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Asterischi
di Giuseppe Galasso
I BILANCI ANNUALI si fanno, ovviamente, a fine di anno. Da un punto di vista psicologico non è, però, del tutto così. Il vero, il più sostanziale bilancio di fine d’anno è quello che, consapevoli o inconsapevoli, esplicitamente o non, tracciamo di questi tempi, quando la stagione del lavoro si interrompe per un po’ di generale vacanza. Ed è per ciò che a inizio di settembre avvertiamo un più vero e proprio inizio dell’anno.
Del resto, in alcuni sistemi medievali di calcolo del tempo l’inizio dell’anno decorreva appunto dal primo settembre. Senza contare poi che, dal punto di vista cristiano l’anno liturgico si apre proprio in questo periodo, col tempo dell’Avvento, per svolgersi poi fino alla Resurrezione e all’Ascensione, e ricominciare in autunno.
Sarebbe, dunque, naturale cogliere il momento per fare il bilancio 2011-2012 sia per l’Italia che per il Mezzogiorno. Ma è significativo che una tale tentazione non pare affacciarsi in nessuno. Si è guardato e si guarda piuttosto al prossimo avvenire che al passato prossimo, mentre il tono delle previsioni è costantemente peggiorato.
Un anno fa si contava su un inizio di ripresa italiana nella seconda metà del 2012. Poi siamo scivolati a prevederlo per la prima, e, infine, per la seconda metà del 2013. Vi si può credere? È difficile dirlo. Tutti i più accreditati giudizi in materia parlano ormai di una recessione italiana più estesa e profonda di quella diagnosticata prima.
Ma a che è dovuto specificamente per l’Italia, a parte i fattori di crisi a livello globale, un tale aggravamento delle previsioni? Abbiamo ormai da dieci mesi un governo che ce la sta mettendo tutta nello sforzo di risanare le finanze del paese e la cui azione è, per questo aspetto, ben riconosciuta anche a livello internazionale: un governo che si giova, fra l’altro, di una maggioranza parlamentare di un’ampiezza insolita e che, proprio per ciò, non si sa fino a quando potrà durare; un governo giustamente molto esaltato già dall’inizio per l’autorevolezza tecnica dei suoi membri. Nelle ultime settimane lo stesso Monti ha alquanto oscillato nella diagnosi delle ragioni per cui egli per primo si dichiara onestamente non del tutto soddisfatto dei risultati che pure vanta di aver conseguito. E bisogna anche dire che se, poi, guardiamo al solo Mezzogiorno, la sua insoddisfazione non può che essere maggiore, nonostante quel che si è fatto e la presenza di un ministro competente e appassionato del problema qual è Barca.
L’ultima tegola con il blocco dell’Ilva di Taranto è, poi, pesantissima, e non solo per le drammatiche conseguenze occupazionali. Questa non è l’Ilva di Bagnoli che bisognò chiudere per l’errato calcolo economico del grande ampliamento che se ne era fatto e per le peggiorate prospettive della siderurgia nazionale, prima ancora che per le sacrosante ragioni ecologiche che allora facemmo valere. Taranto è ancora in buona salute produttiva, e il suo problema economicosociale è di tali dimensioni da costringere – per far valere le indiscutibili ragioni ecologiche anche qui in questione – a pensare solo a soluzioni tecniche graduali, non a chiusure immediate e totali.
Quel che, comunque, si è capito (e Taranto drammaticamente ce lo ricorda) è che il problema dell’Italia e, molto di più, del Mezzogiorno non si risolve coi soli inevitabili e duri strumenti della finanza e del fisco, bensì, soprattutto e innanzitutto, con una politica economica di effettiva e forte ripresa produttiva.
È su questo che il ceto politico e di governo dovrebbe esclusivamente riflettere. Sappiamo bene che la politica, pur con la sua diffusissima cattiva fama, ha nelle sue mani carte essenziali del gioco della crisi. Si discuta, come è necessario, di alleanze, di leggi elettorali e di altro. Ma, al contrario di quanto appare, si tenga lo sguardo concentrato sempre e soprattutto sul punto che abbiamo indicato, per difficili e complesse che ne possano essere le conclusioni da tirarne. Altrimenti, altro che seconda metà del 2013 per tornare a riveder le stelle! E saranno più duri e acerbi dolori per tutti, a cominciare, proprio, dalla politica.


* * *


SI È RIMESSA IN MOTO, dopo una lunga interruzione e varie incertezze, la macchina dei concorsi universitari. Era ora, per i più, e la reazione degli ambienti universitari è stata, perciò, positiva. E, tuttavia, molte sono state le domande poste su più di un aspetto delle procedure ora fissate.
Come si sa, si tratta non più di concorsi a cattedre, ma di formare liste di idonei alla docenza nei vari settori di studio. A coprire le cattedre saranno poi le università sulla base delle liste degli idonei. Si attua così un’innovazione da molti auspicata da tempo per ovviare alle falle e ai vizi del vecchio sistema concorsuale. Sarà un bene? Come sempre, la risposta verrà solo dalla prassi. Nessuno può garantire che i vecchi vizi del precedente sistema centralizzato (familismo, clientelismo, politicismo, particolarismi, personalismi) non si trasferiscano e si sommino agli analoghi vizi da sempre lamentati nelle sedi universitarie ora deputate a scegliere fra gli idonei. E proprio a evitare questo bisognerà, quindi, tendere nella prassi.
Per i concorsi all’idoneità, si è cominciato, ora, dalla scelta dei commissari giudicanti. Molti ritengono ciò inopportuno. Ne può derivare, secondo alcuni, che i candidati si presentino all’idoneità solo dopo e per aver conosciuto le commissioni esaminatrici, con ciò che questo può significare. Sarà forse così, ma non mi pare un argomento dirimente. Come in tanti casi, l’eventualità negativa non dipende tanto da normative e statuizioni quanto dalla mentalità e dai comportamenti del corpo sociale. Se così ci si troverà male, non prendiamocela con la legge, lo Stato o la politica. Prendiamocela con noi stessi.
Più seri problemi si pongono, invece, di certo per i criteri di scelta delle commissioni giudicatrici dei candidati e per le norme ad esse fissate per giudicare dei candidati. I punti controversi sono più d’uno, ma l’attenzione generale si è fissata sulle regole prescritte per valutare le pubblicazioni sia dei candidati a commissario (già, perché risulterà così che vi sono professori non idonei a giudicare dell’idoneità nella propria materia: e che professori sono?), sia quelle dei candidati all’idoneità, a partire dal conto che si fa della sede editoriale in cui si è pubblicato.
Si sa che a tale criterio si sono opposti studiosi e organismi accademici, come l’Accademia dei Lincei e il Consiglio Universitario Nazionale, autorevolissimi. A me stesso accadde di citare in un articolo su questo giornale il parere del tutto negativo espresso al riguardo da una rivista prestigiosa e inappuntabile come le “Annales”. Molti notano pure che il criterio in questione sembra in declino nei paesi da cui è stato dedotto. Alcuni pensano che bisogna distinguere fra pubblicazioni “umanistiche” e pubblicazioni “scientifiche”. Per altri ancora vi sono addirittura motivi giuridici che espongono la normativa e le procedure concorsuali in questione a ricorsi e contestazioni in sede giudiziaria.
Quest’ultimo aspetto è, invero, il più preoccupante per le sorti dei concorsi appena (e, lo ripetiamo, opportunamente) avviati. Non ho la competenza per giudicare, ma ritengo ragionevole che si sollevino addirittura eccezioni di incostituzionalità, e ciò per la limitazione che oggettivamente si fa sia della piena libertà di giudizio dei commissari nella valutazione scientifica dei titoli da esaminare, sia per un’ancora più grave limitazione della libertà, certamente costituzionale, di pubblicare e di editare, per quanto riguarda autori ed editori, senza preoccupazioni di adempimenti che in questo caso si riducono a puri dati statistici parziali, da cui discende una disparità di condizioni fra i concorrenti. Si faccia l’esempio-limite di qualcuno che pubblichi in proprio e a spese proprie un suo lavoro. Per quale ragione giuridicamente valida una tale pubblicazione è da considerare meno valida di qualsiasi altra, se a invalidarla non sono ragioni intrinseche di merito scientifico? E ciò a prescindere dal criterio statistico adottato (una media mediana delle sedi editoriali), ignota ai più, non tecnici, pur essendo una nozione semplice (il punto centrale in una successione di valori disposti in ordine di grandezza: sarà stato ben calcolato? anzi, saranno stati bene scelti e graduati i valori della serie a base del calcolo? anche questo è discusso).
Può darsi che sia tardi per tali preoccupazioni, ma se si potesse aprire qualche ombrello prima di qualche eventuale e magari violenta tempesta, sarebbe ovviamente meglio.



* * *

NON C’È BISOGNO DI TROVARE poetiche le statistiche, né di coltivare per esse una mistica o una religione, o di ritenerle un sacro vangelo, per capire che senza di esse non si può procedere nello studio di nessun fenomeno sociale o nella formulazione di piani e proposte in qualsiasi settore della vita sociale.
Nella continua produzione che se ne fa, molte sono state nelle ultime settimane quelle riguardanti il Sud: diminuzione degli incidenti sul lavoro maggiore che nella media nazionale; la forte riduzione dell’assenteismo che ha riportato Gioia Tauro alle sue migliori prospettive; il maggiore bisogno di microcredito per famiglie e imprese, e così via. Noi ci vorremmo, però, fermare qui sulle previsioni demografiche che per l’Italia ha avanzato il Censis, ossia uno dei più collaudati istituti italiani di ricerca e di studi in materia economica e sociale.
Il dato che più vi risalta è il progressivo invecchiamento della popolazione nazionale, che si concreterebbe, nel 2030, in un milione di giovani in meno. La fascia di età dai 18 ai 34 anni diminuirebbe in questi ventennio del 10% (da 12.000.026 a 10.791.000), e passerebbe dal 20 al 17,4% della popolazione. Anche la fascia da 0 a 14 anni calerebbe dal 14 al 12,9% della popolazione. Invece, quella da 65 a 80 anni passerebbe da 12.216.000 a 16.441.000, aumentando quindi di più di un terzo; e la fascia da 80 anni in su salirebbe da un po’ meno di 2 milioni a quasi 5 milioni e mezzo. Le due fasce più anziane salirebbero così a un po’ più del 35% della popolazione. Di conseguenza, la vita media risulterebbe in aumento di alcuni mesi: fino a 82,2 anni per i maschi e 87,5 anni per le donne, che avranno il primo parto sempre più tardi.
Rispetto ad altri paesi europei, perderemmo terreno verso Francia e Gran Bretagna, la Spagna ci si avvicinerà, e solo sulla Germania dovremmo guadagnare un po’. Prospettiva preoccupante, dunque, non solo per i formidabili problemi di sanità e di assistenza sociale che così si porranno, ma anche per la riduzione di importanza del nostri mercato interno rispetto a quello di tanti altri paesi. Ci si espone così anche a una pressione demografica di varia origine, destinata ad andare molto oltre i livelli che oggi paiono altissimi dell’immigrazione europeo-orientale ed extra-europea. si pensi solo che, come fa rilevare DémoMed, un osservatorio demografico sul Mediterraneo sostenuto dalla Maison des Sciences de l’Homme di Aix-en-Provence, i cui lavori andrebbero seguiti con attenzione, nel solo bacino mediterraneo, con circa 480 milioni di abitanti, gli ultra ottantenni sono oggi circa il 2% della popolazione, e la fascia di età da 65 a 80 anni non arriva al 6%: e, questo, malgrado l’incidenza di paesi come Italia, Francia o Spagna.
E per il Sud? Il Censis calcola che nel 2030 l’Italia avrà più o meno 62 milioni e 130.000 abitanti: il 3,2% in più rispetto ad oggi. Il Sud, però, vedrà la sua popolazione diminuirà del 4,3%, mentre il Centro-Nord aumenterà, grazie all’immigrazione, del 7,1%. Dal Sud si continuerà, comunque, a emigrare, oggi che si vede sottopopolato così come ieri quando appariva sovrappopolato, e solo l’afflusso immigratorio ne mitigherà lo spopolamento.
Una prospettiva poco allegra, dunque, che fa pensare, oltre che a tutti i problemi dell’invecchiamento della popolazione, e alla riduzione del mercato di consumo meridionale, anche a un ulteriore spopolamento delle aree montane e collinari, con ulteriore congestione di fasce litoranee e ristrette aree urbane, e quindi con un peggioramento dell’attuale già irrazionale geografia della popolazione. Sarà difficile evitarlo, e si viene spinti a chiedersi quale possa essere l’avvenire demografico del Sud. Perciò, la politica territoriale ed economico-sociale e la gestione delle sempre più magre risorse a nostra disposizione dovrebbero consigliare molta prudenza e chiarezza, molta avvedutezza e lungimiranza, e anche qualche audacia, di governo; e noi (perdonateci!) non vediamo oggi molto di tutto ciò in giro per l’Italia, e ne vediamo ancora di meno nel Sud, al quale (siamone convinti!) nessuno regalerà nulla.
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