta dell’esperienza episodica e discontinua della propria auto-consistenza, della propria pienezza, sintetizzabile in un acuto «sentimento dell’esistenza». Ne parlano in molti, sulla scia di Montaigne, il precursore: tra gli altri, Montesquieu, Rousseau e Diderot.^
6 Cfr. L-J. Lévesque de Pouilly, Théorie des sentiments agréables, Gèneve, 1747 (poi Paris, 1749), l’opera che ispira gli articoli «Passions» e «Plaisir» dell’Encyclopédie.^
7 Le citazioni delle principali opere di La Mettrie sono tratte da queste edizioni: L’Homme Machine = La Mettrie’s L’Homme Machine. A study in the origins of an idea, critical edition with an introductory monograph and notes by Aram Vartanian, Princeton, Princeton University Press, 1960. Discours sur le bonheur = J. O. de La Mettrie, Discours sur le bonheur, critical edition by John Falvey, Banbury, Oxfordshire, The Voltaire foundation, 1975 (tra le tre varianti del testo, quella del 1748, quella del 1750 e quella del 1751, ho utilizzato, di volta in volta, quella che mi sembrava migliore). Discours préliminare = A. Thomson, Materialism and Society in the mid-eighteenth Century: La Mettrie’s Discours préliminaire, Genève, Librairie Droz, 1981. Système d’Épicure = J.O. de La Mettrie, De la volupté, édition préfacée, établie et annotée par Ann Thomson, Paris, 1996. Altri testi di La Mettrie vengono citati direttamente nelle testo.^
8 Nel 1745 La Mettrie pubblica sotto anonimato l’Histoire naturelle de l’âme. L’anno dopo il libro subisce l’ârret del Parlamento parigino, con la condanna al rogo (mentre un’altra condanna colpisce il pamphlet La politique du médecin de Machiavel, una pesante satira dei medici francesi). La Mettrie lascia la Francia per l’Olanda, dove pubblica, sempre sotto anonimato, l’Homme Machine, a Leyden, verso la fine del 1747. Quando il suo nome salta fuori, è costretto a lasciare rapidamente anche l’Olanda e, grazie al conterraneo Maupertuis (da poco tempo Presidente dell’Accademia delle Scienze di Berlino), che gli fa da mentore, il 7 febbraio del 1748 è a Potsdam, sotto la protezione del re di Prussia, Federico II, di cui diviene medico personale e lettore. Su consiglio di Maupertuis, alla fine di quello stesso anno traduce il De vita beata di Seneca, aggiungendovi una lunga introduzione (Traité de la vie heureuse par Sénèque, avec un discours du traducteuer sur le même sujet). Nel 1750 La Mettrie pubblica a parte, in nuova versione, il suo saggio introduttivo, con il titolo Anti-Sénèque ou Le Souverain bien. Un’ulteriore e definitiva versione appare nel l751. Nella raccolta delle Oeuvres philosophiques, che esce postuma nel 1752, il trattato viene riproposto nella versione del 1748, con il titolo Discours sur le bonheur (e così sarà nelle edizioni successive). Nel soggiorno a corte, sospese in parte le indagini fisiologiche (anche se scrive L’homme plante nel 1748, Les animaux plus que machines nel 1750, il Système d’Épicure tra il 1750 e il 1751), e in attesa di un ritorno in Francia (che non ci sarà), La Mettrie rivede il suo piccolo opuscolo La volupté (già pubblicato in due versioni tra il 1745 e il 1746), riedito con molte varianti nel 1751 con il titolo L’art de jouir: un vero inno gioioso e libertino alle tecniche per dare e ricevere quel piacere sensuale, la voluttà amorosa, che richiede una raffinata capacità di usare strategie razionali e molta immaginazione. La Mettrie muore improvvisamente l’11 novembre 1751, dopo una cena a corte, probabilmente per un’intossicazione alimentare.^
9 L’Homme Machine, p. 180.^
10 Ibidem.^
11 Discours sur le bonheur, pp. 160-161.^
12 L’Homme Machine, p. 165. Sull’immaginazione come principale proprietà emergente dall’«organizzazione del cervello» cfr. pp. V. 165-166 = M. pp. 195-197.^
13 L’Homme Machine, pp. 195-196.^
14 Cfr. ivi, p. 152.^
15 Cfr. ivi, p. 196^
16 Ibidem.^
17 Cfr. Discours sur le bonheur, p. 124.^
18 Scrive La Mettrie: «Non si può trattare dell’uomo, e analizzarlo da tutti i punti di vista, come ho fatto, per sviluppare meglio e far conoscere questa macchina meravigliosa, senza trattare al contempo la grande e famosa questione della Libertà. Ho deciso di risolverla col fatalismo, sistema che mi è parso più probabile del suo pio concorrente; perché a forza di osservare e di studiare l’uomo in tutti i suoi diversi stati, ho capito, o perlomeno mi è parso di capire, che nel mondo, come nell’ipotesi fatalista, ciascuno recita la parte che gli fanno recitare gli ingranaggi di una macchina pensante che non è montata da lui: una macchina analoga a quella degli animali, dalla quale essa si distingue solo per qualche grado di intelligenza in più; una macchina, infine, che poiché ha una sola volontà, che dipende dai nervi, come quest’ultimi dagli oggetti, e poiché gira come una banderuola in balia di innumerevoli cause sia interne che esterne, riconosce in sé, quando è sincera, un movimento sconosciuto, un’inclinazione invincibile, una forza, una potenza che la trascina suo malgrado» (ivi, p. 116). Cfr. anche p. 161.^
19 Ivi, p. 115.^
20 Ivi, p. 184 ^
21 «Poiché siamo macchinalmente portati a realizzare il nostro bene e nasciamo con questa tendenza e questa invincibile disposizione, ne consegue che ogni individuo, preferendo se stesso a ogni altro, come quelli esseri inutili che strisciano sulla superficie della terra, non fa in questo modo che seguire l’ordine della Natura» (ivi, p. 161).^
22 Ivi, p. 190.^
23 Cfr. ivi, p. 126.^
24 Cfr. ivi, pp. 130-132.^
25 Cfr. ivi, p. 115, p. 142, p. 150. «Se togliete questo punto di appoggio» (cioè gli interessi della società), «addio morale», scrive La Mettrie (p. 143). Per questo «si è legata l’idea di generosità, di grandezza, di umanità, alle azioni importanti per le relazioni tra gli uomini; si è accordata della stima e della considerazione a chi non nuocesse mai, qualsiasi bene gliene potesse arrivare; del rispetto, degli onori e della gloria a chi servisse la patria, l’amicizia, l’amore o l’umanità stessa, a proprie spese; e attraverso questi nobili pungoli, quanti animali dalla figura umana sono diventati degli eroi immortali!» (pp. 162-163)^
26 «E io continua La Mettrie non conosco nessun medico filosofo che non ne convenga» (ivi, p. 117).^
27 Cfr. ivi, pp. 134-136.^
28 Ivi, p. 222.^
29 Ibidem. La citazione è tratta dall’edizione del 1748, da preferire, perché sembra esprimere in maniera più estesa il concetto. Nell’edizione del 1751 il passo suona così (identica la versione del 1750, salvo per una piccola variante): «se manca questa modificazione dei nervi (a tal punto tutto dipende dal temperamento), i buoni possono essere immersi in un abisso di mali; mentre questi cattivi soggetti di cui ho già parlato, per i quali il mondo intero è un deserto, che amano solo se stessi, e che esistono solo per se stessi, pondus inutile terrae, eterni spregiatori della virtù e dei cosiddetti veri beni, vivono contenti nel godimento di quei pretesi falsi beni, che non evidentemente così falsi, se non nel nome, perché essi rendono felici» (p. 203).
30 Ivi, p. 194.^
31 Ivi, pp. 196-197.^
32 Ibidem.^
33 Ibidem.^
34 Ivi, p. 125.^
35 Ivi, p. 124. Esemplare, in questo senso, l’autoritratto che La Mettrie traccia nel Système d’Épicure (§ LXIV): «Io non ho né timori, né speranze. Nessuna impronta della mia prima educazione; quella massa di pregiudizi succhiati, per così dire, con il latte, è, per fortuna, scomparsa di buon’ora sotto la divina luce della filosofia. Questa sostanza molle e tenera, sulla quale il sigillo dell’errore si era così ben impresso, oggi è liscia, non ha conservato alcuna traccia né dei miei colleghi né dei miei pedanti. Ho avuto il coraggio di dimenticare ciò che avevo avuto la debolezza di imparare; tutto è cancellato (quale felicità!); tutto è dissolto, tutto è estirpato fino alla radice ed è questa la grande opera della riflessione e della filosofia. Solo esse potevano strappare il loglio e seminare il buon grano nei solchi occupati dall’erba cattiva» (p. 179).^
36 Cfr. Discours sur le bonheur, p. 146.^
37 Cfr. ivi, pp. 115-116.^
38 Cfr. ivi, 148-149.^
39 Système d’Épicure (§ LXXVI), p. 184.^
40 Discours sur le bonheur, p. 139.^
41 Ivi, p. 158.^
42 Solo l’educazione «può darci dei sentimenti contrari a quelli che avremmo avuto senza di lei. Questo è l’effetto della modificazione, o del cambiamento che essa procura al nostro istinto, o al nostro modo di sentire. L’anima istruita non vuole, non persegue, non fa più quello che faceva prima, quando non era guidata che dall’istinto. Illuminata da mille sensazioni nuove, trova cattivo ciò che trovava buono; loda negli altri ciò che disprezzava in essi. Vere banderuole, noi giriamo dunque incessantemente, al vento dell’educazione; e ritorniamo in seguito al punto di partenza, quando i nostri organi, ripreso il loro tono naturale, ci richiamano a sé, e ci fanno seguire le loro disposizioni primitive. Allora le antiche determinazioni rinascono; quelle che l’arte aveva prodotto, si cancellano: infine, non si è neanche padroni di approfittare della migliore istruzione quanto si vorrebbe, per il bene della società. Si degenera malgrado se stessi» (Ivi, p. 163).^
43 Ivi, p 164.^
44 Cfr. ivi, p. 195.^
45 Ibidem.^
46 Cfr ivi, pp. 198-200 ^
47 Ivi, p. 200 ^
48 Ivi, p. 164. Infatti, «se il colpevole, in rapporto alla società, non è libero nelle sue azioni, ne consegue chiaramente che non è stato libero di non essere colpevole; che lo è, come se non lo fosse per nulla; che lo è in un senso, e non lo è per nulla nell’altro; nel senso delle relazioni arbitrarie, saggiamente stabilite; ma non in sé, non in senso assoluto, o filosoficamente parlando; diciamolo una volta per tutte, è chiaro che non lo è per nulla, e merita soltanto compassione» (Ibidem).^
49 Ivi, p. 201.^
50 Per l’immagine dei giorni felici degli immaginari uomini virtuosi rappresentata con la metafora dei «ruscelli», cfr. ivi, p. 201; da confrontare con l’immagine usata da Gassendi per descrivere la «tranquillità dell’anima» dell’uomo felice, che gode dei suoi piaceri moderati in calma successione, simile in questo all’«acqua che fluisce silenziosa e placida» (una via di mezzo tra l’acqua «stagnante e putrefatta» del godimento passivo e il «fiume rapinoso» che tutto trascina): cfr. Gassendi, Syntagma philosophicum. Tomus secundus (1658), in Opera omnia, a cura di T. Gregory, vol. 5, Stuttgart-Bad Cannstatt 1964 (ristampa dell’edizione di Lione del 1658), vol. 2, p. 717a.^
51 Ivi, p. 150 ^
52 Cfr. ivi, p. 155.^
53 Cfr. ivi, p. 116. La Mettrie chiede il riconoscimento dell’originalità, «dato che nessun filosofo ha prodotto nulla sull’argomento, che possa togliermi la piccola gloria dell’invenzione» (fatto salvo, dice, quello che si può leggere in Montaigne e nell’Examen de la réligion: cfr. ibidem). Sul debito nei confronti dell’Examen de la réligion (all’epoca attribuito a Saint-Évremond), La Mettrie si esprime con sfumature diverse, nelle tre edizioni dell’Anti-Sénèque, accettando comunque di spartire il merito della novità: sulla questione cfr. A. Thomson, La Mettrie et la littérature clandestine, in O. Bloch (a cura di), Le matérialisme du XVIIIe siècle et la littérature clandestine, Paris, Vrin, 1982, pp. 239-241.^
54 L’Homme Machine, p. 173 ^
55 Ivi, p. 175; cfr. anche p. 197. A sostegno di questa tesi, La Mettrie richiama il caso della ragazza ritrovata allo stato selvaggio, nel settembre del 1731, in una foresta nei pressi di Châlons (ne aveva già parlato nell’Histoire naturelle de l’âme). All’epoca, si disse che aveva ucciso una ragazza che viveva con lei e su questa vicenda erano sorte dicerie di vario tipo, tra cui quella qui riportata da La Mettrie: «Non si può distruggere la legge naturale. La sua impronta è così forte in tutti gli animali che io non dubito per nulla che anche i più selvaggi e feroci abbiano qualche momento di rimorso. Credo che la ragazza selvaggia di Châlons in Champagne avrà portato la pena del suo crimine, se è vero che ha mangiato sua sorella. Penso la stessa cosa di tutti coloro che commettono dei delitti, anche involontari, oppure dovuti al temperamento» (p. 173).^
56 Cfr. ivi, p. 175.^
57 «I criminali, i malvagi, gli ingrati, coloro insomma che non sentono la natura, tiranni infelici e indegni del giorno, hanno un bel trarre crudele piacere dalla loro barbarie; ci sono momenti calmi e di riflessione nei quali la coscienza vendicatrice sorge, depone contro di loro e li condanna a essere quasi senza tregua dilaniati dalle loro stesse mani» (ivi, p. 174).^
58 Ivi, p. 179.^
59 Solo nell’edizione del 1750 (e poi in quella del 1751) egli cita esplicitamente l’homo homini lupus come principio che spiega le dinamiche tra gli uomini e sottrae ogni senso alla legge naturale: Discours sur le bonheur, p. 153.^
60 Nel Discours préliminaire del 1750 La Mettrie lascia sospesa la questione se la fonte del principio «non fare agli altri quello che non vorresti che fosse fatto a te» sia il timore, «come ha detto Hobbes», o l’amor proprio, il movente fondamentale degli uomini: cfr. p. 226.^
61 Non hanno torto solo quelli (come Descartes) che «hanno arbitrariamente fabbricato le idee innate, per dare alle parole virtù e vizio una specie di posizione che le valorizzasse e le facesse prendere per delle cose reali», ma anche chi ha pensato di «attribuire i rimorsi a tutti i corpi animati, in virtù di una disposizione particolare che negli animali sarebbe sufficiente e che nell’uomo farebbe a mezzo con l’educazione» (Discours sur le bonheur, p. 157)^
62 «Allora – scrive , simile a un uccello che si esercita e teme di volare troppo lontano, io non osai armarmi contro tutti i pregiudizi in una volta sola» (ivi, p. 157).^
63 Per le reazioni alla teoria del rimorso di La Mettrie è esemplare il Poeme sur la loi naturelle di Voltaire (scritto nel 1752, ma pubblicato nel 1756). Nella «Prefazione» al poema, del 1756, Voltaire ricorda l’occasione che lo spinse a prendere la penna e richiama il caso della ragazza di Châlons (usato, come abbiamo visto, anche da La Mettrie): «questo esile saggio fu composto in occasione di un piccolo libello che apparve in quel tempo. Era stato intitolato il Sommo Bene ma il suo titolo avrebbe dovuto essere il Sommo male. In esso si sosteneva che non vi è né virtù né vizio, e che i rimorsi sono una debolezza dell’educazione che bisogna soffocare. L’autore del poema pretende di sostenere che i rimorsi sono per noi tanto naturali quanto le altre affezioni della nostra anima. Se la foga di una passione porta all’errore, la natura, restituita a se stessa, sente questo errore. La ragazza selvaggia trovata nei pressi di Châlons confessò che, in preda alla collera, aveva dato alla sua compagna un colpo per effetto del quale la disgraziata era morta tra le sue braccia. Quando vide il suo sangue colare, si pentì, pianse, tamponò questo sangue, mise delle erbe sulla ferita. Quelli che dicono che questo ritorno di umanità non è altro che un effetto del nostro amor proprio fanno molto onore all’amor proprio. Si chiamino la ragione e il rimorso come si vuole, essi esistono e sono i fondamenti della legge naturale» (Voltaire, Mélanges, éd. J. Van den Heuvel, Paris, 1961, p. 272).^
64 Pubblicato per la prima volta in forma anonima nel 1745, dopo aver circolato a lungo clandestinamente, il testo è stato datato intorno al 1705 e attribuito a César Chesneau Du Marsais da G. Mori, curatore dell’edizione critica pubblicata nel 1998.^
65 C. Chesneau Du Marsais, Examen de la religion ou Doutes sur la religion dont on cherche l’éclaircissement de bonne foi, introduction et édition critique par G. Mori, Oxford, Voltaire Foundation,1998, p. 201 e p. 293.^
66 Ivi, p. 202 e p. 294.^
67 Cfr. G. Mori, «Introduction», in Examen de la religion, cit. pp. 14-15.^
68 B. Spinoza, Etica. Dimostrata con metodo geometrico, a cura di E. Giancotti, Roma, Editori Riuniti, 1988, p. 223.^
69 Discours sur le bonheur, p. 116^
70 Cfr. ivi, pp. 116-117.^
71 Ivi, pp. 150-151.^
72 Per questo, il potere dei principi ha potuto trasformare un atto criminale, quale è «la carneficina della guerra», in un valore: «a tal punto la coscienza, che produce il pentimento, è figlia dei pregiudizi!», commenta La Mettrie; o, al contrario, per effetto della morale religiosa, un uomo buono che abbia ucciso un cattivo cittadino, travolto da «una passione di cui non è padrone», è condannato ad essere «tormentato da rimorsi che non avrebbe avuto per nulla se avesse ucciso un avversario da valoroso; o se un prete, legittimando la sua passione, gli avesse dato il diritto di fare ciò che tutta la natura fa» (ivi, p. 153).^
73 «Fortunatamente, questo crudele nemico non esce sempre vincitore. Ogni altra abitudine, o più antica o più forte, deve vincerlo necessariamente. Il sentiero meglio tracciato si cancella, così come si chiude un cammino o si colma un precipizio. Altra educazione, altro corso degli spiriti, altre tracce dominanti, infine altri sentimenti i quali non possono penetrare nella nostra anima senza calpestare le vestigia dei primi, che un nuovo meccanismo abolisce» (ivi, p. 151).^
74 Cfr. ivi, pp. 154-155.^
75 Ivi, p. 190. Il riferimento è ai Dialogues des morts modernes del 1693. La citazione è interessante; si riferisce a quanto dice Elisabetta di Inghilterra al Duca d’Alençon sulla natura dei piaceri: il vero piacere consiste solo nell’immaginare, nel vivere nel paese delle chimere; quelli che vengono solitamente chiamati piaceri, invece, «non sono abbastanza solidi per tollerare di essere approfonditi; bisogna soltanto sfiorarli. Essi assomigliano a quelle terre paludose sulle quali si è obbligati a correre leggermente, senza arrestarvi mai il piede» (Oeuvres diverses de M. de Fontenelle, t. I., La Haye, 1728, p. 41). Anche La Mettrie sottolinea l’importanza dell’immaginazione, capace di dare piaceri più consistenti di quelli sensibili.^
76 «Ho potuto sbagliarmi continua La Mettrie , voglio crederlo. Ma supposto, come penso sinceramente, che ciò sia vero dal punto di vista filosofico, cosa importa? Tutte queste questioni possono essere collocate nella classe del punto matematico, il quale esiste soltanto nella testa dei matematici, e di tanti problemi di geometria e di algebra la cui soluzione chiara e ideale mostra tutta la forza della mente umana; forza che non è per nulla nemica delle leggi, teoria innocente e frutto di pura curiosità, che è così poco applicabile alla pratica che non se ne può fare un uso maggiore di quanto si faccia di tutte le verità metafisiche della più elevata matematica» (Discours préliminaire, pp. 219-220)^
77 Ivi, p. 221^
78 Ivi, p. 222.^
79 Ivi, p. 223.^
80 Ivi, p. 224.^
81 Ibidem.^
82 Ivi, p. 209.^
83 Ivi, p. 208. La politica è dunque indispensabile, per fornire freni adeguati a quella specie di uomini «che, sfortunatamente, costituisce il maggior numero di individui; una specie imbecille, bassa, strisciante, da cui la società ha creduto di poter trarre qualche vantaggio soltanto catturandola attraverso il motore di tutti gli intelletti, l’interesse: quello di una felicità chimerica» (Système d’Épicure, § LXXVI, p. 184).^
84 Cfr. Discours préliminaire, p. 229.^
85 Discours sur le bonheur, p. 198.^
86 «Io non assomiglio in nulla a tutti quei ritratti di me che corrono per il mondo e si sarebbe anche nel torto a volermi giudicare dai miei scritti. Certamente, ciò che v’è di più innocente in quegli scritti tra di essi che lo sono di più, lo è ancora meno di me. Non ho né un cuore malvagio, né cattive intenzioni da rimproverarmi; e se la mia mente si è smarrita (essa è fatta apposta per quello), il mio cuore, più fortunato, non si è per nulla smarrito con essa» (ivi, p. 232); per l’autoritratto, cfr. anche Discours sur le bonheur, p. 198.^
87 Ivi, pp. 232-233.^
88 Ivi, p. 225.^
89 Ivi, p. 226.^
90 Ibidem.^
91 Ibidem.^
92 Ibidem.^
93 Cfr. Discours sur le bonheur, p. 139.^
94 L’Homme Machine, pp. 174-175.^
95 Discours préliminaire, p. 228. Il richiamo all’«amore dell’ordine» del filosofo è presente anche nelle versioni del 1750 e del 1751 dell’Anti-Sénèque, mentre è assente in quella del 1748 (cfr. Discours sur le bonheur, p. 200).^
96 Pubblicato per la prima volta nel 1743 e attribuito a César Chesneau Du Marsais.^
97 Le origini di questa espressione sono nella fortunatissima formula, destinata a essere variamente rielaborata in chiave laica nel Settecento, che Nicole Malebranche aveva declinato in chiave metafisico-teologica, scrivendo che «il n’y a point d’autre vertu que l’amour de l’Ordre. Sans cet amour toutes les vertus sont fausses» (Traité de morale, Paris, 1882, cap. II, p. 15).^
98 Le philosophe, in Nouvelles libertés de penser, Amsterdam (Paris), 1743, pp. 189-190. Ma, come fa notare Ann Thomson nella sua «Introduzione» al Discours préliminaire (p. 132), un confronto diretto è anche con l’Examen de la réligion, che, come sappiamo, La Mettrie aveva molto apprezzato. L’Examen de la religion distingue tra atei cattivi e buoni, affermando che «ci sono persone che non credono per niente alla religione cristiana per effetto della ragione, e si tratta di uomini molto dabbene: l’esprit de l’ordre li fa agire e la ragione li persuade, attraverso questo esprit de l’ordre, quanto convenga loro avere onore e probità. Ci deve essere naturalmente più probità in una persona persuasa dalla ragione della falsità della religione cristiana che in un cristiano. La confessione autorizza il crimine attraverso l’assicurazione di esserne assolti: si commette facilmente un crimine, quando si spera nel perdono, mentre l’uomo guidato dall’ordine non trova sostegni per perdonarsi i suoi errori» (Examen de la religion, cit. p. 210 e p. 302).^
99 Ivi, p. 192.^
100 Ivi, p. 195.^
101 Discours préliminaire, p. 228.^
102 Sul numero di luglio-agosto-settembre (XLV) del 1750 della Bibliothèque raisonnée compare, infatti, sotto forma di lettera, una bizzarra recensione del trattato di La Mettrie (gli studiosi identificano l’autore nel giornalista svizzero Gabriel Seigneux de Correvon). Il recensore immagina che il libro e la stessa figura di La Mettrie siano discussi in un’assemblea che si tiene all’inferno, presieduta da un personaggio che si chiama Poneirotatos (in greco significa «il più malvagio»), presenti i peggiori briganti e «scellerati». Qui La Mettrie, grazie soprattutto allo zelo che ha dimostrato nel difendere la tranquillità interiore del malvagio e nel condurre la sua strenua battaglia contro il rimorso e contro la morale religiosa, prende il posto che gli spetta alla corte del «Re degli Abissi», Lucifero, surclassando per importanza altri liberi pensatori irreligiosi, come Vanini e Tolland. Tra le diverse affermazioni che leggiamo nella recensione possiamo estrapolare, a titolo di esempio del contenuto e dello stile, quanto dice, a un certo punto della sua perorazione, Poneirotatos: «La nostra società sarà la sola da cui egli non potrà essere bandito, la sola che sia compatibile con le sue massime. I nostri sotterranei saranno il suo unico asilo, felice anche di trovarvi la sicurezza che egli toglie all’intero universo. Noi gliela dobbiamo, tuttavia, perché egli si sforza di gettare in quest’universo uno sconvolgimento che è sempre favorevole ai nostri punti di vista e alle nostre passioni. Se egli fosse ascoltato, non regnerebbe altro che un ordine apparente, e cosa non guadagneremmo in un mondo in cui non ci sarebbero più né virtù, né rimorso, né coscienza, né religione? In un mondo in cui i saggi, anch’essi indeboliti dai piaceri (poiché la saggezza consiste, per lui, soltanto nel ben gustare i piaceri) non avranno più il sentimento interiore della giustizia, quest’amore dell’Ordine così temibile per i nostri simili, questo zelo ardente per l’estirpazione del vizio, questa austerità fastidiosa per i nostri costumi, questa attenta vigilanza sulle nostre azioni. Quelle virtù che sono sostenute soltanto dalla speranza della ricompensa in un’altra vita svaniranno presto per effetto del ridicolo che li ricopre. Quali facilitazioni! Quali successi! Quali trionfi ci prepara l’audacia sfrenata dei suoi scritti!» (pp. 40-41).^
103 «È necessaria più forza per cancellare una piega, o anche la più piccola traccia impressa un tempo nella cera molle del cervello scrive La Mettrie , che per raddrizzare una sbarra di ferro» (Discours préliminaire, p. 262)^
104 Cfr. Discours sur le bonheur, p. 118.^
105 Ivi, p. 153.^
106 Ivi, p. 154.^
107 Ivi, pp. 155-156.^
108 Ivi, p. 197.^
109 Voltaire comincia a parlare di La Mettrie, nelle sue lettere, poco dopo averlo conosciuto, nell’estate del 1750, e rapidamente gli attacca le etichette di pazzo e di incoerente. Significativo è il ritratto che ne fa, da Potsdam, nella lettera del 6 novembre 1750 a Madame Denis, la nipote e amante, dopo la pubblicazione dell’Anti-Sénèque: «qui c’è […] un uomo troppo gaio: si tratta di La Mettrie. Le sue idee sono un fuoco d’artificio, sempre in forma di razzi volanti. Questo fracasso diverte un quarto d’ora e stanca mortalmente a lungo andare. Ha appena fatto, senza saperlo, un brutto libro, stampato a Potsdam, nel quale egli proscrive la virtù e i rimorsi, elogia i vizi, invita il suo lettore a ogni disordine, il tutto senza cattive intenzioni. Ci sono nel suo libro mille linee di fuoco, e non una mezza pagina ragionevole; sono dei fulmini in una notte. Persone di buon senso si sono mosse per fargli notare l’enormità della sua morale. Egli è stato completamente sorpreso; non sa quello che aveva scritto; domani scriverà il contrario, se lo desidera. Dio non voglia che io lo prenda come mio medico! Mi darebbe del sublimato corrosivo al posto del rabarbaro, molto innocentemente, e poi si metterebbe a ridere. Questo strano medico è lettore del re; e ciò che c’è di buono è che attualmente gli legge la Storia della Chiesa. Ne scorre centinaia di pagine e ci sono passaggi sui quali il monarca e il lettore sono pronti a soffocare dalle risate» (Voltaire, Correspondance, III, édition T. Besterman, Paris, 1975, lettre 2678, p. 269). Al di là dei molti commenti, spesso pesanti e volgari, sulla sua personalità e sul suo stile di vita, da una parte, Voltaire mostra di condividere la lotta di La Mettrie contro i pregiudizi figli della religione, dall’altra, sostiene, però che «c’è una grande differenza tra combattere le superstizioni degli uomini e rompere i legami della società e le catene della virtù» (Ivi, lettre 3123 al duca di Richelieu, 27 gennaio 1752, p. 592). Sul contraddittorio atteggiamento di Voltaire nei confronti di La Mettrie, tra curiosità, gelosia e repulsione, cfr. l’introduzione di J. Falvey a J.O. de La Mettrie, Discours sur le bonheur, «Studies in Voltaire and the Eighteenth Century», 134 (1975), pp. 91-93 e M. Sozzi, La Mettrie nella storia del critica. La fortuna settecentesca, in «Studi francesi», 1992, pp. 23-25.^
110 Le citazioni dei testi di Diderot sono tratte da Diderot, OEuvres complètes, éditées par H. Dieckmann, J. Proust, J. Varloot, Paris, 1975 et suivant, edizione indicata con la sigla DPV seguita dal numero romano indicante il volume e il numero di pagina.^
111 Pensées philosophiques, § XXII, DPV II, p. 30. Diderot distingue qui tre tipi di atei: i «veri atei» (da compiangere), gli «scettici» (per i quali bisogna pregare, affinché siano illuminati dalla verità) e i «fanfaroni» (da detestare).^
112 Scrive, infatti, Diderot: «senza il timore del legislatore, l’inclinazione del temperamento e la conoscenza dei vantaggi attuali della virtù, la probità dell’ateo mancherebbe di fondamento e quella dello scettico sarebbe fondata su un forse» (Pensées philosophiques, § XXIII, DPV II, p. 30).^
113 Certi che le argomentazioni dell’ateo delle Pensées philosophiques contenga riferimenti a La Mettrie sono H. Dieckmann e J. Deprun: cfr. la nota 179 posta in appendice alla Promenade du sceptique, DPV II, p. 167. È sicuro comunque che l’opera di Diderot fu attribuita dal Parlamento di Parigi proprio a La Mettrie e condannata al rogo insieme all’Histoire naturelle de l’âme (1745).^
114 L’homme Machine, p. 177. Probabilmente La Mettrie crede che Diderot sia un medico per la sua partecipazione alla traduzione dell’opera di Robert James, A Medical Dictionary (1743-1745), apparsa in francese in 6 volumi, tra il 1746 e il 1748, con il titolo Dictionnaire universel de médecine, de chirurgie, de chymie, de botanique, d’anatomie, de pharmacie, d’histoire naturelle.^
115 Ibidem.^
116 Cfr. R. Trousson, Denis Diderot ou le vrai Prométhée, Paris, Tallandier, 2005, pp. 99-100.^
117 Sulla possibilità che l’ateo della Promenade contenga qualche riferimento al pensiero di La Mettrie, cfr. ancora la nota 179 dei curatori del testo in DPV II, p. 167.^
118 Promenade du sceptique, DPV II, p. 123.^
119 Nell’Histoire naturelle de l’âme (1745) La Mettrie, contestando il dualismo cartesiano, attribuisce alla materia organica, comune agli uomini e agli animali, le tre proprietà dell’«estensione», della «mobilità» e della «sensibilità». Se nella «materia inorganica» la sensibilità si presenta solo come una proprietà «in potenza», nella «materia organica», fatta di «fibre» e di «molecole», essa si sviluppa in diversi livelli di «organizzazione», fino al gradino superiore, rappresentato dal «cervello», sede delle facoltà intellettuali.^
120 Promenade du sceptique, DPV II, pp. 138-139.^
121 Ivi, p. 139.^
122 Ivi, p. 78.^
123 Essai sur les règnes de Claude et de Néron, DPV XXV, p. 414.^
124 Discours sur le bonheur, p. 150.^
125 Il riferimento di La Mettrie, presente nella sola edizione del 1748 dell’Anti-Sénèque, è alla pièce di Voltaire Sémiramis, messa in scena a Parigi nel 1748.^
126 Discours sur le bonheur, p. 150.^
127 Ivi, p. 225. Il riferimento sparisce nelle due revisioni successive, quella del 1750 e quella del 1751.^
128 «Voi temete per la sorte di quel giovane e celebre studioso, al quale è bastato un cieco per illuminare l’universo e per condurre il suo autore a Vincennes […] Ma come! Tali scritti non suscitano in voi quell’elevazione, quella grandezza d’anima che non conosce il pericolo? Alla vista di tante belle opere potete restare senza coraggio, senza amor proprio? Alla vista di tanta grandezza d’anima, non ve ne sentite per nulla, in voi?» (Discours préliminaire, p. 246). Insieme a Diderot La Mettrie cita Toussant, autore dei Moeurs (1748), opera censurata e che costò al suo autore l’esilio in Olanda (e non la Bastiglia, come La Mettrie sembra credere).^
129 Ivi, p. 247.^
130 Polier de Bottens, Pensées chrétiennes mises en parallèle, ou en opposition, avec les Pensées philosophiques, Rouen, 1747, pp. 3-4.^
131 L’equivoco prende definitivamente corpo grazie alla recensione delle Pensées philosophiques apparsa (insieme a quella dell’opera di Polier di Bottens) sulla Bibliotèque raisonnée des ouvrages des savants de l’Europe nel numero di gennaio-marzo 1748: qui il testo viene senz’altro attribuito a La Mettrie e non a Diderot (come pure, troviamo scritto, alcuni credono).^
132 La risposta di La Mettrie a Polier de Bottens è pubblicata in appendice all’Ouvrage de Pénélope, tomo III, Berlin, 1750, i passi citati sono alle pp. 360-362. Riferimenti e testo in A. Vartanian, La Mettrie and Diderot Revisited: an Intertextual Encounter, in «Diderot studies», 21 (1983) pp. 157-158.^
133 Cfr. Ouvrage de Pénélope, tomo III, cit. p. 242.^
134 Cfr. Oeuvres de médecine de Mr. de la Mettrie, tome premier, Berlin, 1751, p. 10.^
135 Nell’articolo (Encyclopédie, I, p. 85) Diderot cita il «Commentaire» che La Mettrie aveva aggiunto alla sua traduzione in francese delle Institutions de Médecine di Hermann Boerhaave, il medico olandese di cui era stato allievo a Leyden (cfr. Institutions de medecine de Mr- Herman Boerhaave, avec un Commentaire par M. ***, Docteur en Médicine, t. VII, Paris, 1750, pp. 256-257). Altre citazioni compaiono negli articoli «Cadavre» (II, p. 511) e «Aimorrus» (I, p. 224).^
136 Con chiari intenti espressi già nel 1751, nell’articolo «Âme» dell’Encyclopédie. Qui, il suo autore principale, l’abate Claude Yvon (1714-1791), prende in considerazione quattro problemi (l’origine dell’anima, la sua natura, il suo destino, gli esseri nei quali ha sede), passando in rassegna le principali teorie sostenute nei secoli da filosofi e teologi. Diderot vi aggiunge una postilla, in cui si sofferma ad analizzare il modo in cui fisiologi e anatomisti, che gli sembrano essere i soli competenti in materia, hanno affrontato, in tempi recenti, la questione della sede dell’anima nel cervello (Encyclopédie I, pp. 340-343). L’aggiunta di Diderot è, in realtà, una sorta di collage tra testi diversi, tratti da altri articoli dell’Encyclopédie (come «Cerveau», scritto dal medico parigino Pierre Tarin) o da resoconti e memorie dell’Accademia delle Scienze di Parigi, che riferiscono esperienze e osservazioni di specialisti in campo medico e anatomico. Particolarmente importante per Diderot è il resoconto delle ipotesi avanzate dal medico François Gigot de la Peyronie (1678-1747), contenuto nei «Mémories de Mathématique et de Physique» dell’Accademia delle Scienze di Parigi del 1741 con il titolo Observations par lesquelles on tâche de découvrir la partie du Cerveau où l’Âme exerce ses fonctions. Nel suo lavoro redazionale, Diderot si limita a tagliare qua e là i testi, a legarli insieme, talvolta a riassumerne il senso, aggiungendo ogni tanto alcune sue considerazioni personali. Per quanto frutto di un assemblaggio, l’appendice è significativa almeno per due ragioni. Da una parte, manifesta l’attenzione rivolta da Diderot ai temi della ricerca in ambito medico e biologico e l’importanza che egli assegna alle ricerche degli anatomisti (rispetto a quelle dei filosofi) sui temi del rapporto anima-corpo. Dall’altra, contiene alcune considerazioni che sono un esempio della metodologia applicata da Diderot, di impostazione scettica: nell’indagine bisogna attenersi ai fatti e valutare ogni ipotesi ragionevole, mostrando l’attendibilità delle conseguenze che se ne possono ricavare, in attesa di ulteriori verifiche sperimentali. Dopo avere passato rapidamente in rassegna alcune tesi sulla localizzazione dell’anima, Diderot ricorda come il dibattito si sia da tempo concentrato sulla sua collocazione in qualche parte del cervello. Egli sembra ritenere più attendibile la tesi sostenuta da de la Peyronie, che colloca l’anima nel corpo calloso, anche se la considera un’ipotesi che potrà essere sconfessata da ulteriori esperienze. Tenuto conto del fatto che lo scritto è del 1751, possiamo già cogliere dietro l’affermazione che le funzioni di «ciò che pensa in noi» «dipendono dall’organizzazione e dallo stato attuale del nostro corpo» (p. 341) il punto di vista materialista che Diderot svilupperà coerentemente una volta liberato dall’impegno con l’Encyclopédie, prima nel Rêve de d’Alembert (1769) e poi negli Élements de physiologie. Qui sosterrà, seppur con la cautela di chi sa di muoversi nell’ambito delle ipotesi, in un campo di ricerca sicuramente aperto a ulteriori sviluppi, che sensazione, intelligenza, memoria, immaginazione non sono «facoltà dell’anima» (secondo la tradizionale classificazione baconiana), localizzate in qualche parte del corpo, ma veri e propri «fenomeni del cervello».^
137 Ricordiamo, ad esempio, cosa scrive Diderot nel giugno del 1756 al teatrante Landois, che gli sottopone un manoscritto pericoloso con preghiera di pubblicazione: Diderot, piuttosto arrabbiato per la richiesta che lo potrebbe mettere in pericolo, gli dà dell’imbecille, ricordandogli che egli ha moglie e figlia, che è schedato dalla polizia e che se accogliesse la richiesta diventerebbe un recidivo (dopo la brutta esperienza dell’estate del 1749): cfr. Lettre à Landois, DPV IX, p. 254.^
138 Nel 1760 il giovane commediografo Palissot (1730-1814) mette in scena, nella cornice di gran prestigio del Théatre-Français di Parigi, la pièce «Les philosophes», ottenendo un eccezionale successo. Il suo obiettivo è quello di mettere alla berlina Diderot e i philosophes, già colpiti, all’inizio dell’anno precedente, dalla condanna del Parlamento parigino, che aveva bloccato la pubblicazione dell’Encyclopédie e censurato il libro di Helvétius, De l’Esprit. Se nei confronti di Rousseau l’intento è soprattutto satirico e si appoggia al precedente creato da Voltaire (Rousseau viene rappresentato da Palissot, grande ammiratore di Voltaire, mentre cammina a quattro zampe), pesantissimo è l’attacco rivolto a Helvétius e Diderot (il quarto coinvolto direttamente è Duclos), rappresentati come seguaci della morale del puro interesse, falsi profeti dell’amore per l’umanità, freddi amanti della menzogna e della truffa. Per sostenere il suo operato contro «la setta imperiosa» dei filosofi e difendersi dalle prime e violente contro-accuse, Palissot pubblica, insieme al testo della commedia, una prefazione, in cui cita, a sostegno delle sue tesi, brani tratti da testi dei philosophes e dall’Encyclopédie. Nel florilegio troviamo, in prima posizione, la Mettrie, con il suo Discours sur le bonheur (ben 5 citazioni, oltre ad una tratta dall’Homme Plante, su un totale di 20; Helvétius ne merita soltanto 4). Grazie a questo commediografo, dunque, a quasi dieci anni dalla sua morte, La Mettrie diventa, per il senso comune, un vero philosophe (titolo che, del resto, egli aveva reclamato espressamente). Un accostamento fastidioso, per Diderot, che egli poteva sentire rivolto soprattutto a se stesso, visto che, dal 1746 (l’anno della contemporanea condanna, da parte del Parlamento parigino, delle sue Pensées philosphiques e della Histoire naturelle de l’âme di La Mettrie), spesso e volentieri, egli era stato avvicinato o paragonato al medico di Saint-Malo, come ateo e materialista (sul tema cfr. A. Vartanian, La Mettrie and Diderot revisited: an intertextual encounter, cit., pp. 193-195).^
139 Cfr. A. Vartanian, La Mettrie and Diderot Revisited: an Intertextual Encounter, cit.; sempre di Vartanian, cfr. l’introduzione a La Mettrie’s L’Homme Machine. A Study in the Origins of an Idea, Princeton, University Press, 1960, pp. 117-119.^
140 Cfr. Essai sur les règnes de Claude et de Néron, DPV XXV, p. 304.^
141 Ivi, p. 248. ^
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