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Il mare, la città, lo Stato
di Daniele Demarco
Πάντα ῥεῖ: con questo laconico frammento l’antica sapienza greca aveva, per la prima volta, associato l’idea del divenire storico all’immagine di un flusso pericolosamente diretto verso fatali cateratte. La metafora torrenziale esprimeva con icastica verosimiglianza la percezione della massima instabilità in un mondo ancora assorto nel primordiale sforzo di autodefinizione; un mondo sospeso, a rischio della propria stessa esistenza, tra Oriente e Occidente, tra alba e tramonto, tra Essere e non-Essere. Siamo tra l’VIII e il VI secolo a.C. In quest’epoca le carte geografiche non sono che pallide rappresentazioni di una realtà indistinta. «Gli arcipelaghi del “canuto egeo” omerico formano corone di ponti. Le città son porti, passaggi»1 in cui Asia e Europa (continenti di cui nessuno conosce ancora gli esatti confini né se siano, o meno, circondati dal mare) si incontrano «senza la fatica di doversi conoscere»2. Su tutto aleggia confusione e indeterminatezza. Idee lidiche, egizie, babilonesi si mescolano in un indistinto agglomerato. Questo caos indefinito evoca a Nietzsche l’immagine del mare. Un «mare infinito e illimitato»3 in cui lo spirito greco avrebbe rischiato di annegare se il responso del divino Apollo non fosse intervenuto sul suo cammino. «Conosci te stesso» (Γνῶθι σεαυτόν), ammoniva severamente il dio delfico: éducati, cioè, alla misura, «“emàncipati” dall’Illimite»4. In ossequio a questo dettato i greci avrebbero imparato a organizzare il caos5 dentro e fuori di sé rifuggendo da ogni eccesso e concentrandosi soltanto sui bisogni essenziali. È in questo periodo che il pensiero comincia a librarsi al di sopra del mare. La filosofia che, per lungo tempo, si era interrogata e auto-torturata sul problema dell’origine, cercando nell’acqua la fonte primordiale della vita, comincia a distrarre l’attenzione per focalizzarsi su «ciò che dura ed è eterno». In conseguenza di simili evoluzioni, la πόλις cessa di essere un isolato avamposto insulare e diviene Stato consapevole delle proprie possibilità, risoluto alla volontà di dominio ed auto-affermazione. Atene è la prima potenza navale a imporre il proprio giogo al Mediterraneo. Platone, che della talassocrazia ateniese aveva vissuto fasti e rovine sembra nutrire verso il mare un sentimento di rispetto e diffidenza. Nel mare egli vede l’irrinunciabile fonte di prosperità, ma anche l’origine di tutto ciò che si oppone al buon governo. Per questo motivo consiglia di costruire la città a «ottanta stadi»6 di distanza dalla costa. L’eccessiva prossimità alle vie marittime moltiplica, infatti, le opportunità di scambio, ma allo stesso tempo, incide profondamente sui costumi della comunità. La necessità di guadagnare un surplus agricolo da destinare al commercio spinge i coltivatori a riconsiderare il proprio rapporto con il suolo. La terra (iustissima tellus la chiamerà Virgilio) che, sino ad allora, aveva serbato «un’intima proporzione [νóμος] di semina e raccolto»7 deve adesso produrre oltre misura. Nuovi dispositivi di coercizione intervengono a spezzare l’antica armonia tra l’uomo e il creato. L’intera struttura delle campagne si trova a essere trasfigurata in funzione dei traffici marittimi (ciò che, tra XVII e XVIII, sarebbe avvenuto anche in Inghilterra attraverso il fenomeno delle enclosures). L’industriosità dei porti cittadini scuote le campagne. L’esistenza, diventa frenetica e pulsante. Ma dove condurrà, si chiede Platone, questo inquieto scorrere? Nel mito di Atlantide il filosofo ateniese sembra destare l’attenzione sui rischi connessi al progresso. Prima di risucchiarlo nelle sue profondità il mare può infatti donare ricchezze e splendore incomparabile allo Stato che si proietta sulle sue distese. Un destino al quale nemmeno la stessa Atene aveva potuto sottrarsi. Alla fine della trentennale guerra del Peloponneso, scatenata dalla sua incontenibile brama di dominio, della gloriosa flotta del Pireo non rimanevano che dodici navi. Atene aveva perso tutto. Persino la democrazia. Parafrasando una celebre frase di Herman Melville si potrebbe dire che mare e brama di ricchezze sono «sposati per sempre»8: acqua e denaro, i due elementi caratterizzanti della liquidità. Il filosofo Hans Blumenberg scorge dietro lo slancio verso il mare l’avida «visione di guadagni ottenuti con colpi di mano, di un più di quanto è ragionevolmente necessario […] dell’opulenza, del lusso»9. Non è, certo, chi già possiede beni e reputazione, aveva d’altra parte ricordato Joseph de Maistre, ad avvertire l’irresistibile fascino dell’orizzonte. Ma non nobile, non blasonato, il marinaio appartiene, come sostiene Tucidide, a una diversa schiatta d’individui, razza di uomini «rapidi» dice Tucidide. «Rapidi a compiere con l’azione ciò che hanno pensato», «audaci» oltre misura, “risoluti” a grandi gesta, che «ritengono di poter acquistare qualcosa lontani dalla patria, mentre voi temete, andandovene, di perdere anche ciò che possedete»10. All’alba della rivoluzione del 1848 Alexis de Tocqueville usa parole non dissimili per qualificare gli insorti parigini. «Razza turbolenta [corsivo mio] e distruttrice, sempre pronta ad abbattere e inadatta a fondare; […] una massa alla quale tutto è sempre permesso per raggiungere i suoi fini»11. Il contrappunto tra i due storici getta luce su segreto gelosamente custodito dagli abissi: la forza che spinge le navi è la stessa che anima le rivoluzioni. Il mare è l’acceleratore dei grandi mutamenti della storia. In un certo senso esso è la storia intesa come incessante abbattimento di barriere, infinito progresso scientifico, tecnologico e culturale. Lo lascia bene intendere il poeta Orazio che associa l’audacia del marinaio a quella di Prometeo, inventore, secondo i Greci, delle τέχναι. Ma ancor più chiaro è Hegel: «Come per il principio della vita famigliare è condizione la terra – spiega il filosofo tedesco – così per l’industria l’elemento naturale che l’anima verso l’esterno è il mare»12. In effetti sarebbe difficile immaginare le rivoluzioni industriali del XIX secolo se non come scaturigine e conseguenza di quella Carl Schmitt definisce «rivoluzione spaziale planetaria» (Raumrevolution) ovvero, il salto decisivo verso il mare che alcuni popoli compiono, a differenza di altri, con particolare risolutezza e consequenzialità. Uno slancio gravido di conseguenze. «Ogni volta che […] nuove terre e nuovi mari fanno il loro ingresso nell’orizzonte della coscienza collettiva – spiega, infatti, il giurista tedesco – mutano anche gli spazi dell’esistenza storica. Nascono allora nuovi parametri e nuove dimensioni dell’attività storico-politica, nuove scienze, nuovi ordinamenti, una nuova vita di popoli nuovi o rinati. Questo ampliamento può essere talmente profondo e sorprendente da comportare il mutamento non solo delle misure e dei parametri, non solo dell’orizzonte esterno degli uomini, ma anche della struttura e del concetto stesso di spazio»13. Lo slancio dell’umanità verso «magnifiche sorti e progressive» inizia, secondo Schmitt, proprio all’indomani dell’Entankerung, il «disancoramento»14 con cui l’Inghilterra prende, cioè, coscienza di non essere più solo uno scoglio distaccato del continente, ma un organismo dotato di arbitrio e volontà: un pesce, una balena, un grande Leviatano in grado di dislocarsi ovunque e a proprio piacimento. In conseguenza di questa ferma opzione per il mare tutti i parametri e le proporzioni della politica inglese diventano incomparabili con quelli di ogni altro Stato europeo. L’isola ragiona, ormai, «in termini di punti d’appoggio e di linee di comunicazione», mentre il resto del mondo rimane immobile. Lo spazio smette di essere, per lei, il vuoto illimitato e limitante che aveva turbato i pensieri dei filosofi presocratici, la cupa tenebra che circonda il creato nelle visioni dei teologi medievali e diveniva campo aperto alle opere e alla creatività. Nel discorso al parlamento del 12 dicembre del 1826 il ministro Canning rimarca il suo guardare altrove rispetto ai backwards, i continentali. «Io guardo altrove!», dice. «I mezzi per procedere a un bilanciamento li cerco nell’altro emisfero»15. Disraeli rileva, invece, che l’Inghilterra è diventata, ormai, la testa di un impero non più europeo, ma asiatico. Ciò che davvero rende, però, l’isola differente è la consumata capacità di osservare la terra dal mare. Chi acquisisce questa prospettiva ha già abbattuto il πέρας, il limite estremo della terra inviolata. Quando si volge nuovamente alla costa lo fa con la risoluta volontà di abbattere barriere. «Osservare la costa che scivola lungo la nave – scrive Joseph Conrad – è come pensare a un enigma. Eccola lì davanti a voi – sorridente, accigliata, invitante, grandiosa, meschina, insignificante o selvaggia e sempre muta, con l’aria di bisbigliare: vieni a scoprire [corsivo mio]»16. Il capitalismo, in ultima analisi, è proprio questo: spirito di impresa e di conquista, volontà di dominio e di potenza, ma soprattutto, come sosteneva Marx, «l’incessante abbattimento di barriere [corsivo mio] – “dove l’unico presupposto è l’andare di là dal punto di partenza”»17. L’era moderna, l’era del benessere e dello sviluppo è certamente un’epoca oceanica. Di questo sembra già ben consapevole Blaise Pascal che, all’alba della modernità afferma non senza un cenno di sarcastica ironia Vous êtes embarqué. «Noi voghiamo in un vasto mare – scrive il filosofo francese – sospinti da un estremo all’altro, sempre incerti e fluttuanti. Ogni termine al quale pensiamo di ormeggiarci e di fissarci vacilla e ci lascia; e, se lo seguiamo, ci si sottrae, scorre via e fugge in un’eterna fuga. Nulla si ferma per noi. È questo lo stato che ci è naturale e che, tuttavia, è più contrario alle nostre inclinazioni. Noi bruciamo dal desiderio di trovare un assetto stabile e un’ultima base sicura per edificare una torre che si innalzi all’infinito; ma ogni nostro fondamento scricchiola e la terra si apre fino agli abissi»18. Nelle sue parole si avvertono ancora forti accenti eraclitei. E, in effetti, a chiunque osservi oggi, l’esuberante dispiegarsi della vita metropolitana, «con la fisica e la metafisica del suo traffico»19, i suoi motori e aeroplani, non mancherà certo di constatare che qui, più che mai, «tutto scorre». L’immaginario oceanico ha dissolto le strutture chiuse dell’architettura, ha abbattuto le antiche forme urbano-rurali, coartando ogni individuo alla velocità metropolitana. Già per Hussman, scrive Francoise Choay, «l’agglomerato urbano doveva essere trasformato in un efficace strumento di produzione e di consumo». A tal fine la città ha smesso di essere luogo di riflessione, depositaria della memoria collettiva e si è trasformata in «immenso opificio, un’arena per le ambizioni». Dapprima le ferrovie hanno consentito di saltare di città in città bypassando la campagna, poi le autostrade hanno consentito di scavalcare anche la rete urbana. Parallelamente, i confini nazionali si sono fatti sempre più aperti e porosi. Lo spazio è diventato, così, nel suo complesso un’unità omogenea, indistinta, priva di loci mnemotecnici (i luoghi che premono sulla memoria e i sentimenti). «Da quali vincoli municipali – si chiede ancora Choay – sono uniti i due milioni di abitanti che affollano Parigi?»20. Da nessuno. Essi sono divenuti già da tempo, in realtà abitanti, del Mondo, ma un mondo in cui ogni «vero orientamento», ogni «punto fisso» ha smesso di godere «di un unico statuto ontologico: appare e scompare a seconda delle necessità quotidiane». «A dire il vero», spiega Mircea Eliade, questo mondo non è più Mondo, «ma solo frammenti di un universo spezzato, massa amorfa d’una infinità di “luoghi” più o meno neutri dove l’uomo si muove, sospinto dagli obblighi di un’esistenza integrata in una società industriale»21.






NOTE
1 M. Cacciari, Geofilosofia dell’Europa, Milano, Adelphi, 2003, p. 14.^
2 Ibid.^
3 F. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, trad. it., Milano, Adelphi, 2006, p. 95.^
4 M. Cacciari, L’arcipelago, Milano, Adelphi, 2005, p. 30.^
5 F. Nietzsche, op. cit.^
6 Platone, Leggi, IV, 704 b 5. Citato in M. Cacciari, Geofilosofia dell’Europa, cit., p. 58.^
7 C. Schmitt, Il Nomos della Terra, trad. it., Milano, Adelphi, 2006, p. 20.^
8 H. Melville, Moby Dick, trad. it., Milano, Adelphi, 1987, p. 38.^
9 H. Blumenberg, Naufragio con spettatore, trad. it., Bologna, Il Mulino, 1985, p. 28.^
10 Tucidide, I, 70, 2-4. Citato in M. Cacciari, Geofilosofia dell’Europa, cit., p. 53.^
11 Citato in R. Calasso, La rovina di Kasch, Milano, Adelphi, 1994, p. 49.^
12 G.F.W. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, trad. it., Roma-Bari, Laterza, 1987, p. 183.^
13 C. Schmitt, Terra e mare, trad. it., Milano, Adelphi, 2009, pp. 58-59.^
14 Id., Sovranità dello Stato e libertà dei mari, in «Rivista di studi politici internazionali», 8, 1941, p. 86.^
15 Id., Il Nomos della Terra, cit., p. 303.^
16 J. Conrad, Cuore di tenebra, trad. it. Milano, Mondadori, 2000, p. 35.^
17 Citato in R. Calasso, La rovina di Kasch, cit., p. 286.^
18 B. Pascal, Pensieri, trad. it., Milano, Mondadori, 1980, p. 196, n. 223.^
19 E. Jünger, Foglie e pietre, trad. it., Milano, Adelphi, 1997, p. 121.^
20 Citato in J. Rykwert, L’idea di città, trad. it, Milano, Adelphi, 2002, p. 227.^
21 M. Eliade, Il sacro e il profano, trad. it., Torino, Bollati Boringhieri, 2006, p. 21.^
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