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Il liberalismo napoletano da Croce a Cortese
di Luigi Compagna
Sessant’anni fa moriva Benedetto Croce e il 24 novembre a Napoli lo ha ricordato il Capo dello Stato. Forse oggi nessuno più dell’allora gramscianissimo Giorgio Napolitano è parso fatto apposta per la circostanza. Gramsci pretese di essere l’anti-Croce. In tale prospettiva, Togliatti se ne fece divulgatore. Ma la storia rivela poi sempre più fantasia dei suoi protagonisti (avrebbe spiegato Croce).
Dopo la tragedia di Casamicciola, Croce visse per qualche anno a casa Spaventa a Roma. Gli si dischiuse un ambiente di deputati, professori, magistrati, giornalisti. Vi si svolgevano dispute giuridiche e politiche alle quali egli assisteva silenzioso, non senza registrare (con insofferenza) eccessi di esecrazione nei confronti di Depretis e più in generale della Sinistra.
Gli esacerbati rappresentanti della Destra che animavano le serate di casa Spaventa sembravano al giovane Croce «disinteressati e sincerissimi assertori di libertà e affatto scevri di conservatorismo utilitario». Ma non lo convinceva, e gli pareva inutile, il continuare a «condannare come deplorevole e incivile perversione e corruttela quel trasformismo, che pure ripeteva il ritmo del connubio attuato vent’anni innanzi dal genio politico di Camillo di Cavour». Insieme alla scoperta del Labriola e del marxismo, già in quel periodo si affacciava alla sua mente l’idea, successivamente elaborata sul terreno degli studi storici nei primi anni Trenta, di una irrinunciabile «concordia discors di liberalismo e democrazia».
Prima della guerra, senza aver ancora conosciuto Giolitti di persona, Croce nella contrapposizione fra neutralisti ed interventisti aveva serbato un profilo nitidamente “giolittiano”. Sicché, caduto nella seconda metà del giugno 1920 il governo Nitti e affidato a Giolitti l’incarico di comporre il nuovo governo, non era imprevedibile (né fu imprevisto) che Olindo Malagodi, allora direttore de «La Tribuna», inviasse a Napoli un comune amico a pregare Croce di venire al più presto a Roma per conferire col presidente del consiglio, il quale intendeva averlo al governo come ministro della pubblica istruzione.
Fra Croce e Giolitti si passò rapidamente dal “lei” al “tu” e nacque una collaborazione nella quale lo statista avrebbe riconosciuto al filosofo “molto buon senso” e questi se ne sarebbe molto compiaciuto. Per Croce si trattò forse, come egli stesso ebbe a dire dopo qualche mese, rievocando la sua esperienza di ministro, del «maggior sacrificio fatto per adempimento di dovere. Lo faccio, perché penso che tanta gente è stata chiamata per farsi ammazzare e dunque io devo prestare una sorta di servizio militare e non lamentarmi». Tanto più, aggiungeva Croce, che nei confronti di Giolitti «mi sentivo, nel rispetto, piccolo piccolo», tanto che «considerando me stesso come entrato incidentalmente e transitoriamente nell’operosità politica, che non mi apparteneva, non pensai neppure a farmi suo discepolo, in vista dell’avvenire».
Qualche anno dopo, della crociana Storia d’Italia dal 1871 al 1915, della quale si continua a ripetere che maggior protagonista fosse in realtà l’“uomo di Dronero”, questi ebbe a dire di avervi trovato materia per apprendere. E Croce interpretò il suo apprezzamento nel senso che il vecchio uomo di Stato avrebbe appreso non da lui, uti singulus, bensì «dalla virtù della storiografia il significato dell’opera, che egli, come il poeta la poesia, aveva eseguito nel fatto, senza, nel travaglio del fare, potersi mettere sopra a essa e guardarla nello sfondo della verità storica».
La storia come pensiero e come azione fu sempre per Croce distinzione irrinunciabile. Il suo liberalismo fu per tanti aspetti più storiografico che filosofico, come sostiene Giuseppe Galasso (Croce e lo spirito del suo tempo, Bari, 2002). Aggrappato al suo Vico, fu egualmente voce squillante (non meno di Orwell, di Talmon, della Arendt) dell’antitotalitarismo del secondo dopoguerra.
La sua intransigenza contro i nuovi dispotismi, dentro e fuori le frontiere della patria, lo avrebbe portato ad attenuare certi motivi della sua antica insofferenza allo “spirito democratico” concepito come spirito astratto, utopistico, livellatore, come negazione dello storicismo liberale che è varietà, molteplicità, dissoluzione continua del mito. Ma tenne sempre ferma anche la distinzione fra liberalismo e liberismo: quasi ad evitare, anche in polemica col suo grande e nobile amico Luigi Einaudi, che nelle critiche ad un certo sistema economico fossero coinvolti i principi eterni di quella concezione liberale della vita, che si riannodava in lui alla stessa intuizione cristiana. «Una storia informata al pensiero liberale si era letto a conclusione della Storia d’Europa nel secolo XIX non può, neppure nel suo corollario pratico e morale, implicare la ripulsa e la condanna assoluta dei diversamente senzienti e pensanti».
Un anti Gramsci Croce non volle mai essere. Preferì essere soltanto un liberale: come quel degnissimo avvocato liberale, papà di Giorgio Napolitano, in una Napoli civilissima. Già, allora gli avvocati napoletani non potevano non dirsi liberali. Lo facevano per rispetto a Croce, per simpatia a De Nicola, ma anche per il fascino e l’autorevolezza che li legava alla figura di Guido Cortese, non meno di Alfredo Parente, onnipresente nel piccolo mondo antico crociano che fra il ’43 e il ’48, per dirla col Capo dello Stato, chiedeva alla politica di non far morire la patria.
Guido Cortese (Napoli 1908 Cortina d’Ampezzo 1964) fu avvocato penalista e uomo politico di primissimo piano nella Napoli del secondo dopoguerra. Eletto alla Costituente per l’Unione Democratica Nazionale, divenne vicesegretario nazionale del PLI con Villabruna segretario. Deputato nella seconda, terza, quarta legislatura repubblicana, sottosegretario alle finanze nel 70 governo Scelba (1954), ministro dell’industria nel governo Segni (1957). Se ne può ricostruire figura ed opera nei volumi: A. Cortese Ardias, Un liberale moderno: Guido Cortese (Milano, 1967), R. Franchini e E. Paolozzi, Guido Cortese (Napoli, 1990); G. Cortese, Scritti giornalistici, a cura di G. Pecora (Soveria Mannelli, 2009).
Liberale fu sempre per Cortese un sostantivo più che un aggettivo, un riferimento che bastava a definirlo, senza ulteriori specificazioni, destra o sinistra, vecchio o nuovo). Un’idea che, all’indomani del Congresso di Bari, lo aveva portato a farsi liberale e non azionista: a rimanere al fianco di Benedetto Croce, senza comunque mai venir meno ad un sentito rispetto di chi, come Adolfo Omodeo, magari proprio per liberalismo, si era nel dopoguerra sentito azionista.
Nel 1943 il partito d’azione ed il suo programma erano stati sottoposti da Croce ad una critica serrata. Il filosofo aveva maturato l’aspirazione ad un partito liberale che fosse “prepartito” e ad un tempo “partito”: cioè un partito di centro, come crocianamento sempre lo concepì Cortese, in grado di prendere provvedimenti di destra o di sinistra, di conservazione e di progresso, a seconda che si trattasse di difendere la libertà in pericolo o di promuovere nuove (omodeiane) libertà liberatrici. E nel 1945 proprio a Cortese fu dato da Croce il mandato di replicare al durissimo attacco di Omodeo, per quasi vent’anni stretto collaboratore di Croce sulle pagine de «La Critica», a quello che veniva definito “il così detto partito liberale”.
Cortese replicava di non poter accettare la definizione proposta da Omodeo del PLI come «l’asilo romuleo di tutti i rifiuti fascisti, il riparo di tutte le posizioni usurpate con la violenza e col delitto» e con orgoglio, ma senza vanità e senza iattanza, ri levava come «l’uomo di parte facesse dimenticare allo storico non solo quel liberalismo che ha fatto l’Italia e l’ha condotta poi da Porta Pia a Vittorio Veneto, ma tutta l’ascensione dello Stato italiano fino al 1922, l’atteggiamento dei liberali giolittiani ed il famoso discorso di Dronero che fu notato perfino da Lenin, l’opera di Gobetti, del Luzzatti, del De Viti De Marco, dell’Einaudi, dell’Orlando».
Nessuno quanto Cortese visse e soffrì le inquietudini politiche di Croce dell’immediato dopoguerra. Prima che suo vicino di banco alla Costituente, era stato suo direttore dall’11 marzo del 1944 sulle pagine de «La Libertà». Neanche trentenne, Cortese aveva saputo pienamente comprendere le ragioni per le quali Croce aveva voluto che in Italia un partito liberale ci fosse. Eppure quel compito para-filosofico di “prepartito” della democrazia italiana, al quale lo aveva destinato, lo esponeva inevitabilmente a difficoltà, fraintendimenti, sbandamenti.
Superficialmente o anche strumentalmente, gli avversari del partito liberale (perfino Omodeo) avevano accreditato la tesi che, caduto il fascismo, riconquistata la libertà, ormai dovevano affrontarsi problemi di giustizia sociale e di ricostruzione eco nomica. Nel loro linguaggio, questo implicava la superfluità di un partito liberale legato a quelle tradizioni dell’Italia prefascista, le quali alla Consulta a Parri e Croce avevano ispirato sentimenti tanto diversi riguardo, appunto, al giudizio sull’Italia li berale.
Un liberale come Emilio Mascilli Migliorini, il quale aveva vissuto le dure controversie fra uomini e partiti della Resistenza del Nord, avrebbe apprezzato i toni della polemica sempre pacata e contenuta dei liberali napoletani. Cortese diresse «La Libertà» dopo Alfredo Parente e fino al sorgere de «il Giornale» e, ricorda Mascilli Migliorini, «ne rappresentò la punta di diamante per la chiarezza delle sue esposizioni, la verve e la forza didattica dei suoi corsivi di solito firmati Barnave». E proprio la scelta di uno pseudonimo come Barnave consente di valutare quanto l’avvocato napoletano fosse colto, intelligente, liberale, fogliante, girondino: centrista nel mondo della Rivoluzione francese per prepararsi ad esserlo nell’Italia degasperiana.
Su «il Giornale», del 28 marzo 1945, Cortese scrive un articolo importantissimo dal titolo, anch’esso significativo, Noi, anticonservatori. Vi si ripropone la difficile identità di un partito, che è parte (partito, appunto) e al tempo stesso difensore della libertà di tutti, anche degli avversari, in una situazione nuova, giacché nel mentre si ricostituivano le condizioni per l’esercizio della libertà, per la prima volta nella storia d’Italia c’erano e agivano partiti organizzati di massa (democristiani, socialisti, comunisti). I liberali, impegnati nella ricostruzione dello Stato di diritto, sono fortemente esposti alla polemica dei “progressisti”, che li accusano di esser privi di sensibilità sociale.
«Il gioco scrive Cortese è di una palmare evidenza. Poiché la libertà non può sussistere senza l’ordine, e le riforme non possono essere liberamente prescelte dalla maggioranza se non in un regime di legalità, ed il liberalismo va difendendo perciò con intransigenza l’ordine e la legalità, quei partiti, che nell’uno e nell’altra trovano impaccio, vanno predicando che la difesa e dell’ordine e della legalità esprime il proposito della reazione e che, pertanto, il liberalismo è sinonimo di dottrina politica conservatrice e reazionaria […] Noi vogliamo sottolineare una verità che molti cercano di nascondere: i liberali sono i soli sostanzialmente non conservatori, perché accettano e promuovono tutti i mutamenti, quali che siano, che il progresso della civiltà richiede laddove gli altri partiti, dal più al meno antiliberale, afferrato che abbiano il potere, arrestano il moto storico, vietando tutte le libertà, di pensiero, parola e azione che possono mettere in questione la loro classe dominante o dirigente».

In questo articolo del ’45 c’è Croce. Ma c’è anche di più: c’è già l’antigiacobinismo liberale della storiografia di Furet di quarant’anni dopo, c’è l’anticomunismo dei democratici, c’è il senso dello Stato e vi affiora pure la preoccupazione di quella che potrà esser nella storia d’Italia la partitocrazia dei grandi e piccoli “partiti di massa”.
Del resto, su come e perché il partito liberale avesse identificato nel fascismo la sua più irriducibile antitesi storica Cortese, in un articolo precedente, era stato fermissimo.
«Finirà si era chiesto un giorno l’epurazione? Saremo liberi da questa triste conseguenza del fascismo? Quel giorno tutti gli italiani avranno la stessa cittadinanza e i funzionari non saranno fermati più sulla soglia del proprio ufficio, le vendette saranno sopite, i solchi colmati, e saranno diradati il malcontento e l’ira, non vi sarà più questa cosa avvilente, penalizzante, che degrada ed esaspera, questa cosa maledetta che si chiama paura».

Alle elezioni politiche del 18 aprile 1948, Cortese, che era stato eletto due anni prima alla Costituente insieme a una nutrita schiera di liberali napoletani, non fu rieletto. Non ne fece un dramma. Anzi. Ne trasse occasione per riflettere su quell’in successo elettorale dei liberali: sul partito, forse, l’ipoteca salandrina aveva pesato più di quella giolittiana ed era significativa una sua lettera del 14 maggio di quell’anno all’avvocato Mattia Limonìcelli. «Se, questo partito vi si leggeva non regge; bisogna rafforzarlo e rinnovarlo. Il Paese non può essere o democristiano o comunista; ha bisogno di una forza liberale, che dovrà essere più viva, più organizzata, più agile, più sensibile alle voci nuove dei tempi […] Posso non aver salvato con duttili accorgimenti il mio mandato elettorale ma voglio salvare la mia anima». Nel 1949, dopo la crisi della segreteria Lucifero, Villabruna aveva voluto alla vicesegretaria del partito il giovane ex parlamentare napoletano, il quale, fu eletto poi in un consiglio nazionale del 1951. Sicché può ben dirsi che all’unificazione liberale del 1951 si sia arrivati anche per merito dell’opera di Cortese, del suo ruolo e dei suoi impegni nel partito.
Al congresso a Firenze il suo discorso fu davvero importante. Cortese fece risuonare tutti i temi del meridionalismo di Fortunato, dell’iniziativa politica di Amendola, della stessa tradizione dell’azionismo liberale dei Macera, dei Giordano, dei de Caprariis, contenuti che troppo spesso erano parsi in passato sacrificati all’ipoteca destrorsa di ascendenza salandrina.
Cortese fu protagonista della politica economica nazionale, interpretando con intelligenza e senza dogmatismo liberista i valori di concorrenza, competizione, mercato della dottrina liberale. A proposito di quella che sarebbe stata la legge (11 gennaio 1957, n. 6) sulla regolamentazione e lo sfruttamento del settore degli idrocarburi, egli seppe individuare il giusto punto di equilibrio fra operatori privati e aziende di Stato. «Iniziativa privata e intervento statale ebbe poi a dire, Giovanni Cassandro, non potevano stare l’una senza l’altro. L’esistenza di un settore pubblico e di un settore privato dell’economia non poteva essere né negata, né eliminata. Era però necessario che ubbidissero l’uno e l’altro alle stesse leggi del mercato per evitare una rottura irreparabile del sistema». A lui si deve se l’Italia fu l’unico paese europeo a non sottostare al razionamento di carburante dopo i fatti di Suez; a lui si deve il blocco delle tariffe elettriche; a lui la soluzione del problema degli idrocarburi.
Pure indimenticabile resterà, al fianco del ministro degli esteri Gaetano Martino, il contributo da lui recato per riattivare il processo dell’unità europea che era stato bruscamente interrotto nel 1954 a seguito del fallimento della Ced. Cortese era fermamente convinto che il bene e il progresso della patria italiana si congiungessero intimamente al bene e al progresso della più grande patria europea. In questa ampia visione politica la rinascita del Mezzogiorno non fu mai da lui ritenuta una operazione fine a se stessa, ma solo il presupposto indispensabile per accelerare l’avanzamento morale, civile, culturale ed economico dell’intera Nazione le cui sorti erano divenute inseparabili da quelle della rimanente Europa libera.
Del resto, quando, nel luglio 1955, Cortese aveva assunto la responsabilità del ministero dell’Industria o dell’economa italiana, in una delicata fase di sviluppo, emergeva ogni giorno di più la strozzatura energetica. Esaurite, o quasi, le risorse di un ulteriore sviluppo idroelettrico, il centro del problema energetico si trasferiva agli idrocarburi e all’energia nucleare. La legge sugli idrocarburi fu pensata da Cortese su alcuni principi che ne assicurarono la vitalità nel tempo: stimolare e incoraggiare la ri cerca e la coltivazione prevenendo, attraverso il principio del terrazzamento, le concentrazioni monopolistiche; stimolare l’apporto dell’iniziativa privata con il conferimento in concessione di aree limitate; garantire all’ENI condizioni idonee allo svolgimento dei suoi compiti; garantire allo Stato un’equa partecipazione agli utili delle imprese.
La nuova disciplina legislativa, che colmava il vuoto aperto dalla inidoneità della legge mineraria del 1927, e che fu votata dalla Camera l’11 gennaio 1957 con 386 voti favorevoli e soltanto 36 contrari, «è frutto di una consapevole scelta politica scrisse Cortese che ha respinto la tesi della nazionalizzazione ed ha accolto quella della competitiva concorrenza fra gli operatori privati e fra questi e l’azienda di Stato, una concorrenza rigorosamente tutelata da norme rivolte a prevenire e a reprimere la concentrazione e le manovre monopolistiche. La legge contiene forse regolamentazioni troppo dettagliate, ma ciò deriva da un deliberato proposito del legislatore, il quale si è preoccupato di ridurre al minimo la discrezionalità della pubblica amministrazione per rafforzare al massimo la certezza del diritto».
Anche l’altro fondamentale disegno di legge di Cortese, quello sull’energia nucleare, si ispirava ai principi del liberalismo moderno.
«Questa legge – disse il ministro al Consiglio nazionale del PLI il 3 febbraio 1957 – dà ingresso all’operatore privato nel nuovo campo di attività che si schiude. Essa non risponde solo ad una ispirazione liberale, ma anche e soprattutto alle necessità del Paese. Essendo necessario un flusso gigantesco di investimenti e al tempo stesso una notevole iniziativa di tecnici e di esperti, chiudere le porte all’iniziativa privata, nazionalizzando il settore, significherebbe in pratica compromettere le possibilità di nascita e di sviluppo di un’industria nucleare in Italia: d’altra parte lo Stato può determinare ogni anno una aliquota complessiva raggiunta che deve essere venduta allo Stato; la legge stabilisce a favore dello Stato un diritto di prelazione, e stabilisce la non esportazione se non consentita dallo Stato stesso: il combustibile nucleare è di proprietà dello Stato cosicché il privato ricerca, fa suo il minerale, ma quando passa alla fase della fabbricazione del combustibile nucleare, questo è di proprietà dello Stato. Il che significa che il combustibile può essere dato al privato per l’utilizzazione privata soltanto col regime della concessione, così come avviene, del resto, in tutte le legislazioni di tutto il mondo, da quella americana alla francese, così come è previsto nello stesso trattato dell’Euratom. L’Euratom rappresenta una grande possibilità. I problemi nucleari non possono essere risolti sul piano nazionale, ma sol tanto se affrontati dallo sforzo concorde e controllato di più vaste comunità, come quella appunto dei sei paesi dell’Euratom».

Parole ancora straordinariamente attuali. Non meno di quelle dell’emendamento proposto da Cortese, dopo la caduta del quadripartito Segni nel 1957, contro la volontà del governo monocolore Zoli, su un articolo della legge di proroga della politica meridionalista. Vi si precisava che il 40% degli investimenti complessivi delle aziende a partecipazione statale dovesse essere localizzato nel Mezzogiorno: per evitare che – qualora gli investimenti delle aziende a partecipazione statale fossero stati destinati prevalentemente ad ampliamenti di imprese localizzate nel Nord, e per nulla, o solo in minima parte, a nuovi impianti – il contributo dell’IRI e dell’ENI all’industrializzazione del Mezzogiorno si risolvesse in una finzione.
È significativo che, quando Cortese propose questo emendamento di fondamentale importanza ai fini della politica meridionalistica, a «Nord e Sud», ambiente per lo più di estimatori ed amici di Cortese da un anno e mezzo non più nel PLI, si condivisero le ragioni politiche per cui la sua formulazione era necessaria e la sua attuazione doveva essere rigorosamente controllata. L’emendamento Cortese del 5 luglio 1957 recava anche la firma di Malagodi, come di tutti gli altri liberali settentrionali. Sarebbe, quindi, fuorviante dedurne, come talora si fece da parte repubblicana o da parte radicale, un certo disagio di Cortese nel PLI malagodiano. Come ebbe a rilevare Francesco Compagna, quell’emendamento dimostra esaurientemente che «Cortese era un liberale, non un liberista, un riformista, non un conservatore; un democratico per vocazione, non per opportunismo elettorale».
Dopo Croce non c’è dubbio che fosse Cortese la maggiore personalità del liberalismo napoletano. A suo modo glielo riconobbe il ferrarese Carlo Zaghi, quando, sapendo di fargli del male, gli disse una volta che «la parola liberalismo era bella sì, ma la democrazia era ancor più bella».
Dopo Manlio Lupinacci e Guglielmo Emanuel, Zaghi era divenuto direttore del quotidiano di cui sollecitava a Cortese il consenso ad una linea editoriale un po’ meno “liberale” e un po’ più “democratica”. Cortese si disse disponibile. Quasi a volergli far capire che il liberalismo per lui non era una “parola” perché era una “cosa”: cosa di cui la sua vita mai sarebbe stata indegna. Fino a quell’ultima estate del 1966.
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