Rubbettino Editore
Rubbettino
Torna alla Pagina Principale  
Redazione: Fausto Cozzetto, Piero Craveri, Emma Giammattei, Massimo Lo Cicero, Luigi Mascilli Migliorini, Maurizio Torrini
Vai
Guida al sito
Chi siamo
Blog
Storia e dintorni
a cura di Aurelio Musi
Lettere
a cura di Emma Giammattei
Periscopio occidentale
a cura di Eugenio Capozzi
Micro e macro
a cura di Massimo Lo Cicero
Indici
Archivio
Norme Editoriali
Vendite e
abbonamenti
Informazioni e
corrispondenza
Commenti, Osservazioni e Richieste
L'Acropoli
rivista bimestrale


Direttore:
Giuseppe Galasso

Responsabile:
Fulvio Mazza

Redazione:
Fausto Cozzetto
Piero Craveri
Emma Giammattei
Massimo Lo Cicero
Luigi Mascilli Migliorini
Maurizio Torrini

Progetto grafico
del sito:
Fulvio Mazza

Collaboratrice per l'edizione online:
Rosa Ciacco


Registrazione del
Tribunale di Cosenza
n.645 del
22 febbraio 2000

Copyright:
Giuseppe Galasso
 
Cookie Policy
  Sei in Homepage > Anno XIII - n. 5 > Documenti > Pag. 504
 
 
150 anni di disastri sismici in Italia interpellano la cultura degli ingegnieri? *
di Emanuela Guidoboni
L’occasione di una riflessione

Da pochi mesi è stato pubblicato un volume1 che raccoglie in modo dettagliato dati tecnici, sismologici, storici ed economici sugli effetti dei disastri sismici in Italia negli ultimi 150 anni, ossia dal 1861 al 2011. L’occasione di questo bilancio è stata offerta dal centenario dell’Unità del paese, ma è ben lontano, come si può immaginare, dall’offrire un “festeggiamento” nazionale. Si tratta piuttosto di guerre perdute, sfide mancate, normative non applicate. Sono 34 i disastri sismici accaduti, uno in media ogni 4-5 anni, con danni gravi o distruzioni complessivamente a oltre 1.560 località, fra cui 10 città capoluoghi. E in mezzo a questi disastri, sono accaduti altri 86 terremoti di energia minore, ma spesso di poco meno distruttivi. Questa serie di 120 terremoti della nostra storia recente pone domande e induce riflessioni da diversi punti di vista.
I dati pubblicati sui disastri sismici sono tratti dal Catalogo dei Forti Terremoti in Italia, dal V secolo a.C. al XX (CFTI) dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia2. Quest’opera contiene i risultati di 25 anni di ricerche storiche, riguardanti tutti i forti terremoti, di cui si è a conoscenza, dal mondo antico ad oggi. Il Catalogo CFTI è stato realizzato come work in progress dal 1985, con il contributo di decine di ricercatori storici. Questo grande lavoro collettivo, che si è sviluppato con unità di metodo e di obiettivi, è la base da cui sono state attinte le descrizioni degli effetti sulle costruzioni e sull’ambiente naturale, le risposte istituzionali, approfondendo poi gli aspetti sociali e culturali non contenuti nel CFTI. I dati prodotti dalla comunità scientifica che studia i terremoti sono ora del tutto disponibili per gli ultimi 150 anni, vorrei dire alla portata di tutti, perché gli addetti ai lavori hanno, in un certo senso “aperto i loro cassetti”, elaborando in modo divulgativo migliaia di dati. Inoltre, il CFTI è disponibile in una versione in rete3. Questi dati interpellano i saperi? Quello degli storici e dei sociologi senza dubbio, ma quello degli ingegneri?



I disastri sismici sono ignorati o dimenticati

Che peso hanno avuto i forti terremoti nel nostro paese, dall’unificazione a oggi? I dati pubblicati evidenziano un peso enorme, non solo in vite umane e costi finanziari, per la perdita di beni, immobili e mobili, ma anche per i successivi costi delle ricostruzioni, sempre lunghe e costose (di cui nella pubblicazione a cui faccio riferimento sono riportati i costi ufficiali), ma più spesso non concluse o disattese, che hanno innescato speculazioni, disuguaglianze, instabilità abitativa, spesso anche abbandoni ed emigrazioni. Tutto ciò a fronte di una sismicità che non è tra le più elevate, se confrontata con quella di altri paesi del Mediterraneo. Infatti, in Italia, i terremoti di magnitudo 7 e superiore avvengono raramente, in media uno o due al secolo.
Questa dei disastri sismici è una storia italiana inedita e sconcertante, su cui nessuno aveva finora presentato i conti. Uno strano silenzio o dimenticanza ricopre questo problema: lo ignora la cultura diffusa del paese espressa dai mass-media, lo ignorano gli storici accademici, gli economisti, gli ordini professionali. La catena di terremoti distruttivi non ha avuto flessioni nel tempo, anche se negli ultimi cinquanta anni il benessere, la cultura diffusa e le conoscenze scientifiche sono fortemente aumentati. Nel grafico della fig. 1 sono rappresentati gli epicentri dei terremoti distruttivi degli ultimi 150 anni, dal punto di vista degli effetti valutati; nella fig. 2 sono rappresentate le magnitudo corrispondenti. Come si può vedere, negli ultimi trenta anni, ossia dal terremoto del 1980 dell’Irpinia, mancano magnitudo elevate, ma non mancano invece i disastri: questo dato da solo dovrebbe essere sufficiente per allarmare gli italiani. Ma anche dopo la tragedia dell’Aquila, dell’aprile 2009, su questo tema non si è fatta luce sufficiente, permane una sorta di rassegnazione, un’ombra sui dati e sulle cause dei disastri.



Il terremoto come “collaudatore”

Il rapporto fra l’energia rilasciata da un terremoto e gli effetti in superficie, come è noto, è strettamente legato ai caratteri del mondo abitato, alla qualità, alla tipologia, all’ubicazione, alla forma delle costruzioni, che sono ogni volta messe alla prova da un nuovo terremoto. I vecchi ingegneri del Real Genio Ci-







Fig. 1 - Andamento cronologico dei terremoti dei maremoti, a partire dal grado VII MCS di intensità epicentrale, accaduti in Italia dal 1851 al 2011. In alto i maremoti correlati ai terremoti del 23 febbraio 1887, 8 settembre 1905, 23 ottobre 1907, 28 dicembre 1908 e 30 ottobre 1930.










Fig. 2 - Magnitudo dei terremoti rappresentati nel grafico precedente.


vile definivano il terremoto “il grande collaudatore”, riferito agli edifici, talvolta pochi, che resistevano ai forti terremoti. Il termine, che deriva dal latino collaudare, significa infatti “lodare” e “approvare”. E in un disastro sismico ben pochi edifici si salvano. Collaudare è anche termine tipico del sapere degli ingegneri, riferito a singoli edifici. Possiamo estendere questo concetto, in via ipotetica, allo stato di fatto del patrimonio edilizio di un Paese: potremmo ritenere complessivamente da “lodare” e “approvare” il patrimonio edilizio italiano? Ma c’è bisogno che venga un terremoto per dirci cosa è costruito bene e cosa no?
La fragilità del costruito italiano, come mostrano i risultati della ricerca a cui faccio riferimento, è dovuta a diversi fattori storici, che ne hanno influenzato l’evoluzione, tra cui la povertà diffusa nelle aree rurali e nei piccoli centri abitati, la decadenza delle tecniche edilizie storiche e la vetustà delle numerosissime costruzioni di pregio architettonico, i nostri monumenti, non adeguatamente protetti da questo rischio.
In questi 150 anni, anche due guerre mondiali hanno aggiunto devastazioni, moltiplicando le distruzioni e la precarietà del quadro sociale ed economico. Le ricostruzioni post-belliche, sotto la spinta della necessità di abitare e della de-regolamentazione tipica dei periodi di emergenza, sono state realizzate per lo più in fretta, con scarsi o nulli controlli di qualità, divenendo a loro volta un fattore peggiorativo della risposta sismica dell’edificato in futuri terremoti. Giocano un ruolo importante anche le trascuratezze nell’edificato contemporaneo e la scarsa qualità delle costruzioni pubbliche, sia storiche sia moderne, che invece dovrebbero essere puntigliosamente controllate e messe in sicurezza; ma anche l’ubicazione di costruzioni in siti inadatti, già dissestati da frane, che vengono poi tragicamente riattivate dai terremoti. In questi 150 anni, la società e la cultura – intendendo per cultura un insieme di conoscenze e valori in grado di influire sui comportamenti sociali – italiane non hanno ancora dato una risposta forte, organizzata e condivisa ai terremoti, benché non manchino oggi normative antisismiche adeguate. Applicare scrupolosamente le regole previste dai diversi provvedimenti normativi che si sono susseguiti a partire dal 2003 – all’indomani del crollo della scuola elementare di San Giuliano di Puglia causato da un terremoto tutto sommato “minore” – migliorerà enormemente la situazione nei decenni a venire, ma non risolve tutti i problemi. Infatti le normative riguardano il costruito nuovo e le statistiche ci dicono che il 65% dell’edilizia in uso in Italia è vecchia o storica. La storia “disastrosa” che abbiamo alle spalle e che stiamo vivendo, senza flessioni significative, dovrebbe interpellare la cultura degli ingegneri civili. Le case e il patrimonio edilizio, di cui fruiamo come persone e come cittadini, possono essere un’eredità positiva da trasmettere ai posteri o una tragica ipoteca sul futuro. Oggi si sa – ed è ben noto in tutti i paesi sviluppati a rischio sismico – che l’applicazione delle normative antisismiche è il passo fondamentale per rendere le costruzioni più sicure e che tali norme possono essere concretamente applicate solo quando le persone interessate sono informate adeguatamente del rischio che corrono e sono pronte ad applicare con scrupolo le moderne metodologie di riduzione del rischio anche per l’edilizia già esistente.
La breve finestra temporale aperta sugli ultimi 150 anni è molto limitata per la sismologia storica, abituata a ragionare in termini di molti secoli, o di un millennio, ma sufficiente a mettere in luce il ruolo che i forti terremoti hanno avuto nella storia dell’Italia anche recente. Come realtà geologica e fisica, l’Italia ha da millenni i caratteri sismici attuali, espressione della sua complessa storia geodinamica e della vita stessa della Terra. La pericolosità sismica di un territorio è per definizione “stazionaria”, ossia non varia molto attraverso le migliaia o decine di migliaia di anni: è il rischio sismico – che deriva dalla convoluzione di quella pericolosità con la quantità e il valore di ciò che è esposto sul territorio e con la sua vulnerabilità – a cambiare attraverso le epoche, e anche di molto.
I 150 anni presi in esame (dal 1861 al 2011, con un’attenzione anche al decennio precedente l’Unità), sono gli anni in cui lo stato unitario ha preso forma, dapprima come regno e poi come repubblica. Questi anni, come si è accennato sopra, sono stati scanditi da forti terremoti quasi con la regolarità di un metronomo, in media uno ogni quattro – cinque anni. In aggiunta, ci sono state anche grandi alluvioni e frane: una storia davvero irta di difficoltà e tragedie, viste nel loro insieme.
Oggi è possibile conoscere paese per paese, città per città, quanti e di che tipo siano stati i danni sismici, e come siano distribuiti da nord a sud. È una realtà dispersa e dimenticata, quasi mai consapevolmente presente nella memoria delle persone dei paesi colpiti, se non forse per i più recenti terremoti disastrosi, di cui ci sono ancora testimoni diretti. Ma quali sono le cause di tante rovine, dovute anche a terremoti di bassa energia (5.4-5.6)? A lungo il patrimonio edilizio di paesi e città, soprattutto nel centro e nel sud del paese, è stato caratterizzato da un’edilizia povera, abitata da popolazioni pressate dai bisogni della sopravvivenza, risultato di un’economia agricola arretrata, almeno per i primi cento anni della storia nazionale, un’economia complessivamente in ritardo con i processi di industrializzazione, che già da un secolo erano avviati in Europa. Ci si può chiedere se i disastri sismici avvengono solo per la povertà dei contesti abitati (ossia per ragioni che possono essere definite umane in senso lato) o se ci sia un nesso fra aree sismogenetiche e marginalità geografica delle aree abitate. Vale a dire: perché certe aree del paese che consideriamo sviluppate e floride (come Piemonte, Lombardia, alta Emilia, Veneto centrale) sembrano immuni dai disastri sismici o minimamente coinvolte? La domanda suona un po’ inquietante, e merita un tentativo di risposta, che è stata data nella presentazione dei contenuti del libro4.
I principali terremoti italiani riflettono la dinamica della dorsale appenninica, una catena ancora giovane, per tutta la sua lunghezza, dalla Liguria alla Sicilia; si dispongono quasi esattamente lungo il suo crinale, e colpiscono quindi in netta prevalenza paesi di montagna o di collina. In aggiunta a quest’area sismogenetica principale ci sono aree secondarie, ma non per questo meno pericolose, che includono il margine pedealpino del Veneto e del Friuli, la Liguria occidentale, il Gargano e la Capitanata, la Sicilia orientale e parti della Sicilia occidentale. La sismicità di queste regioni “periferiche” ha un denominatore comune nella spinta esercitata dalla placca litosferica africana nel suo lento moto di deriva verso nord-ovest, ovvero verso la placca euroasiatica. Il complesso mosaico di questi spostamenti – e dei terremoti che ne sono l’inevitabile conseguenza nonché la testimonianza più evidente – lascia tranquille solo poche aree del territorio nazionale: l’intera fascia tirrenica da Genova alla Basilicata, con l’eccezione delle aree vulcaniche tosco-laziali e campane, la porzione occidentale della Pianura Padana, la Sardegna, il Salento, che tuttavia risente di terremoti di origine greca.
Per tornare alla domanda di prima, il fatto che il popoloso e attivo triangolo industriale dell’Italia nord-occidentale ricada nel settore meno sismico della penisola è probabilmente poco più di una coincidenza, frutto di dinamiche storiche debolmente legate alle caratteristiche di quel territorio, che peraltro presenta altre criticità ambientali non meno preoccupanti dei terremoti (si pensi alle ricorrenti alluvioni che flagellano Liguria e Piemonte). Per capire invece come siano andate le cose per alcune grandi città del sud, che sono state distrutte e sono risorte diverse volte nella loro storia (Catania, Messina, Siracusa, Reggio Calabria, ma anche Benevento e Avellino) si può solo pensare che i “vantaggi ambientali” garantiti da certi siti – si pensi allo Stretto di Messina, uno dei luoghi più sismici di tutto il Mediterraneo, e alla sua importante posizione proprio al centro di questo mare – abbiano prevalso sui rischi, a cui gli insediamenti sarebbero stati esposti; un meccanismo di “rimozione” del rischio, a cui forse non è estraneo il fatto che i più forti terremoti del nostro Meridione, che possono raggiungere magnitudo 7, sono anche rari, e tendono quindi a sfuggire alla memoria viva delle popolazioni.
I terremoti più forti hanno dunque colpito quasi sempre aree interne o marginali, caratterizzate da una edilizia realizzata con metodi tradizionali, degradati da basse condizioni economiche, per lo più privi di accorgimenti di difesa dai danni sismici. Per la maggior parte si è trattato di edifici (case, chiese, torri, castelli, palazzi) resi più vulnerabili da mancata manutenzione o malamente ammodernati da interventi non adeguati; un fenomeno che purtroppo ha riguardato anche tempi recentissimi.
In Italia vi è anche un grande patrimonio fotografico sugli effetti sismici a partire dalla metà dell’Ottocento (in parte utilizzato nel libro), da cui emerge in modo impietoso la causa di tanti danni. In queste testimonianze i paesi dopo un terremoto appaiono come cumuli di macerie, di ciottoli sciolti o di cubetti di tufo sparpagliati, le case sono “sbriciolate”, i solai sprofondati, poggianti su travi troppo sottili, o già deformate, o scarsamente ammorsate alle pareti, che a loro volta sopportano a mala pena il peso dei tetti. Ma si vedono anche recenti, improvvidi interventi di cemento armato su murature di sasso non consolidate; ferri non legati, che fuoriescono da malte sciolte e sabbiose, aperture in pareti portanti che quasi raggiungono gli angoli dell’edificio. E poi, per chi lo vuole cogliere, si vede anche lo smarrimento dei sopravvissuti davanti a quelle case disfatte, a strade e piazze divenute stravolte tracce di una vita sociale smarrita o perduta, a volte cancellata per sempre. Quelle macerie indicano precedenti fatiche azzerate e nuove fatiche da sopportare, nella solitudine di paesi spopolati o che si vanno spopolando: anche oggi, nelle aree interne, e proprio nelle zone meno danneggiate da recenti terremoti, molte persone decidono di abbandonare i paesi. Succede soprattutto dove per lesioni o leggeri dissesti o tetti danneggiati non sono previsti sostegni economici pubblici.



Risposte mancate e nuove responsabilità

Costruzione e ricostruzione: è questa una storia che sta sotto alla storia ufficiale del paese, una storia secolare che si è ripetuta così spesso da essere vissuta dalle popolazioni colpite, fino a tempi assai recenti, come una maledizione o una punizione divina, a cui non è possibile sottrarsi se non con l’abbandono e l’emigrazione. Ci sono stati periodi e aree in cui l’accadimento di forti terremoti ha assunto il carattere di una drammatica sequenza di più terremoti ravvicinati, ciascuno con il suo seguito di centinaia di scosse, come nel periodo 1905-1907-1908 per la Calabria; e nel periodo 1916-1917-1918-1919-1920 per l’Appennino toscano e romagnolo e umbro, con un forte terremoto ogni anno. In questo ultimo caso il susseguirsi di cinque eventi distruttivi non lasciarono il tempo della ripresa a popolazioni appena uscite dalla prima guerra mondiale e dunque stremate; quei terremoti divennero un tragico acceleratore di tensioni sociali, esasperando conflitti già in corso per altre ragioni.
Questi dati sui disastri sismici interpellano oggi la cultura degli ingegneri? Ci si deve domandare perché non ci sia stata ancora una risposta vera ai terremoti, diffusa e condivisa, al punto da divenire una cultura nazionale inderogabile, come invece è avvenuto in altri paesi sviluppati a elevata sismicità. Non basta invocare la scarsità di risorse economiche e materiali, che pure ha avuto un peso determinante negli ultimi decenni dell’Ottocento e dopo la crisi della prima guerra mondiale, a partire dal 1915 e fino al 1930 circa. Ma dopo e fino ad oggi, occorre ipotizzare che siano entrati in gioco altri fattori. Se si analizzano i dati storici relativi agli ultimi 50 anni (con una recente controtendenza in alcune aree) colpisce la perseverante miopia nella programmazione del territorio, che richiederebbe invece decenni di stabile progettualità per poter fronteggiare i rischi ambientali (come mostrano anche le ripetute alluvioni, che drammaticamente danneggiano sempre le stesse limitate aree dal nord al sud del paese).
Colpisce anche una reiterata debolezza istituzionale verso l’applicazione di norme di tutela del patrimonio edilizio, sia abitativo sia monumentale (norme, decreti e leggi peraltro prodotti in grande quantità dal legislatore italiano nel tempo): una debolezza che si è manifestata nella mancanza di controlli sulla qualità del costruito, poi messa tragicamente in luce da terremoti anche non forti, ma i cui effetti sono risultati comunque distruttivi. Colpisce che la storia dei disastri sismici di questo ultimo secolo e mezzo mostri, salvo rare eccezioni, come i vari livelli territoriali delle decisioni e dei controlli amministrativi locali si siano mostrati non di rado vincolati e limitati da equilibri e compromessi del tutto estranei al bene pubblico.
La distribuzione dei terremoti nel tempo (compendiata nella fig. 1) mostra che gli ultimi trenta anni sono stati di relativa calma sismica. In ciascuno di questi tre decenni il numero di terremoti che hanno causato danni gravi è stato nettamente inferiore rispetto a quello, ad esempio, dei decenni 1870-1880, 1910-1920, 1970-1980. Il terremoto più forte di quest’ultimo periodo, e purtroppo anche il più luttuoso, è stato quello che ha colpito L’Aquila il 6 aprile 2009 (Mw 6.3, Me 5.8), un evento quasi isolato, a fronte della sequenza impressionante di terremoti di magnitudo superiore a 6.5 che hanno segnato, ad esempio, i primi trenta anni del Novecento. I terremoti ricorrono nelle stesse aree. In altre parole, le aree colpite dai disastri sismici sono quasi sempre le stesse. Questa circostanza può essere vista come una “condanna” per i residenti di quelle zone, ma anche come una opportunità in più da parte delle istituzioni, degli ordini professionali, dei cittadini stessi, per attuare efficaci azioni di prevenzione. Manca ancora in Italia quella sorta di “bollino blu” da mettere alle case per valutare la loro efficacia di protezione nei confronti di chi vi abita.
Se i terremoti sono una manifestazione inevitabile della vita Terra, significa che sempre ci sono stati e sempre ci saranno. Da questo punto di vista non sarebbe sbagliato “ribaltare” sui prossimi 150 anni quello che è già avvenuto dal 1861 ad oggi, e che più o meno era già avvenuto nei secoli precedenti. È una prospettiva forse allarmante, ma che ignorare sarebbe inutile, oltre che irrazionale. L’unico strumento di cui disponiamo perché i prossimi terremoti, che comunque dovranno accadere, non diventino nuovi disastri è la prevenzione, e questa può svilupparsi solo su una base di conoscenza e di responsabilità sia individuali, sia istituzionali. Su questa via il nostro paese deve fare ancora molto. La cultura degli ingegneri, se quest’ottica “storica” fosse assunta come un nuovo elemento in grado di elaborare risposte, può divenire un perno indispensabile per il futuro sociale ed economico del paese.





NOTE
* Relazione presentata al congresso nazionale degli Ingegneri svoltosi a Napoli nell’aprile 2012.
1 E. Guidobomi e G. Valensise, 2011, Il peso economico e sociale dei disastri sismici in Italia negli ultimi 150 anni (1861-2011), Bologna, INGV-Centro EEDIS, Bononia University press, pp. 552.^
2 Si veda per gli obiettivi e il metodo: Terremoti e Storia, numero monografico di «Quaderni Storici», a cura di E. Guidoboni, n. 60, 1985; per un bilancio dal punto di vista del metodo e delle fonti: E. Guidoboni, I forti terremoti in Italia: venti anni di una ricerca storica tematica, «Giornale di Storia Contemporanea», numero monografico, Storia ed eventi naturali estremi in Italia: strategie e risultati di ricerche muldisciplinari, VII, n. 2, dic. 2004, pp. 7-31; per un orientamento manualistico della sismologia storica come neodisciplina: E. Guidoboni e J. Ebel, Earthquakes and Tsunamis in the Past: a Guide to Techniques in Historical Seismology, Cambridge - New York, Cambridge University Press, 2009, pp. 590.^
3 Si veda: E. Guidoboni, G. Ferrari, D. Mariotti, A. Comastri, G. Tarabusi, G. Valensise, (2007-) CFTI4Med, Catalogue of Strong Earthquakes in Italy from 461 BC. to 2000, and in the Mediterranean area, from 760 BC. to 1500, An Advanced Laboratory of Historical Seismology, http://storing.ingv.it/cfti4med/ Il Catalogo dei Forti Terremoti in Italia, nelle sue varie versioni – 1995, 1997, 2000 e 2007 – ha fornito una grande quantità di dati al Catalogo Parametrico dei Terremoti Italiani (CPTI), che utilizza anche altri studi, in particolare per i terremoti minori. Dall’unione dei dati del CPTI con informazioni geologiche e geodinamiche di base è nato il modello di zonazione sismogenetica ZS9 (pubblicata nel 2008 da C. Meletti e coautori su Tectonophysics 450, 85-108), che è alla base della mappa di pericolosità sismica di riferimento per il territorio nazionale recepita nella normativa con la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale n. 108 dell’11 maggio 2006.^
4 Il libro è stato scritto a due mani con Gianluca Valensise, ma questa riflessione è stata elaborata da Valensise, da un punto di vista geologico, e la riprendo per la peculiarità del problema, a cui spesso non viene data risposta.^
  Cosa ne pensi? Invia il tuo commento
 
Realizzazione a cura di: VinSoft di Coopyleft