Rubbettino Editore
Rubbettino
Torna alla Pagina Principale  
Redazione: Fausto Cozzetto, Piero Craveri, Emma Giammattei, Massimo Lo Cicero, Luigi Mascilli Migliorini, Maurizio Torrini
Vai
Guida al sito
Chi siamo
Blog
Storia e dintorni
a cura di Aurelio Musi
Lettere
a cura di Emma Giammattei
Periscopio occidentale
a cura di Eugenio Capozzi
Micro e macro
a cura di Massimo Lo Cicero
Indici
Archivio
Norme Editoriali
Vendite e
abbonamenti
Informazioni e
corrispondenza
Commenti, Osservazioni e Richieste
L'Acropoli
rivista bimestrale


Direttore:
Giuseppe Galasso

Responsabile:
Fulvio Mazza

Redazione:
Fausto Cozzetto
Piero Craveri
Emma Giammattei
Massimo Lo Cicero
Luigi Mascilli Migliorini
Maurizio Torrini

Progetto grafico
del sito:
Fulvio Mazza

Collaboratrice per l'edizione online:
Rosa Ciacco


Registrazione del
Tribunale di Cosenza
n.645 del
22 febbraio 2000

Copyright:
Giuseppe Galasso
 
Cookie Policy
  Sei in Homepage > Anno XIII - n. 6 > Saggi > Pag. 545
 
 
Rosario Romeo, la crisi dell’università e la nascita della Luiss*
di Guido Pescosolido
La crisi dell’università italiana non è certo cominciata ieri. Alla situazione odierna il nostro sistema universitario è pervenuto attraverso un percorso abbastanza lungo iniziato nella seconda metà degli anni Sessanta e proseguito nei decenni successivi, in un intreccio strettissimo con l’insieme della vita politica, sociale e civile del paese. Il bisogno di una riforma dell’ordinamento universitario cominciò ad emergere già nella prima metà degli anni Sessanta con l’aumento della scolarizzazione di massa e il conseguente incremento degli accessi all’istruzione universitaria. Poi, con la rivolta studentesca del 1968 la crisi dell’università si caricò di significati che oltrepassavano ampiamente i confini della richiesta di una semplice e sia pur radicale riforma dell’ordinamento didattico e scientifico, resa urgente dai grandiosi processi di trasformazione sociale degli anni Cinquanta e Sessanta. Come negli Stati Uniti e in diversi altri paesi europei, anche in Italia essa divenne espressione di un malessere e di un’insofferenza di ordine generale contro la società capitalistica.
Non è tuttavia questa la sede e l’occasione per una discussione esauriente ed articolata sulla storia dell’università italiana negli ultimi quarant’anni. Più modestamente qui si cercherà solo di portare un contributo di riflessione sulla tormentata e travagliata crisi del sistema universitario italiano, ricostruendo il ruolo in essa svolto dagli anni Sessanta fino alla metà degli anni Ottanta da Rosario Romeo, uno dei più grandi storici e accademici italiani del Novecento1.
La scelta non è casuale. Sul movimento studentesco, sui suoi protagonisti e sui buoni o, secondo altri punti di vista, cattivi maestri che lo ispirarono ideologicamente e lo orientarono strategicamente, molto si è scritto. Molto meno invece si è riflettuto su coloro che, in particolare tra i docenti, si opposero al movimento studentesco e alle scelte di riforma dei governi negli anni compresi tra il 1968 e il 1980. Una parte della docenza universitaria cavalcò, infatti, senza esitazione alcuna la protesta studentesca e le sue richieste più demagogiche, come il voto politico, gli esami di gruppo, la liberalizzazione dei piani di studio, il riconoscimento di corsi autogestiti dagli studenti. Altra parte della docenza, numericamente la maggiore, si oppose, con sfumature individualmente molto diversificate ma per lo più con atteggiamenti di resistenza scettica e passiva. Altra parte andò invece in rotta di collisione con il movimento studentesco, subì intimidazioni e aggressioni personali di ogni tipo, ma non cedette né sul piano didattico né su quello della politica accademica. Romeo fu tra questi, non solo resistendo a viso aperto a qualsiasi richiesta di insegnamento cogestito, esami di gruppo, voti politici ecc., ma proponendo nel contempo interventi di riforma che in concreto riuscì anche a far attuare, sia pure per breve tempo, all’interno della sua Facoltà, e soprattutto denunciando dentro e fuori dell’università il clima liberticida che il movimento studentesco vi aveva instaurato, rischiando più volte anche la propria incolumità fisica. Una delle più violente di queste la si ebbe nell’autunno del 1968, quando, secondo un rapporto di polizia «Romeo è stato oggetto per circa mezz’ora, di insulti, minacce e spinte, nonostante l’intervento, in suo favore, di alcuni studenti». Romeo non era rimasto passivo, aveva «reagito verbalmente all’insulto di ‘miserabile’ e, facendosi largo tra i presenti che cercavano di impedirgli l’uscita dall’aula, ha raggiunto l’atrio della facoltà e, quindi, lo spiazzo antistante, dov’era parcheggiata la sua autovettura, seguito da un corteo che, in coro, gridava ‘buffone’»2. Ma il rapporto con il movimento studentesco fu sempre tempestoso, al limite dello scontro fisico, e culminò nel 1977 nel famoso episodio della minaccia con pistola spianata contro di lui da parte di un gruppo di estremisti che aveva interrotto i suoi esami3
Rosario Romeo era entrato a far parte dell’università italiana nel 1956, dopo aver vinto un concorso a cattedra all’età di 31 anni. Nella Facoltà di Magistero dell’Università di Messina che fu la sua prima sede di insegnamento, fu anche Preside. Successivamente fu direttore dell’Istituto di Storia Moderna e contemporanea della Facoltà di Lettere e Filosofia della Sapienza di Roma. Di quel sistema universitario humboltiano che assegnava ed assegna tuttora al docente universitario compiti sia didattici che scientifici, Romeo fu sin dall’inizio uno degli esponenti più prestigiosi e rigorosi e ne difese sempre con tutte le sue energie i principi basilari sui quali esso era fondato: libertà di ricerca e di insegnamento, massimo rigore nella formazione degli studenti e nel rilascio dei titoli di studio, rigida selettività nel reclutamento del personale docente.
A metà degli anni Sessanta non gli sfuggiva però che, nell’Italia della democrazia industriale, che viveva la più grande rivoluzione economica e sociale della sua storia e che vedeva crescere assieme a tutti gli altri bisogni, e più degli altri, anche quello di istruzione di ogni livello, sarebbe stato ben presto necessario un forte intervento di riforma e potenziamento delle strutture didattiche e scientifiche di un sistema universitario che negli anni 1950-60 era basato su un organico di professori di ruolo che non raggiungeva le duemila unità. La riforma e il potenziamento dell’università italiana, oltre che uno sforzo finanziario adeguato in materia di strutture edilizie e grandi e piccole attrezzature, avrebbe però richiesto anche e soprattutto la massima attenzione affinché l’indispensabile allargamento dei quadri del corpo docente non producesse un abbassamento del livello qualitativo medio dell’insegnamento e della ricerca, e/o ancor peggio la corrosione dei principi fondamentali dell’istituzione universitaria italiana. In altri termini, per Romeo si sarebbe dovuta realizzare una riforma volta a potenziare quantitativamente e qualitativamente l’università italiana, e non a rispondere demagogicamente alle richieste strumentali degli studenti e dei docenti estremisti attivi negli atenei, e a quelle puramente corporative dei sindacati e elettoralistiche delle forze politiche di governo e di opposizione. Perché sin dagli anni Sessanta cominciava a delinearsi tra forze politiche di governo e forze di opposizione non una sana contrapposizione di progetti di riforma universitaria saldamente ancorati a visioni legittimamente diverse della natura e del ruolo dell’università in una società capitalistica matura, ma pericolose convergenze trasversali nella rincorsa alle richieste sempre meno sostenibili e meramente corporative delle frange più estremiste del movimento studentesco e della docenza universitaria non stabilizzata.
L’attenzione a queste problematiche e ai gravi pericoli ai quali esse esponevano il mondo accademico Romeo la manifestò non solo nel chiuso delle aule e degli organi collegiali universitari, ma anche, per quel che gli riuscì, negli organi di stampa ai quali collaborò sino alla fine dei suoi giorni. Il primo intervento pubblico sui problemi dell’università messa sotto pressione dalle esigenze della nuova democrazia industriale, Romeo lo fece il 27 maggio del 1966 sul «Corriere della Sera». In esso esprimeva viva preoccupazione per l’esiguità del numero dei posti di ruolo di professore rispetto alle necessità di ampliamento dell’offerta didattica richiesta anche nell’università dai crescenti livelli di scolarizzazione media in atto nel paese. Necessitava dunque un adeguato aumento del numero dei posti di professore e di assistente, ma era anche di cruciale importanza conservare un segno ben visibile di distinzione e di superiore responsabilità alle eccellenze in ambito scientifico. A tal fine Romeo suggeriva l’introduzione di una divisione del ruolo dei professori in due fasce (cosa questa che fu poi realizzata quattordici anni dopo con la legge n. 382 del 19804) e soprattutto poneva l’accento sull’importanza cruciale dei sistemi di reclutamento dei nuovi professori. La nuova docenza avrebbe dovuto accedere alle università attraverso concorsi nazionali e non, come da più parti si richiedeva, attraverso la stabilizzazione ope legis dei professori che già avevano un incarico di insegnamento a tempo determinato conferito loro dalle Facoltà.
Per gli assistenti il discorso sul reclutamento era ancor più selettivo. Romeo riteneva un gravissimo errore la recente decisione di consentire la loro permanenza in ruolo fino a 65 anni. Questo avrebbe gravemente precluso alle giovani leve di fare le loro prove come ricercatori universitari: «la funzione di assistente universitario – scrisse − può essere svolta solo per un certo numero di anni, che sarebbe opportuno fissare a non più di dieci». Dopo dieci anni se un assistente non era riuscito a vincere un concorso da professore, il cui numero era necessario aumentare congruamente, l’assistente, anche nel caso avesse conseguito una libera docenza, avrebbe dovuto comunque obbligatoriamente passare all’insegnamento nella scuola media superiore o nei ruoli della pubblica amministrazione, lasciando ad altri giovani la possibilità di sperimentare le loro capacità di ricerca e d’insegnamento.
Ciò che accadde negli anni immediatamente successivi è noto. Dapprima con i cosiddetti provvedimenti urgenti degli anni Settanta, poi con la 382 del 1980, vi fu l’aumento dei posti di professore e vi fu anche l’introduzione delle due fasce, come auspicato da Romeo. Tuttavia il numero dei posti di professore fu accresciuto nel giro di poco più di un quinquennio da 2.500 a oltre 30.000, che era una misura spropositatamente superiore a quella che Romeo riteneva necessaria al fisiologico sviluppo dell’università, e che avrebbe rapidamente e gravemente compromesso il livello qualitativo medio della docenza. Per di più le forme di reclutamento dei docenti di ruolo furono affidate a concorsi solo per la prima fascia dei professori. Per la seconda fascia il reclutamento, almeno per la prima ondata di accesso al ruolo degli associati avvenne invece senza concorso, sulla base di un giudizio di idoneità a professore per tutti gli appartenenti in quel momento alle categorie degli assistenti ordinari e dei professori incaricati: di fatto una vera e propria ope legis la cui mastodontica applicazione comportò che il numero dei professori di seconda fascia, che si andavano ad aggiungere ai 15.000 di prima fascia, risultasse alla fine di quasi 20.000 unità, contro le 15.000 previste dalla legge.
Per quanto riguarda gli assistenti le cose andarono allo stesso modo, e cioè in senso esattamente contrario a quello auspicato da Romeo. Gli assistenti che non risultarono idonei per la seconda fascia della docenza, quella dei professori associati, furono mantenuti in ruolo ad esaurimento. Nel contempo fu creato un nuovo ruolo per ricercatori destinati a svolgere a tempo indeterminato soprattutto attività di ricerca, assai simile a quello degli assistenti, ma con la differenza dell’assoluta autonomia dai docenti cattedratici della materia, che per gli assistenti non esisteva. A tale ruolo ebbero diritto di accedere mediante giudizi d’idoneità, in prima istanza senza limiti numerici prestabiliti, ex borsisti e assegnisti da poco divenuti contrattisti a tempo determinato. A operazione conclusa i ricercatori di ruolo idonei furono circa 20.000. La conseguenza fu che, come aveva previsto e temuto Romeo sin dal 1966, per la successiva generazione di aspiranti ricercatori nell’università italiana non vi fu quasi più spazio.
Agli effetti negativi di questa mastodontica operazione di reclutamento di nuovo personale docente di ruolo, si vennero aggiungendo secondo Romeo anche quelli di altri provvedimenti che minavano in modo non meno micidiale le fondamenta dell’edificio universitario italiano. Primo di essi fu la liberalizzazione degli accessi alle Facoltà universitarie introdotto dalla legge Codignola, per cui fu possibile tra l’altro il paradosso che per diversi anni si laureassero in Lettere professori che nella loro vita non avevano mai studiato il latino e che però avrebbero avuto la possibilità di insegnarlo nelle scuole medie. E poi, sul piano non dei provvedimenti istituzionali, ma delle effettive modalità di svolgimento dell’attività didattica, la drastica riduzione della selezione attraverso voto politico ed esami collettivi; e ancora, la minaccia alla libertà di insegnamento insita nelle prime proposte di introduzione dell’organizzazione dipartimentale da un lato e della soppressione della titolarità dell’insegnamento dall’altro. Il tutto aggravato dalla politicizzazione e dallo svuotamento di contenuti scientifici dell’insegnamento nelle scuole medie superiori, che licenziavano diplomati mediamente meno preparati di quelli di un tempo, complice anche la nuova normativa di svolgimento degli esami di maturità, che, introdotta in via provvisoria, fu tutt’altro che provvisoria.
La denuncia e il contrasto di questi eventi, nonostante la collaborazione alle pagine culturali del «Corriere della Sera» e de «la Stampa», Romeo li poté fare fino al 1974 quasi esclusivamente all’interno delle istituzioni accademiche e ciò per motivi che non dipesero dalla sua volontà. Il problema dell’Università si caricò, infatti, dal 1968 in poi, di fortissima valenza politica. Parlare dell’università non significava più esprimere idee di natura organizzativa e culturale come quelle contenute nel citato articolo del «Corriere della Sera» del 1966; significava invece entrare nel vivo della lotta politica drammatica e infine tragica degli anni Settanta. Poiché a Romeo era consentito di collaborare esclusivamente alle pagine culturali del «Corriere della Sera» e de «la Stampa», non gli fu possibile pubblicare articoli sull’università, perché erano considerati articoli politici e non semplicemente culturali, quindi non previsti dal contratto di collaborazione ai due quotidiani. La possibilità di scrivere articoli di questo tipo gli fu offerta solo nell’estate del 1974 da Indro Montanelli con la collaborazione a «Il Giornale nuovo», possibilità che Romeo colse al volo, lasciando la collaborazione a «la Stampa».
A onor del vero posso dire – ma è testimonianza che si basa solo sul mio ricordo personale − che qualche anno dopo, molto probabilmente nel 1977, quando Romeo dalla colonne del quotidiano di Montanelli si era ormai affermato come uno dei maggiori opinionisti politici a livello nazionale, mi trovai per puro caso presente nel suo studio quando gli giunse una telefonata da Piero Ottone ancora direttore del «Corriere», che gli offriva di tornare a collaborare a tutto campo con la testata di via Solferino. Romeo però declinò l’invito, dicendo che gli sembrava sleale lasciare chi per primo gli aveva offerto la possibilità di esprimersi liberamente su argomenti di tipo politico. E al giornale di Montanelli restò fedele fino alla morte. Sta di fatto che dal ricordato articolo del 1966 all’agosto del 1974 Romeo non scrisse articoli dedicati all’università, mentre all’interno delle mura della “Sapienza” egli sostenne una battaglia durissima di rigida opposizione al movimento studentesco e alle sue violente imposizioni in materia didattica e organizzativa, e nel contempo anche di concreta proposta riformatrice.
Nel 1968-69, assieme al filosofo Franco Lombardi, allora Preside della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Roma nella quale insegnava, Romeo fu infatti autore di una proposta di riforma dell’ordinamento didattico che venne applicata nel 1968-95. Tale proposta prevedeva lo svolgimento di tutti gli insegnamenti su tre livelli di contenuto e difficoltà decrescenti: A,B,C. La Facoltà stabiliva il numero di esami che gli studenti avrebbero dovuto sostenere per ciascun livello e gli studenti avrebbero potuto scegliere in piena libertà quali esami sostenere per ciascun livello. In tal modo, potendosi relegare al livello C anche gli insegnamenti definiti fondamentali dall’ordinamento del 1938, gli studenti avrebbero avuto meno vincoli nel costruire un piano di studi più aderente ai propri interessi culturali, salvaguardando comunque i minimi richiesti dalla normativa vigente ai fini dell’insegnamento nelle scuole secondarie e garantendo un minimo di preparazione generale di base.
La riforma incontrò un consenso maggioritario in Consiglio di Facoltà, motivata in parte anche dall’interesse corporativo di alcuni titolari di insegnamento complementare interessati allo scardinamento delle posizioni di maggior peso conferite agli insegnamenti fondamentali dall’ordinamento didattico vigente. Con la riforma Lombardi-Romeo era infatti ridotta ai minimi termini la distinzione tra le discipline impartite ai fini del conseguimento della laurea. Tuttavia il consenso più significativo fu dovuto al fatto che la maggioranza dei docenti in linea generale era favorevole a riformare l’università per favorirne un’ordinata e valida trasformazione da università di élite a università di massa, e contribuire col recupero di efficienza e razionalità del sistema universitario al superamento della crisi che l’intera società civile attraversava. La riforma incontrò invece la più dura opposizione da parte dei docenti politicizzati, che puntavano allo scardinamento completo del sistema universitario come momento fondamentale della distruzione della società capitalistica di cui l’università era componente fondamentale. Ma, soprattutto, la riforma trovò l’opposizione durissima del movimento studentesco che, sulla stessa linea delle frange oltranziste della docenza, si opponeva a qualunque idea riformatrice e razionalizzatrice, e quindi perseguiva non la riforma dell’università ma la sua esplosione.
Per Romeo iniziarono allora anni di tensione con molti colleghi comunisti e scontri continui con il movimento studentesco, nel corso dei quali dovette affrontare situazioni di pericolo anche per la sua incolumità personale.
La riforma comunque per tre sessioni fu applicata, in quanto in Consiglio di Facoltà la maggioranza riformista era abbastanza solida e molti docenti anche di sinistra tenevano fermo il rifiuto di pratiche didattiche strumentali e demagogiche. Essa però fu ben presto superata dalla liberalizzazione completa dei piani di studio introdotta nel 1969-70 da parte del ministero. Questa, in combinato con l’apertura dell’accesso alle Facoltà universitarie concessa dalla legge Codignola a tutti i diplomati indistintamente, portò, tra l’altro, al già ricordato fenomeno di laureati in Lettere che nella loro vita non avevano mai studiato il latino, ma che avevano però la possibilità di andare ad insegnarlo nelle scuole medie dove il latino era ancora materia obbligatoria.
Romeo vide nel combinato di quei due provvedimenti l’inizio di uno scivolamento verso il basso della vita accademica che egli non si stancò mai di denunciare sulla stampa dal 1974, quando ebbe finalmente la già ricordata possibilità di scrivere articoli politici su «IL Giornale nuovo» di Montanelli. E non per caso su «Il Giornale nuovo» Romeo esordì il 13 agosto 1974 proprio con un articolo sull’Università dal titolo emblematico: Un diploma senza valore. In esso denunciò i micidiali effetti congiunti della legge Codignola, che aveva consentito «l’iscrizione dei ragionieri a lettere classiche e dei periti industriali a giurisprudenza», e del pensiero di pedagogisti come Saverio Avveduto6. Essi avevano portato a un forte aumento delle iscrizioni all’università senza che si fosse provveduto alle strutture materiali e didattiche necessarie all’accoglienza degli aumentati iscritti, ma rispondendo alla nuova pressione semplicemente e demagogicamente allentando il rigore negli esami. Così facendo era stata perpetrata una truffa colossale proprio nei confronti dei più poveri che, a parole, si diceva invece di voler favorire. Secondo Romeo,

un’università degna di tale nome è un potente strumento di uguaglianza e di livellamento sociale, al contrario dell’università facinorosa e analfabeta uscita dalle ultime ‘riforme’. Un’istituzione atta a trasmettere un sapere effettivo contribuisce [...] con efficacia senza pari al superamento degli svantaggi che derivano da una provenienza sociale non favorita; e il compito di una seria riforma era e rimane quello di mettere uno strumento a disposizione dei ‘capaci e meritevoli’ di ogni provenienza sociale, non di annacquarlo sino a renderlo inservibile e inoperante. Regalare invece un diploma privo di valore a folle di diseredati significa, al contrario, mantenerli nel medesimo stato di inferiorità in cui essi già si trovano rispetto ai favoriti dall’ambiente familiare e dalla possibilità di accedere a scuole speciali aperte solo a chi disponga di mezzi che ai più sono preclusi7.


Sotto accusa era messa dunque la pattuglia di pedagogisti demagoghi e mistificatori e la politica scolastica e universitaria di governi e partiti politici senza eccezioni, anche se le massime responsabilità erano attribuite al partito comunista e alla sua ruota di scorta socialista. Ma, sotto accusa era messa anche la maggior parte della stampa, la quale su tutto ciò aveva steso, connivente, una cortina di silenzio. E la polemica non riguardava solo l’università, ma prima ancora la scuola media superiore.

La politica scolastica dei governi che si sono succeduti dal 1968 in poi − scriveva nella tarda primavera del 1975 − sarà registrata fra le pagine più ingloriose della recente storia del nostro paese. Non che negli anni precedenti le cose andassero nel migliore dei modi, ché anzi una certa responsabilità dei guai del periodo successivo va anche attribuita ai ritardi e alle carenze con le quali allora si fronteggiarono i problemi derivanti dall’espansione scolastica e dal mutare dei tempi: anche se un minimo di giustizia vuole che di quegli anni si ricordino altresì la creazione della media unica, l’obbligo scolastico portato a 14 anni, il salutare rinnovamento della didattica nelle elementari […]. Invece, dopo il 1968 si è assistito al fatto davvero senza precedenti della degradazione della scuola a strumento di ordine pubblico, destinato a trattenere e assorbire, costi quel che costi, spinte e minacce d’ordine politico che il governo non si sente di affrontare sul terreno loro proprio […] (È stato scaricato) sui docenti il compito impossibile di fronteggiare problemi che la scuola è istituzionalmente impreparata a risolvere, nell’atto stesso in cui ne venivano minate l’autorità morale e disciplinare […]. Con i risultati, sul livello del processo educativo e sulla salute politica del paese, che sono sotto gli occhi di tutti8.


Occasione di queste riflessioni era stata l’uscita del volume di Vittoria Ronchey, Figliuoli miei marxisti immaginari, che ricostruiva la sua difficile esperienza nei licei di quegli anni, ma la situazione era da tempo all’attenzione di Romeo, che riprese il discorso nel settembre dello stesso anno, in occasione della riapertura dell’anno scolastico. Solo nelle elementari, secondo Romeo «l’ottimismo pedagogico» aveva portato a «effettivi progressi, sostituendo ai metodi inefficienti e tormentosi di un tempo un atteggiamento più positivo e creativo verso la scuola e verso le cose». Il quadro però era di tutt’altro genere nelle medie e, soprattutto, nelle superiori e all’università, dove ormai c’era, predominante su tutto

la politica. Entrata nella scuola con la pretesa di introdurre elementi più vasti di democrazia in una struttura rimasta in parte autoritaria, essa è presto degenerata in esercizio puro e semplice di sopraffazione e di violenza [...] La scuola è stata anzi il terreno in cui per la prima volta sono state sperimentate quelle tecniche dirette a capovolgere i processi e le formule della democrazia nel loro contrario che dovevano essere poi applicate con tanto successo nelle sfere più diverse della nostra società. Non solo maggioranze inerti e qualunquiste ma anche gruppi attivi, politicamente e intellettualmente consapevoli, sono stati in tal modo emarginati dalla vita della scuola, ridotta a terreno riservato alle propagande più rozze e aggressive. Per amore di quieto vivere e permissivismo suicida autorità politiche e società civile hanno lasciato che tutto ciò accadesse, si sviluppasse, assumesse le dimensioni e le forme ripugnanti degli ultimi anni […] con lo sbandamento di una gioventù abbandonata alla prepotenza intellettuale e psicologica di chi si fa forte non certo di cultura e di argomenti ma di ricatti e intimidazioni. E tuttavia sopraffazione e violenza da sole non sarebbero bastate, se non avessero trovato il sostegno di una cultura psico-pedagogica insensata, priva di ogni plausibile fondamento scientifico, e proprio per questo tanto più pretenziosa e irresponsabile. Sulla base di un avallo così precario si è lasciato che nella scuola trionfassero quasi senza contrasto formule sciocche come quella del rifiuto della cultura borghese, identificata tutt’insieme con Aristotele e con i trovatori, con Galilei e con Kant; e si è lasciato che si scatenasse una campagna indecorosa contro i valori dell’intelligenza e della cultura nel nome di un egalitarismo offensivo di ogni principio e di ogni seria socialità […] (dimenticando che) una società incapace di difendere e trasmettere i valori che stanno alla sua base è una società incapace e anzi indegna di sopravvivere9.


Alla forte polemica contro il pedagogismo demagogico e il sinistrismo intollerante e opprimente degli insegnanti marxisti nelle scuole secondarie e nell’università si affiancava quella anche più aspra e corrosiva nei confronti dei partiti, a cominciare da quello comunista, portatori nell’università di una logica totalitaria con un singolare doppio gioco che Romeo mise ripetutamente sotto accusa. Mentre esponenti del PCI come Giorgio Amendola e Giuseppe Chiarante esternavano contro l’estremismo delle forze extraparlamentari e a favore del recupero di una politica di rigore e di una piena libertà di insegnamento e di ricerca, in realtà il partito comunista, alla prova dei fatti, finiva per appoggiare tutte le riforme proposte dalla Cgil e dalle altre forze sindacali, che erano state e continuavano ad essere rimedio peggiore del male alla crisi dell’università italiana e dei principi fondamentali sulla quale essa si era sempre fondata. E così, mentre un’assemblea nazionale degli studenti comunisti tenutasi in quei giorni faceva proposte di recupero di rigore contro i «figli degeneri del sessantotto», alle quali facevano eco le dichiarazioni dello stesso tono di Giorgio Amendola,

la federazione sindacale guidata dalla Cgil, insieme con il comitato nazionale universitario e con l’organizzazione del personale non docente, presentava al governo una piattaforma per la vertenza sull’università nella quale, fra una serie di altre proposte, erano incluse le richieste seguenti: a) istituzione del dipartimento, da affidare al governo di organismi misti di docenti, non docenti e studenti; b) abolizione della cattedra come sede di una rigida titolarità disciplinare; c) istituzione del docente unico. Si tratta[va] di un determinato attacco alle elementari garanzie di libertà dell’insegnamento e della ricerca, sancite nel nostro paese dalla Costituzione, e patrimonio di ogni società libera. Soppressa infatti la ‘titolarità dell’insegnamento’, ciascun professore potrà essere costretto a colpi di assemblea (e l’esperienza, soprattutto universitaria, insegna che questa espressione può spesso equivalere a colpi non di maggioranza ma di minoranza, quando si tratti di minoranze ‘attive’), a far tacere il proprio insegnamento, ed (essere) destinato ad altra disciplina, e magari a compiti diversi, di carattere ausiliario o subalterno. Il docente perderà il diritto alla propria funzione, e sarà esposto a tutti i tiranneggiamenti e a tutte le imposizioni di parte senza quelle difese istituzionali che furono gloria dell’università liberale: sino alla conclusione facilmente prevedibile della resa o dell’allontanamento. In tal modo la ‘democratizzazione’ diventa un pretesto per l’imposizione del totalitarismo ideologico nell’università10.


Oggi sappiamo che la perdita della libertà di insegnamento all’interno dell’istituzione dipartimentale non si avverò nei termini previsti da Romeo e sicuramente a ciò contribuì la stessa battaglia che egli allora condusse. Pur all’interno di una cornice non più composta esclusivamente da professori di ruolo, ma anche da ricercatori e rappresentanze di personale tecnico-amministrativo e studenti, i docenti, nonostante la maggiore attenzione imposta dalle esigenze più strettamente didattiche della formazione degli studenti, svolgono i loro corsi con programmi liberamente scelti. Tuttavia è innegabile che le definizioni dell’impalcatura istituzionale dei dipartimenti nelle prime proposte rendevano molto plausibili i timori espressi da Romeo. Se poi collochiamo la condizione e le prospettive dell’università italiana nel clima generale vissuto dal paese a metà degli anni Settanta, con il deterioramento gravissimo della situazione economica e delle relazioni sindacali, la crescita delle estreme parlamentari ed extraparlamentari, l’esplosione della violenza terroristica e il quadro politico generale che faceva apparire ormai imminente una svolta epocale nella storia della Repubblica, si comprende perché Romeo, al di là delle rassicuranti esternazioni di personalità pur eminenti del mondo politico, vedeva nel deterioramento reale delle condizioni di vita e di studio nell’università e nei provvedimenti di riforma preannunciati uno dei momenti più importanti di quella trasformazione rivoluzionaria della vita politica e civile del paese che egli considerava come un pericolo di quella possibile fuoriuscita dell’Italia dalla civiltà occidentale, che anche un uomo politico a lui assai vicino come Ugo La Malfa ebbe in alcuni momenti a temere.
In un articolo del 28 aprile 1976, I comunisti e l’università, l’analisi della proposta comunista di istituzione della struttura dipartimentale, dei pericoli liberticidi e dell’intento di strumentalizzazione ideologica e politica in essa contenuti fu serrata e incalzante, fino a una drammatica messa in guardia conclusiva:

Si tratta in realtà della libertà della scuola, del pensiero e della ricerca, che non interessano solo sparute minoranze di studiosi ma investono la formazione delle nuove generazioni nell’insegnamento medio, l’applicazione della legge, i riflessi della ricerca scientifica e tecnologica sulla vita produttiva del paese. Con questo progetto il PCI fa proprie, dopo tanta ostentata differenziazione, le posizioni più estreme dell’agitazione extraparlamentare nelle università, mirando ad assicurarsi, attraverso di esse, il controllo della mente e dell’anima del paese. Il tutto magari, nel quadro di rinnovate professioni di un pluralismo che, quando sarà soppresso nella società italiana, potrà ben restare sulla facciata dei discorsi e delle proclamazioni di principio. Dopo tutto, chi ha dimenticato che anche Stalin aveva raccolto la bandiera delle libertà borghesi11?.


E il 5 giugno 1976 a proposito di concreti tentativi di sopraffazione della libertà del docente scriveva:
Qualche settimana fa nel Consiglio della Facoltà di Lettere di Roma una mozione mirante a sottoporre a deliberazioni assembleari di tutto il personale docente e non docente il controllo dell’attività didattica e persino dell’attività di ricerca dei singoli docenti è stata presentata da Alberto Asor Rosa, membro del direttivo della federazione comunista della capitale, e votata da tutti i comunisti presenti. I comunisti sono stati alla testa di tutte le azioni volte a distruggere le strutture della nostra università, a privare i responsabili scientifici e didattici dei mezzi atti a controllare l’agitazione e a dirigerla verso obiettivi di rinnovamento e non di mera e nichilistica distruzione12.


Nel corso del 1977 la tensione salì pericolosamente. Nel febbraio si parlava di un nuovo sessantotto. La descrizione che nei suoi articoli Romeo dava della situazione universitaria, nella quale ebbe a subire durante una sessione di esami la pesantissima intimidazione personale che finì su tutti i giornali, è eloquente:

Occupazioni a catena si susseguono nelle sedi universitarie, le attività didattiche e di ricerca sono bloccate, bandiere rosse sventolano sugli atenei, scontri a fuoco sanguinosi hanno luogo nella capitale, la città universitaria di Roma passa sotto la custodia di picchetti «rivoluzionari» che sottopongono a perquisizioni umilianti impiegati e studenti […]. Si scontano in tal modo gli errori di un decennio nel quale la tecnica, ormai connaturata del nostro sistema politico, di rinvio ad ogni costo, e la massima di vivere alla giornata, hanno […] regalato in pochi anni all’Italia il primato della disoccupazione intellettuale nel mondo occidentale13.


E nell’aprile il quadro non appariva certo migliorato.

Al di là delle rime melense e degli slogan rispolverati dal maggio francese, il nucleo del movimento nelle università è formato da una rete di agitatori, giovani e non più giovani, i quali fin dal 1968 mirano a utilizzare le agitazioni studentesche come detonatore della crisi finale del sistema capitalistico (o meglio della democrazia liberale) nel nostro paese. L’obiettivo è di creare situazioni estreme che respingano la classe operaia su posizioni rivoluzionarie, in vista, come si sente ripetere da anni, dello «scontro armato con la polizia e con l’esercito»: in vista cioè della guerra civile14.


In questo contesto il partito comunista nel tentativo di qualificarsi come forza d’ordine e di governo tentava di favorire la ripresa delle attività didattiche, peraltro senza successo. Nel contempo però manteneva di fatto inalterato il veto a «ogni iniziativa mirante a stroncare sul serio i covi di guerriglia urbana che si annidano nell’università»15, continuando un doppio gioco che Romeo denunciava assieme alle responsabilità degli altri partiti, in primis della DC e dei socialisti, ma anche dei partiti laici, ai quali Romeo non attribuiva alcuna capacità di incidere in materia, se non grazie alle prese di posizione di qualche intellettuale dell’area e di Ugo La Malfa.

Nell’università i partiti democratici hanno registrato il fallimento più clamoroso. Neppure l’ultimo decennio, con le sue crisi ricorrenti che hanno spinto gli atenei fino al collasso, è bastato a indurre la DC e i partiti minori (e in larga misura gli stessi socialisti) ad assumere una linea in qualche modo coerente sui problemi dell’istruzione superiore. In una crisi così grave, anche per le sorti del paese, queste forze non sono mai riuscite ad essere protagoniste, e si sono ridotte a un ruolo in gran parte passivo, di mera registrazione di iniziative decise e provocate altrove16.


E ancora nell’aprile dello stesso anno

A parte i socialisti, impegnati a rincorrere il movimento giovanile in una gara che ha contribuito non poco al discredito del loro partito, sul terreno universitario tutte le maggiori forze politiche dal 1968 in poi si sono mosse sotto il segno dell’ambiguità. Per la DC, e per il mondo cattolico in generale, si è trattato di essere al tempo stesso partito di governo e protagonista del “movimento”,


col risultato di essere «estromessa dalle università, insieme con i partiti democratici minori» e subire «con effetti disastrosi l’urto della contestazione nelle strade, nelle fabbriche, nelle scuole, in ogni settore della vita civile».
Questa incapacità dei partiti di interpretare un ruolo non demagogico e non opportunistico nella realizzazione della riforma dell’università rimase sempre agli occhi di Romeo una responsabilità storica indelebile contro la quale egli continuò a battersi giungendo infine a riporre le sue speranze, rimaste peraltro deluse, in singole personalità di partiti diversi come Amendola, Malfatti, La Malfa17. Col profilarsi all’orizzonte del provvedimento che poi divenne la legge 382, sin dal 1977 metteva infatti in chiaro che a ben poco valeva «il non piccolo merito» del ministro Malfatti

di aver introdotto nell’accordo (sottoscritto nel marzo del 1977 con i sindacati) uno strumento di tutela efficace della libertà di insegnamento attraverso la norma che richiede il consenso del docente perché egli sia tenuto a seguire i metodi e i contenuti dell’insegnamento e della ricerca prescritti dall’assemblea di dipartimento.


Il resto dell’accordo prevedeva cose in conseguenza delle quali «l’Italia perderà d’un colpo tutto ciò che nel senso corrente delle parole si intende per università»18. Due anni dopo il panorama gli appariva ancora più fosco e le responsabilità dei partiti immancabilmente risalenti al 1968.

bisognava che nel 1968 (quando ancora non c’era disoccupazione intellettuale e anzi si discuteva della prevedibile deficienza di laureati nel prossimo avvenire) lo Stato facesse il suo dovere […]. Invece la classe politica (a cominciare, duole dirlo, da Aldo Moro) decise di […] consentire che gli atenei si trasformassero in palestre di violenze e da ultimo in teatri delle gesta del terrorismo. Fu necessario che lo stesso on. Moro pagasse con la vita questa linea di indulgenza perché, un anno fa, si avviasse un sensibile mutamento di rotta19.


Di fronte a simili responsabilità appariva a Romeo veramente incredibile che la politica cercasse di scaricare sulle spalle del mondo accademico la responsabilità di quanto stava per avvenire in materia di stabilizzazione degli incarichi.

Una classe politica che ha sulle spalle queste responsabilità dovrebbe stare molto attenta prima di lanciare accuse al mondo accademico. Specie se si tien conto della legislazione che nel frattempo questa stessa classe politica ha fatto cadere sulla testa dell’università: liberalizzazione degli accessi e dei piani di studio, blocco dei concorsi, abolizione della libera docenza, provvedimenti urgenti, Pedini 2, norme di ogni genere sull’assunzione a impieghi pubblici e privati che sistematicamente relegano all’ultimo posto la preparazione e la competenza, a tutto vantaggio di considerazioni meramente sindacali; e turpitudini analoghe. Non è lecito attribuire al mondo accademico la responsabilità di ciò che è accaduto in fatto di incarichi di insegnamento, dopo avere emanato le norme che tassativamente prescrivono ai consigli di facoltà, sotto pena di annullamento delle nomine, di preferire i meno qualificati e i meno capaci ai più qualificati e capaci, secondo precise graduatorie di preferenza all’incontrario. Chi stenti a credere consulti in una qualsiasi raccolta legislativa i provvedimenti numero 580 del 1973. E che senso ha accusare l’università dopo aver introdotto, con gli stessi provvedimenti, l’istituto della stabilizzazione che, secondo l’interpretazione subito adottata pro domo sua dalla Magistratura, si estende, con diritto di voto per gli incarichi, appunto a magistrati, direttori generali, professionisti, dirigenti e funzionari di enti pubblici e privati che per il resto continuano a esercitare i propri uffici, e naturalmente riservano all’università l’ultimo posto fra i loro impegni e le loro occupazioni? E non v’è segno che si voglia cambiare strada: all’inizio di quest’anno la stabilizzazione è stata estesa automaticamente a tutti coloro che maturano tre anni di incarico. Auguri20.


Il giorno precedente dalle colonne del «Il Tempo», in uno scambio dialettico con Elio Fazzalari, aveva osservato:

L’avvenire dell’università, dopo dieci anni di violenze e di errori, mi sembra ormai segnato, dal lato degli studenti e da quello dei professori. Dal lato degli studenti, perché non vedo come si possano allontanare le masse che stazionano in area di parcheggio, prive di scopi e di orientamenti precisi; e dal lato dei professori perché la dequalificazione del nostro corpo docente si avvia a livelli che non hanno riscontro in Europa. Fra pochi mesi una generale sanatoria aggiungerà a questi docenti molte migliaia di ex precari o sedicenti tali: personaggi che in sei anni di sterile presenza nell’università hanno dato la prova definitiva della propria inidoneità a restarvi e che appunto su questa base verranno assunti in pianta stabile21.


A Fazzalari, che riteneva ancora possibile una ripresa dell’Università, chiedeva:
Come sperare nel successo dei tentativi in questa direzione, in una situazione come quella oggi esistente nelle università, dove ogni passo avanti dovrebbe farsi strada fra interessi corporativi, procedure assembleari e mille sotterfugi autorizzati nell’università di massa per mettere i meno capaci e gli sprovveduti allo stesso livello dei più capaci e preparati22?


In realtà non restava che tentare di «trovare altre vie per dare al nostro paese le indispensabili strutture di un’istruzione superiore ad alto livello»23, ma non era cosa poi così semplice e di lì a qualche anno Romeo avrebbe sperimentato personalmente quanto lo fosse.
Mentre la situazione dell’università statale italiana scivolava irreversibilmente verso il suo completo disfacimento, Romeo cercò infatti sul piano personale una via alternativa all’insegnamento nella Sapienza di Roma. Nel 1977-78 accettò un incarico offertogli dall’Istituto Universitario Europeo di Firenze, ma già mentre era a Firenze maturò un progetto assai più ambizioso: far nascere una università privata che non fosse un luogo di scontro ideologicopolitico, che costituisse uno spazio di eccellenza didattica e scientifica, che, in definitiva, offrisse la possibilità di salvare la sostanza di quanto stava scomparendo nell’università statale, in particolare la libertà di insegnamento e il riconoscimento del merito individuale nella valutazione di studenti e docenti. Non che egli ritenesse che i problemi dell’università italiana potessero essere risolti dalle università private. Nella ricordata risposta a Fazzalari era stato esplicito: «sono convinto anch’io che solo la collettività e dunque lo Stato dispone di mezzi per affrontare il problema su scala adeguata»24. Tuttavia era altrettanto convinto che lo scadimento dell’università statale avesse aperto alle istituzioni private spazi operativi assolutamente inesistenti quindici o venti anni prima. Fu così che, venuto a conoscenza delle difficoltà finanziarie e didattiche in cui versava la Libera Università Internazionale degli Studi Sociali – Pro Deo, ebbe l’idea di farne una sorta di Bocconi del Centro-Sud. Propose quindi all’allora Presidente della Confindustria Guido Carli di rilevare la Pro Deo e rilanciarla come università a numero chiuso per studenti che non ritenevano di poter trovare nella statale adeguata preparazione professionale e libera maturazione culturale e critica. Fu Romeo in definitiva ad avere la prima idea della Luiss e fu lui a proporla a Guido Carli. Carli la accettò all’inizio con molte perplessità legate alle non precisate dimensioni del deficit accumulato dalla Pro-Deo, perplessità che frenarono poi anche Romeo, il quale, dopo un primo momento di grande entusiasmo in seguito al quale vi era già stato chiamato come professore di ruolo di storia economica, sospese il suo passaggio alla Luiss, vi assunse provvisoriamente un semplice insegnamento a contratto ma vi fu nominato ugualmente Rettore mentre restava docente di ruolo nella Facoltà di Lettere e Filosofia della Sapienza.
Non è questa la sede per scrivere la storia della Luiss – Guido Carli. Mi limito solo a dire che Romeo ne fu rettore dal 1979 al 1984 e che la lanciò con risultati strabilianti. Rinnovò in gran parte il corpo docente, potenziò le strutture didattiche e scientifiche, introdusse il numero chiuso e l’obbligo di frequenza alle lezioni, creò proiezioni e collegamenti internazionali. Il numero delle domande di iscrizione alle due Facoltà di Scienze politiche ed Economia, che nel primo anno della nuova gestione non coprirono neppure il numero dei posti disponibili, si triplicò nel giro di due anni e negli anni successivi per la Facoltà di Economia fu pari anche a cinque volte il numero dei posti disponibili.
E tuttavia nonostante gli ottimi risultati raggiunti sul piano organizzativo, didattico e scientifico, la Luiss non fu mai del tutto l’Università che Romeo aveva sperato che fosse. I problemi sorsero su un solo, ma per Romeo irrinunciabile, punto: il rapporto tra i poteri decisionali del Consiglio d’Amministrazione e quelli delle Facoltà in una materia di cruciale importanza quale era la chiamata e l’assunzione in servizio dei docenti di ruolo. Il nuovo statuto adottato dalla Luiss nel 1981 lasciava al riguardo spazi interpretativi abbastanza ampi, fino all’ambiguità, come poi si dovette constatare. Romeo negli anni in cui fu Rettore vide sistematicamente accolte dal Consiglio di amministrazione tutte le proposte deliberate dai Consigli di Facoltà dell’ateneo. E tuttavia, man mano che cresceva l’impegno della nuova proprietà nella vita della Luiss, crescevano evidentemente anche gli spazi di potere che il Consiglio di amministrazione occupava e crescevano le pressioni del Consiglio di amministrazione per orientare l’istituzione di nuovi posti in determinati settori scientifico disciplinari.
Nel 1984 scadeva il secondo mandato rettorale di Romeo. La Luiss era nel pieno di una crescita quantitativa e qualitativa senza precedenti. Il nuovo Rettore non avrebbe potuto essere che un professore di ruolo dell’ateneo. Romeo non poteva più procrastinare il suo passaggio alla Luiss dalla statale. Tuttavia prima di effettuare qualsiasi passo in tal senso, ritenne indispensabile sciogliere ogni dubbio rispetto alla materia che egli riteneva di significato decisivo per le prerogative del corpo docente e per la stessa libertà di insegnamento in un ateneo dove già il Rettore, i Presidi e i Direttori di istituto e di dipartimento non erano elettivi, ma nominati dal Consiglio di amministrazione. Lo fece prendendo apertamente l’iniziativa nell’adunanza del Consiglio di amministrazione del 13 luglio 1984. Il verbale è al riguardo illuminante. Guido Carli presiedeva la seduta e Romeo era presente, come da statuto, in veste di Rettore. Il punto in discussione riguardava gli spazi di autonomia della Luiss in merito alla normativa, introdotta dalle legge 382/1980, sulla non prorogabilità per oltre un triennio allo stesso docente dei contratti di insegnamento: quindi una materia che aveva solo indirettamente a che vedere con le chiamate di professori di ruolo. L’orientamento che emerse nella discussione fu che la Luiss non era assimilabile in tale materia all’università statale. Romeo al riguardo non espresse parere contrario, tuttavia a discussione conclusa ritenne di chiarire quali fossero i confini delle competenze del Consiglio di amministrazione in ordine all’altra e ben più importante componente della vita dell’ateneo, ossia quella dei professori di ruolo.
Secondo il verbale «il Prof Romeo, a questo punto, fa presente che la funzione del Consiglio di Amministrazione in ordine alle chiamate di professori di ruolo è di sola legittimità e non di merito», come avveniva nell’università statale, dove gli organi competenti al riguardo, secondo la stessa 382, restavano le Facoltà. Ma Guido Carli era evidentemente di tutt’altro parere e ritenne che la verbalizzazione della frase di Romeo, senza replica, avrebbe costituito di fatto una accettazione da parte dell’intero Consiglio, la sua rinuncia ai poteri di merito in materia. La replica fu quindi immediata.

A questo proposito il Presidente Carli fa presente che l’articolo 5 dello Statuto, lett. a), prevede che il Consiglio “determina l’indirizzo generale di sviluppo dell’Università in funzione della realizzazione degli obiettivi posti nell’art. 1 del presente Statuto: può pertanto indicare alle facoltà le finalità da raggiungere, compresa la proposta di eventuali nuove aree di studio e finalizzazioni specifiche di processi formativi”. Pertanto, il Sen. Carli ritiene che se le proposte formulate dalle Facoltà non dovessero essere in linea con quanto precede, le stesse dovrebbero essere rinviate, debitamente motivate, dal Consiglio di Amministrazione ai Consigli di Facoltà. Infatti, a suo avviso, ai sensi dell’art, 6 dello Statuto, sulle proposte di cui alle lett, e) f) g) ed h), formulate dai Consigli di Facoltà, il Consiglio di Amministrazione mantiene il diritto di esprimersi circa la congruità delle stesse con gli obiettivi già collegialmente determinati in base ai citati artt. 1 e 6 dello Statuto. Il Consiglio, con la sola eccezione del M. Rettore, approva.


La divergenza era quindi esplosa in tutta la sua insanabile portata e il Consiglio di amministrazione, compresi i Presidi delle due Facoltà di Scienze politiche e di Economia, proff. Gaetano Scoca e Mario Di Lazzaro, si espresse a favore di Carli, con l’attribuzione quindi al Consiglio di amministrazione della competenza di merito in materia di chiamate di professori di ruolo.
Per Romeo la cosa era inaccettabile. E di fatti a votazione conclusa riprese immediatamente la parola, per precisare «che ogni intervento del Consiglio di Amministrazione sulle valutazioni scientifiche delle Facoltà in merito ai candidati alla copertura di cattedre di insegnamento sarebbe gravemente lesivo dei principi della libertà di ricerca e di insegnamento e pertanto si dissocia dalle conclusioni del Consiglio»25.
L’autonomia del corpo docente nell’organizzazione didattica e scientifica degli atenei e soprattutto nella chiamata dei docenti di ruolo era stata uno dei presupposti basilari dell’ordinamento universitario che non era stato mai messo in discussione neppure dalla più estremistica delle proposte eversive di riforma universitaria. Paradossalmente Romeo lo vedeva negato proprio nell’Università privata di cui era stato il primo ideatore, mentre nella statale quel principio restava indiscusso. Chiarito il punto, Romeo, senza clamori, rinunciò definitivamente a qualunque idea di trasferimento alla Luiss e contestualmente a qualunque proposta di rinnovare il mandato rettorale.
Non mancarono tentativi soprattutto da parte del direttore amministrativo della Luiss, dr. Giovanni Nocco, di ricomporre il contrasto, ma senza esito. La rottura dei rapporti di Romeo con Carli e con la Luiss fu definitiva, nonostante i riconoscimenti formali riservati alla sua persona e al suo operato nel primo Consiglio di amministrazione tenutosi senza la sua presenza26.
Il distacco di Romeo dall’università divenne a quel punto totale. È significativo che il suo ultimo intervento sulla stampa riguardante la crisi dell’università datasse 18 maggio 1980, che avesse per oggetto l’imminente emanazione della 382 e che portasse un titolo ancor più significativo Le università sepolte27. Dopo di allora, continuando a insegnare nell’Istituto di Storia medievale della Facoltà di Lettere della Sapienza (non afferì mai ad alcun dipartimento), si era dedicato toto corde alla Luiss e alla stesura dell’ultimo volume della biografia di Cavour, uscito per l’appunto nello stesso 198428.
Nel 1984, mentre perdeva l’ultima speranza di recuperare nell’università privata ciò che aveva perso nella statale portava a compimento una delle maggiori opere della storiografia italiana ed europea del Novecento. Nello stesso anno di fatto uscì anche dalla statale, essendosi messo in aspettativa in seguito alla sua elezione a deputato al Parlamento europeo in una lista congiunta PLI-PRI. Sull’università non scrisse più nulla. Visse gli ultimi tre anni della sua vita dedicandosi esclusivamente all’Europa e alle future speranze che essa avrebbe potuto offrire a quella “difficile” nazione che era ed è tuttora l’Italia.






NOTE
*Si pubblica con qualche leggera variazione lo scritto inserito nel numero monografico in memoria di Ferdinando Cordova della rivista «Dimensioni e problemi della ricerca storica”, (n. 1 del 2013) in corso di stampa.^
1 Sulla figura complessiva di Rosario Romeo rinvio a G. Pescosolido, Rosario Romeo, Roma-Bari, Laterza, 1990; Id. (a cura di), Il rinnovamento della storiografia politica. Studi in memoria di Rosario Romeo, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1995; G. Busino, Rosario Romeo tra storiografia e impegno politico, in «Rivista storica italiana», 107 (1995), pp. 387-477; V. Vidotto, Rosario Romeo, in Università degli Studi di Roma “La Sapienza” – Facoltà di Lettere e Filosofia, Le grandi scuole della Facoltà, Roma, 1996.^
2 Rapporto di polizia citato in M. Serri, Sorvegliati speciali. Gli intellettuali spiati dai gendarmi (1945-1980), Milano, Longanesi, 2012, pp. 183-4.^
3 Sulle conseguenze di questo episodio si veda infra.^
4 Da ora solo 382.^
5 Cfr. al riguardo V. Vidotto, Rosario Romeo, cit., pp. 313-314.^
6 Saverio Avveduto, direttore dal 1960 al 1971 della divisione degli ordinamenti universitari nella Direzione generale per l’Istruzione Universitaria del Ministero della Pubblica Istruzione, direttore generale nel predetto ministero nel 1971, dove fu poi direttore generale dell’educazione popolare dal 1972 al 1977, dal 1966 al 1996 fu Professore di Sociologia dell’educazione all’Università “La Sapienza” di Roma.^
7 L’articolo è anche in R. Romeo, Scritti politici 1953-1987, Milano, Il Saggiatore, 1990, pp. 14-15.^
8 R. Romeo, Vilipendio del professore, in «Il Giornale nuovo», 7 maggio 1975, ora in Id., Scritti politici, cit., pp. 42-44.^
9 Id., Ritorno a scuola, in «Il Giornale nuovo», 26 settembre 1975, poi in Id., Scritti politici, cit., pp. 62-64.^
10 Id., Le mani sull’Università, in «Il Giornale nuovo», 31 luglio 1975, poi in Id., Scritti politici cit., pp. 53-54.^
11 Anche in Id., Scritti politici, cit., pp. 72-74.^
12 Id., L’università totalitaria, in «Il Giornale nuovo», 5 giugno 1976, poi in Id., Scritti politici, cit., pp. 77-8.^
13 Id., Come il Pci sfrutta la tensione nelle Università, in «Il Giornale nuovo», 16 febbraio 1977, poi in Id., Scritti politici, cit., pp. 95-6.^
14 Id., I partiti negli atenei, 21 aprile 1977, in «Il Giornale nuovo», poi in Id., Scritti politici, cit., pp. 104-6.^
15 Id, Come il PCI sfrutta…, cit., p. 96.^
16 Id., Lama apprendista stregone, in «Il Giornale nuovo», 24 febbraio 1977, poi in Id., Scritti politici, cit., pp. 97-9.^
17 Id., I partiti negli atenei, 21 aprile 1977, in «Il Giornale nuovo», poi in Id., Scritti politici, cit., pp. 104-6.^
18 Id., Università tradita, in «Il Giornale nuovo», 27 marzo 1977, poi in Id., Scritti politici, cit., pp. 103-4.^
19 Id., Università all’italiana, in «Il Giornale nuovo», 19 agosto 1979, poi in Id., Scritti politici, cit., p. 188.^
20 Ibidem.^
21 Id., L’università è viva ma a quali condizioni, in «Il Tempo», 18 agosto 1979, poi in Id. Scritti politici, cit., p.186.^
22 Ibidem.^
23 Ibidem.^
24 Ibidem.^
25 Archivio Luiss, Verbali del Consiglio di amministrazione. Adunanza tenutasi in data 13 luglio 1984.^
26 Ivi, Verbali del Consiglio di amministrazione. Adunanza tenutasi in data 8 novembre 1984.^
27 Romeo, Le università sepolte, in «Il Giornale nuovo», 18 maggio 1980, poi in Id., Scritti politici, cit., pp. 218-220.^
28 R. Romeo, Cavour e il suo tempo, vol. III, 1854-1861, Laterza, Roma-Bari, 1984, ristampato dallo stesso editore Laterza nel 2012.^
  Cosa ne pensi? Invia il tuo commento
 
Realizzazione a cura di: VinSoft di Coopyleft