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A Weimar, tra profeti dell’Apocalisse e apostoli di una nuova era
di Daniele Demarco
Agosto 1932: mossa dalle considerazioni di Lev Trockij sulle prospettive del bolscevismo in Germania, Simone Weil s’incammina dalla Francia verso Berlino. L’intenzione è di testare gli umori del proletariato tedesco all’indomani della Grande Guerra; di verificare se sarà effettivamente in grado, come chiedeva Trockij, di scegliere tra fascismo e rivoluzione. All’arrivo nella capitale del decaduto Impero prussiano, il sentimento è, però, di grande sconcerto. «La situazione – scrive la Weil – è tragica». Chiunque raggiunga, di questi tempi, la Germania «ha la sensazione che il treno lo abbia portato da un eremo isolato dal mondo al mondo vero»1. Una terribile congiuntura economica si abbatte, infatti, su un paese già sconfitto e umiliato dalle potenze dell’Intesa. A contendersi l’egemonia politica ci sono due partiti antisistema: la Nsdap (il partito nazional-socialista di Adolf Hitler) e la Kpd (il partito comunista di Ernst Thälmann). Entrambi condividono l’avversione al capitalismo. Per i nazisti il capitale da abbattere è, però, quello finanziario che avrebbe imposto alla Germania «la schiavitù degli interessi»2. Per i comunisti è, invece, il capitale industriale che subordinerebbe alle proprie occorrenze la produzione nazionale. In previsione della vittoria finale, entrambe le parti azzardano una lugubre contabilità dello sterminio. Per i rossi, «se la Germania diventa comunista […], centinaia di migliaia di nemici di classe staranno dietro il filo spinato. E si avrebbe difficoltà a procurare travi sufficienti per le forche»3. Per le camice brune si tratterebbe, invece, di far fronte a «18 milioni di marxisti e tra di essi forse dai 14 ai 15 milioni di comunisti»4. Stretta tra due fuochi e ancora memore degli anni ruggenti della Belle Époque, la borghesia, è terrorizzata. Un nuovo pessimismo s’insinua fra i tedeschi, più desolante e più disperato di quello che già li aveva colti dopo i falliti moti del 1848; paragonabile soltanto al senso di annientamento spirituale avvertito all’indomani della disfatta nella Guerra dei Trent’anni, quando inerme e abbandonato alle scorrerie degli eserciti nemici, il popolo si era dato a fantasticare di presunti segni della collera divina e sull’incombenza del Giudizio Universale. Anche a Weimar, ricorda Benedetto Croce, imperversavano profeti dell’Apocalisse; «torbidi e malfidi avventurieri dello spirito» che, soffiando sulle macerie ancora ardenti della Grande Guerra, annunciavano la «decadenza della Occidente o addirittura del genere umano»5. Chiaro il riferimento a Oswald Spengler, «sedicente “Copernico della storia”»6 a cui Croce rimproverava di aver confuso le menti e depresso gli animi dei tedeschi7. Nel Tramonto dell’Occidente, opera pubblicata in due volumi tra il 1918 e il 1923, Spengler congedava, infatti, la visione positivista del progresso con una «morfologia della storia universale» che era, in senso proprio, una filosofia della decadenza. La civiltà moderna, diceva l’autore del Tramonto, è, ormai, prossima alla rovina. Una nuova età del ferro seguirà; età dura e sinistra, in vista della quale converrebbe imporsi uno stoico fatalismo e rigettare ogni mollezza umanitaria. Simili conclusioni derivavano da un approccio sperimentale alla ricerca storica: un ancora inedito metodo comparativo o, per usare le parole di Spengler, una «tecnica dei confronti» tale da rilevare eventi che, pur collocati su piani cronologicamente differenti, potevano esser considerati contemporanei o sincronici. Sincronico era, ad esempio, secondo l’autore del Tramonto, il trapasso che, in tutte le civiltà, conduce dalla cultura (lo stadio per così dire animico-creativo), alla civilizzazione (lo stadio di consolidamento e fossilizzazione). Una transizione, questa, che nell’antichità si era legata al nome di Alessandro e in Occidente, invece, a quello di Napoleone8. Questo genere di parallelismi, a differenza di quelli più celebri di Plutarco e Ranke, avevano, per Spengler, una valenza diagnostica. E, difatti, da un’altra presunta corrispondenza, quella fra la crisi della res pubblica romana e la crisi dei moderni regimi costituzionali, l’autore del Tramonto desumeva non soltanto che il corso del liberalismo era, ormai, compromesso, ma che, oggi come ieri, a introdurre nuovi ordinamenti sarebbero stati uomini di statura cesarea (o mussoliniana) la cui virtù risiedeva non tanto nel carisma, quanto nella capacità di cogliere e accompagnare il grande piano destinale. La personalizzazione del potere politico, l’Imperium, era, infatti, per Spengler, l’evento tipico di una civiltà al tramonto e a nulla sarebbe valso opporvisi, poiché «un compito che la necessità della storia ha posto verrà realizzato con il singolo o contro di esso». «Noi – scriveva l’autore – non abbiamo la possibilità di realizzare questo o quello ma la libertà di fare ciò che è necessario o nulla». Dunque: o subire passivamente il destino o assecondarne lo svolgimento e propiziare il trapasso l’età borghese. Non era stato, forse, Nietzsche, il solo maestro, insieme a Goethe, a cui Spengler guardasse con devozione, a dire che «i deboli, i mal riusciti devono perire» e che «a tale scopo si deve anche essere loro d’aiuto»9? Era con quest’animo che Spengler esortava i giovani ad accettare ciecamente il mandato destinale spendendo il proprio impegno nei settori della vita pratica piuttosto che nelle arti liberali. «Se per effetto di questo libro uomini della nuova generazione si dedicheranno alla tecnica invece che alla lirica, alla marina invece che alla pittura, alla politica invece che alla critica della conoscenza, essi faranno proprio ciò che io desidero»10. Croce che, senza mezzi termini, definiva l’opera di Spengler degna di un «imbecille-disperato»11, non mancava di coglierne, però, gli aspetti più insidiosi. In una Germania in cui il richiamo rivolto all’uomo forte sembrava ormai levarsi alto come «il grido degli stregoni africani quando invocano il temporale»12, l’autore del Tramonto tirava, infatti, in ballo l’argomento catastrofico non come semplice accidente storico, ma come pretesto studiatamente architettato per addomesticare, complice l’urgenza dell’ora e del tempo, ogni residua riserva morale e imprimere alla ricca costellazione weimeriana il marchio uniformante dell’autorità. Ma di quale legittimità, si chiedeva Croce, poteva essere capace un’autorità amputata della propria coscienza morale? Si sarebbe, davvero, tornati al diritto del più forte, alla sommaria giustizia dei Cesari con il suo correlato orgiastico e marziale. E non era proprio contro questo genere di arbitrio che si era levata, in origine, la rivoluzione cristiana? Se alla giustizia fosse bastato l’arbitrio della forza, aveva già detto San Paolo, Cristo sarebbe morto invano (Gal., 2, 21)13. Da questo punto di vista, i precetti di Spengler non si rivelavano soltanto antistorici (perché frutto di illegittime deduzioni)14, ma anche anticristiani. Né poteva stupire che fossero in gran parte desunti da una personalissima esegesi di Nietzsche. Tale aspetto doveva apparire evidente anche a Thomas Mann che, pur avendo riconosciuto nel Tramonto un prodotto «ricco di scienza e di visioni», aveva definito Spengler l’astuta «scimmia»15 del folle di Torino. «Quando seppi che quest’uomo [Spengler] pretendeva che la sua profezia di calcificazione fosse presa sul serio come veramente positiva – racconta lo scrittore di Lubecca – allontanai il suo libro dalla mia vita, per non dover ammirare ciò che è dannoso, anzi letale»16. Non così per Ernst Jünger che dal carisma del Tramonto era rimasto, invece, folgorato. È vero, sosteneva Jünger, l’opera di Spengler aveva letteralmente estirpato dalle coscienze dell’individuo tedesco il pregiudizio «dell’unicità e straordinarietà della sua comparsa nella storia»17. Ma quale fraintendimento poteva dimostrarsi tanto abnorme quanto quello di «considerare un’evoluzione al culmine della quale vi sarebbe la magnificenza dell’uomo»18? Ciò che la visione di Spengler e il suo Kulturpessimismus produssero nei suoi discepoli, ricorda Jünger, non era un’attitudine crepuscolare. «Il nostro atteggiamento era quello di chi voleva riconoscere con occhio disincantato la nuova realtà della tecnica e del lavoro e prendervi parte senza rimpianti nostalgici né proiezioni apocalittiche»19. Sintomatico è, però, che, incamminandosi oltre la linea del Tramonto marcata da Spengler, Jünger non riuscisse a scorgere altro che il deserto di un’esistenza livellata alla bassezza della materia; un mondo secolarizzato, scristianizzato e de-spiritualizzato in cui ogni residuo di sacralità precipitava verso la spianata tecnico-utilitaristica20. Su questo autentico letto di Procuste era rimasto solo il lavoro, a dare un senso alla vita umana. Lavoro trasfigurato, ormai, in sostanza metafisica, onniabbracciante21 e l’umanità in sua mera funzionaria. «Servire – scriveva Jünger – questo è il compito che ci spetta»22. Ma affermare ciò equivaleva a rovesciare la piramide dei valori. Dove un tempo si dispiegavano libere le iniziative individuali, adesso vigeva un gelido rigore, dove le definizioni di diritto universale adesso il «dovere totale»23, dove i patti e i vincoli giuridici, adesso l’imperativo «che trascorre come un fulmine dalla cima alle radici»24. E «comunità che vivono operando scrupolosamente come formiche, pronte a considerare il diritto all’originalità come un’abusiva manifestazione della sfera privata»25. Le loro unità fondamentali sono gli Arbeiter avanguardia di una razza a venire tanto simile, per volontà e abnegazione, allo stereotipo del lavoratore sovietico, quanto catafratto a ogni sensiblerie al pari dei celebri robot di Karel Capek. Sacrificio di sé: questo il loro fine26. Laconismo, prussianesino, bolscevismo: le loro esemplari virtù27. I loro tratti austeri, «quei volti scavati e rasati, nella penombra degli elmetti imponenti»28 già sono il riflesso di un mondo definito dallo sperimentale connubio tra freddo tecnicismo e primitiva brutalità, «un mondo vecchio e nuovo, rivoluzionario e reazionario avrebbe scritto Thomas Mann in cui i valori connessi con l’idea dell’individuo, diciamo dunque: verità, libertà, diritto, ragione, erano del tutto snerbati e ripudiati […] strappati alla pallida teoria e relativamente rinsanguati e riferiti all’istanza superiore della violenza, dell’autorità, della dittatura»29. Non c’è dubbio che su queste fosche visioni già si proiettasse l’ombra minacciosa del Terzo Reich.







NOTE
1 S. Weil, La Germania in attesa. Impressioni agosto e settembre 1932, in ID. Sulla Germania totalitaria, trad. it., Milano, Adelphi, 1990, p. 38.^
2 E. Nolte, I tre volti del fascismo, trad. it., Milano, Mondadori, 1971, pp. 456-457.^
3 Idem, La repubblica di Weimar. Un’instabile democrazia fra Lenin e Hitler, trad. it., Milano, Christian Marinotti edizioni, 2006, p. 7, nota 2.^
4 Ivi, p. 251.^
5 B. Croce, Storia d’Europa nel secolo decimonono, Milano, Adelphi, 1991, pp. 427-428. Cfr. anche p. 320 «E si parlò di nuovo, allora, come se n’era parlato prima e se n’è riparlato poi da coloro che non hanno meglio da fare e da pensare, della “decadenza dell’Europa”, con sentimento direttamente opposto alla fede generale del secolo decimonono, il “secolo del progresso”».^
6 Su Spengler e lo storicismo si veda D. Conte, Oswald Spengler e l’idea di «sviluppo», in Albe e tramonti d’Europa. Ernst Junger e Oswald Spengler, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 2009, pp. 173-189.^
7 B. Croce, Der Untergang des Abendlandes. Umrisse einer Morphologie der Weltgeschichte ist das kulturphilosophische Hauptwerk, in «La Critica», 18 (1920), p. 238.^
8 O. Spengler, Il tramonto dell’Occidente. Lineamenti di una morfologia della storia mondiale, trad. it., Milano, Longanesi, 2008, pp. 15-16.^
9 F. Nietzsche, L’Anticristo, trad. it., Milano, Adelphi, 1997, p. 5.^
10 O. Spengler, cit., p. 72. E sembra di rileggere le parole del nichilista Bazarov in Padri e Figli di Turgenev: «Un discreto chimico è venti volte più utile di qualsiasi poeta». I. Turgenev, Padri e Figli, trad. it., Torino, Einaudi, 1998, p.30.^
11 B. Croce, Der Mensch und die Technik. Beitrag zu einer Philosophie des Lebens ist eine philosophische Schrift, in «La Critica», 30 (1932), p. 58.^
12 E. Jünger, I nostri politici, in Scritti politici e di guerra 1919-1933, trad. it., Gorizia, Libreria Editrice Goriziana, 2003, vol. I, p. 78.^
13 B. Croce, Perché non possiamo non dirci «cristiani», in ID. La mia filosofia, Milano, Adelphi, 2006, pp. 40-41. All’apparire del Cristianesimo, scrive Croce, «la coscienza morale […] attinse unicamente alla voce interiore, non da comandi e precetti esterni, che tutti si provano insufficienti». 14 Cfr. M. Cacciari, Geofilosofia dell’Europa, Milano, Adelphi, 2003, pp. 114-115. «[l’evo] dell’Europa cristiana, non ha origine dall’affermazione di un nuovo diritto – lo ius rimane quello imperiale romano –, ma dalla crisi della sua stessa idea. La legge non solo è debole (asthenés), ma anche inutile (anopheleés) per pervenire alla vera città che è quella celeste».^
14 Cfr. B. Croce, Der Untergang des Abendlandes, cit. in «La Critica», 18 (1920), pp. 237-239. «Tutto può accadere nel mondo – scrive Croce – e anche che dopo il 2200, i nostri pronipoti tornino alla selva dei nostri lontani progenitori. Ma asserire ciò come fatto certo in base ad «analogie» […] è dire una scioccheria».^
15 TH. Mann, Lettera a Ida Boy Ed (5 dicembre 1922) in E. Mann (a cura di), Epistolario 1889-1936, trad.it., Milano, Mondadori, 1963, p. 271. Citata in D. Conte Catene di civiltà. Studi su Spengler, Roma, Edizioni scientifiche Italiane, 1994, p. 30.^
16 TH. Mann, Della Repubblica tedesca in Scritti storici e politici, trad. it., Milano, Mondadori, 1957, pp. 145-146.^
17 E. Jünger, Al muro del tempo, trad. it., Milano, Adelphi, 2000, p. 75.^
18 Ivi, p. 82.^
19 A. Gnoli, F. Volpi, I prossimi titani. Conversazioni con Ernst Jünger, Milano, Adelphi, 1997, p. 19.^
20 E. Jünger, L’operaio. Dominio e forma, trad.it., Parma, Guanda, 2004, p. 190. Tra la forma di questo mondo e l’anima cristiana, dice Jünger, «Non può esistere un rapporto, così come non era possibile tra l’anima cristiana e gli antichi déi e idoli».^
21 E. Jünger, L’operaio. cit., p. 62. «Lavoro è il ritmo della mano operosa, dei pensieri, del cuore, è la vita diurna e notturna, la scienza, l’amore, l’arte, la fede, il culto, la guerra; lavoro è l’orbitale atomico e la forza che muove i sistemi planetari».^
22 Ivi, p. 269.^
23 Ivi, p. 136.^
24 Ivi, p. 15.^
25 Ivi, p. 41. Sull’opposizione nei concetti di tipo e di individuo in Jünger si veda anche D. Conte, «Tipo» contro «individuo» nell’Arbeiter di Ernst Jünger, in Albe e tramonti d’Europa, cit., pp. 3-21.^
26 Ivi, p. 68. «La più profonda felicità dell’uomo è nell’essere sacrificato».^
27 Ivi, p. 269. «Quanto più cinico, spartano, prussiano o bolscevico potrà essere […], il modo di vivere tanto meglio sarà».^
28 E. Jünger, Boschetto 125, trad. it., Parma, Guanda, 1999, p. 34.^
29 TH. Mann, Doctor Faustus, trad. it., Milano, Mondadori, 1980, p. 503.^
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