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L’Europa dei secoli d’oro1
di Giuseppe Galasso
Lo spazio europeo

La grande carriera storica dell’Europa iniziò nella preistoria, quando vi affluirono i popoli che parlavano le lingue indo-europee, che sono poi rimaste – con poche eccezioni (basco, lappone, finlandese, estone, ungherese e, sul Bosforo, il turco) – quelle che ancora oggi vi si parlano. Ma è solo molto tempo dopo che un concetto maturo e definito in tutti i suoi aspetti, anche se mai definitivo, d’Europa si afferma. È, infatti, solo in epoca ormai già rinascimentale, tra il secolo XV e il XVI che un tale concetto cominci a prendere forma e a consolidarsi. Vero è che a quel punto maturazione e definizione progrediscono molto rapidamente, giungendo già nel secolo XVII a dominare completamente l’orizzonte culturale, politico, civile del continente.
Quel che si afferma è un concetto, un’idea dai tratti trionfali sempre più accentuati. L’Europa appare, in breve, come conquistatrice e incivilitrice del mondo e della restante umanità; vi diffonde il verbo della vera religione; vi propaga le innovazioni tecniche e scientifiche che via via modificano in misura crescente le condizioni e i modi di vita dell’uomo in tutti i suoi aspetti individuali e sociali, privati e pubblici; vi afferma le sue idee politiche e sociali in ininterrotto sviluppo; vi esporta la sua popolazione esuberante in misura tale da europeizzare altre parti del mondo anche nell’antropologia fisica; agisce, insomma, come una grande, irresistibile forza di globalizzazione del mondo e della storia degli uomini, portando ovunque la modernità nei suoi successivi, incalzanti sviluppi. Alla fine del secolo XIX l’Europa appare, perciò, storicamente come la vera Heartland del mondo moderno, non quella costruita dottrinariamente e a tavolino per individuare la regione centrale e decisiva per la lotta di potenza nel mondo contemporaneo, ma la terra che effettivamente per cinque secoli è stata il centro, il cuore del mondo, e del mondo vi si sono, nella realtà dello svolgimento storico, non negli studi e nelle interpretazioni e teorie degli studiosi, decisi i destini.
In tutto questo periodo l’Europa compone un ambito storico sempre più integrato, oltre che sempre meglio delineato e definito. L’Europa iniziale, del XV secolo andava poco oltre il suo nucleo, delineatosi già in età medievale, centro-occidentale o centro-sudoccidentale, secondo l’indicazione di Chabod, storicamente formativo, propedeutico e, in ultimo, propulsivo dell’Europa moderna, e si fermava a oriente sulla linea Baltico-Adriatico. Cracovia e Buda si potevano considerare le sue città più orientali. Vienna era quasi a questi stessi confini. La penisola balcanica era ormai cosa degli Ottomani: una potenza di grandissima forza militare e politica, di altra religione e cultura, di viva e imponente volontà e capacità espansiva. Al di là della linea Baltico-Adriatico si estendeva un mondo dalla fisionomia storica ancora incerta, plastica nelle sue dimensioni geo-politiche, un mondo slavo, ma largamente permeato di presenze asiatiche (Mongoli, Tartari, Kazachi).
In tutte le sue tre articolazioni – occidentale, balcanica, orientale – questa Europa era unificata dalla sua professione della fede cristiana, benché di confessione cattolica a occidente e ortodossa per il resto. Per questa ragione l’Europa si configurava anche, e ormai già da una diecina di secoli, come il paese dei Cristiani. La penetrazione islamica che l’aveva a lungo minacciata era stata respinta e nella stessa area ottomana non segnò progressi decisivi o stravolgenti, tranne che in regioni limitate, come Albania, Bosnia, Erzegovina, Macedonia o l’area di Istanbul (come suonava la pronuncia turca del nome della romana Costantinopoli). Notevole era pure, inoltre, accanto a quella cristiana, in tutte le tre sezioni di quell’Europa, la presenza ebraica, che conferiva al panorama storico-culturale europeo una più completa prosecuzione dell’antica civiltà del Mediterraneo (un Mediterraneo strettamente congiunto e integrato, su questo piano, col mondo mesopotamico), culminata nelle grandi storie dell’Ellade e di Roma.
Fra il secolo XV e il XVIII l’inizialmente ancora piccola Europa divenne il continente che ancora oggi consideriamo un tutt’uno dall’Atlantico agli Urali, dall’Oceano Artico al Mediterraneo. L’Europa – si può ben dire – si europeizzò completamente, quale che fosse il grado di progresso materiale e morale delle sue varie parti, per tutto quanto, se non la realtà e la pienezza dello sviluppo civile, riguardava le tendenze dell’Europa più avanzata nel senso di tale sviluppo. L’Europa del XVIII secolo è ormai – sia pure con la presenza, nell’angolo balcanico, di quello che sarà definito the seek man, l’uomo ammalato del continente – una grande realtà civile, le cui classi dirigenti se ne sentono partecipi in qualsiasi parte di essa si trovino. Nello stesso tempo l’Europa ha completato la scoperta e la conoscenza della geografia mondiale, e ha avviato e portato molto avanti quel processo che alla metà del secolo XX si è convenuto di definire come “globalizzazione”.



“Concordia discors”, secoli d’oro e casa comune

Nella sua marcia trionfale verso l’egemonia mondiale l’Europa è stata sempre connotata dalla duplice caratteristica che costituisce da sempre uno dei suoi caratteri originali. Da un lato, essa presenta una serie di articolazioni interne di ogni genere (sociali, etniche, politiche, culturali, religiose, ideologiche, territoriali …: i punti di tale articolazione sono innumerevoli), che, siano di minore o di maggiore intensità, danno alla sua fisionomia il volto inconfondibile di una radicata, irreprimibile, foltissima pluralità di soggetti e di dinamiche storiche, la cui tendenza storica è ad accentuarsi, anziché a ridursi. Dall’altro lato, la pluralità europea non è una semplice molteplicità di espressioni e di svolgimenti che procedano in parallelo, sia pure in qualche modo urtandosi fra loro, poiché comporta una conflittualità costante e anch’essa molteplice, che si estrinseca dai minimi livelli locali fino a scenari di ampiezza mondiale e le cui tendenze e i cui esiti sono anch’essi estremamente varii.
Concordia discors può essere una definizione banale, ma non infondata di questo essere e agire dei popoli europei sulla scena del mondo. Intendendosi, tuttavia, che la concordia è nel profilo e negli effetti della presenza europea nel mondo, la discordia è nel procedere dei popoli europei nella loro vita interna e nelle loro relazioni, ma che la concordia non configura, perciò, nessuna “unità nella diversità” (secondo una formula di grande fortuna, specialmente politica, nella seconda metà del secolo XX) che non consista in quel profilo e in quegli effetti.
Fu così che l’Europa giunse alla fine del secolo XIX al culmine delle sue fortune. Più di quanto chiunque avesse mai potuto pensare, si era, però, allora a uno zenith al quale doveva succedere un tramonto incredibilmente vicino. Un secolo dopo l’Europa si sarebbe ritrovata in una condizione poco meno che opposta: potenza e dominii politici ridotti pressoché a zero, drastico ridimensionamento della sua parte nella demografia mondiale, potenza economica sempre più insidiata da nuovi grandissimi protagonisti del commercio mondiale, perdita del primato (che è stato a lungo un monopolio) culturale e tecnico-scientifico, discesa fortissima nel prestigio e nella considerazione goduti nelle altre parti di un mondo, ormai affollato di nuovi, grandi centri di potenza politica, economica, culturale.
Il destino dell’Europa declinerà ancora? La sua parte nella storia del mondo si contrarrà ulteriormente? La si assorbirà in altre costellazioni storiche? Lo sforzo di unificazione avviato dopo la seconda guerra mondiale riuscirà a dare un suo inedito e concreto volto politico unitario al continente, facendone un protagonista, di maggiore o minore peso che sia per essere, tra i maggiori anche della politica mondiale nel secolo XXI?
La storia successiva risponderà a questi e ai tanti interrogativi che si possono avanzare a tali e ad altri riguardi, ma, quali che siano per essere le relative risposte, nulla potrà mai più cancellare il ruolo che, intanto, in particolare tra il XV e il XX secolo, dal 1500 al 2000, l’Europa e gli europei hanno avuto nella storia del mondo e dell’umanità. Un ruolo della cui importanza basterà dire che ha segnato il passaggio dell’umanità dalla lunga fase apertasi con l’età neolitica alla fase dell’età industriale, alla”civiltà delle macchine”, come anche la si è definita. In questa fase la padronanza del mondo da parte dell’uomo ha fatto segnare mutamenti tali da rendere improponibile qualsiasi comparazione con la sua precedente condizione. I progressi realizzati in questi cinquecento anni hanno assunto una portata rivoluzionaria, accresciuta dal loro susseguirsi a un ritmo segnato da una crescente e impressionante accelerazione.
Modificazioni di tale portata – estese fino a implicare le radici genetiche e quelle ecologiche della condizione umana – hanno fatto chiedere se per caso non sia conclusa l’epoca della modernità, che è stata il tempo d’oro dell’Europa, se non ci si trovasse ormai in un tempo post-moderno, ancora da percepire e definire nella sua complessiva fisionomia, nel suo pieno profilo materiale e morale, ma già in atto, già tempo presente del XXI secolo. Vi sono, tuttavia, molte e molte ragioni per ritenere che già così non sia, e, più ancora, per ritenere che il post-moderno non sia altro che un moderno ancora più moderno. Ma l’identificazione degli aurei saeculi dell’Europa col tempo della modernità può essere una significativa metafora del solco che questo tempo, a opera degli europei, ha tracciato nella storia del mondo e degli uomini.
A sua volta, l’idea del secolo d’oro, del siglo de oro, è diventato un tópos della storiografia europea, dopo di essere stato nell’età antica e nella cultura ellenica e latina un grande riferimento mitologico, incentrato sul vagheggiamento dell’età dell’oro, l’età originaria dell’uomo e del mondo (aurea prima facta est aetas, affermava Ovidio, indicando che seguivano età d’argento e di bronzo, e che, infine, de duro est ultima ferro). Non siamo in grado di precisare se, al di fuori dell’ambito euro-mediterraneo, altre culture e civiltà abbiano elaborato la stessa metafora del metallo ritenuto più prezioso per indicare l’eccellenza di un’epoca. Una tale precisazione si presterebbe pure, se ve ne fosse la possibilità, a una considerazione complementare anch’essa di sicuro interesse. Servirebbe, cioè, eccellentemente a misurare il valore figurativo, e quindi immateriale, che nelle varie culture è stato riconosciuto al metallo giallo (e, come è facile intendere, attraverso questa spia aprirebbe l’adito a un approfondito discorso sui valori e sui miti di una cultura o civiltà).
Comunque sia, sull’orizzonte dell’immaginario europeo, così come nelle convenzioni terminologiche che entrano nella prassi ordinaria e quotidiana della vita culturale, la metafora dei “secoli d’oro” appare, da ogni punto di vista, non solo più che giustificata per indicare l’Europa moderna nella parte storica mondiale che, come abbiamo detto, essa allora ha recitata, ma anche per indicare i periodi di eccellenza e di straordinaria fioritura che nella stessa epoca moderna i singoli paesi e popoli europei hanno rispettivamente conosciuto. Formano, questi periodi, un elenco impressionante: il Rinascimento italiano, il siglo de oro spagnolo, il Seicento olandese, il grand siècle di Luigi XIV, la Genienperiode germanica tra XVIII e XIX secolo, l’Inghilterra imperiale del XIX secolo …… E, particolare di non minore importanza, in alcuni di questi paesi l’aureum saeculum fu vissuto addirittura più di una volta: la Francia può esserne un esempio classico; oppure fu vissuto in versioni plurime, come nel mondo germanico accade per la compresenza di una componente austriaca e di altre varie componenti dalle quali è configurato l’insieme del contesto.
Come si sarà notato, noi stiamo, peraltro, parlando di Europa e di europei senza troppo distinguere né fra i due termini, né all’interno di ciascuno di essi. In effetti, la tentazione di vedere nel passato europeo una unità complessiva, una unità che esprime un soggetto storico unitario, è una tentazione comprensibile. Addirittura più comprensibile è pure, a sua volta, la tentazione di vedere nella storia e nella realtà europea una unità culturale molto più intensa ed effettiva che sul piano politico e istituzionale, oppure sul piano economico e sociale, in effetti è una tentazione ancor più comprensibile.
La vita culturale ha indubbiamente rappresentato per gli Europei una casa comune di assai più facile accesso e frequentazione che qualsiasi altro campo della loro esperienza storica. I grandi movimenti artistici e letterari, filosofici e scientifici, i grandi dibattiti culturali, che scandiscono il passato europeo, sono tutti a scala continentale. Termini come gotico o barocco, Rinascimento o Romanticismo, Umanesimo o Illuminismo, empirismo o positivismo, realismo o idealismo, liberalismo o socialismo, democrazia o comunismo, fascismo o totalitarismo, mercantilismo o fisiocrazia, galileismo o newtonianesimo, creazionismo o evoluzionismo sono tutti proiettati sullo sfondo europeo, anche se hanno avuto le loro radici o le loro massime e più caratteristiche espressioni in singoli paesi europei. Sul piano della vita religiosa l’unità culturale è stata, a partire dalla prima diffusione del Cristianesimo in poi, addirittura più forte che in altri campi, poiché la professione di fede cristiana ha radicato in tutto il continente valori fondamentali anche della vita morale e sociale. Per secoli, a varii livelli, i popoli europei hanno avuto, inoltre, una lingua franca della cultura, che ha reso possibile la comunicazione non solo culturale, ma anche in altri settori della vita sociale. Tale è stato il latino, lingua della diplomazia fino almeno al secolo XVII, lingua filosofica e scientifica fino al secolo XIX, lingua della vita ecclesiastica ancor oggi. Tale è stato l’italiano fra il secolo XVI e il secolo XVII, e poi ancora oltre in campi come quello musicale. Tale, in modo eminente, il francese dai tempi di Luigi XIV fino alla prima metà del secolo XX. Tale il tedesco per le attività scientifiche e filosofiche dai tempi di Goethe e di Kant a quelli di Einstein e dell’esistenzialismo. Superfluo è ricordare il ruolo dell’inglese in settori come l’economia e come lo sport, fino a quando, dalla seconda guerra mondiale in poi, lo stesso inglese si è esteso a ogni altro campo ed è diventato una lingua franca a livello ben più che europeo. E, comunque, strutturalmente è forte l’unità anche sul piano delle lingue, considerato che, come si è detto, tutte quelle parlate in Europa, tranne pochi casi di piccoli popoli, sono lingue indoeuropee.
La notazione della comunanza di elementi, prassi e principii della vita culturale fu tra le più precoci prese di coscienza dell’essere e atteggiarsi europeo nell’età moderna, ed è una parte costitutiva e prioritaria della fisionomia dell’Europa dei secoli aurei. Voltaire parlava con estrema convinzione di «una repubblica letteraria stabilitasi insensibilmente nell’Europa, malgrado le guerre e le religioni diverse». Dalla république des lettres «tutte le scienze, tutte le arti hanno ricevuto così dei soccorsi reciproci; le accademie hanno costituito questa repubblica. L’Italia e la Russia sono state unite dalle lettere. L’Inglese, il Tedesco, il Francese andavano a studiare a Leyda […] I veri scienziati in ogni ramo hanno stretto i legami di questa grande società degli spiriti, ovunque diffusa e sempre indipendente».



Cette grande société des esprits

Cette grande société des esprits: definizione memorabile e pertinente di questa dimensione dell’Europa moderna. Anche al di fuori della cultura l’Europa presenta, però, con la sua storia, una facies unitaria che giustifica ancor più pienamente l’uso del termine europeo sul piano storico altrettanto che sul piano geografico. Le tendenze dell’organizzazione statale, l’organizzazione militare, l’attività diplomatica, tecniche e rapporti di produzione e commercio, sviluppo dei servizi bancari e finanziari, sistemi di trasporto e di comunicazione e gli altri numerosi aspetti ed elementi dello sviluppo civile che contraddistinguono l’Europa rispetto al resto del mondo danno luogo, nel loro insieme, e anche settore per settore, a una quadrivalente diversità non rompono, tuttavia, a ben vedere, e ad andare a fondo, una unitarietà, che non è unità, ma che non ha minore forza di complessiva caratterizzazione e di comune tendenzialità.
Questa unitarietà della condizione e dell’azione storica degli europei è, forse, l’elemento meno sottolineato e meno messo nella dovuta evidenza sia negli studi storici che negli altri campi di studio in cui la si riscontra. Per un riflesso comprensibile della straordinaria personalità e del connesso protagonismo storico dei singoli elementi della storia europea: popoli e Stati, paesi e culture, singole personalità e grandi gruppi sociali, con una illimitata varietà di presenze e di relative tipologie. È la radice della concordia discors europea, ed è anche la risorsa più tipica e caratterizzante della storia europea e della sua straordinaria creatività, così evidente e prepotente proprio, in particolare, nei suoi “secoli d’oro”. Ma proprio per questi motivi l’unitarietà europea esige di ricevere una illustrazione che ad essa dia tutto l’effettivo, dovuto rilievo non solo storico, ma anche critico e metodologico.
Negli scrittori italiani non è infrequente la correlativa, necessaria distinzione fra unità e unitarietà. In effetti, e in altri termini, “unitario” non vale lo stesso che “unito”, ma indica un modo di essere che comprende ugualmente un insieme determinante e fondante di tratti storici convergenti o paralleli, ma omogenei nella direzione e nel significato di fondo.
L’espressione più piena di quanto andiamo dicendo qui è, peraltro, fornita già nel secolo XVIII ancora una volta da Voltaire, e con una chiarezza di giudizio tanto notevole quanto consapevole. «Da gran tempo – egli scriveva – si poteva considerare l’Europa cristiana, eccettuata la Russia, come una specie di grande repubblica, divisa in varii Stati, gli uni monarchici, gli altri misti, questi aristocratici, quelli popolari, ma tutti in relazioni scambievoli; tutti con uno stesso fondo di religione, sebbene divisi in varie sètte; tutti con gli stessi principii di diritto pubblico e di politica, sconosciuti nelle altre parti del mondo». Da gran tempo: e non era errato, poiché, a voler essere più dettagliati, quella comunanza europea aveva i suoi grandi precedenti e fondamenti classici e medievali, ma era appieno maturata nella forma che Voltaire rappresentava nell’Europa del Rinascimento, e dunque, al tempo di Voltaire, già da più di due secoli.
Non diversa era l’opinione di Rousseau. «Tutte le potenze dell’Europa costituiscono tra di loro una specie di sistema che le unisce con una stessa religione, con un identico diritto delle genti, con i costumi, con le lettere, con il commercio e con una sorta di equilibrio che è l’effetto necessario di tutto ciò». Per Rousseau valeva, anzi, anche «l’intreccio continuo d’interessi che i vincoli di sangue e gli affari commerciali, le arti, le colonie hanno stabilito fra i sovrani, e che, senza che nessuno pensi a conservarlo, non sarebbe affatto così facile a rompersi come molti pensano». A loro volta, «l’umore incostante degli abitanti che li trascina a viaggiare senza posa, l’invenzione della stampa e l’inclinazione generale alle lettere [hanno] costituito fra essi una comunanza di studi e di conoscenze». D’onde la conclusione che, a differenza dell’Africa e dell’Asia, l’Europa non è solo «una collezione di popoli» cui sia comune solo il nome, bensì «una società reale che ha la sua religione, i suoi costumi, le sue abitudini e perfino le sue leggi, da cui nessuno dei popoli che la compongono può scostarsi senza provocare immediatamente dei torbidi»: che è davvero, sia detto per inciso, una delle più felici definizioni dell’Europa moderna nella realtà molteplice delle sue molte articolazioni morali e materiali.
In mancanza di un tale criterio di metodo e di giudizio, il soggetto storico “Europa dei secoli d’oro” finirebbe con l’apparire soltanto un postulato o un corollario, un presupposto o una deduzione, o addirittura una superfetazione o una postuma invenzione storiografica o politica o ideologica. Essa è stata, invece, una realtà effettiva della vita civile e culturale dell’Europa stessa, profondamente sentita come tale anche fuori dell’Europa, e senza la cui considerazione diventerebbe pressoché incomprensibile sia la storia europea che quella del mondo.
Era per l’evidenza di questa condizione storica che alcuni parlavano della civiltà europea come Fontenelle, per il quale «c’è un certo génie che non è ancora mai stato fuori della nostra Europa o che per lo meno non se n’è allontanato di molto»; e notavano che esso «non si confina nelle scienze e in aride speculazioni, ma si dedica con altrettanto successo alle cose atte a procurar diletto, nelle quali dubito che alcun popolo ci eguagli». E, in effetti, è anche come civiltà dei loisirs e dei comforts che l’Europa moderna si è imposta nel mondo contemporaneo, fornendo al mondo un modello che, come quello della tradizione romana antica è riuscito universale in quanto esteso a ogni aspetto o settore della vita civile.



Dialettica, dinamismo, conflittualità

Non occorre aggiungere molto a quanto si è detto sulla concordia discors che caratterizza la presenza storica europea nel mondo, e, in più, sulla molteplicità dei piani, sui quali questa presenza si è esercitata e che ripropongono, a loro volta, ciascuno, la stessa duplicità di protagonismi. È, però, ancora di una certa importanza specificare che la molteplicità europea vive sempre nel segno, anch’esso già rilevato, non solo della discordia, bensì della conflittualità: una conflittualità che in tutti i campi da semplice confronto e concorrenza tende a passare alla più dura contrapposizione e alla tendenza a una piena eliminazione di avversari e alternative. Né a questo si limita la prassi della contrapposizione. A contrapporsi non sono, infatti, sempre formalmente i singoli, diversi elementi del quadro europeo. Altrettanto frequente è che parti di un elemento confliggano con le altre parti di esso ben più che con altri elementi del contesto, determinando sinergie, convergenze, alleanze, schieramenti, che possono riuscire sorprendenti o inintellegibili per chi non coglie la logica del contesto europeo.
Quando si parla di questa conflittualità, non ci si riferisce, peraltro, al dato di fatto storico e inoppugnabile che nella conflittualità indica un elemento universale della storia, per non parlare della condizione umana. Nella conflittualità europea dei “secoli d’oro” si ravvisa un elemento di specificità che ad essa dà un significato storico particolare. Non per nulla l’idea del conflitto sarebbe stata una di quelle sulle quali il pensiero europeo dell’età moderna si sarebbe più intrattenuto, fino a elaborare nella dialettica una delle pagine più ardue e più alte del suo svolgimento.
Per questo aspetto la storia europea sembra rispondere appieno a quel tipo di «contrarietà o domestico conflitto che – scriveva Giordano Bruno – si trova in un sugetto, onde non possa interamente appigliarsi ad un termine o fine». Che è poi, a ben vedere, la radice della pluralità, molteplicità, diversità, differenze e simili altre ricchezze di elementi e di note fondanti, di cui è fatta e si nutre la discorde concordia dell’Europa storica, e in specie nell’età moderna, nei suoi secoli d’oro.
Nell’esperienza europea la conflittualità, se da un lato è legata a un pluralismo tanto incoercibile quanto illimitabile, dall’altro lato non appare mai fine a se stessa, conclusa nelle dinamiche dell’alternativa assoluta e irrelata. Al contrario, si manifesta in essa una vocazione che individua un altro tratto eminente del modo di porsi storicamente dell’Europa moderna, nella quale dinamismo, ansia del nuovo, attitudine alla ricerca instancabile sono caratteri di una stratificata evidenza. Non sono, però, mossi da impulsi anonimi e immediati. Il dinamismo europeo non si traduce in un puro esercizio di movimento per il movimento. Quando nella cultura europea si è esaltato il movimento per il movimento, non si è andati da nessuna parte.
Gli Europei stessi hanno notato questo rischio. Chabod si soffermava acutamente sulle Lettres persanes di Montesquieu (un altro documento del massimo rilievo per la storia della coscienza europea) e sottolineava come in esse emerga – fra le qualità che il viaggiatore persiano a Parigi osserva negli Europei con stupore e con sostanziale disapprovazione – «un’altra qualità che, con espressione dei nostri giorni, potremmo definire “dinamismo”, e che il Montesquieu chiama “passione per il lavoro”, passione di “arricchirsi”. In ogni gradino sociale, dagli artigiani fino ai grandi “nessuno vuol essere più povero di colui ch’egli vede immediatamente al di sopra di sé. Voi vedete a Parigi un uomo che ha abbastanza da vivere fino al giorno del giudizio e che pure lavora senza posa, e rischia di accorciare i suoi giorni per accumulare, dice egli, di che vivere. Lo stesso spirito pervade la nazione, non vi si vede che lavoro e industria”. Di qui l’impressione di frettolosi, di indaffarati che danno gli Occidentali: “da un mese, scrive Rica, che son qui [a Parigi], non ho ancora visto camminare nessuno […] i Francesi corrono, volano: le lente vetture asiatiche, il passo regolato dei nostri cammelli, li farebbero cadere in sincope”».
Noi sappiamo che, in effetti, il persiano che parla così è soltanto una controfigura di Montesquieu, e che l’autocritica europea da lui prospettata è un motivo interno di riflessione sulle finalità economiche e materialistiche a tendenza del dinamismo europeo in materialismo ed economicismo, di cui si trovano altre deprecazioni anteriori e posteriori. Questo dinamismo ha sempre avuto, però, in effetti, un fine costruttivo, ha sempre mirato a individuare, a definire, a sostenere un quadro di valori. Anzi, proprio nella definizione di determinati valori l’Europa ha anche preso coscienza di sé e si è definita in rapporto agli altri nel mondo.
Non è per caso, del resto, che il mito di Ulisse sia un mito del tutto europeo, né che esso non sia affatto un episodio isolato sia nell’immaginario che nel pensiero europeo, a cominciare da un altro mito, il mito di Prometeo, che, a sua volta, è anch’esso un mito fondante nell’orizzonte dello spirito europeo. Analogamente, se ricordiamo che il termine «eresia», così importante nella storia europea, in greco significa «scelta», si può ben dire che tutta la cultura europea è per sua vocazione essenzialmente eretica, una scelta permanente, che presuppone autonomia di ricerca e autonomia di giudizio. Ed è anche per questo che la libertà è apparsa fin dagli inizi nel quadro dei valori europei in posizione eminente e gli eroi della libertà e le lotte della libertà vi hanno avuto e vi hanno sempre conservato un posto di primario rilievo.



Occidente, Oriente e libertà europea

Si prenda, ad esempio, la più tipica, e anche la più caratterizzante e fondamentale, definizione o, meglio, autodefinizione dell’Europa, quella che la identifica come Occidente rispetto a un Oriente variamente configurato. È un motivo antico, tanto da risalire alle guerre memorabili dei Greci contro i Persiani e, per alcuni, fino alla guerra di Troia. Ma, lasciando stare questi precedenti remoti, è impressionante il ricorrere della contrapposizione fra Occidente (Europa) e Oriente (non Europa) in tutta l’età moderna. Ricorderò soltanto Machiavelli, che, ad esempio, sostiene l’identità di fondamenti fra l’antico Impero persiano e il moderno Impero ottomano; e afferma che la differenza fra il sultano dei Turchi e il re di Francia sta nel fatto che sui Turchi il sultano esercita un potere indiscriminato, illimitato, dispotico, mentre il re di Francia non ha sui suoi sudditi un tale potere e deve operare secondo le norme e le leggi del suo Regno. La legge come regolatrice del potere e come limite insuperabile per il potere, secondo l’antico principio sub lege libertas, diventa così anche fondamento e garanzia di una condizione di libertà.
Non meno significative, dallo stesso punto di vista, sono altre notazioni di quel Cattaneo, che abbiamo già ricordato. «Che sogliamo noi significare – egli dice – anche oggidì quando chiamiamo barbara l’Asia? Non è già che non siano quivi sontuose città; che non siavi agricultura e commercio, e più d’un modo di squisita industria, e certa tradizione di antiche scienze, e amore di poesia e di musica, e fasto di palazzi e giardini e bagni e profumi e gioie e vesti di armature e generosi cavalli e ogni altra eleganza. Ma noi, come a fronte dei Persi e dei Siri i liberi Greci e Romani, sentiamo in mezzo a tutto ciò un’aura di barbarie. Ed è perché in ultimo conto quelle pompose Babilonie sono città senz’ordine municipale, senza diritto, senza dignità; sono esseri inanimati, inorganici, non atti a esercitare sopra sé verun atto di ragione o di volontà, ma rassegnati anzitratto ai decreti del fatalismo. Il loro fatalismo non è figlio della religione, ma della politica. Questo è il divario che passa tra la obesa Bisanzio e la geniale Atene; tra i contemporanei d’Omero, di Leonida e di Fidia, e gli ignavi del Basso Impero».
Ecco, dunque, nell’«ordine municipale», come lo definisce Cattaneo, un altro grande principio della coscienza europea: la libertà locale, la forza delle autonomie che sono fra le radici maggiori della pianta della libertà europea. Ma, volendo, si potrebbe proseguire in maniera ben più folta e dettagliata la puntualizzazione della serie di valori che sono scaturiti dal dinamismo europeo, a cominciare dalla fede nella ragione a quella nel progresso, da quella nel valore della persona o dell’individuo a quella nella giustizia, da quella nella scienza come sistema organico e perfettibile di conoscenze a quella della sperimentazione come metodo di approssimazione a ciò che è vero o che si vuole, e così via.
Come l’impressionante sviluppo della tecnica che è conseguito dallo sviluppo dei valori di ragione, scienza, sperimentazione, così dall’intimo della tradizione europea è poi venuta fuori anche l’idea della storia: la storia come studio del passato, ma anche la storia come forma assoluta ed esaustiva della vicenda umana, ossia come carattere essenzialmente ed esclusivamente storico della vita, per cui Croce affermava che la realtà è tutta storia e nient’altro che storia.
Come studio del passato, la storia ha ricevuto in Europa il suo statuto scientifico ed è diventata un complesso disciplinare imponente e sofisticato. Anche i paesi extra-europei, quando hanno dovuto o voluto ricostruire il loro passato, non hanno potuto non adottare i canoni e le tecniche elaborati nell’esperienza europea. Come dimensione della storia, ossia come storicità, il pensiero storico europeo si è tradotto nello storicismo, che a sua volta ha costituito una delle maggiori costruzioni intellettuali dello spirito europeo e che ha trovato specialmente in Germania e in Italia espressioni di altissimo livello filosofico.
Il passato ha acquisito così nella tradizione europea un ruolo ancora maggiore in quanto realtà non solo definita (come passato del presente), ma anche immutabile. «Il passato neppure gli Dei lo possono cambiare», scriveva efficacemente un autore greco molto acuto, cioè Luciano di Samosata. Su questo principio è fondata non solo la conoscibilità del passato e quindi la conoscenza storica, ma anche il carattere razionale di tutta la realtà. Non è un caso che lo stesso principio della immutabilità del passato che regge la storia regga pure il diritto. Tutto l’edificio giuridico è fondato, infatti, sul principio per cui i Romani affermavano factum infectum fieri nequit, ciò che è stato fatto non può diventare non fatto.
Appare, ed è, dunque, imponente il fondamento intellettuale della cultura europea, che forma un patrimonio di concetti, di idee, di tecniche senza confronti nell’esperienza storica dell’umanità. Si aggiunga – ma qui il verbo aggiungere non vuole indicare un semplice di più – che a quel patrimonio intellettuale la tradizione europea ha sempre e costantemente accompagnato un patrimonio artistico e letterario di una straordinaria creatività. Non è questo né il luogo, né il caso si accennarvi, ma artisti, musicisti, poeti, scrittori hanno talmente riempito di sé la storia europea da fare, alla fine, delle lettere e delle arti d’Europa un insieme, ancora una volta, dai suoi inizi greci e latini a oggi, senza confronti nella storia del mondo.



Colombo, Cina e altro

Si è discusso molto su quali, comunque, fossero i “numeri” dell’Europa nel momento in cui, dalla fine del secolo XV, essa, o, meglio, la sua sezione occidentale prese la testa delle gerarchie mondiali in fatto di potenza politicomilitare e di sviluppo economico e tecnico-scientifico.
Evento inaugurale di questa epoca nuova nella storia del mondo è stata sempre ritenuta, come si sa, la scoperta dell’America a opera di Cristoforo Colombo nel 1492. Molto per tempo si cominciò, peraltro, a contestare a Colombo una gloria storica che sembrava dover restare indiscutibile nei secoli.
Già, per il nome delle terre da lui scoperte, gli si era preferito Amerigo Vespucci, che si trovò così investito di una fama alla quale certamente non aveva aspirato, e dalla quale promana, tuttavia, un insegnamento storico di grande importanza: non basta fare le cose perché esse rimangano legate al nome di chi le fa; occorre che le cose siano percepite come epocali e nuove nel momento in cui l’opinione collettiva è più preparata a raccoglierne il senso. Si sa che la prima fama di Colombo fu quella di avere scoperto una nuova via delle Indie; che ci volle un po’ di tempo per capire che non si trattava di una nuova via, bensì di un Nuovo Mondo; e che le carte di Vespucci (scomparso nel 1512) caddero nel momento giusto perché fosse generalmente e definitivamente adottata l’idea del cartografo tedesco Martin Waldseemüller di denominare come Terra Americi il Nuovo Mondo scoperto da Colombo (scomparso nel 1506). A Colombo toccò, quindi, solo di dare il nome al Distretto Federale degli Stati Uniti in cui è posta Washington, a un paese dell’America meridionale qual è la Colombia, di cui si è parlato alla fine del secolo XX molto più di un tempo, e a varie, città isole o territori, nonché a molte scuole, università e istituti di vario genere: che non è poco, ma che certamente è alquanto di meno di quanto gli spetterebbe per la sua memorabile impresa del 1492.
In seguito, si contestò a Colombo la patria genovese, rimasta indiscussa fino a quando non lo si disse spagnolo, portoghese, ebreo e non si sa che altro, ma senza che questo modo estremamente significativo di riconoscerne la gloria rivendicandone l’origine valesse a consolidarne la posizione storica. Alla fine, infatti, gli si è addirittura contestato di essere stato il primo scopritore di quelle terre. L’America, si è detto, l’avevano per primi scoperta i Vichinghi. Oppure un pilota segreto che aveva già effettuato il viaggio del 1492 e che Colombo avrebbe avuto al suo fianco, guida sicura a una meta già fissata. E se ne sono dette anche altre. Ad esempio, che Colombo era già nel 1485 approdato nel mondo che di là forse l’aspetta, come, all’incirca due secoli e mezzo prima, con la intensa suggestione della sua fantasia di grande poeta aveva immaginato, del sole al tramonto nel nostro emisfero, Francesco Petrarca. Nel 1492 – sulla scorta di precedenti e addirittura numerosi viaggi e carte della più varia appartenenza, nonché in connessione con gli immancabili Templari – vi sarebbe semplicemente ritornato.
Ancora più clamorosa è stata, a sua volta, l’affermazione secondo cui l’America l’avrebbero, in effetti, scoperta i Cinesi alcuni decennii prima di Colombo, con un grande viaggio partito dalla Cina per giungere allo Stretto di Magellano, costeggiare le Americhe fino allo Stretto di Bering, e di lì tornato al punto di partenza. Sarebbe, quindi, da riconoscere alla Cina questo primato storico.
Che dire? Ci limitiamo qui a notare che, per la scoperta della quale la paternità del genovese di nome Colombo è indubbia, il problema, comunque, non sta né nella effettiva patria di Colombo, né in chi per primo abbia avvistato le terre del Nuovo Mondo. Chiunque avesse per caso scoperto l’America prima di Colombo (ed è difficile crederlo, molto più difficile di quanto gli instancabili cercatori o inventori di novità storiche possano supporre) è come se avesse lavorato per nulla. Solo, infatti, dalla scoperta di Colombo in poi, e grazie a tale scoperta, l’America è entrata nel circuito della storia mondiale, con conseguenze materiali, culturali e addirittura biologiche che furono rilevanti, crescenti e, per di più, pressoché immediate e immediatamente avvertite.
Eventuali scoperte anteriori non hanno avuto neppure alla lontana un tale effetto. È come se non fossero mai avvenute. Non tutto ciò che accade è storicamente rilevante o della stessa dimensione storica. Per l’America solo nel caso di Colombo rilevanza e dimensione sussistono appieno. È a questa coincidenza che, dunque, bisogna starsi. E anche questo è un fatto, e per di più assolutamente macroscopico.
C’è, d’altronde, un altro aspetto della questione, che sul piano storico è assolutamente non meno importante della priorità colombiana (per esprimerci così) di diritto, ove si volesse negare quella di fatto. Ci riferiamo alla base scientifica sul cui studio e sulla cui definizione il viaggio di Colombo venne concepito e realizzato. Non fu, infatti, un viaggio come quelli che fino ad allora erano stati consueti nella tradizione delle scoperte geografiche. La logica di queste scoperte era stata fino ad allora quella – si potrebbe dire con una frase molto calzante – di andare a vedere che cosa vi fosse dietro l’angolo: seguendo il corso di un fiume, scalando una montagna o collina, costeggiando il mare o un lago, allungando il corso della navigazione di cabotaggio fino a spingersi verso l’ignoto. Il viaggio colombiano ebbe la sua genesi nella formulazione di un’ipotesi scientifica: si assumeva che la Terra fosse rotonda, e che, perciò, navigando dalle coste iberiche verso Occidente, si dovesse immancabilmente giungere nel desiderato Oriente, nelle Indie dei cui tesori tanto si favoleggiava. Buscar el Levante por el Poniente: la fortunata metafora che ne trasse origine esprime icasticamente l’ipotesi scientifica da cui Colombo mosse – in un tempo in cui la rotondità della Terra era tutt’altro che pacificamente ammessa – per accingersi all’impresa e per procurare ad essa i necessari sostegni dei potenti.
Se non altro, basterebbe questo a dare al viaggio colombiano del 1492 – perfino là dove si volesse prescindere dall’imprescindibile eco e conseguenze che, come abbiamo detto, la sua impresa ebbe per prima – il significato epocale ad esso riconosciuto nella tradizione europea, fino a quando un revisionismo senza freni non ha portato a pensare altrimenti, quasi sempre in contrasto con le più elementari esigenze di un’attendibile critica storica.
A rigor di termini non varrebbe, quindi, neppure la pena di intrattenersi sulla pretesa della paternità della scoperta colombiana avanzata in Cina. Non sarebbe, però, saggio. Si tratta, infatti, di una pretesa che non è tanto interessante in sé e per sé – da questo punto di vista può riuscire addirittura divertente – quanto per ciò che essa significa dal punto di vista del pensiero e dell’azione cinese di oggi.
Un’azione che, con l’irrompere dei paesi estremo-orientali nelle primissime posizioni della produzione e del commercio mondiale, con indici di sviluppo economico e tecnico di molto superiori a quelli dei paesi occidentali anche più fiorenti, spingeva a notare che l’Asia estremo-orientale non faceva che riprendere il posto che aveva già avuto nel mondo fino all’avvento della “rivoluzione industriale” in Occidente fra XVIII e XIX secolo.
C’era, naturalmente, da chiedersi se questo giudizio storico fosse fondato; e, ciò, specialmente per chi credeva che il drago giallo fosse meno terribile di quanto appariva e che l’Occidente fosse più vitale di quanto non credevano e non credono coloro che da un secolo, almeno dal fin troppo famoso Der Untergang des Abendlandes di Oswald Spengler (1918-19229, a ogni pié sospinto, ne proclamano il tramonto.
L’allarme per l’Occidente continua, comunque a farsi sentire, come tutti sanno, e si è andato anzi intensificando. Con due varianti rispetto agli inizi degli anni ’90, quando cominciò a farsi più assillante: in primo luogo, il pericolo di una concorrenza mortale non viene più ravvisato soltanto nell’Estremo Oriente, perché ad esso è stata aggiunta l’India, giustamente vista come soggetto di una crescita non meno impressionante; in secondo luogo, l’avanguardia dello sviluppo est-asiatico con la relativa minaccia alle posizioni dell’Occidente viene vista piuttosto nella Cina che nel Giappone.
Due varianti di primaria importanza, colte con particolare chiarezza solo da alcuni di coloro che si sono impegnati nel ricostruire la storia del passato millennio sullo scacchiere euro-asiatico prima e mondiale poi, come, ad esempio, in Italia, Valerio Castronovo.
Una lunga partita, con rincorse e sorpassi continui, si dice. Alcuni secoli fa l’Oriente asiatico produceva più dell’Europa, che ne importava merci e beni essenziali per la sua economia e per il suo tenore e modo di vita. Poi la ruota della storia ha invertito il suo corso. L’Occidente è andato formidabilmente avanti, l’Oriente si è seduto, o ne ha dato l’impressione. Ne risulta, ovviamente, innanzitutto, la profonda trasformazione che tra l’800 e il ’900 ha fatto del Giappone una grande potenza economica. Talmente grande da essere sopravvissuto, come tale, alla devastante rovina della sua potenza politica nel 1945 e da essere pervenuto, qualche decennio dopo, a costituire la seconda potenza dell’economia mondiale dopo gli USA. Ma ancora di più ne risultano, dopo quelli delle “piccole tigri asiatiche”, i grandi balzi in avanti, fra XX e XXI secolo, della Cina e dell’India, sulle quali e sulle cui prospettive soprattutto ci si ferma.
Per il passato le ricostruzioni anche meglio informate e dettagliate, non eliminano varie perplessità sul giudizio circa il grado di sviluppo e di potenza economica rispettivo dell’Europa e dell’Asia. In breve, sembra a noi che già almeno dal ’500 in poi il passo delle loro economie non fosse pari. Si, gli europei compravano e pagavano i tessuti, spezie e altro dell’Oriente, con un continuo esborso di denaro; e il livello tecnico-organizzativo delle produzioni asiatiche era apprezzabile. Ma dire che Cina e India fossero al centro dell’economia mondiale, e che bisognò aspettare la “rivoluzione industriale” del secondo ’700 e primo ’800 perché le cose si rovesciassero, non ci persuade molto. A quell’epoca gli europei già avevano consolidato un’attività commerciale e una navigazione a livello globale, che non solo li costituiva come il perno intorno al quale giravano i traffici mondiali, ma dava ad essi, per così dire, l’iniziativa storica.
La rivoluzione industriale stessa non fu affatto un caso. Si inquadrò in un moto di ricerca tecnico-scientifica assolutamente all’avanguardia rispetto a ogni altra cultura del mondo, anche rispetto a quelle dell’India e della Cina. È, inoltre, da considerare che in Europa erano di gran lunga maggiori la produzione bellica e quella delle costruzioni navali. Il vantaggio europeo era già solo per questo notevolissimo. Gli europei andavano in Asia e ne conquistavano ampie zone ben prima della rivoluzione industriale. Indiani e cinesi non si muovevano dai loro paesi. Dal che deriva la impossibilità storiografica di sottovalutare una tale serie di dati di fatto, relativi al diverso dinamismo di quelle varie aree storiche.
Di recente è stato anche dato ampio rilievo alle spedizioni cinesi effettivamente svoltesi durante il regno di Yong-lo (1403-1424), l’unico imperatore di quel paese ad attuare una politica di egemonia marittima nell’Asia sud-orientale, e a promuoverla con ripetute spedizioni. La grande flotta (si dice di più di 300 navi con circa 28.000 soldati a bordo) che egli pose sotto il comando di un abile ammiraglio, Zheng He, di religione musulmana, e quindi presumibilmente aperto alle esperienze dei grandi traffici delle aree islamiche, raggiunse in una serie di sette viaggi non solo i paesi relativamente vicini, dalla Corea al Siam, al Vietnam, alla Malesia, a Giava, a Sumatra, a Ceylon e all’India, ma anche paesi lontani come la Somalia, il Kenya, le coste arabiche meridionali dal Mar Rosso al Golfo Persico. Queste spedizioni – si dice – erano animate solo da scopi di conoscenza, di riconoscimento del prestigio cinese, di allacciamento di rapporti commerciali: nulla, dunque, della brutalità e della violenza conquistatrice degli europei. A parte, però, il fatto che, a quanto si sa, anche Zheng He usò ai suoi scopi le armi quando gliene parve il caso, e a parte il fatto che dell’effettivo raggiungimento delle coste africane e arabiche anche studiosi cinesi dubitano, resta, comunque, da chiedersi se la presunta limitatezza degli obiettivi cinesi rispetto alla corposa e dura volontà di conquista e di dominio degli europei nella loro espansione in altre parti del mondo vada valutata come un pregio morale e umano o come un’oggettiva carenza di slancio e di proiezione storica, una proiezione volta più ad un adattamento alle condizioni storiche date che a costruire la storia, una storia nuova e di più ampio respiro mondiale di quella conosciuta e vissuta fino ad allora. Dilemma che, ovviamente, non può essere sciolto sul piano storiografico in base a criteri etici o religiosi, ma unicamente in base al rilievo che l’azione dei protagonisti finì con l’avere sulla scena della storia mondiale. Dove la vicenda degli europei non rifulse per gli aspetti che il grande processo alla storia europea intrapreso nel secolo XX ha rappresentato nella cruda luce di una rapina sterminatrice, e che nella storia mondiale non sono affatto una esclusività degli stessi europei. Né si vuol dire che anche nell’epoca della sua massima affermazione e creatività la storia europea non abbia ancora contratto debiti con altre parti del mondo. Come abbiamo già notato, l’apertura all’esterno è anch’essa un “carattere originale” della storia europea. Altro è, però, contrarre debiti; altro è modificare l’asse della propria rotta storica e i principii della propria navigazione. L’osservazione storica più elementare può facilmente attestare in quale incomparabile misura l’occidentalizzazione del resto del mondo abbia prevalso su qualsiasi movimento in senso contrario.
La storia europea resta, infatti, e in ogni caso, per sempre nella storia del mondo per il passaggio a cui essa ha portato l’umanità da uno stadio a un altro, come abbiamo già detto, della loro condizione nel mondo e nella stessa loro condizione umana, nonché sociale.



Prometeo liberato e Minerva trionfante, Europa “world history”

La verità fu, infatti, nello straordinario sviluppo intellettuale, scientifico e tecnico dell’Europa moderna, che, come già abbiamo notato, traghettò l’umanità ben oltre le soglie della civiltà industriale, esaltandone il protagonismo storico di gran lunga oltre qualsiasi altro precedente confine. Il solo confronto possibile è – vale sempre la pena di notarlo – con il precedente balzo dell’uomo dallo stadio della raccolta di cibo vegetale, della caccia e della pesca allo stadio dell’agricoltura, con la quale nacquero le condizioni stesse degli insediamenti residenziali, della formazione di città e di organismi politici più complessi di quelli puramente di tribù o di clan, di società più articolate e differenziate nelle loro stratificazioni e nelle loro dinamiche. Occorsero poi circa una diecina di migliaia di anni per passare allo stadio industriale, ma, una volta avvenuto questo passaggio, sono poi bastati due o tre secoli per percorrere un tratto di strada così lungo da poter essere stimato di molto superiore a quello dei precedenti diecimila anni.
Questa verità storica è tanto meno ignorabile in quanto il tipo di civiltà così nato in Europa è andato rapidamente guadagnando l’intero spazio mondiale, e non solo come imposizione europea, ma per spontaneo moto e forza espansiva di tale civiltà. Un moto e una forza rispetto ai quali anche le più o meno giustificate imputazioni di genocidio culturale, rivolte assai spesso all’Europa insieme a tante altre, perdono di fatto quel che potrebbero eventualmente avere di loro significato storico. Il perché della guida europea di un tale sconvolgente moto storico trova la sua risposta più autentica nella maturità dei tempi, che proprio l’associazione europea di spirito di conquista, di instancabile attivismo e di un ancora maggiore e più rivoluzionario fermento intellettuale, unitamente alla profonda persuasione di muoversi in tutto ciò secondo i dettami della vera religione e di un superiore impulso etico, di per se stessa determinava.
Avrebbe potuto l’Europa in altro momento della sua vicenda, e, ad esempio, nel momento culminante della civiltà ellenistico-romana nell’antico mondo mediterraneo, avviare e realizzare la stessa opera, che ha realizzato dalla fine del secolo XV in poi? Avrebbe potuto, magari, anche la Cina, così intellettualmente matura già fra X e XVI secolo come alcuni vogliono, assumere essa il ruolo che fu dell’Europa? In entrambi questi casi si sono addotte cause simili per spiegare il perché non fu varcata allora, e lì, la frontiera della modernità che l’Europa varcò a suo tempo così decisamente: l’economia a schiavi, la società a struttura feudale, la difficoltà di una “accumulazione primitiva del capitale” in tali tipi di società e di economia, l’ideologia del lavoro come segno di condizione sociale inferiore: tutte condizioni variamente rovesciate nell’Europa moderna. Resta, tuttavia, il punto principale, e cioè «la impossibilità di pensare e di credere che gli svolgimenti storici si debbano produrre secondo una logica sistematica, lineare, obbligata. La “modernità” non era un destino, né un passaggio obbligato. È stata un’invenzione, una scelta che avrebbe potuto anche non prodursi». Nella storia si può avanzare, ma anche tornare indietro, come l’esperienza della rovina del mondo antico e l’incerta vicenda europea dal V al X secolo dimostra, mentre fu la stessa Europa, in concreto, a operare la scelta decisiva e a muovere verso la modernità con la sua iniziativa storica e nelle forme compatibili con la sua realtà storica al chiudersi del secolo XV.
L’epoca che allora si aprì nasceva effettivamente sotto il segno di una “rivoluzione culturale”, che avrebbe portato a una rivendicazione totale della libertà di pensiero e di ricerca rimasta fra i maggiori conseguimenti morali e intellettuali della civiltà europea. L’antico eroe della mitologia ellenica, Prometeo, che aveva rubato il fuoco agli Dei e lo aveva donato agli uomini, e perciò aveva subito l’atroce pena di essere legato a una roccia del Caucaso dove un avvoltoio gli straziava di continuo il fegato, poté ben essere immaginato come liberato da questa pena, che ne tarpava la possibilità di altre conquiste di civiltà, ed essere, quindi, assunto, in tale condizione nuovamente libera e creativa, come simbolo della libertà di pensiero e di ricerca che l’Europa rivendicava e conquistava a se stessa. Era il versante tecnologico di un generale trionfo del sapere, pur mentre il pensiero europeo segnava fortemente i limiti reali e soggettivi delle conoscenze umane sia nel pensiero filosofico che nella gnoseologia e metodologia delle scienze naturali e sperimentali, non escludendo da questa considerazione critica neppure l’ambito matematico e geometrico, da sempre fatto oggetto di una quasi-fede di certezza e verità. Un trionfo, dunque, della dea del sapere, il cui uccello, la civetta, si levava nel cielo dell’Europa non già, come nell’antica mitologia al chiudersi del giorno, a sera, ma nel pieno fulgore meridiano dei successi e delle fortune europee.
Europeizzazione ha significato, infine, non solo questo passaggio epocale a un altro stadio della storia dell’umanità. Ha significato anche una sostanziale unificazione della vita storica, ossia delle esperienze molteplici e diverse, in cui l’umanità si è espressa. Al suo punto di arrivo tra XX e XXI secolo questa unificazione avrebbe spinto a parlare del “villaggio globale” come condizione ormai effettiva della presenza umana nel mondo, e – come già abbiamo a suo luogo notato – avrebbe fatto dell’inglese una sorta di “lingua franca” di tale condizione.
Un implicito rapporto con l’affermarsi della cosiddetta “globalizzazione” può vedersi, d’altro canto, anche nella rapida fortuna di una nuova prospettiva storiografica, che sarebbe rappresentata dalla cosiddetta world history. Resa plausibile, ma non senza limiti e condizioni varie, dagli sviluppi ultimi della storia moderna e contemporanea, difficile sarebbe, comunque, adottarla per epoche storiche precedenti. Ben pochi dubbi possono, infatti, esservi sul carattere circoscritto e di relativo isolamento in cui la storia dell’umanità ha proceduto fino a che l’iniziativa europea non ne ha determinato la progressiva unificazione. Per alcuni ambiti storici (Oceania, Americhe) il problema assolutamente non si pone, in quanto solo l’esplorazione del mondo da parte degli europei le ha messe in progressivo contatto con le altre parti del mondo. Ben più. Nessuna minima prova abbiamo che all’interno delle Americhe le varie civiltà precolombiane che vi fiorirono fossero in effettivo rapporto fra loro nel tempo in cui furono coeve; e questo è, in ogni caso, escluso per quanto riguarda le civiltà andine, da un lato, e quelle centro e nord-americane, dall’altro. Molto di simile appare da dire per l’Africa sub-sahariana, anche se rapporti e contatti di molte zone di quest’area con il mondo mediterraneo e poi islamico non solo non mancarono, ma furono a volte intensi, e anche se la parte di questa Africa andò gradualmente crescendo nei tempi moderni. Per quanto riguarda, invece, il Vecchio Mondo, costituito dall’insieme dell’Eurasia, i contatti vi furono, ma di intensità varia a seconda dei tempi e delle circostanze, e trovarono spesso in grandi movimenti religiosi (Cristianesimo, Islam, Buddismo) incentivi di forte rilievo.



Una nuova geografia europea: l’Europa-Occidentale

Quando questo è accaduto, la centralità europea nella storia moderna era già avviata al declino, sia che si voglia far decorrere questo declino dall’indomani della seconda o dall’indomani della prima mondiale o, anche, dal periodo anteriore alla prima guerra mondiale. Nello stesso tempo si era pure delineata, però, molto nettamente, e da gran tempo, una nuova geografia della presenza europea nel mondo. Erano, in effetti, nate, dall’espansione europea nell’età moderna, molte nuove Europe: quella, a sua volta molto diversificata al suo interno, latino-americana, quella anglo-sassone nell’America settentrionale, in Australia, in Nuova Zelanda e in altre parti del mondo, e isole di quella francese e di qualche altra lingua altrove.
Per inciso, anche a prescindere dal mutamento dei criteri propri della geografia umana, molto notevoli nel corso del secolo XX, è certamente necessario, più che opportuno, precisare qui, a proposito di queste variazioni geografiche, che la stessa nozione di Europa maturata nella geografia moderna non è diversa da ogni altra nozione geografica, antica o moderna. Anch’essa è, quindi, soggetta a una mutevolezza e a una usura storica, che tolgono ad essa ogni vera essenzialità anche sul piano della (se così la vogliamo definire) storia naturale. La deriva dei continenti, la loro diversa dislocazione e dimensione geografica nel corso delle varie epoche geologiche, il conseguente comporsi e ricomporsi delle masse terrestri in varie sistemazioni nel corso del tempo, le distinzioni che i geografi elaborano fra parti del mondo e continenti o altre simili, la continuità territoriale dell’enorme massa terrestre eurasiafricana, la piccola estensione dell’Europa rispetto a quella asiatica (quasi quattro volte e mezza maggiore) e a quella africana (tre volte maggiore), la netta prevalenza di un mondo mediterraneo rispetto a quello europeo nell’età antica e fin oltre il Mille sono tutte circostanze e dati che delineano e confermano la natura pragmatica e convenzionale delle determinazioni geografiche. In questo senso è certamente lecito riferirsi alle determinazioni geografiche come a pure rappresentazioni o concetti empirici, che rispondono, volta per volta, all’unico criterio della loro utilità indicativa o classificatoria, del loro uso corrente e riconosciuto e del loro significato inequivocamente convenuto. Del resto, non maggiore oggettività sostanziale hanno sul piano cronologico gli analoghi concetti empirici o rappresentazioni, per cui distinguiamo un periodo storico dagli altri e vediamo la storia svilupparsi come un seguito di tali periodi, il cui concetto e la cui definizione variano nel tempo anche più spesso e rapidamente di quelli dei termini geografici. Ma come nell’uso storiografico acquistano volta per volta sensi definiti e specifici i termini cronologici, così accade anche per i termini geografici. Ciò accade, anzi, in tale misura che dall’una o dall’altra concezione dei varii periodi progressivamente elaborati e invalsi nella considerazione storica degli storici e della cultura corrente prendono nome, non a torto, le epoche della storiografia, oltre che quelle storiche designate dalle varie periodizzazioni. E allo stesso modo l’apparente maggiore consistenza di fatto o, addirittura, corposità fisica delle rappresentazioni geografiche acquista senso dal punto di vista storiografico solo in rapporto ai problemi storici che volta per volta, o dall’uno all’altro punto di vista, in un determinato àmbito geografico vengono individuati, e progressivamente elaborati e definiti. La particolarità dell’Europa sta, appunto, nel rappresentare il caso unico di un empirico concetto geografico a scala continentale tradottosi a mano a mano in una concreta realtà storica e storiografica, ossia nel problema storico specifico e articolato di una grande realtà civile dall’indubbio profilo (come già abbiamo osservato) complessivo, se non unitario.
Le nuove Europe hanno segnato ovunque un’impronta profonda dello spirito europeo, ma ne hanno anche segnato sviluppi nuovi, se non diversi. Sviluppi così consistenti che già dal secolo XVI i rapporti di potenza fra i paesi europei sono diventati così importanti che quei rapporti e lo stesso sistema degli Stati europei non possono essere storicamente considerati e rappresentati senza tener conto delle loro componenti extra-europee e degli equilibri che al riguardo si sono andati determinando nel corso del tempo. Sviluppi, anche, così profondi che almeno dal secolo XIX è diventato difficile distinguere tra l’Europa madrepatria e le sue filiazioni, e ancor più difficile scrivere una storia della vita morale e culturale dell’Europa senza considerare la vita e le manifestazioni dell’Europa extra-europea e dell’Europa geografica in questo suo doppio. Ancor più sarebbe, poi, storicamente inattendibile qualsiasi valutazione dei rapporti fra l’Europa geografica e le nuove Europe transmarine che non ne mettesse in rilievo, con l’impronta impressa in esse dagli europei, anche i debiti europei verso di esse e gli apporti che ne sono venuti alla vita e alla storia dei popoli europei.
A sua volta, il mondo extra-europeo ha avuto, nel proprio pensiero e nel pensiero europeo, evoluzioni profonde. La più specifica e importante è certamente stata quella subìta dall’idea via via maturata del mondo americano. Ma di grande interesse e significato storico è stato anche tutto il processo per cui il mondo extra-occidentale, sia negli sviluppi che hanno portato al concetto (geopolitico, economico, culturale) di un cosiddetto Terzo Mondo, sia nelle reazioni specifiche e negli sviluppi singolari di ciascun ambiente e cultura del vastissimo e quanto mai eterogeneo aggregato formato dal Terzo Mondo.
È su questa base che è anche maturato il concetto di Occidente non più soltanto nel senso della sua contrapposizione a un Oriente politico, ideologico, culturale caratterizzato da valori di segno opposto a quelli positivi individuati nell’Europa secondo l’antica tradizione di cui abbiamo già detto, bensì nel senso di mondo informato e strutturato secondo la scala dei positivi valori etici, politici, culturali, sociali, riconosciuti come propri della tradizione europea, quale che ne sia la dislocazione geografica.
Nel corso del secolo XX, e soprattutto nella seconda metà di questo secolo, è poi apparso duraturo, e anche sempre più evidente, che la leadeship e la roccaforte dell’Occidente si sono collocate negli Stati Uniti d’America. È, in un certo senso, come se l’Europa avesse ormai fuori dei suoi confini geografici il proprio centro di animazione e di gravitazione. Oppure, secondo altri, come se la storia avesse dimostrato che l’Europa geografica non è più essenziale per le sorti della civiltà europea e dei suoi valori: davvero, quindi, non solo un rovesciamento della posizione storico-geografica dell’Europa, ma una autentica fine dell’Europa come Heartland, quale era apparsa fino a non molti decennii prima.
Per un gioco di echi e di riflessi non difficile da seguire nella sua genesi e nei suoi sviluppi, si è poi anche determinata una distinzione-contrapposizione non priva di asprezza teorica e argomentativa fra le nuove Europe e la madrepatria europea. In questa dialettica di nuovo modello fra Europa in senso storico geografico ed Europa extra-europea nel senso sopra indicato opera, indubbiamente, la tentazione di vedere nel passato europeo una unità culturale molto più intensa ed effettiva di quanto si può riconoscere. Tentazione comprensibile. La vita culturale ha, infatti, rappresentato per gli Europei una casa comune di assai più facile accesso e frequentazione che qualsiasi altro campo della loro esperienza storica. I grandi movimenti artistici e letterari, filosofici e scientifici, i grandi dibattiti culturali, che scandiscono il passato europeo, si sono sviluppati tutti a scala continentale, anche se hanno avuto le loro radici o le loro massime e più caratteristiche espressioni in singoli paesi europei. Sul piano della vita religiosa l’unità culturale è stata, a partire dalla prima diffusione del Cristianesimo in poi, addirittura più forte che in altri campi, poiché la professione di fede cristiana ha radicato in tutto il continente valori fondamentali anche della vita morale e sociale. E per secoli, a varii livelli, i popoli europei hanno, inoltre, avuto, come si è visto, una «lingua franca» della cultura (fino al secolo XIX, in varie applicazioni il latino), che ha reso possibile la comunicazione non solo culturale, ma anche in altri settori della vita sociale.
È dubbio, tuttavia, che, per quanto comprensibile, la tentazione di vedere nella cultura un fondamento esauriente di unità europea possa valere a superare le articolazioni interne della tradizione europea, che la definiscono da sempre come un universo plurale e vario nelle sue componenti, ossia – lo abbiamo già osservato come un mondo in cui la diversità è la matrice di un fondamento non meno essenziale di quello assicurato dall’unità.
Proprio per questo motivo quella che viene comunemente presentata come una difesa dell’identità europea nei confronti, in particolare, delle spinte e degli orientamenti provenienti da quella che è di gran lunga la maggiore fra le Europe extra-europee, ossia gli Stati Uniti, finisce col mettere in questione quel fortissimo tratto identitario europeo che è stato da sempre costituito dalla struttura plurale, molteplice, differenziata in cui l’Europa si è storicamente articolata. Né meno grave appare il trascurare che la difesa o promozione dell’identità culturale europea non può essere in alcun modo concepita come un arroccamento continentale, laddove la storia europea si è sempre aperta, come pure abbiamo detto, all’esterno, trovando in ciò un altro di quelli che potrebbero essere definiti i “caratteri originali” della sua tradizione e identità. E ciò senza contare che l’epoca della globalizzazione, alla quale lo sviluppo europeo ha messo capo, ha tolto alla vita culturale e scientifica gli argini tradizionali di recinzioni particolaristiche.



“Finis europee?” “Untergang des Abendlandes?”

Distinguere all’interno dell’Occidente inteso come area mondiale di espansione e di sviluppo della civiltà europea senza limitazioni di confini geografici non sarà, insomma, dal punto di vista storico, né più difficile, né meno necessario di quanto nel corso della storia passata sia stata la necessaria distinzione tra le molte voci dell’esperienza europea e i loro molteplici riflessi e implicazioni, benché da altri punti di vista, a cominciare da quelli delle contingenze politiche ed economiche, vi siano o possano esservi necessità di distinzione che potranno esigere criteri diversi da quelli storici.
Il problema è, semmai, quello di chiarire sino in fondo, anche storicamente, se la dislocazione della geografia culturale europea fuori dell’Europa, il suo ampliamento su scala mondiale e la non totale, ma certo molto ampia redistribuzione delle parti in seno all’area occidentale si vadano accompagnando anche a un fenomeno di crisi e di esaurimento non solo del suo vecchio centro europeo, ma anche dello slancio creativo ed espansivo della stessa civiltà occidentale nel suo complesso. Agli inizi del secolo XXI, a malgrado di tanti dubbi al riguardo, espressi in forme spesso di vasta portata, oltre quella redistribuzione non sembra possibile osservare molto altro. È vero che già dopo la prima guerra mondiale si cominciava già a parlare, come sappiamo, di “tramonto dell’Occidente”, e che mai come negli ultimi decennii del secolo XX si è parlato di “crisi dell’Occidente”: tendenza che dagli inizi del secolo XXI è sembrata crescere e diffondersi. Ma i discorsi che sono all’ordine del giorno delle cronache politiche o delle polemiche ideologiche valgono, e possono avere anche grande importanza, come sintomi di particolari dimensioni del loro tempo, e per ciò anche sul piano storiografico non possono mai essere trascurati o sottovalutati. Lo spirito del tempo, lo Zeitgeist (ma usiamo qui il termine senza alcuna particolare inflessione nel senso del suo significato hegeliano) può esserne, però, influenzato nei suoi aspetti più immediati, ma non stornato dalla sua rotta essenziale e dominante.
Non c’è, comunque, soltanto l’aspetto storiografico a meritare una particolare considerazione. Uno studioso italiano certamente non tacciabile di pregiudizi etnici o culturali osservava già negli anni ’50 del ’900 che proclamare una crisi, un tramonto, una fine senza sentirsene attori e protagonisti non può esaurire un tale discorso, e che da una tale proclamazione si poteva uscire solo rimettendo in gioco la coscienza che pronuncia una tale diagnosi insieme ai fondamenti e alla sostanza della realtà di cui viene proclamata la crisi o fine o tramonto. E, partendo da questo punto di vista, «malgrado – scriveva Ernesto de Martino – gli elementi negativi vistosi e spesso atroci con cui la crisi si manifesta e minaccia, le alternative vitali che impegnano oggi il mondo si chiamano ancora Europa. Che si debba mantenere fede alla ragione, come telos dell’umanità rappresentato in modo eminente dall’Occidente, o che si debba invece abdicare dinanzi all’irrazionale e tornare a fare di esso il tema fondamentale della vita: questa alternativa si chiama Europa, poiché noi europei la stiamo vivendo con una drammaticità che non ha l’eguale in nessun’altra civiltà del nostro pianeta. Che il viver civile debba essere ordinato secondo la forma di una democrazia socialista o debba sostanzialmente muoversi nel margine di scelte possibili per entro la democrazia borghese, anche questa alternativa si chiama Europa, poiché in Europa ebbero le loro radici le condizioni sociali e la tensione di pensiero che prepararono questi due messaggi […] Il prodigioso sviluppo delle scienze e l’attuale prospettiva della conquista degli spazi cosmici, si chiama ancora Europa, da Galilei ad Einstein: le altre civiltà non ci propongono a questo riguardo nulla di radicalmente nuovo e più alto, ma, se mai, scelte per noi improponibili come, per esempio, il viaggio psichico degli sciamani asiatici verso i superi e verso gli inferi, o la sapienza dei Veda, o quella di Confucio o lo Yoga o il Buddismo Zen, per tacere dei varii occultismi europei, cui indulgono le anime stanche e i cervelli deboli».
Era, indubbiamente un atto di fede, e, per di più, molto legato agli anni in cui veniva espresso, che non erano, però soltanto anni di tramonto e fine dell’esperienza europea. Erano gli anni di nuove scelte, di nuovi avvii, di nuove sistemazioni all’interno dell’Europa che sul piano mondiale, dove lo spazio europeo, diviso a metà, rappresentava il luogo più caldo e difficile di attrito e di scontro del nuovo urto tra Occidente e Oriente nel senso che questi termini avevano assunto all’indomani della seconda guerra mondiale e nel tempo della “guerra fredda”. Erano gli anni di una Europa che prodigiosamente, nella sua sezione occidentale, ricostruiva su basi più moderne e più potenti la sua economia e realizzava un grandioso incremento della sua ricchezza e dei suoi modi e tenore di vita, e si amalgamava nella vita quotidiana e nei costumi più di quanto mai fosse accaduto prima. Era una Europa che nella sua sezione orientale consumava sino in fondo l’esperienza del verbo marx-comunista, lasciando il campo libero a una generale riaffermazione dei principii liberali, e sul fallimento di questa esperienza e nel quadro di questa riaffermazione avrebbe innestato la tendenza a una imprevista e rapida riunificazione di ordinamenti pubblici e di stili di vita, quasi tornando dalla sua fisionomia di fine secolo a quella di prima del 1914. Era una Europa in cui andavano già delineandosi le fiamme della “contestazione” del 1968, che avrebbe comportato un’ancor più imprevista messa in discussione dei fondamenti morali e sociali della tradizione europea e occidentale e si sarebbe conclusa senza forse sanare davvero e del tutto, al di là delle apparenze, una frattura che non era solo anagrafica e generazionale, ma più in interna corporis di quella tradizione.
Erano, insomma, anni drammatici e complessi, in cui il termine Europa non aveva più il suo tradizionale significato geo-culturale, né riassumeva più nell’essenza e in misura sufficiente il significato del termine Occidente come si era venuto evolvendo nel corso del secolo XX. E proprio per ciò le parole sopra citate di de Martino avevano un valore particolare. A più di mezzo secolo di distanza, in condizioni ancora una volta molto mutate, esse hanno, infatti, ancora un loro significato, che non ne altera il loro carattere di atto di fede, se tali le si deve o si vuole considerare, ma consente di valutarne meglio una fondatezza storiografica paradossalmente più evidente che al momento della loro formulazione.
Al momento della loro formulazione parve a noi di poterne dedurre una serie di interrogativi. La storia dell’Europa di cui dopo la metà del secolo XX si parlava «era la storia di Cartagine tra la seconda e la terza guerra con Roma? Era la storia di una nuova Ellade prossima a essere calcata dal tallone romano? Era la storia dell’impero di Roma, nella cui “decadenza” progressivamente si infiltravano i “barbari esterni” prima di scuoterne e rovinarne con un urto frontale il possente edificio, già indebolito e corroso dai “barbari interni”? Era la storia della splendida Italia rinascimentale contro la quale avevano congiurato la potenza e lo slancio dei grandi paesi moderni? Era la storia di un nouveau Christianisme che veniva soppiantando un ormai vecchio, esaurito mondo pagano? O era, magari, la storia di un’“epoca forte” fraintesa da un “pensiero debole”?».
Già allora dichiaravamo, peraltro, di non volere e di non presumere di rispondere ad alcuna di queste domande. Tanto meno lo si vorrebbe in una situazione storica in cui globalizzazione, informatica, problemi di sostenibilità dello sviluppo e tanti e tanti altri problemi del più vario genere hanno reso tanto più complesso e discusso l’orizzonte dell’intera umanità, nonché della sola Europa. Se, dunque, ci si è rifatti alle pagine sopra citate di de Martino e alle domande che noi a suo tempo ne traemmo, è solo perché riteniamo non troppo azzardato il credere che il fondamento logico e storico di quelle pagine e domande siano ancora di mordente attualità; e perché, se in ciò non erriamo, il riproporle ha un senso che – crediamo – va oltre l’orizzonte e il senso del discorso che qui abbiamo condotto.





NOTE
1 Si dà qui in una versione ridotta, e senza apparato di note, il primo capitolo del libro di Giuseppe Galasso, Nell’Europa dei secoli d’oro. Aspetti, momenti e problemi della storia d’Europa dalle “guerre d’Italia” alla”grande guerra”, ora pubblicato dall’Editore Guida (Napoli).^
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