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Carlo Antoni e la storia d’Italia*
di Giuseppe Galasso
Furono in molti a chiedersi all’indomani della seconda guerra mondiale, o già nel corso stesso della guerra, quale fosse il senso della storia d’Italia, se essa aveva portato a un disastro come quello della totale sconfitta riportata in quella guerra, e se, già prima, un ventennio di fascismo ne aveva stravolto quelli che sembravano cardini assestati del suo ordinamento politico e del regime di libertà delineato nell’ordinamento e collaudato da un sessantennio di vita unitaria dell’Italia uscita dal Risorgimento.
Era accaduto lo stesso all’indomani della prima guerra mondiale e, ancora più, quando, a metà degli anni ’20, si era avuta la scoperta instaurazione del regime fascista. Allora Giustino Fortunato aveva scritto pagine fra quelle sue più impegnate e dolenti (Dopo la guerra sovvertitrice e Nel regime fascista), esponendo una visione particolarmente pessimistica non solo della storia, ma anche della – per così dire – struttura storica del popolo italiano, definito moralmente pigro. E ugualmente negli anni ’20 erano fiorite tante analoghe analisi, proseguite poi negli anni ’30 (Gobetti, Donati, Gramsci etc.), che avevano esteso o aggravato il pessimismo di Fortunato, dando luogo spesso a quella storiografia o, meglio, letteratura storica, che Adolfo Omodeo avrebbe molto severamente giudicato.
Durante o all’indomani della seconda guerra mondiale la riflessione sulla storia italiana fu ripresa con un animus diverso e molto più generale. Non si trattava più, come venticinque anni prima, di darsi conto del perché e del come il fascismo era sopravvenuto a distorcere e a conculcare il senso del grande sviluppo liberal-democratico dell’Italia unita, allontanandola dalle altre grandi esperienze liberali e democratiche europee, che erano state prese a modello nell’Italia post-risorgimentale, come ovvio e naturale approdo della risorta nazione italiana. Allora la Francia e l’Inghilterra erano state perciò, e soprattutto la Francia, il terreno di confronto della recente storia italiana, e il positivo, così come il negativo, che in questa storia recente si ravvisava veniva tutto riportato a questo metro di giudizio.
Sostanzialmente, alla storia d’Italia dall’unificazione in poi erano state volte anche le riflessioni che già durante la guerra del 1915 erano fiorite numerose per la rotta di Caporetto. Di quella sconfitta si era teso a dare ragioni più profonde di quanto sarebbe potuto avvenire se la si fosse letta isolata, come fatto a sé, come un, sia pur gravissimo, rovescio militare: un rovescio di quelli che possono colpire, e hanno spesso colpito, i più agguerriti paesi nelle loro prove belliche, e non già, come allora furono in molti a fare, quale cartina di tornasole di carenze strutturali e originarie dell’Italia unita, nonché ravvisandovi, in non pochi casi, anche carenze derivate da un più remoto corso della storia italiana.
Gli analoghi scritti di profonda revisione e di tendenziale, generale pessimismo su questa storia ebbero, dagli anni della seconda guerra mondiale in poi, una impostazione molto più ampia e misero in discussione, certamente, anch’essi, il fascismo e ne cercarono con uguale accanimento polemico le radici, ma non più soprattutto nel precedente cinquantennio, come era accaduto negli anni ’20 e ’30, bensì in tutto il corso della storia d’Italia, a partire già dal Medioevo, se non da Roma. L’Antistoria d’Italia di Fabio Cusin, Il carattere degli italiani di Silvio Guarnieri, e anche Il fantasma liberale di Giulio Colamarino (benché ristretto più specificamente al periodo fascista) furono tipiche espressioni di questo momento di critica radicale dell’intera storia italiana, quale rivelatrice di una vera e propria insufficienza etico-politica degli italiani, che aveva impedito ad essi di avere una storia davvero solidale e convergente, se non comune, con quella degli altri grandi popoli europei. E nello stesso senso avrebbe agito anche la lezione storica promanante dai Quaderni dal carcere di Gramsci, e ciò almeno nella misura in cui lo stesso Gramsci evadeva dalla sua dominante riflessione sul Risorgimento e sull’Italia unita e si protendeva a riflettere sul corso della storia d’Italia del periodo comunale e rinascimentale.
A questo stesso momento di rivisitazione e di riflessione sull’intera storia italiana appartiene anche il saggio di Carlo Antoni, Della storia d’Italia, pubblicato, clandestino, nel 1943 come numero 1 dei «Quaderni del movimento liberale italiano» (nei quali Antoni pubblicò anche un altro suo scritto importante, Ciò che è vivo e ciò che è morto di Marx). Si trattava di una presa di posizione storiografica che non rientrava nelle consuetudini di un intellettuale di grande profilo, concentrato sui problemi della storia della filosofia moderna, seguita soprattutto nel suo filone storicistico, dal XVIII al XX secolo. Sorprendente anche la sede di partito in cui lo scritto apparve, anch’essa inconsueta per un intellettuale unanimemente ritenuto fin troppo schivo rispetto a presenze pubbliche di questo tipo. E neppure è senza significato il fatto che un tale esercizio storiografico sia poi rimasto isolato nella pur fervidissima attività di scrittore di Antoni, né sia stato mai più ripreso nella stessa o in altra forma.
Tutto ciò non può voler dire altro, se non che l’autore giudicava il suo saggio strettissimamente legato alla congiuntura storica in cui fu disegnato e scritto, e cioè fra l’estate del 1943, in quei ‘quarantacinque giorni’ del primo governo Badoglio, che furono la confusa anticamera e il non meno confuso, ma tumultuante e fervido prologo della vita politica dell’Italia post-fascista, e i primi mesi dell’occupazione tedesca di Roma dopo l’8 settembre. In quel periodo Antoni militò attivamente nelle file del Partito Liberale Italiano. L’autore ne aveva consegnato il manoscritto a Umberto Zanotti Bianco, che giudicava un «buono scritto» quella sintesi della storia nazionale e, a sua volta, lo consegnò a Manlio Lupinacci il 13 febbraio del 1944. Il successivo 12 aprile Zanotti lo consegnò poi, come «ancora inedito», assieme ad altri opuscoli clandestini del Partito Liberale già pubblicati e al suo scritto su Monarchia o repubblica? – che aveva avuto molta eco negli ambienti che ne erano venuti a conoscenza, e anche nelle discussioni dei mesi successivi all’arrivo degli Angloamericani a Roma – a un «lombardo che dirige un’azienda di autotreni al servizio dei tedeschi», da lui incontrato presso Demetrio Helbig, chimico e generale dell’Aeronautica, che era in contatto coi gruppi della Resistenza. Ignoriamo chi fosse quel «lombardo» al quale l’inedito opuscolo fu consegnato e che a Zanotti Bianco aveva «chiesto materiale da pubblicare a Milano». L’opuscolo fu, comunque, stampato poi con la data del 1943, presumibilmente col testo che Antoni aveva già da mesi consegnato a Zanotti Bianco.
Nello stesso tempo, però, pur legato intimamente a quel momento particolare e irripetibile quanto intenso e profondamente vissuto, a quel mese e mezzo di ‘ritorno alla libertà’, come allora stesso furono definiti i «quarantacinque giorni» fra il 25 luglio e l’8 settembre 1943, e ai mesi dell’occupazione tedesca di Roma, quel che di questo breve periodo Antoni più sembra aver sentito nel suo animo ed echeggiato nel suo pensiero è, come vedremo, molto di più l’incertezza, la problematicità, le confuse prospettive che non le radiose promesse e le speranza dell’orizzonte che si era aperto, con la caduta di Mussolini, al corso della storia italiana. E anche questo appare, peraltro, intimamente consentaneo con lo spirito e con i criteri interpretativi che ispirano e caratterizzano il saggio.
Il quale si apre, intanto, assumendo in pieno come propria la tesi del Croce circa la mancanza di unità della storia italiana: una tesi – dice Antoni – da intendere, per gli italiani, in senso anche «più profondo (…) e più doloroso e grave» del significato metodologico che Croce aveva dato alla sua affermazione. Da intendere, cioè, nel senso di una presa di coscienza della estrema «eterogeneità e frammentarietà della vita italiana» attraverso i secoli, per cui l’unificazione non era stata altro che la giustapposizione e la cucitura di più Italie, ben più che una loro effettuale e sostanziale compartecipazione di identici caratteri etico-politici o almeno fusione in uno stesso modello di civiltà politica. Né si fermava qui il negativo giudizio di Antoni sull’unità raggiunta dall’Italia, poiché egli aggiungeva che, peraltro, neppure quelle stesse unità statali che fra il 1859 e il 1861 erano confluite nel nuovo Stato nazionale unitario allora nato avevano una reale vitalità e unità, «neppure il più solido di tutti», ossia il Regno di Sardegna: tutte erano unità fittizie, che provenivano a loro volta da precedenti composizioni o erano, addirittura, composizioni estrinseche dovute a decisioni estrinseche, sicché neppure questi Stati potevano rappresentare, nel loro ambito, qualcosa di compatto e di solido.
Sulla base di tali premesse l’esame che Antoni fa della storia d’Italia è di una sorprendente negatività. A cominciare, intanto, dal profilo che egli traccia del Comune, ossia di uno degli organismi politici più originali e creativi della civiltà politica italiana. Laddove le città transalpine, dove pure fiorì il fenomeno comunale, non ebbero aspirazioni di indipendenza politica e costituirono il valido puntello del successo del potere dei loro sovrani e furono il teatro di una grande affermazione della borghesia, «l’Italia può dirsi l’unico paese d’Europa privo d’una tradizione borghese». Il Comune vi fu l’opera di famiglie della bassa nobiltà e di cavalieri, e conservò questa impronta anche quando a dirigerlo furono i ‘popolani’ anziché i ‘magnati’, caratterizzandosi come organismo «non tipicamente economico, bensì militare e politico», e tendendo alla conquista del contado e facendosi valere come città-stato. L’Italia offrì, così, «questo singolare anacronismo della resurrezione dello stato di città classico».
La violenza interna, nella lotta tra le fazioni che se ne contendevano il governo, e la violenza nell’espansione della città nel contado e nella contesa tra varii comuni, ciascuno tendente a una maggiore espansione, dominò pertanto la scena politica del Medioevo italiano, portando infine alla Signoria, vero trionfo della politica senza principii e senza ideali, tutta fondata sulla più cruda concezione del potere come frutto di puro calcolo e bilancia delle forze in campo: puro machiavellismo, insomma. Ne derivarono il realismo e l’individualismo di un mondo in cui «la realtà fu l’individuo economico e ‘realistico’, spoglio di quella dignità che viene dalla vita interiore» e «invano la magnificenza cercò di compensare il vuoto delle anime sensuali e miserabili».
Di qui un bilancio fallimentare: un’Italia assente o deviata rispetto ai grandi momenti ed eventi determinanti nella formazione del mondo moderno, priva dei grandi slanci e delle dure lotte che altrove ha comportato la modernità. In compenso, un popolo in cui «la pianta uomo cresceva» non solo vigorosa, ma armoniosa in un suo classico equilibrio di «spontaneità e pienezza di vita, che ignorava l’inquietudine e il problema», tipici dell’uomo moderno, fino al punto da potersi dire che «il popolo italiano era ed in certo senso è ancora l’unico popolo classico, l’unico superstite del mondo antico»: un popolo così fatto non per «la mitezza del cielo e l’amenità del paesaggio», come pensavano gli stranieri, ma per «una antichissima civiltà diventata natura».
Tale «ancora alla vigilia del Risorgimento», questo popolo si volse a un deciso rivolgimento solo «non per impulso proprio, ma perché travolto dalle armate della Rivoluzione francese». A loro volta, «le forze interne che, tra tanta apoliticità, hanno potuto trasformare ciò che era l’effetto d’un urto in un moto spontaneo e coerente» provennero solo dai due estremi della penisola, Torino e Napoli. A Napoli la monarchia borbonica perse a un certo punto la capacità e lo spirito propri delle grandi iniziative politiche e «si svuotò», ma fu, tuttavia «il pensiero politico meridionale che diede alla nuova Italia la più severa scuola liberale», dimostrando già nel Decennio francese la capacità di «trasformare l’ideologia in programma fattivo di governo». Torino significò, invece, «l’apporto alla rivoluzione italiana non soltanto d’un esercito e d’una diplomazia, ma soprattutto d’una solida tradizione politico-amministrativa e di una solida classe politica».
Ne venne fuori, nel successivo fallimento di altre idee e aspirazioni nazionali italiane, da Gioberti a Mazzini, lo Stato liberale piemontese, in cui il liberalismo di Cavour – forte «d’una moderna visione della vita, d’un’etica religiosa», di una «adesione al mondo moderno anche nel suo aspetto tecnico, finanziario ed industriale», in cui «l’energia morale si traduceva spontaneamente in prassi politica» – segnò un «effettivo progresso» e una «rivoluzione» di portata e di effetti non solo italiani, ma europei.
L’analisi dell’Italia unita che dalla conclusione sabauda e liberale del Risorgimento derivava Antoni era molteplicemente critica e piena di riserve, anche se ne riconosceva apertamente le positività, sia dal punto di vista politico e sociale che dal punto di vista dello sviluppo moderno del paese, e forma, a nostro avviso, la parte più direttamente sentita da lui come propria esperienza personale, dando luogo a una serie di giudizi di grande interesse anche storico. Basti citare l’accenno al romanzo italiano dal Verga dei Malavoglia al Bacchelli de Il mulino del Po, che «ha per protagonista quasi esclusivo il popolo italiano», ma questo «soggetto popolaresco è sempre la storia d’una decadenza: il progressivo politicizzarsi del popolo vi significa la dissoluzione della sua vita familiare e morale», e ciò risponde all’effettiva rottura di quell’antico equilibrio classico, che l’Antoni aveva visto perdurante ancora alla vigilia del Risorgimento, per effetto della «nuova cultura», portata dalla scuola, dalla stampa, dall’«oratoria tribunizia». Negativo è, in particolare, il giudizio di Antoni sulla sovrapposizione di questa nuova cultura a quella della tradizione italiana: un innesto così mal riuscito da produrre alla fine «la mancanza di stile, il cattivo gusto» imperante fra ’800 e ’900 «in un paese che aveva pur dato al mondo la grazia delicata del Rinascimento e la fantasia del Barocco», mentre «la rumorosa protesta del Futurismo» si riduceva «ad una velleità di novità formale». Ma, nell’insieme, il giudizio di Antoni sulla «nuova Italia» è materiato da una tale serie di limitazioni e di elementi negativi da farne una valutazione evidentemente molto, molto critica.
Non sorprende che un tale paese non appaia a lui riscattato neppure dalla vittoria nella prima guerra mondiale, ma anch’egli sembra notare con qualche sorpresa che nella crisi post-bellica di allora, qui per sommi capi, ma vivacemente descritta, una «coalizione di vecchie e nuove forze reazionarie» abbia evocato l’Antirisorgimento. Il suo sentire si esprime a questo proposito con particolare finezza: «l’Antirisorgimento sembrò qualcosa di molto pittoresco, di molto ‘italiano’», ma «in effetti era l’antica Italia delle fazioni, della illegalità anarchica, del ‘tumulto’ che riappariva». E, con uno scatto estremamente significativo di quel suo sentire così criticamente anche la storia italiana recente e recentissima, si afferma pure che questa vecchia Italia riaffiorante celebrò «i suoi fasti nell’antica Italia comunale: nella Romagna, nell’Emilia, nella Toscana, nell’Umbria», mentre la migliore tradizione liberale resistette «con intrepida dignità» a Napoli (Benedetto Croce) e a Torino (Luigi Einaudi, Francesco Ruffini), dove «ebbe anche, con Piero Gobetti, una giovanile rifioritura».
L’Antirisorgimento, dopo aver stabilito la dittatura del fascismo, aveva poi portato il paese al disastro e alle rovine della seconda guerra mondiale, e così, «con coerenza storica, aveva compiuto la sua opera» di sovversione e di distruzione dell’eredità del Risorgimento. D’onde le domande finali, angosciose del saggio: il Risorgimento «impresa effimera di un’esigua schiera di intellettuali»?, confermata incapacità degli italiani di «reggersi da sé per difetto di senso civico»? in vista una espiazione della «nuova colpa» costituita da una tale conferma «con la rovina economica, con la decadenza intellettuale, con la scomparsa dalle forze vive del mondo», così «come dopo la catastrofe del Rinascimento»? sarebbero riusciti coloro che avevano resistito al fascismo e i giovani antifascisti degli anni più vicini «a riaccendere e a rendere operante nelle coscienze, pur nel contrasto delle dottrine politiche e dei programmi economici, quell’esigenza morale della libertà civile, che ha fatto del popolo italiano una nazione e che è il primo atto di fede che una nazione deve a se stessa»?
Domande angosciose, in cui culmina, come abbiamo anticipato, il pessimismo di Antoni nel momento storico che fu quello della stesura del suo saggio. Un saggio che, chiaramente, non può essere letto, né apprezzato per il disegno storico che vi è delineato, e la cui insufficienza su questo piano è evidente già nella conduzione stessa del ductus storiografico di Antoni in questa occasione, che lo porta in ultimo a confermare che il Risorgimento ha fatto dell’Italia una nazione, ma a negare che questa nazione abbia vinto in sé la sua antica deficienza di senso civico, e lo induce a vederla come non più in possesso del classico equilibrio che l’aveva resa singolare tra tutti gli altri popoli d’Europa, ma senza aver acquisito nell’intimo gli spiriti e i costumi della modernità. E ciò senza parlare di punti estremamente discutibili come quelli circa l’assenza di borghesia e di spirito borghese in Italia o circa la natura autentica del Comune medievale. Per questo verso il saggio di Antoni rivela di essere davvero il frutto di un impulso estemporaneo e dà eloquentemente conto di un travaglio etico e politico nel senso più ampio di questi termini, acuito dalla eccezionalità e drammaticità delle circostanze fra le quali fu scritto. E, del resto, è sorprendente la parentela critica e l’affinità, se non identità, di molti giudizi sul passato e l’essenza storica dell’Italia e della sua tradizione politica e civile, che legano le pagine di Antoni a quelle di un altro triestino, il già ricordato Cusin, non meno pessimista e critico della storia della sua patria.
Quel che il saggio non dà sul piano storiografico è, però, ampiamente compensato sul terreno della riflessione morale e politica, ed è su questo terreno che il saggio finisce anche con l’assumere un suo significativo fondamento storico. Nell’intelaiatura storiografica che esso si sforza d offrire è facile leggere, per il periodo fino all’unificazione italiana, la convergenza di fonti e riferimenti diversi, dal Burckhardt al De Sanctis, dal Volpe di Medioevo italiano al Croce della Storia dell’età barocca in italia, dall’Omodeo degli scritti poi raccolti in Difesa del Risorgimento e in Il senso della storia, al Salvatorelli di Pensiero e azione del Risorgimento (apparso poco prima della caduta di Mussolini il 25 luglio 1943), per indicare soltanto i possibili, più essenziali riferimenti. Per la storia dell’Italia unita, l’Antoni appare tenersi lontano sia dall’Italia in cammino del Volpe che dalla Storia d’Italia del Croce. La sua vicinanza è decisamente nel senso delle critiche radicali rivolte al sistema politico italiano dalla critica radicale di cui Salvemini può essere considerato il capofila, ma con una accentuazione critica, da parte di Antoni, in piena sintonia con il drammatico momento in cui egli scriveva e con le connesse, incerte prospettive e tormentose preoccupazioni. Sia pure fra molteplici limitazioni, egli aveva riconosciuto ed esaltato nel suo saggio il valore rivoluzionario e il significato storico di portata non solo italiana del Risorgimento e, in particolare, del pensiero e dell’opera del Cavour. La storia posteriore della nuova Italia non era stata alla stessa altezza del suo momento genetico e realizzativo, ma era rimasta pur sempre improntata allo spirito e alla costruzione di quel momento, finché il fascismo non aveva del tutto sconvolto i precedenti e la realtà politico-sociale, ideale e morale a cui quella costruzione e quello spirito si rifacevano. Di qui i terribili interrogativi e il disorientamento e le temute incognite con le quali il saggio, come abbiamo visto, si chiudeva.
Interrogativi, disorientamento, incognite che poi la storia l’Italia del ‘miracolo economico’ e della travagliata, ma lunga esperienza democratica del mezzo secolo successivo sembrò allontanare decisamente dall’attualità, se non proprio dissolvere. E, certamente, anche per questa ragione il saggio del 1943 – pur ripubblicato nel 1947, quando quel suo epilogo perplesso, tormentato, tormentoso poteva ancor apparire ragionevole – non fu poi mai più ripreso dall’autore, che trovò nei filoni tradizionali e in quelli nuovi dei suoi studi filosofici e storico-filosofici il nutrimento più vitale e pertinente della sua intimità operosa e della sua sempre vigile e attiva coscienza critica e civile, come doveva, tra l’altro, testimoniare in ispecie la rubrica Il tempo e le idee, che egli tenne per anni sul settimanale «Il Mondo». Non per nulla, perciò, il volume, poi pubblicato postumo con lo stesso titolo di quella rubrica, di raccolta di quelle sue collaborazioni al più importante, alto e significativo periodico liberale dell’Italia del primo ventennio post-bellico può essere a molto buona ragione considerato come un suo spontaneo, non programmato, e per ciò ancor più autentico, testamento politico-culturale, morale e civile.




Nota

Una bibliografia degli scritti di Carlo Antoni, a cura di F. Voltaggio, si può vedere in «Giornale critico della filosofia italiana», 49 (1960), pp. 39-58, poi riprodotta in C. Antoni, Storicismo e antistoricismo, a cura di M. Biscione, Napoli, Morano, 1964, pp. 231-246.
Per il pensiero di Antoni e il suo svolgimento si veda soprattutto G. Sasso, L’illusione della dialettica. Profilo di Carlo Antoni, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1982; e dello stesso A. il Ricordo di Antoni in «Annali dell’Istituto Italiano per gli Studio Storici», 14 (1997), pp. 39-51.
Lo scritto Della storia d’Italia è stato ripubblicato in C. Antoni, Tre scritti storici, Bologna, Il Mulino, 1997, che riproduce l’omonimo volume pubblicato dall’autore presso le edizioni Colombo a Roma nel 1947. Inoltre, Movimento Liberale Italiano. Roma 1943-1944, a cura di M. De Giorgi, Galatina, Congedo, 2005, che ripubblica tutti i saggi e i Quaderni del Movimento.
L’apparizione dello scritto di Antoni nei «Quaderni», ancora in regime di clandestinità, del Movimento Liberale sembra quasi sfuggire alla maggior parte dei suoi studiosi o dei commentatori (pochissimi) di tale scritto. Su questa attività editoriale clandestina del Partito Liberale a Roma si veda F. Grassi Orsini, Introduzione in U. Zanotti Bianco, La mia Roma. Diario 1943-1944, a cura di C. Cassani, Manduria, Lacaita, 2011, pp. XX-XXI nota 34, e p. XXXV nota 35, con la bibliografia ivi citata. Nel Diario si parla dell’opuscolo di Antoni alle pp. 127 e 188.
Per i riferimenti alla storiografia italiana del tempo rinviamo alle nostre osservazioni in G. Galasso, Croce, Gramsci e altri storici, Milano, Il Saggiatore, 19782; Id., L’Italia come problema storiografico, Torino, UTET, 1979; Id., Storici italiani del Novecento, Bologna, Il Mulino, 2008; nonché ai molti scritti ora raccolti in Id., L’Italia nuova. Per la storia del Risorgimento e dell’Italia unita, 7 voll., Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2011-.
Per la collaborazione a «Il Mondo» cfr. C. Antoni, Il tempo e le idee, Napoli, ESI, 1967. Scomparso Antoni, la rubrica di quel settimanale fu tenuta da Vittorio De Caprariis, col titolo carducciano Ceneri e faville, e con lo pseudonimo di Turcaret, e poi da me stesso, con lo stesso titolo, Il tempo e le idee, di quella di Antoni, e con lo pseudonimo di Mazarino: pseudonimo suggeritomi, invero, dallo stesso fondatore e direttore di quel giornale Mario Pannunzio, per cui è errata l’attribuzione di quello pseudonimo a Salvatore Onufrio, come malamente si fa in P. Bonetti, «Il Mondo». 1949-1966. Ragione e illusione borghese, Roma-Bari, Laterza, 1975, p. 149 e nota 98 (quello pseudonimo non è, peraltro, sciolto in Il Mondo. Indici analitici, prefazione di G. Spadolini, 2 voll., Firenze, Passigli, 1987: cfr. vol. 1949-1958, p. XIX, e vol. 1959-1966, pp. 147-148).





NOTE
* Si dà qui l’Introduzione a C. Antoni, Della storia d’Italia, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2012.^
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