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Bisogno di illuminismo: Scozia e Napoli 1680-1760
di Girolamo Imbruglia
Storico del Settecento e della storiografia, John Robertson ha opportunamente unito le due linee della sua ricerca in un eccellente libro (The Case for the Enlightenment. Scotland and Naples 1680-1760, Cambridge, Cambridge University Press, pp. 439), nel quale la limpida discussione delle maggiori polemiche storiografiche attuali è parte integrante della puntuale ricostruzione storica. È un libro di cui gioverebbe la traduzione, e la traduzione del giuoco di parole del suo titolo potrebbe essere “bisogno” di illuminismo, per dire subito una conclusione di lettura. La suggestione dell’avvicinamento della Scozia settecentesca ad altre realtà europee, di scorcio anche a Napoli, era stata avanzata molti anni fa da Franco Venturi (Tra Scozia e Russia. Un dibattito settecentesco sul feudalesimo, in Rossija/Russia, a cura di V. Strada, vol. I, Torino, Einaudi, 1974, pp. 9-40): ed è proprio Venturi che guida, per un suo lato, la ricerca di Robertson, che traccia infatti la storia “politica” delle idee illuministe attraverso il confronto tra Napoli e Edimburgo nel ’700. Categoria centrale di questa ricerca era per Venturi quella della circolazione delle idee e non quella dell’influenza loro o della comparazione. Al contrario, Robertson, con sofisticata consapevolezza metodologica, trasforma quel confronto in comparazione dei sistemi sociali e culturali napoletano e scozzese, valendosi dell’insegnamento de Pour une histoire comparée des sociétés européennes di Marc Bloch. L’accostamento a prima vista paradossale di Bloch e Venturi diviene nel libro lo strumento utile non soltanto all’analisi dei due sistemi studiati, ma anche a sviluppare ulteriori confronti storiografici. La polemica che così scaturisce con le tesi di J. Pocock è chiara fin nel titolo. Lo storico neozelandese ha sostenuto infatti, già nell’intervento nella miscellanea Venturi (J. Pocock, Clergy and commerce: The conservative Enlightenment in England, in L’età dei lumi. Studi storici sul Settecento europeo in onore di Franco Venturi, a cura di R. Ajello, Napoli 1985, t. II, pp. 523-65), che il termine illuminismo non ha altra unità se non quella, pur essa labile, della cronologia. Nella seconda metà del Settecento nelle varie realtà nazionali si sono sviluppati per Pocock molteplici e differenti illuminismi, che non possono tra loro né essere comparati, né ricondotti a un denominatore comune. Secondo Robertson, invece, pur nella varietà dei tratti, l’illuminismo europeo è stato un movimento intellettuale unitario, ad un tempo patriottico e cosmopolita. Le sue articolazioni vengono riportate a tre principali linee di sintesi, la scienza dell’uomo, la teoria della civilizzazione, intesa nel suo senso attivo di diffusione di una civiltà e nel suo senso passivo di storia di una società, e infine l’economia politica. Attraverso queste convergenti prospettive, il pensiero illuministico ha avuto sempre di mira il processo di modernizzazione e di riforma – nessuno spazio è qui fatto alle utopie settecentesche. E come l’utopismo è giudicato estraneo all’illuminismo, così questo nella sua forma matura, ossia nei decenni alla metà del secolo, è giudicato nel suo complesso come più vario e ampio della sua sola variante ‘radicale’. Alla fine degli anni ’40 era ormai chiaro per Robertson che l’illuminismo radicale non era riuscito a infrangere la protezione che il tradizionalismo aveva eretto contro il progetto ateo e eterodosso e pertanto non ci si poteva ormai aspettare che questo riuscisse a «dictate the intellectual agenda» (p. 31). La tesi recente di Jonathan Israel (Radical Enlightenment. Philosophy and the Making of Modernity 1650–1750, Oxford, 2001) è quindi rifiutata per due ragioni. In primo luogo per ragioni di contenuto. Le forze che Robertson individua come centrali nella trasformazione culturale settecentesca e che si sviluppano nell’arco che va dal secondo Seicento alla metà del ’700, non sono il materialismo e lo spinozismo, ma l’agostinismo giansenista e l’epicureismo cristianizzato di Gassendi. In secondo luogo per la periodizzazione. Secondo Israel, l’illuminismo aveva raggiunto il suo climax con Spinoza; negli anni successivi il dibattito s’era poi allargato, per trovare una voce originale e concorde in Diderot; ma con il 1748 la novità del movimento illuminista era finita – quando Montesquieu e Buffon, ad esempio, stavano pubblicando le loro opere. Molto giustamente perciò Robertson fa notare che, oltre che in Francia, pure a Napoli e in Scozia allora l’illuminismo doveva ancora cominciare. Nel suo discorso, forse l’anno simbolo per Napoli è perciò il 1744: quando apparve l’ultima edizione della vichiana Scienza Nuova e quando con la vittoria di Velletri l’esercito borbonico assicurò al regno di Carlo III la definitiva acquisizione della ancor recente sovranità. La condizione di equivoca autonomia che aveva caratterizzato lo Stato meridionale e che dal Cinquecento lo aveva reso un regno governato come una provincia, secondo la bella espressione di Doria, si era risolta in piena indipendenza. Si apriva una epoca nuova, in cui la consapevolezza dell’arretratezza sociale ed economica, la volontà di modernizzazione politica e culturale avevano come primo loro sfondo non più l’impero spagnolo, ma la complessa realtà europea.
Il libro di Robertson è quindi diviso in due parti: la parte di gran lunga più estesa analizza la cultura nel periodo che va, grosso modo, dal processo degli ateisti alla metà del secolo e che costituisce l’età della crisi della coscienza europea; poi c’è un breve ma denso capitolo sull’illuminismo quale si sviluppò a Napoli e a Edimburgo dopo gli anni ’50. In tal modo si pone, quasi insensibilmente, un ulteriore problema, che diventa quello centrale di tutto il libro: come e perché, per l’azione di quali fattori la cultura della crisi preilluminista si sia trasformata, a Napoli e in Scozia, nella cultura illuminista.
Va preliminarmente osservato, forse con più chiarezza di quanto non faccia l’autore medesimo, che la comparazione tra Napoli e la Scozia non è sovrapposizione storiografica. Questa comparazione era stata fatta fin dalla cultura seicentesca. Il caso scozzese era tanto presente alla coscienza degli intellettuali napoletani a fine ’600, quanto il caso napoletano era presente agli scozzesi. Era una riflessione incrociata, che si nutriva delle ragioni dell’analogo «predicament», o condizione di grave disagio, in cui versavano le due società e che non poté evidentemente non colpire i contemporanei. Si pensi a Andrew Fletcher l’autore del Discorso delle cose di Spagna scritto nel mese di luglio 1698, apparso in italiano lo stesso anno e con l’indicazione di Napoli come luogo di edizione (ora in A. Fletcher, Political Works, a cura di J. Robertson, Cambridge 1997). Fletcher probabilmente non raggiunse mai Napoli (a meno di non identificarlo con lo sconosciuto amico che accompagnò Gilbert Burnet nel suo viaggio del 1682), ma il caso di Napoli gli servì per criticare la volontà spagnola di costruire un impero universale, e anche, e forse soprattutto, per mostrare cosa sarebbe potuto succedere a piccole monarchie, quali appunto la Scozia o Napoli, in un mondo dominato dal commercio gestito da grandi potenze imperiali. D’altra parte, a Napoli il caso scozzese, conosciuto anche attraverso le opere di Buchanan, serviva per riflettere sui rapporti tra uno Stato politico e il papato, perché il regno meridionale, oltre a dover fare i conti con l’impero spagnolo, doveva pure affermare la propria autonomia nei confronti del papato.
Le due situazioni erano dunque intrecciate già agli occhi dei contemporanei, e la loro comparazione produce il vantaggio di una migliore visione dei processi generali dell’illuminismo e delle due realtà studiate. Tuttavia, in questa discussione del libro lascerò sullo sfondo il caso scozzese, trattato con pari analiticità e persuasività, per brevemente seguire la ricostruzione che viene offerta della realtà napoletana. È, questo, un quadro assai ricco e puntuale, sia nel ricorso alle fonti, sia nell’aggiornatissima bibliografia. Il filo interpretativo mette in luce, rispetto alla Scozia, la più arcaica struttura sociale e la minore determinazione a affacciarsi sul mondo internazionale dei commerci, ma pure la maggiore vivacità intellettuale che a Napoli si ebbe ad inizio Settecento. In particolare, emerge la centralità in questi dibattiti della tradizione epicurea, dapprima rappresentata dalle letture di Gassendi, poi dall’impatto di Bayle. Di Bayle il tema giudicato centrale è il “paradosso” della possibilità di una società atea, e della sua superiorità su quella cristiana. Attraverso un’analisi accurata e coerente, Robertson ritrova in Bayle tutte le maggiori tensioni della cultura secentesca, dall’epicureismo alla tradizione agostiniana, e mostra come si incontrarono a Napoli. Ma si intende che, sebbene l’opera di Bayle abbia circolato fin da subito in tutta la cultura napoletana, il suo miglior lettore e il suo maggior critico sia stato senza ombra di dubbio Vico, che diventa perciò la figura di maggior grandezza dell’orizzonte napoletano, cui è accostato, per un momento, Giannone (p. 45). Di Vico, presentato da Robertson con una ammirevole chiarezza, si privilegia la Scienza Nuova del 1725 (su questi temi cfr. E. Nuzzo, Tra ordine della storia e storicità. Saggio sui saperi della storia in Vico, Roma, 2001). Robertson ci presenta un Vico moderno tra i moderni, che elaborò la propria risposta al paradosso di Bayle seguendo l’onda lunga del pensiero filosofico moderno, da Machiavelli a Descartes, a Grozio e Spinoza. Del rapporto vichiano con quest’ultimo si sottolinea innanzitutto la critica alla identificazione di Dio e natura. In forza di questa opposizione e per la conseguente posizione che assunse entro la cultura moderna, Vico fu bensì attratto, come Bayle, dalla teoria epicurea dell’uomo, ma la volle rendere compatibile con il cristianesimo. Per questo scopo ricorse non alla difesa della verità delle Scritture, ma alla teoria della provvidenza. Anni fa, Cantelli aveva impostato in modo differente la medesima questione, riconoscendo la insondabilità dell’anima di un pensatore, ma mostrando pure come sia in Bayle, sia in Vico il centro delle loro preoccupazioni non fosse la difesa di un punto di vista religioso (G. Cantelli, Teologia e ateismo. Saggio sul pensiero filosofico e religioso di Pierre Bayle, Firenze, 1969, e Vico e Bayle: premesse per un confronto, Napoli, 1971). Al contrario Robertson, poiché sottolinea la contrapposizione di Vico all’illuminismo radicale di Spinoza, ne fa un pensatore impegnato a ribadire, sebbene in modo non apologetico ma anzi genialmente nuovo, le ragioni della società cristiana. In tal senso la categoria della provvidenza risulta essenziale nella visione della storia vichiana e rappresenta la ripresa della tradizione epicurea (Cfr. G. Paganini, Vico et Gassendi. De la prudence à la politique, in Gassendi et l’Europe. 1592-1792, a cura di S. Murr, Paris, 1997, pp. 347 sgg.). La provvidenza è categoria universale del mondo che, grazie al meccanismo dell’eterogenesi dei fini, interviene sulla “materia” della storia che sono le passioni e le dirige assicurandone lo svolgimento secondo leggi costanti e coerenti. Vico, dunque, per la profondità della sua ricostruzione, per l’ampiezza delle sue polemiche, costituì il punto più alto della riflessione all’epoca della crisi della coscienza europea a Napoli e vi rappresentò quel che Hume rappresentò a Edimburgo. Il bel loro confronto (specie v. pp. 316-324) mostra dei due pensatori la simmetrica diversità di soluzioni. Se Vico e Hume ebbero in comune l’idea della inesistenza di una legge di natura originaria, la quale invece sorge come estrapolazione di una pratica immemoriale sociale, tuttavia per Hume, all’opposto di Vico, l’idea di persona escludeva la libertà del volere e la possibilità di una società che facesse a meno della religione era perfettamente razionale. Hume poté così pervenire ad una visione illuministica del mondo umano, che Robertson coglie soprattutto negli Essays, Moral, Political, and Literary e nella Storia naturale della religione, laddove Vico se ne tenne lontano per il suo rifiuto della teoria del progresso. Fu infatti la teoria della storia a rendere la visione di Vico incompatibile con le successive formulazioni illuministiche, e perciò nella ricostruzione di Robertson con Vico la cultura napoletana si chiuse in un vicolo cieco, dal quale non poteva uscire né per via di queste filosofia e scienza dell’uomo, né per via della mancanza vichiana di interesse verso la dimensione fondamentale della nuova cultura illuminista, l’economia politica. Opposte le filosofie e le reazioni a Bayle, opposte quindi le funzioni che le filosofie di Hume e Vico ebbero nei rispettivi contesti.
Se infatti la cultura scozzese era stata, nei primi decenni del secolo, meno mobile e moderna di quanto non fosse stata quella napoletana, poi proprio in virtù dell’azione di Hume si accostò e fece proprie le tesi di Mandeville e di Bayle, e si incamminò per il percorso illuminista, alla cui soglia si arrestò invece Vico, in tal modo frenando anche la cultura napoletana. Mentre Hume dunque seppe allargare l’orizzonte complessivo della cultura filosofica sua anche alla scienza dell’uomo e all’economia politica moderne, Vico invece si mantenne su una posizione di estraneità che fu anche estraneità al suo stesso mondo. La cultura napoletana infatti si era resa conto della importanza della scienza economica, come Robertson sottolinea analizzando i molti progetti governativi di dar forza al commercio, ma né Celestino Galiani, né Doria seppero trovare nuove formulazioni, adeguate alla nuova situazione, nazionale e internazionale, del regno. Chi riuscì ad uscire da questo cul de sac fu Genovesi. Robertson ne interpreta la vicenda complessiva secondo la famosa e penetrante ricostruzione di Venturi, che, come è notissimo, ruota sul passaggio radicale del napoletano dalla metafisica agli studi di economia politica.
Questa interpretazione del passaggio dal preilluminismo all’illuminismo a Napoli ha un pregio e una debolezza. Il pregio consiste nel fatto che la comparazione tra Napoli e Edimburgo permette di mettere in una luce più chiara e spesso originale la cultura economica napoletana sia degli anni ’40, sia di Genovesi stesso, in particolare rilevando i motivi di convergenza con le teorie economiche e politiche dei Discorsi humeani. Sembra quasi che negli anni ’50 Hume abbia svolto anche a Napoli quella funzione di rinnovamento e trasformazione culturale che svolse a Edimburgo e, si potrebbe aggiungere, anche a Parigi.
La debolezza proviene dall’approccio comparativo, che non può non mettere capo ad un prius strutturale e determinante. Il metodo comparativo conduce alla ricostruzione di un sistema e al rinvenimento al suo interno di una struttura di lunga durata, sulla quale ruotano poi le altre dimensioni del sistema. La struttura profonda dunque del sistema intellettuale napoletano è costituita, secondo Robertson, dal pensiero del solo Vico, del quale però troppo univoca è l’accentuazione del carattere cristiano. Certamente la difesa di un principio provvidenziale contro il razionalismo astratto delle «massime ragionate» ma senza origini vitali del giusnaturalismo secentesco è uno dei momenti centrali della Scienza Nuova (G.B. Vico, Principj di una Scienza Nuova intorno alla natura delle nazioni, Napoli, 1725, ora in Opere, a cura di A. Battistini, Milano 1990, t. II, pp. 1028-1029); ma se questa storia è animata dalla provvidenza perché da quel principio riceve ordine, tuttavia non si fa mai storia provvidenziale dell’uomo (F. Lomonaco, Tracce di Vico nella polemica sulle origini delle Pandette e delle XII tavole nel Settecento italiano, Napoli, 2005, pp. 24 e sgg., per un ben condotto confronto tra il Vico e il “vichiano” frate Daniele Concina, e dunque tra Vico e la visione ortodossa della storia). La storia ideale eterna di Vico dal certum risale al verum che è ideale per non essere identico alla realtà, ma è poi pur sempre radicato nella storicità eterna, ossia entro il certo che vive della temporalità, non nella trascendenza. Al centro della teoria vichiana sta l’indagine sistematica sulla ‘comune natura delle nazioni’ meditata come loro storia e conosciuta sulla base del certum, ovvero attraverso la filologia: «Io mi sono sforzato lavorare un sistema della civiltà, delle repubbliche, delle leggi, della poesia, dell’istoria e in una parola di tutta l’umanità, e in conseguenza di una filologia ben ragionata» (G.B. Vico, Lettera a B.M. Giacco, del 14 luglio 1720, in Id., Opere, vol. XI, Epistole, a cura di M. Sanna, Napoli, 1992, p. 86). In questa visione della storia Vico sviluppa un concetto, o anzi una metafisica del tempo, che è il centro della sua estraneità alla successiva teoria illuminista, ma che però nemmeno fu religiosa o trascendente. Tale visione non era illuminista, perché non ammetteva che la storia umana fosse storia di un soggetto unico universale, come ad esempio poi in Voltaire e in Gibbon, ma al contrario frammentava quella storia in una serie di storie particolari, o di cicli (della Cina, dell’Europa, degli americani), ciascuno autonomo nel proprio percorso, ma tutti sottomessi alle medesime leggi, al medesimo ritmo, alle medesime epoche, con la sola eccezione della storia ebraica. Siffatta visione della storia frantumata in cicli indipendenti, ma analoghi perché mossi dalla medesima metafisica del tempo, era evidentemente inconciliabile con la teoria universale del progresso della storia umana che si affermò a partire da Voltaire; ma era anche diversa dall’altra grande teoria storica settecentesca, quella di Rousseau, che non poteva condividerne né la teoria della temporalità storica, né la visione delle passioni umane; e, come ho detto, non si accordava con quella religiosa ortodossa.
L’interpretazione di Vico di Robertson è dunque stranamente strutturalista: ha il merito di chiarire la estraneità di Vico nel breve periodo del passaggio dal preilluminismo all’illuminismo, ma non riesce poi sulla lunga durata a dar pienamente conto della ripresa vichiana che si ebbe, con intenti e modi vari, negli ultimi decenni del secolo.
Da questo rilievo ne discende un altro. Se si adotta la prospettiva comparativa, la figura di Vico e la sua filosofia risultano effettivamente il termine da comparare con Hume; ma se si adotta invece la prospettiva della circolazione delle idee occorre, nella cultura napoletana, a Vico avvicinare il giurisdizionalismo. Nel Settecento credo che non vi sia stata figura napoletana più nota di Giannone – se si prescinde dal Galiani parigino dei Dialogues, e da Filangieri, la cui fama pure ottocentesca fu tuttavia largamente dovuta al Commentaire di Constant. Che si consideri il Nullum jus di Caravita o la ben più celebre Istoria civile del regno di Napoli, colpisce come il giusnaturalismo napoletano, attraverso una singolare attenzione da un lato all’eredità umanistica del Cinquecento, d’altro lato alla tradizione del diritto naturale secentesco, da Grozio ai romanisti olandesi a Spinoza e Hobbes, avesse maturato una dimensione politica che in certo modo potrebbe avvicinarsi alle formulazioni lockiane sulla tolleranza. Nel senso che codesto giurisdizionalismo ampliò l’iniziale regalismo [cfr. A. Lauro, Il giurisdizionalismo pregiannoniano nel regno di Napoli, Roma, 1974, e G. Galasso, Parabola del giurisdizionalismo napoletano, in «Bollettino del centro di studi vichiani» 6 (1976), pp. 165 sgg.] e, non pago di arginare i privilegi che la Chiesa rivendicava e imponeva, radicalizzò la polemica con la Chiesa per sostenere essere anche compito dello Stato il controllo sulle sue dottrine e sui suoi costumi. Come è noto, Genovesi parlò talora di quegli anni come dei tempi «eroici» della monarchia. Non c’è dubbio che di quei tempi Giannone sia stato l’eroe. In effetti, come ho già accennato, una delle ragioni della vacillante autonomia del regno di Napoli non stava soltanto nella sua posizione di provincia entro l’impero spagnolo, ma anche nel fatto che il papato riteneva di esigere diritti di vassallaggio feudale su Napoli, sì da vantare il diritto all’investitura del sovrano. Anche in questo senso, il regno si trovava privato di autonomia e di sovranità e dunque la polemica giurisdizionalista, che non fu per nulla univoca ma assai differente nei differenti autori, si caricò di un significato politico e civile di grande radicalità, Come poi, pur dissentendo dalle formulazioni teoriche giannoniane, riconobbe Eleonora Pimentel Fonseca, la Istoria aveva avuto la forza di aver fondato una nuova nazione. Era forse una attualizzazione nel passato di quei sentimenti nazionali che circolavano sempre più vigorosi alla fine del XVIII secolo in tutta Europa, ma certo il problema dell’identità nazionale, del rapporto tra questa e la storia culturale e la realtà territoriale, la sua sovranità e l’espansione commerciale si posero proprio a inizio Settecento (I. Hont, The permanent Crisis of a Divided Mankind. “Nation- State” and “Nationalism”, in «Historical Perspective», (1994), ora in Id., Jealousy of Trade. International competition and the Nation-State in Historical perspective, Harvard University Press, 2005, pp. 447 sgg.). In questo modo nell’area del giurisdizionalismo si incontravano due diverse prospettive, quella ‘repubblicana’, o della tradizione machiavellica, e quella giusnaturalistica, o dei diritti umani. Non fu soltanto la drammatica, nobile sua morte ad assicurare a Giannone fama europea: in quel destino si vide, tradotto nell’esistenza, l’ideale di una nuova, laica politica ed autonomia, che furono poi magari pensate pure con maggiore radicalità di quanta non ci fosse nella Istoria.
Per questa ragione a me pare che Robertson abbia molto lucidamente e originalmente impostato il problema della formazione dell’illuminismo napoletano, ma vi abbia dato una risposta che, centrata esclusivamente sulla forza dell’economia politica, pecchi forse di eccesso di unilateralità, come suole accadere alle soluzioni originali. È infatti vero che la svolta di Genovesi verso gli studi e l’insegnamento di economia rappresentarono un potente fattore di cesura e di trasformazione culturale, non soltanto perché a questi temi, sentiti, come si è visto, cruciali fin dagli anni ’30 Genovesi diede contributi innovativi e di respiro europeo e capaci di ispirare una strategia riformatrice; ma perché di conseguenza intorno a questi temi si creò un’opinione pubblica che costituì, a Napoli come altrove in Europa, la humus senza la quale i discorsi illuministi non avrebbero avuto né senso, né origine. Tuttavia, ed è la terza notazione da farsi, non si può poi certo dire che gli studi di economia politica abbiano rappresentato il punto forte della cultura illuminista del secondo Settecento napoletano. I nuovi indirizzi della Fisiocrazia e di Smith vi furono conosciuti, ma poco rielaborati (cfr. F. Di Battista, Da Genovesi agli economisti liberali, Bari, s.d.). La scuola di Genovesi, infatti, non condivise mai in pieno, e talora anzi combatté la teoria del prodotto netto fisiocratica e se vi antepose alla fine Smith fu tuttavia per ragioni “storiche” e non economiche. Tra i testi che segnarono la nuova cultura economica degli anni ’50 Robertson discute in particolare Melon, che fu autore larghissimamente letto e che a Napoli ebbe di sicuro importanza anche nei decenni successivi. Ma forse si potrebbe sottolineare anche la grande importanza di Cantillon (autore peraltro rilevante anche per lo stesso Quesnay), che circolò molto e arrivò pure a Napoli, prontamente ricordato da Genovesi (Ragionamento sul commercio in universale, in J. Cary, Storia del commercio della Gran Bretagna, Napoli, 1757, ora in Scritti economici, a cura di M.L. Perna, Napoli, 1984, t. I, pp. 138-9) perché inserito nella traduzione francese dei Discours di Hume e che slargò la visione strettamente commerciale di Melon. Del resto, commenta pertinentemente il medesimo Robertson, occorreva anche secondo Hume abbandonare Melon, perché in questi il commercio era ancora considerato il potente mezzo per la formazione di un impero, laddove lo scozzese formulava l’auspicio contrario che potesse appunto formarsi una rete commerciale di Stati, senza l’ombra minacciosa della preminenza di un impero. Soluzione evidentemente auspicabile per uno scozzese e non per un inglese, ma certo pure per i napoletani. I quali, proprio perché seguaci di Genovesi, pur conoscendola, non inclinarono mai verso la fisiocrazia, neppure con Palmieri, che di tutti i genovesiani fu il più originale. Il razionalismo interventista e normativo dell’economia civile (ad esempio si legga A. Genovesi, Delle Lezioni di commercio o sia di Economia civile, il cap. I, 12 In che modo la legge del minimo possibile nelle classi non producenti possa mettersi in pratica, a cura di M.L. Perna, Napoli, 2005, pp. 450 sgg.) si rivelava strada incompatibile con il razionalismo fisiocratico. Prevalse sempre la lezione tardo mercantilista di Genovesi, poggiante sull’aumento della popolazione come condizione di aumento di lavoro e dunque di incremento del commercio estero, dal quale discendeva una maggiore ricchezza per la nazione, e in primo luogo per la città di Napoli. Sicché poi la Ricchezza delle nazioni di Smith a Napoli fu letta più per la ricostruzione storica del rapporto città-campagna [sulla quale v. I. Hont, Adam Smith and the Political Economy of the “Unnantural and Retrograde”, Order (1989), ora in Id, Jealousy of Trade, cit., pp. 354 sgg.] e per l’evidente risvolto riformatore antifisiocratico che per le teorie propriamente economiche.
E, del resto, davvero era stata quella di Genovesi una conversione totale all’economia politica? Alla fine della sua vita, coinvolto in una rumorosa affaire da lui stesso suscitata a proposito dell’insegnamento universitario delle Decretali pontificie, che lo fece finire «in una tempesta populare senza aver pensato mai di dover esservi», Genovesi diceva con autoironia che «i romori della Città mi hanno fatto in questi giorni da commerciante Decretalista» (G.M. Monti, Il Genovesi e l’anticurialismo, in Due grandi riformatori del settecento: A. Genovese e G.M. Galanti, Firenze, 1926, p. 76). Sembrava questa l’ultima metamorfosi sua, dopo quelle che lo avevano trasformato da filosofo in mercatante, in storico della Chiesa, in teorico della legge naturale nella Diceosina. Ma queste varie figure significarono per Genovesi non una rinuncia, ma un approfondimento di questioni che di volta in volta gli si paravano dinanzi. L’animo suo fu sempre illuminista. Quando Galiani lo paragonò a Diderot non voleva avvicinare i due suoi amici per gli analoghi interessi economici o filosofici: troppo bene sapeva egli stesso la distanza e la differenza che li separava. Ma li avvicinava proprio perché Galiani aveva scorto nei due pensatori un medesimo movimento, che li aveva spinti a lasciare la filosofia per divenire philosophes, per usare la bella formula di Filosofia e politica dell’illuminismo di Furio Diaz. Era la volontà di affrontare i temi de «la religion et du gouvernement», riconosciuti come decisivi per la comprensione e la trasformazione della società, con un atteggiamento di piena e consapevole autonomia. Qui stava la novità della nuova cultura illuminista e la radice del bisogno suo, a Edimburgo come a Napoli.
In definitiva, nell’illuminismo napoletano successivo al 1760, delle tre dimensioni proprie della cultura illuminista, fu proprio quella dell’economia politica ad essere la più debole, mentre sia la riflessione storica, sia la ricerca sulla scienza dell’uomo suscitarono grande interesse e se ne ebbero originali interpretazioni. Proprio questa complessa struttura della cultura napoletana illuminista, volta alle scienze umane e alla filosofia, al diritto all’economia e alla politica costituì il carattere di fondo dell’illuminismo napoletano. Robertson ha opportunamente insistito sull’importanza di Hume a Napoli, che non si spiega soltanto con la diffusione dei suoi scritti economici. Pari importanza ebbero gli scritti sulla religione e la Storia d’Inghilterra, nei quali Hume riprese le ricerche, già svolte nelle opere filosofiche, sul tempo e sull’abitudine, sull’immaginazione e le passioni. In un certo senso queste ricerche si potettero inserire, come vide con acutezza Galanti (M.L. Perna, Giuseppe Maria Galanti editore, in Miscellanea Walter Maturi, Torino, 1966, pp. 223 sgg.), sull’ancora incerto e vacillante tronco storiografico del giurisdizionalismo napoletano. Vennero cioè ad arricchire la teoria della Istoria civile di Giannone, del quale non si conoscevano, di fatto, le ulteriori ricerche confluite nel Triregno. In particolare, per questa via si approfondivano non soltanto la visione del feudalesimo e, grazie soprattutto alla Storia di William Robertson, della formazione del mondo moderno europeo; ma anche le categorie del costume, dell’abitudine, della dimensione umana “naturale” vennero ad integrarsi in questa visione e non in quella vichiana. Vico fu invece ripreso non tanto dentro il discorso storiografico, ma piuttosto in quello della scienza umana, della quale, come ovvio, si riteneva che il diritto facesse parte: il suo avvicinamento a Ferguson per il comune rifiuto dello stato di natura operato da Francescantonio Grimaldi fu poi sviluppato in tutt’altra direzione da Filangieri e da Pagano. Il quale appunto provò a unire queste due dimensioni in una sintesi che fu senza dubbio la più complessa teoria del tardo illuminismo italiano.
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