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Fascismo e idea di Europa tra anni Venti e anni Trenta
di Anna Maria Amato
1. Fascismo ed Europa: una periodizzazione tra realpolitik e ideologia

Il fascismo è un fenomeno politico-ideologico privo di una struttura compatta e costantemente in fieri nel corso del ventennio della sua realizzazione storica, risultando molto spesso più influenzato da esigenze di realpolitik che da una stringente coerenza ideologica. Si può assumere infatti che, anche rispetto all’idea d’Europa, esso non mostra di avere un percorso univoco e lineare in via teorica, ma piuttosto tende a rappresentarne e ad assumerne forme diverse, a secondo delle esigenze di politica estera1. E questo senza mai proporre, ad ogni modo, un’ipotesi convincente e realmente innovativa, soprattutto sotto il profilo politico-istituzionale, che andasse oltre un mero esercizio retorico.
A un modello di politica diplomatica quasi di natura liberale, infatti, utilizzato durante gli anni Venti, corrisponde uno scarso impegno nell’approfondimento del tema europeo; mentre al contrario, una politica estera più aggressiva, volta a proiettare l’Italia fascista in una dimensione imperiale, produce una revisione culturale che, soprattutto negli anni Trenta, cerca di proporre un modello europeo tendenzialmente fascistizzato e radicalmente alternativo rispetto alle “altre” culture, ed in particolar modo rispetto a quella americana.
È noto che la Grande Guerra aveva ridisegnato gli equilibri europei e mondiali, nella misura in cui soprattutto gli Stati Uniti si erano imposti come grande potenza extraeuropea che aveva condizionato in maniera dirimente gli esiti del conflitto, acquisendo diritto di parola nelle questioni europee. A fianco tuttavia ad un filo-americanismo liberal-democratico, maggioritario nell’Europa postbellica, è possibile riscontrare, anche in Italia, un sentimento antiamericano, a destra come a sinistra, soprattutto in quegli ambienti politici e culturali contrari agli equilibri emersi dal Trattato di Versailles.
Dopo la guerra, l’antiamericanismo si era configurato soprattutto come critica del wilsonismo dei quattordici punti, del democraticismo umanitario e del pacifismo, per trasformarsi poi negli anni Trenta in maniera assai radicale, divenendo cioè “critica dell’altro”, inteso come altro modello di civiltà tout court, una civiltà prettamente americana, giustappunto, considerata come una degenerazione della civiltà europea e dunque oramai incompatibile con essa. A far paura non era tanto il timore dell’imperialismo americano, inteso come tentativo egemonico dei mercati mondiali, quanto piuttosto l’americanismo inteso come modello culturale, come stile di vita. E questo processo è riscontrabile nel fascismo, nel nazionalsocialismo e, con caratteristiche assai diverse, nel comunismo bolscevico.
Per ritornare al tema dell’Europa, esso era stato affrontato sin dagli inizi del ventennio molto marginalmente e comunque sempre con lo scopo di porre l’Italia in un ruolo di “ago della bilancia” tra le potenze continentali. L’idea di Europa, insomma, più che il frutto di una spinta ideale, rappresentava il corollario di una politica diplomatica, volta ad accreditare il regime fascista presso le più influenti cancellerie d’Europa.
I ‘concetti mito’ del fascismo della prima ora, d’altra parte, nonostante alcune isolate dichiarazioni mussoliniane che implicavano una dimensione sovranazionale del fascismo stesso2, puntavano prima di tutto alla realizzazione della “rivoluzione fascista” concentrata nella costruzione dello “Stato nuovo”, presentato come una novità politica, istituzionale, economica e sociale, a forte vocazione nazionale e nazionalista.
Il fascismo ufficiale e lo stesso Mussolini, in effetti, avevano mostrato scarsissimo interesse, quando non critica radicale, nei confronti di quelle proposte più o meno democratiche di unificazione europea che avevano iniziato a circolare negli anni Venti. Si pensi al movimento “Paneuropa”, proposto a partire dal 1923 dal conte Coudenhove-Kalergi, le cui teorie furono accusate di «indebolire la coscienza nazionale […] snervan[do] la virtù guerriera»3; oppure il piano per l’“Unione federale d’Europa”, formalizzato dal Ministro Briand nel famoso “Memorandum” del 1929.
Sul Memorandum, Mussolini era stato molto chiaro nel sostenere che un’eventuale cooperazione degli stati continentali non avrebbe in alcun modo dovuto intaccarne la sovranità assoluta sicché, il sistema degli Stati europei poteva essere fondato solo «sull’idea di unione e non su quella dell’unità»4. Una esplicita rivendicazione, insomma, dell’inderogabilità del principio di sovranità nazionale che, come è noto, poco si coniuga con qualsiasi forma di cooperazione internazionale che abbia un vago sapore federale.



2. Il dibattito sull’Europa negli anni Venti

Non erano mancati, in verità, proprio nel corso degli anni Venti, voci isolate provenienti da intellettuali molto vicini al regime in merito al rapporto tra fascismo ed Europa, che avevano tentato di coniugare nazionalismo ed europeismo cercando di dare una risposta al diffuso sentimento spengleriano di “tramonto dell’Occidente”. E questo non senza sottolineare quanto una qualsiasi ipotesi di unione europea andava intesa anche in chiave “difensiva” rispetto alle altre civiltà in ascesa.
Si pensi ad esempio a Delio Cantimori, il quale, nel 1927, sostenendo la legittimità di quanti avvertivano un sentimento di reazione sia contro «la Russia che tanto fa paura all’Europa», sia contro l’asianesimo e l’americanismo, invitava a considerare con attenzione quei progetti che tendevano a spezzare tale assedio culturale alla civiltà europea proveniente dalle altre civiltà; costruendo in sostanza un nuovo soggetto politico continentale, fosse stato esso «una Paneuropa, o un’Europa vivente, [o] una lega di stati [o il] risorgere d’una singola nazione»5.
L’ambizione “europeista” di Cantimori partiva ad ogni modo dal presupposto del primato italiano e fascista, ed era inoltre caratterizzata da una bellicosa prospettiva “imperiale”, la quale avrebbe dovuto condurre ad una non ben precisata collaborazione inter-nazionale europea egemonizzata dall’Italia. Comunque, era il popolo italiano che avrebbe dovuto assumersi il ruolo missionario di riconquista della cultura europea, in quanto, grazie al fascismo, l’Italia stava vivendo la propria riaffermazione nazionale. Su tali basi, infatti, nel 1929, l’allora giovane normalista, dalle colonne della rivista «Settimanale fascista degli universitari» cagliaritani, lanciava un monito assai eloquente, proponendo al popolo italiano di «prendere le iniziative per conto degli altri [popoli], se è vero che gli altri han perso la via e noi invece abbiamo trovato quella giusta». Ma, argomentava di seguito Cantimori, «questo gigantesco compito che i giovani italiani si assumono non può essere soddisfatto se essi non cominciano a pensare universalmente, in modo valido non solo per la politica italiana interna, ma per la politica mondiale». Gli sembrava pertanto indispensabile che gli italiani, in quanto fascisti, allargassero i propri orizzonti, facendosi «banditori di un’idea universale» e divenendo «cittadini dell’Europa e del mondo». Solo ampliando il proprio punto di vista, dunque, concludeva Cantimori, si sarebbe potuta creare una «mentalità veramente imperiale, che è il minimo presupposto, in questa epoca di imperi mondiali, per l’affermazione della nostra potenza»6.
Insomma, l’idea era quella di costruire un’Europa fascista, esportando in tutto il Vecchio continente quel modello culturale di Stato che il regime stava costruendo in Italia e che, sempre a suo avviso, era profondamente ispirato alla civiltà «iniziata con il Rinascimento e con la Riforma», rappresentando entrambi l’essenza stessa dell’Europa e la sua stessa matrice culturale. L’Italia, dunque, al punto in cui era giunta con il fascismo, aveva un indiscutibile ruolo di leadership nel processo di rinnovamento dell’Europa contro le altre civiltà, proprio perché aveva iniziato un percorso di rinascita culturale nel segno della più autentica tradizione europea.
Nello stesso periodo, assai numerose e diffuse nella cultura dominante diventavano le voci antiamericane e, ovviamente, anche quelle antibolsceviche. Già nel 1928, infatti, su una rivista come «Critica Fascista», si poteva leggere un articolo assai significativo di Gesualdo Manzella Frontini, il quale prevedeva imminente uno scontro frontale tra Italia e Stati Uniti, portatori, questi ultimi, di una «civiltà amorfa aspirituale standardizzata» contro cui l’Italia fascista doveva svolgere una funzione di baluardo per salvare l’Europa.
Il nemico, come preciserà l’anno successivo sulla stessa rivista il Branzini, era l’americanismo, una sorta di virus letale, caratterizzato da un modello di civiltà che rappresentava, secondo lui, «l’espressione tipica delle degenerazioni della grande civiltà occidentale». La civiltà americana, a suo avviso, aveva lasciato che i mali tipici della moderna civiltà e cioè il materialismo e l’edonismo, prendessero il sopravvento sugli altri valori, senza ricevere alcun freno, al punto che, «il centro dell’esistenza si è trasferito dal campo spirituale in quello materiale». L’individualismo e l’atomismo sociale rappresentavano, a suo avviso, la causa della corsa «all’avidità sregolata e insaziabile di beni materiali» che caratterizzava il modello sociale americano e che lo induceva a giudicare l’America «come l’incarnazione della rivoluzione anticristiana della nostra epoca»7.
Un approccio più filosofico-politico era quello di Evola, il quale stabiliva una sostanziale convergenza tra bolscevismo e americanismo nel senso che, secondo lui, malgrado le differenze di regime, l’uno “dispotico” e l’altro “democratico”, anche in America la persona umana sarebbe stata destinata ad essere spazzata via dall’avvento di «un modo di vita materializzato e senza volto, nella sostanza non meno collettivistico, standardizzato, uniforme, conformistico del modo di vita comunistico»8.
Su tali premesse, si sviluppa un dibattito che tendeva ad individuare una paradossale convergenza tra americanismo e bolscevismo, ponendo l’accento sul fatto che per un verso «la Russia socialista aveva adottato proprio quel modello di sviluppo − l’americanismo − che l’Europa cercava di evitare con tutte le sue forze»; e per un altro, sulla presunta «formazione, nel paese dell’individualismo per eccellenza, di un collettivismo che proveniva dalle cose stesse, dal sistema industriale unito alla democrazia politica, un collettivismo che non poteva essere definito politico, ma piuttosto sociale»9. Si concludeva pertanto con il sostenere che non vi era un’alternativa plausibile al fascismo, che aveva dunque il compito di assumere una dimensione europea in chiave difensiva di un modello di civiltà altrimenti destinato a scomparire.
Il dibattito sull’Europa, nutritosi dunque di tutti gli spunti sin qui accennati, iniziava ad arricchirsi e a circolare in maniera più diffusa anche con la nascita di riviste più o meno specializzate sull’argomento, come ad esempio quelle fondate da Asvero Gravelli, fra cui «Antieuropa» nel 1929. È significativo sottolineare che Gravelli proponeva la sua antieuropa nel senso che (come ebbe a precisare nel programma della stessa rivista) attraverso la sua rivista, intendeva combattere «le idee democratiche e comuniste, che attualmente dominano lo spirito europeo»10. Egli, cioè, come fu detto allora dallo scrittore Valentino Piccoli, proponeva un modello alternativo all’Europa «americanizzante, protestante e democratica», pericolosamente minacciata dalla «”piovra democratica” che ha al suo servizio il bolscevismo asiatico, e le masse e gli uomini di colore»11.
Nell’ambito delle riflessioni sull’Europa, le riviste di Gravelli, si muovevano su di un piano che è stato definito “movimentistico”, e che si agganciava a tutto quel fermento legato ai Fasci italiani all’estero che si erano costituiti in tutta Europa, non tanto con l’obiettivo di definire un Nuovo ordine europeo, quanto piuttosto per diffondere l’ideologia del regime attraverso le comunità italiane oltreconfine. Gravelli, dunque, attraverso le sue riviste, intendeva far leva proprio su tale rete organizzativa per «raggruppare i migliori elementi in Europa, incarnare le esperienze del fascismo, alimentare lo spirito rivoluzionario fascista, stabilire la devozione alla causa della dittatura europea»12, al fine di promuovere l’idea di una internazionale fascista, indipendente «da legami di sorta con alcun governo»13. Il suo progetto, insomma, mirava a promuovere un’azione di sensibilizzazione fascista non tanto rivolta alle istituzioni, ma alla intera società europea.
Tale dimensione “movimentistica” (come tutte le residue componenti movimentistiche ancora vive nel fascismo) e la conseguente esigenza di autonomia dell’internazionalismo fascista proposta da Gravelli, erano guardati con enorme sospetto da Mussolini. Il Duce, infatti, sempre ispirato alla più stringente realpolitik, più che alla sensibilizzazione dal basso della società europea al fascismo, riteneva utile coinvolgere nel dibattito politici, intellettuali, letterati e giornalisti, per accreditare sempre più il regime fascista quale elemento di stabilizzazione dell’Europa, proprio in quegli ambienti che maggiormente potevano condizionare i governi. Tuttavia, la propaganda mussoliniana prevalente in quegli anni veniva ben chiarita dal Duce in un discorso tenuto il 27 ottobre 1930, quando dichiarava che «il fascismo in quanto idea, dottrina e realizzazione è universale: italiano nei suoi particolari istituti, esso è universale nello spirito» dunque, grazie alla dottrina fascista, egli chiariva, «si può prevedere una Europa fascista, una Europa che ispiri le sue istituzioni alle dottrine e alla pratica fascista. […] che risolva, cioè, in senso fascista il problema dello Stato moderno»14.
D’altra parte, a cavallo tra i due decenni, Mussolini, dopo le continue crisi interne dovute alla presenza di una opposizione definitivamente liquidata tra il 1925 e il 1926, inizia a raccogliere per un verso in politica interna i frutti della raggiunta pacificazione sociale forzosa e per un altro, in politica estera, i frutti sia degli accordi raggiunti con la Chiesa (Patti Lateranensi), sia della politica di equilibrio che sarebbe sfociata nel Patto a Quattro (1933) da lui presentato come un personale capolavoro diplomatico15.



3. Un Convegno prima dell’Impero

L’avanzata del nazionalsocialismo, rischiava di marginalizzare la leadership fascista nell’universo politico della destra europea e, pertanto, si imponeva una accelerazione nella tematizzazione dell’europeismo fascista16, quale elemento dinamico ed unificatore della cultura europea. In tal senso, mi sembra si possa leggere l’importanza attribuita dal regime al Convegno organizzato a Roma nel 1932 dalla Fondazione Alessandro Volta, sotto gli auspici dell’Accademia d’Italia dal titolo chiaro ed un univoco: l’Europa17.
L’evento fu celebrato esattamente un mese dopo i festeggiamenti per il decennale della “marcia su Roma”, quasi a voler sanzionare la svolta del fascismo da una dimensione più tradizionalmente nazionalista − di compimento cioè di quella radicale trasformazione dello Stato nazionale realizzato nel primo decennio − ad una proiezione, per dir così, ‘supernazionale’, nel senso di diffusione, a livello europeo, del ‘modello nazionale fascista’ e del mito di Roma18, che inizia ad assumere un ruolo importante nella presunta funzione missionaria del regime. Mito di Roma parallelamente rilanciato, in quello stesso 1932, da un non casuale numero monografico di «Gerarchia», intitolato La missione universale di Roma19. Iniziative, dunque, volte a conciliare politica diplomatica e politica culturale.
È importante sottolineare che comunque al convegno parteciparono numerosissimi intellettuali europei, di differente estrazione politica e culturale, e non sempre vicini al regime fascista. Così come tra i partecipanti italiani, sebbene la maggior parte fossero rappresentanti del fascismo, vi erano anche voci fuori dal coro20.
Insomma, il Convegno, malgrado la campagna di stampa lo descrisse enfatizzandone il valore simbolico, non riuscì ad essere un vero e proprio convegno di regime, di natura, per dir così, programmatica. Un po’ perché sia l’Accademia d’Italia che la Fondazione Volta non erano interamente fascistizzate, un po’ perché, a mio avviso, il fascismo stentava a dare un contenuto effettivo al proprio europeismo.
Gli Atti furono pubblicati l’anno successivo e, data l’ampiezza dei materiali in essi confluiti, rappresentano un importante documento per lo studio dell’idea d’Europa, anche al di là della componente fascista, che in questa sede maggiormente ci interessa.
Il comune punto di partenza di tutti i partecipanti al Convegno era, in buona sostanza, la netta percezione del “tramonto dell’Occidente”, nel senso che la crisi attraversata dall’Europa non era avvertita solo come crisi politica ed economica, ma implicava anche una crisi del «suo valore e prestigio mondiale»21. Prestigio che, «benché non fosse mai stato sostenuto dalla unità politica, si basava sulla sua indiscutibile unità di civiltà»22.
Data tale premessa, lo scopo del Convegno, come leggiamo negli Atti preliminari, era quello di capire quale fosse «la posizione dell’Europa nel mondo», attraverso l’analisi delle «cause interne ed extraeuropee, subbiettive ed obbiettive» della crisi, per meglio comprendere «la sua odierna situazione», cercando di definire culturalmente e scientificamente «il soggetto Europa»23.
Dunque, l’approccio era «prevalentemente intellettuale», nella speranza che la conoscenza potesse contribuire a realizzare «un’opera che sarà domani politica», fermo rimanendo il proposito espresso con nettezza che il «Convegno non [avrebbe] adott[ato] nessuna deliberazione»24.
Come si è poco sopra accennato, dalla lettura dei numerosi interventi di rappresentanti della cultura italiana non emerge una proposta coerente e convincente rispetto all’idea di Europa fascista, se non la convinzione di una generica superiorità culturale rispetto alle altre civiltà.
Basti prendere in considerazione l’unico intervento che sembrava voler costruire un percorso politico-culturale teso a dimostrare la praticabilità di un progetto europeo fascista, ci riferiamo cioè a quello di Francesco Coppola.
Il direttore della importante rivista fascista, «Politica», infatti, concentra la sua attenzione sull’assunto che, sino alla prima guerra mondiale, «l’unica grande civiltà attiva, conquistatrice, dominatrice, era da secoli, nel mondo, la civiltà europea»25. A contrastare il primato della civiltà europea, non esisteva ancora la Russia bolscevica, «universalmente e sovversivamente antieuropea», il Giappone era solo agli inizi della sua ascesa, «i nuovi nazionalismi asiatici e nord-africani [basati sulla cultura musulmana] o non esistevano o non avevano ancora trovato […] una solidarietà antieuropea», ma soprattutto «non esisteva come ora, la formidabile crescente potenza, profondamente antieuropea, degli Stati Uniti d’America»26, che rappresentavano, a suo avviso, la vera spina nel fianco dell’Europa e del suo primato civile.
Ma, è solo in poche righe del finale della relazione di Coppola che leggiamo indicazioni sul primato italiano e fascista. Egli, infatti, sostiene che in Europa, dall’inizio della crisi, solo il popolo italiano si era messo sulla strada della difesa della civiltà europea dagli attacchi esterni, forte della propria vittoria culturale riportata in passato per ben tre volte e cioè «con l’Impero Romano, con la Chiesa cattolica e col Rinascimento». Insomma, il problema, a suo avviso, era capire se «gli altri grandi popoli europei intenderanno in tempo la necessità di mettersi al suo fianco per l’opera comune, ovvero ancora una volta, la quarta volta, lasceranno a lui solo il compito e la gloria di salvare la civiltà dell’Europa e del mondo»27.
Emergeva, in sintesi, una sostanziale fragilità e una scarsa incisività del disegno fascista, che, tuttavia, si giustifica in un’ottica ancora tendenzialmente “pacifista” del ruolo diplomatico italiano. L’appello astratto al primato culturale italiano, privo di una visione politica, appare ancora più fragile se confrontato con quello che emergeva dall’inquietante relazione che Alfred Rosemberg tenne a quel convegno.
L’intervento del rappresentante del nazismo, infatti, era tutto concentrato sul primato della razza tedesca, sulla necessità per essa di un maggiore spazio vitale e sulla teorizzazione della necessità di mettere in discussione «il dogma anticulturale secondo il quale si possono mettere sullo stesso piano piccole nazioni e grandi nazioni». Insomma, la «necessità storica» di un’inevitabile espansione della Germania in Europa e dunque di una sua progressiva germanizzazione, era chiaramente delineata nel pensiero antidemocratico nazista.
A concludere i lavori, intervenne Orestano il quale, nel segnalare la convincente critica al liberalismo, alla democrazia e all’individualismo, esposta sia da alcuni relatori italiani che da Rosenberg, candidava l’Italia a porsi come strumento di “Ordine” in Europa, in quanto, gli sembrava che dal dibattito complessivo, emergesse chiaramente che solo l’Italia fascista aveva realizzato un modello di Stato, basato sul «potere, sull’autorità e sulla disciplina» che poteva essere esteso all’intera Europa.
Anche nelle conclusioni di Orestano mancava un quadro di riferimento di natura economica, giuridica, culturale o politica che desse fondamento alla funzione leaderistica che l’Italia avrebbe dovuto svolgere, se non un richiamo generico al tema del mito di Roma, dell’idea latina e della sua storica e pratica efficienza unificatrice.
E sarà effettivamente il mito di Roma, caro al Duce, il quale lo avrebbe invocato in occasione della imminente mobilitazione in favore della guerra d’Etiopia, che costituirà l’humus culturale del tema europeo, a partire dalla seconda metà degli anni Trenta28. Fase quella che corrisponderà ad una politica diplomatica definitivamente lontana dal principio di equilibrio, sino ad allora praticato, ma piuttosto proiettata all’egemonia imperiale, concretizzatasi con la conquista dell’Etiopia e con l’avvicinamento, fatale per il regime fascista, al terzo Reich.
Con tale svolta, che coincide con il fallimento del “Patto a quattro” e della sua impostazione politica sostanzialmente gerarchica dell’organizzazione europea, tesa alla conservazione della pace, il fascismo, come è stato detto, «si volge all’Europa non più per darle la formula politica che le permetta di uscire dalla decadenza, ma per proporle una sorta di rigenerazione ascetica, un vero e proprio “salto di qualità”»29. E questo basato sulla ricerca di un universalismo in grado di spiritualizzare la «nuova civiltà che andava prendendo corpo» dando vita ad un “nuovo ordine”, paragonabile a quello prodottosi durante l’Impero di Roma che era riuscito a creare un vero senso di comunità tra i popoli più forti ed evoluti e quelli più deboli30.
L’ambizioso progetto fascista, fatto di una enorme dose di retorica, incontrava tuttavia un concorrente assai temibile, la Germania nazista.
Quello che di lì a breve sarebbe diventato un alleato piuttosto scomodo dell’Italia, infatti, aveva iniziato sin da subito a scardinare i precari equilibri europei per perseguire liberamente il suo progetto egemonico in Europa, a partire dal settore Mitteleuropeo. E a poco serviranno i messaggi preoccupati di Mussolini che invocava «un minimo di unità politica» per l’Europa minacciata in occidente dall’impero americano e in oriente da quello giapponese31; il vento stava definitivamente cambiando e lo spazio per il primato fascista in Europa rischiava di diventare sempre più subordinato rispetto a quello del mito ariano nazista, che si consolidava più sui presupposti di una minacciosa politica militare che su quelli della politica diplomatica.
All’indomani della proclamazione dell’Impero (1936), ispirato al mito pacificatore ed unificatore della “tradizione di Roma”32, ma anche alla necessità per l’Italia del suo spazio vitale, quel blando progetto di europeismo fascista, sembra superato da un più verosimile progetto “mediterraneistico” che rappresenterà, di lì a breve, la premessa della guerra parallela combattuta dall’Italia durante il conflitto mondiale.
Ma, è fuor di dubbio che la trasformazione dell’Asse in “patto d’acciaio”, e il conseguente appiattimento diplomatico dell’Italia fascista alla Germania nazista, rese sempre meno credibili e praticabili i progetti euro-fascisti. Questi, in verità, tra la fine degli anni Trenta e gli anni della guerra si articolarono attraverso una fittissima e vivacissima pubblicistica che tendeva a de-ideologizzare il tema europeo, proposto sempre più nei termini di un pragmatismo tecnocratico, che per molti intellettuali, rappresentò una sorta di ponte verso il post-fascismo e verso il recupero del dialogo con quelle ideologie che il fascismo credeva di aver superate33.




Bibliografia

D. Cofrancesco, Il mito europeo del fascismo, in «Storia Contemporanea», febbraio 1983.
Id., Appunti per una analisi del mito romano nell’ideologia fascista, ivi, giugno 1980.
Id., Ideas of the Fascist Government an Party on Europe, in Documents on the history of European integration, I. Continental Plans for European Union 1939-1945, Berlin-New York, de Gruiter 1985.
V.G. Longo, Il primo convegno dei gruppi scientifici dell’Istituto nazionale di cultura fascista sull’“Idea di Europa” (23-24 novembre 1942) Le relazioni di Camillo Pellizzi e Gaetano Pietra e l’intervento di Ugo Spirito, in «Annali della Fondazione Ugo Spirito – 1994», Roma, Fondazione Ugo Spirito, 1995.
M.A. Ledeen, L’internazionale fascista, Bari, Laterza, 1973.
G. Longo (a cura di), I tentativi per la costituzione di una internazionale fascista: gli incontri di Amsterdam e di Montreaux attraverso i verbali delle riunioni, in «Storia Contemporanea», giugno 1996.
Reale Accademia d’Italia. Fondazione Alessandro Volta, Convegno di Scienze morali e storiche, 14-20 novembre 1932 – XI. Tema: l’Europa, Roma, 1933.
M. Fioravanzo, Mussolini, il fascismo e l’idea dell’Europa. Alle origini di un dibattito, in «Italia Contemporanea», 2011, n.262 (marzo)
S. Giustibelli, L’Europa nella riflessione del Convegno della Fondazione Volta (Roma, 16-20 novembre 1932), «Dimensioni e problemi della ricerca storica», n. 1/2002.






NOTE
1 Per una sintesi sulla politica estera fascista, cfr. E. Aga-Rossi, La politica estera e l’Impero, in G. Sabbatucci e V. Vidotto (a cura di), Storia d’Italia. Guerre e fascismo, vol. IV, Roma-Bari, Laterza, 1998, pp. 245-303.^
2 Cfr., ad esempio, il discorso al Politeama di Trieste del febbraio 1921, dove Mussolini dichiarava che: «È destino che Roma torni ad essere la città direttrice della civiltà in tutto l’Occidente d’Europa», o, la più esplicita dichiarazione del 1925 che «fra non molto, gran parte dell’Europa, s[arà] più o meno fascistizzata», entrambe le citazioni, in M. Fioravanzo, Mussolini, il fascismo e l’‘idea d’Europa’. Alle origini di un dibattito, in «Italia Contemporanea», 2011, n. 262, p. 11, n. 23.^
3 P. Drigo, cit. in D. Cofrancesco, Il mito europeo del fascismo (1939-1945), in «Storia Contemporanea», n. 1, febbraio 1983, p.6.^
4 Cit. in S. Giustibelli, L’Europa nel convegno della Fondazione Volta, in «Dimensioni e problemi della ricerca storica», n.1/2002, p.189 e n.16.^
5 Cit. in R. Pertici, Mazzinianesimo, fascismo, comunismo: l’itinerario politico di Delio Cantimori (1919-1943), in «Cromohs», 2 (1997), p. 7. http://www.cromohs.unifi.it/ita/index.html ^
6 D. Cantimori, cit. in ivi, p. 8.^
7 Cit. in D. Settembrini, Storia dell’idea antiborghese in Italia. 1860-1989, Roma-Bari, Laterza, pp. 332-333.^
8 Cfr. J. Evola, Americanismo e bolscevismo, in «Nuova Antologia», maggio 1929.^
9 M. Nacci, L’antiamericanismo in Italia negli anni trenta, Torino, Bollati Boringhieri, 1989, p. 129.^
10 P.M. Bardi, I periodici del fascismo, in Annuario della stampa italiana, 1931-1932, Bologna, cit. in D. Gulli Pacenko e L. Nasi Zitelli, Bibliografia dei periodici del periodo fascista 1922-1945. Posseduti dalla Camera dei Deputati, Roma, Camera dei Deputati, 1983, p. 20.^
11 V. Piccoli, La crisi dello spirito europeo, in «Vita nova», giugno 1930, cit. in M. Nacci, p. 80.^
12 M.A. Ledeen, L’Internazionale fascista, Roma-Bari, Laterza, 1973, pp. 106-112.^
13 A. Gravelli, cit. in M. Fioravanzo, Mussolini, il fascismo e l’idea d’Europa. Alle origini di un dibattito, in «Italia Contemporanea», 2011, n.262, p.12^
14 B. Mussolini, Scritti e discorsi, Milano, Ed. Hoepli, 1934, vol. VIII, p. 230.^
15 Si consideri che nel luglio 1932, Mussolini aveva destituito Dino Grandi dal Ministero dell’Interno, accusandolo di perseguire una politica estera “oramai societaria” (B. Mussolini, Opera Omnia XXXIV, Storia di un anno. Il tempo del bastone e della carota (1944), Firenze, La Fenice, 1961, p. 401) e pertanto immobilista.^
16 Erano gli anni in cui il Duce andava formulando l’idea che la crisi europea non era nel sistema, ma del sistema, legata a quello che egli definiva il fenomeno del supercapitalismo che aveva generato una crisi morale. Spettava dunque a quei popoli credenti, non materialisti, dotati di un senso collettivo della vita al di sopra dell’egoismo individuale di mostrare la via verso la civiltà nuova. Su tali presupposti, Mussolini stava elaborando anche le tesi portanti di un libro che avrebbe voluto scrivere (ma che di fatto non scrisse mai), dal titolo Europa 2000. Cfr. R. De Felice, Mussolini il Duce. Gli anni del consenso (1929-1936), Torino, Einaudi, 2007.^
17 Per un’accurata ricostruzione del convegno sull’Europa del 1932, soprattutto per quanto riguarda tutta la fase preliminare alla celebrazione del convegno stesso, cfr. S. Giustibelli, L’Europa nella riflessione del convegno della Fondazione Volta (Roma, 16-20 novembre 1932), in «Dimensioni e problemi della ricerca storica», n. 1/2002, pp.181-233. Giustibelli, analizzando le carte dell’Archivio della Reale Accademia d’Italia, relative alla fase organizzativa del Convegno, sottolinea gli intensi contatti che vi furono tra i membri dell’Accademia e Mussolini per definire sia l’impostazione del Convegno che i profili degli invitati.^
18 Per un primo inquadramento dell’importanza ricoperta dal mito romano nell’ideologia fascista, cfr. D. Cofrancesco, Appunti per un’analisi del mito romano nell’ideologia fascista, in «Storia Contemporanea», giugno 1980, pp. 383-411 e più recentemente, A. Giardina, A. Vauchez, Il mito di Roma. Da Carlo Magno a Mussolini, Roma-Bari, Laterza, 2008.^
19 Sul frontespizio di quel numero monografico di «Gerarchia» (ottobre 1932) era stata riportata una frase autografa di Mussolini che definiva la Missione universale di Roma, «Mediatrice ed equilibratrice di idee universali antitetiche fra oriente ed occidente».^
20 Marconi, Volpe, Dainelli, Scialoja, Rocco, Orestano, Federzoni, De Stefani, Maraviglia, Coppola, Bodrero, Orano, Paribeni, Sessa Tucci, Nallino. Sui profili dei partecipanti, Cfr. le Note Bio-bibliografiche dei partecipanti, in Reale Accademia d’Italia, Fondazione Volta, Atti dei convegni. Convegno di Scienze morali e storiche, 14-20 novembre 1932. Tema: l’Europa, Roma, Reale Accademia d’Italia, 1933, pp. 713-829.^
21 Ivi, p. 10.^
22 Ibidem.^
23 Ibidem.^
24 Ibidem.^
25 Ivi, p. 234.^
26 Ivi, p. 235.^
27 Ivi, p. 250.^
28 Mussolini nel suo scritto sulla dottrina del fascismo del ’32, così scriveva: «Lo Stato fascista è una volontà di potenza e d’Impero. La tradizione romana è qui un’idea di forza […] Per il fascismo la tendenza all’Impero, cioè all’espansione delle nazioni, è una manifestazione di vitalità; il suo contrario […] è un segno di decadenza: popoli che sorgono e risorgono sono imperialisti, popoli che muoiono sono rinunciatari […] L’Impero chiede disciplina, coordinazione degli sforzi, dovere e sacrificio».^
29 D. Cofrancesco, Il mito europeo del fascismo, cit., p. 9.^
30 R. De Felice, Mussolini il duce. Lo stato totalitario 1936-1940, Torino, Einaudi, 1981, p. 300.^
31 Cfr. B. Mussolini, Discorso per lo stato corporativo, 14 novembre 1933, in Opera Omnia, XXVI, Dal patto a quattro all’inaugurazione della provincia di Littoria, a cura di E. e D. Susmel, Firenze, La Fenice, 1958, p. 91.^
32 Così Mussolini nella Proclamazione della sovranità italiana sull’impero Etiopico (9 Maggio 1936), «Impero di pace, perché l’Italia vuole la pace per sé e per tutti, e si decide alla guerra soltanto quando vi è forzata da imperiose incoercibili necessità di vita. Impero di civiltà e di umanità per tutte le popolazioni dell’Etiopia. Questo era nella tradizione di Roma che, dopo aver vinto, associava i popoli al suo destino».^
33 Sull’“eurofascismo” degli anni di guerra, Cfr. D. Cofrancesco, il mito europeo del fascismo (1939-1945), cit.^
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