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Dal 2012 al 2013: un bilancio e un augurio
di G. G.
I discorsi di chiusura e di inizio d’anno difficilmente possono evitare la ritualità imposta dalla circostanza calendariale. Considerando ciò pressappoco inevitabile, è importante che almeno si evitino la banalità e la meccanica ripetitività delle convenzioni legate alla ritualità, anche se neppure questo è tanto facile. Proviamoci, tuttavia, a un simile esercizio, cercando di fare un bilancio per l’anno che va via: un anno bisestile, il che, secondo molti, spiegherebbe tante e tante cose del suo andamento; e tentiamo un augurio per l’anno che entra, il quale porta in sé il numero 13, che nella cultura popolare di gran parte d’Europa equivale a quello che nella cultura napoletana significa il 17 (ma nella stessa cultura napoletana il 13 ha, paradossalmente, anche un significato fausto). Richiami alle significazioni nefaste di alcuni numeri che sono allusivi, ma, è ovvio, soltanto scherzosi.
Il bilancio dell’anno che si chiude è, ahimé!, fin troppo facile. È stato un anno di segno decisamente negativo pressoché per tutto quanto era sul tappeto dodici mesi fa di problemi economici e sociali. La recessione è proseguita; la disoccupazione è cresciuta; il disagio in fatto di guadagni e di redditi è aumentato; il debito pubblico ha varcato il limite enorme dei 2.000 miliardi di lire (poco meno di 4 milioni di miliardi delle vecchie lire); il peso che grava sulla finanza nazionale per questo e per altri motivi diventa sempre meno sostenibile; il peso fiscale ha superato ancora di molto la soglia della sopportabilità che aveva già superato da tempo; il mercato immobiliare non accenna a riprendersi; la crisi di grandi e piccole aziende appartiene ormai alla cronaca quotidiana; i consumi appaiono in contrazione; il credito alle aziende e quello ai privati per mutui e altro sono, con significativo parallelismo, anch’essi in forte discesa; il livello della vita politica e amministrativa non ha dato la sensazione di un miglioramento effettivo sia per trasparenza che per funzionalità.
Ma a quale scopo proseguire? Queste sono cose di generale sensazione, e – semmai – la nostra elencazione apparirà meno oscura e grave del vero. E allora nulla si è fatto in quest’anno? Abbiamo solo perduto tempo? Sarebbe una conclusione altrettanto ingiusta di un bilancio che volesse tentare la corda delle conclusioni positive. Si è fatto molto, e, anzi, il bilancio negativo diventa ancora peggiore se si considera che molto si è fatto in questo anno per la situazione oggettiva del paese, per il nostro credito e la nostra credibilità in Europa (basti pensare al calo dello spread e al crescente successo di mercato dei Buoni del Tesoro a tassi ridotti), per una ripresa di fiducia del paese nella possibilità di un tono diverso e migliore della nostra vita pubblica. Di ciò una gran parte del merito va al presidente Monti, ma tutti sanno che, se egli non avesse avuto alle spalle Giorgio Napolitano, mai e poi mai gli sarebbe stato possibile alcunché, a cominciare dal suo ingresso nell’agone della vita pubblica a vele spiegate.
Intendiamoci. Quando il presidente Monti dice di aver trovato nel 2011 l’Italia nelle condizioni in cui la trovò De Gasperi quando iniziò a governarla alla fine del 1945, dice una cosa assolutamente fuori dal mondo della storia e della verità. La distanza tra l’Italia del 1945 e quella del 2011 è abissale. L’Italia del 1945 era un paese ancora agricolo-industriale, ridotto alla fame e alla rovina da una guerra disastrosa, semidistrutto nella maggior parte delle sue città e delle sue infrastrutture, piegata da un trattato di pace pesante e inevitabile, con gravi tensioni politiche e sociali, con una moneta in inarrestabile caduta e finanze pubbliche quasi totalmente da rifondare. L’Italia di un anno fa e di oggi è un paese già oltre lo stadio industriale, è annoverata nella prima diecina o dozzina dei paesi più avanzati del mondo, è pur sempre la terza economia dell’eurozona, e ha difficoltà gravissime, ma parte da una base che nel 1945 sarebbe stato audace ritenere di poter raggiungere. E, infine, lo stato del paese quando Monti ne ha assunto il governo era il frutto di una crisi che si è gravemente accelerata nei quattro o cinque mesi precedenti per fattori non tutti endogeni e nazionali o di genesi governativa, e che ha trovato in un criticabilissimo assetto europeo (predominio francese e, soprattutto, tedesco con privilegio inglese; e assenza di una politica bancaria, finanziaria e monetaria europea all’altezza del momento) un ulteriore, decisivo peggioramento.
Si è fatto molto, comunque, e – dice il governo – tanto da aver ormai reso sicuri i conti dello Stato, da aver fatto riforme strutturali decisive, da aver posto le basi di una ripresa ormai prossima. È in gran parte vero, come abbiamo già detto, ma qui siamo davvero al caso del bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto a seconda del come lo si guardi o, meglio, lo si voglia guardare. E di conseguenza – non potendosi desiderare che il bicchiere si vuoti del tutto – è necessario che esso venga al più presto del tutto riempito; e sarà questo, per l’appunto, un compito assolutamente primario del nuovo governo e della nuova maggioranza.
Lo sottolineiamo anche perché – se per l’Italia nel suo complesso il bicchiere può essere visto mezzo pieno o vuoto a seconda di chi lo guarda – per il Mezzogiorno il bicchiere è tutto, decisamente, vuoto; perché, nonostante tutte le tiritere anti-meridionalistiche che si sono sentite negli ultimi anni, e che si continuano a sentire, la condizione del Mezzogiorno rappresenta sempre uno dei primi e massimi problemi di ulteriore sviluppo moderno e di progresso tecnico e sociale dell’Italia unita. Le statistiche ultime dell’ISTAT sul quinquennio 2006-2011 sono al riguardo di una eloquenza sconcertante, e provano al di là di ogni possibile dubbio che la nostra insistenza sulla persistente negatività della condizione meridionale nel quadro italiano (negatività sia per il Mezzogiorno che per l’Italia nel suo insieme) non è né il frutto di un’ottica attardata e superata, né un motivo di comodo, né una incapacità di vedere altro. È solo il realistico apprezzamento di questa condizione, che non è modificata nelle sue ragioni di fondo e nei suoi elementi rivelatori dai tanti aspetti o elementi positivi che nel Mezzogiorno pure vi sono, che non sono per nulla trascurabili e che tutti (e noi fra gli altri) a giusta ragione, appena possibile, fanno risaltare.
Al consueto e generale quadro negativo si aggiunge ora che, in conseguenza della situazione demografica registrata al censimento del 2011, alle prossime elezioni il Mezzogiorno perderà quattro seggi di deputato e due di senatore. Se ne ridurrà così il peso politico-parlamentare, che già nelle ultime quattro o cinque Legislature è apparso così ridotto e poco efficace.
Sul piano europeo, peraltro, il recupero di un grado di credibilità non è coinciso con una effettiva e più equa ristrutturazione del potere decisionale sostanziale all’interno della Unione Europea. È coinciso, invece, con una deriva della condotta dell’Unione in materia bancaria, finanziaria e monetaria, che ha trovato solo nelle indicazioni e nell’azione di Mario Draghi quale presidente della BCE un opportunissimo (e, peraltro, solo iniziale) riavvio nel senso giusto richiesto dalle circostanze e da una concezione dell’azione dell’Unione più equilibrata, equa e politicamente assennata.
Da tutto ciò non può che discendere, per l’Italia, un augurio molteplice: che dalle elezioni del 2013 esca una situazione di chiara e forte governabilità del paese, dando un impulso decisivo al superamento della crisi economica che soffriamo da troppo tempo, ed evitando l’eventualità, fortemente aggravante, di una ulteriore frammentazione delle forze politiche e della rappresentanza parlamentare; che nel nuovo quadro politico i ruoli istituzionali siano più nettamente rappresentati e giocati in modo da determinare una molto maggiore funzionalità del sistema, che negli ultimi anni è apparso sempre più alterato e danneggiato in prassi ed efficacia da sovrapposizioni, giustapposizioni e sostituzioni delle rispettive parti, con una sempre maggiore confusione di funzioni legislative, esecutive, giudiziarie, amministrative, politiche, sindacali, corporative; che, per quanto lo riguarda, il Mezzogiorno (che si è confermato a tutt’oggi un problema pregiudiziale più ancora che centrale per ogni sviluppo positivo futuro dell’Italia nel suo insieme) si sappia dare da sé una rappresentanza politica che, pur ridotta, sia di grande profilo e autorevolezza e capacità di influenza; e che i problemi sociali e quelli del Mezzogiorno trovino nel nuovo contesto quell’ascolto che finora non si è visto pur nel mutare, da Prodi a Berlusconi e a Monti, tre diverse maggioranze.
Non del tutto ciò dipende da noi, perché, come già si comprende da ciò che si è detto, occorre che vi sia anche un nuovo indirizzo della politica e dell’azione dell’Unione Europea, alquanto diverso da quello a tutt’oggi perseguito. In gran parte, però, quanto si è detto dipende strettamente da noi per il voto che daremo alle elezioni di febbraio, e, ancora di più, per ciò che, a elezioni avvenute, sapremo fare perché il molteplice augurio che abbiamo formulato si traduca da un auspicio di carattere generale, fatalmente un po’ troppo generale (che, come al solito, avremo modo, via facendo, di dettagliare), in un quadro operativo concreto, e, sperabilmente, positivo e fecondo.
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