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Cavour e l’ “unità politica” della nazione italiana*
di Piero Craveri
Nel 1795 il deputato francese François Antoine Boissy d’Anglas, membro della commissione per la redazione della Carta dell’anno III, che sarebbe entrata in vigore di lì a poco, notava che «abbiamo alle spalle sei anni che valgono sei secoli»1. Con la Rivoluzione si era capovolto il principio di legittimazione della sovranità, elevati i diritti inalienabili del cittadino a fondamento della comunità e separato l’ordine civile da quello religioso, cancellando così quel paradigma d’ordine che era parso per secoli trascendere la società. Questa anzi prendeva a sua volta a sovrapporsi allo Stato, trascinando in esso i contrasti profondi che nascevano dalla frammentazione della sua unità organica e si costituiva definitivamente come realtà distinta dallo Stato, o meglio ad esso congiunta dall’ordinamento politico costituzionale. Ma per rendere funzionale questo nuovo paradigma sono occorsi più decenni, con un susseguirsi di brusche rotture, in tutti i paesi dell’Europa continentale, a cui, com’è noto, si contrapponeva, con una plurisecolare transizione all’insegna della continuità, la storia costituzionale dell’Inghilterra. Nei sei anni che erano seguiti al 1789 in Francia era stata gloriosamente affermata l’indipendenza della nazione, la circoscrizione militare obbligatoria aveva accompagnato il suffragio, ma si era approdati al regime del terrore giacobino. Il nuovo ordine non poteva dirsi fondato e tardò ad esserlo in tutta l’Europa continentale con vicende diverse. È bene ricordare che la Francia, nel secolo XIX, lasciandosi alle spalle le costituzioni, dal Direttorio a Napoleone, ebbe poi quattro diversi regimi politico-istituzionali e fu attraversata da due sanguinose guerre civili, prima che, nel 1870, si stabilizzassero gli ordinamenti liberal-democratici della III Repubblica.
Per quanto l’Italia sia il paese europeo in cui il lascito della rivoluzione francese e dell’epoca napoleonica è stato più forte e pervasivo, tuttavia la storia del nostro Paese rimase diversa. A partire dal 1848, prima nella Camera subalpina, poi in quella nazionale, è andata consolidandosi una monarchia parlamentare, in cui la rappresentanza, fin dai suoi inizi, fu il centro dell’unità della nazione, sede di formazione del suo indirizzo politico.
Questo esito del Risorgimento è uno dei lasciti più duraturi dell’opera politica del conte di Cavour, quello che potremmo definire come la realizzazione dell’“unità politica” della nazione italiana, che doveva reggere, pur con mutamenti intrinseci rilevanti, fino all’avvento del fascismo, e che va vista, nel processo storico del Risorgimento, anche come premessa pregiudiziale del processo unitario e come principio logicamente distinto dall’unità territoriale e statale, nonché anche presupposto della stessa indipendenza nazionale.
L’indipendenza è un bene senza il quale la società non è libera e padrona del suo destino. È un requisito intrinseco della libertà pubblica, così come lo reclamava Benjamin Constant, all’indomani di Waterloo, per la Francia2. Conseguendolo si pone il problema della trasformazione degli ordinamenti, assieme a quello della stabilità dell’ordine politico ed istituzionale. Quando per il Risorgimento italiano si dice “indipendenza” ed “unità”, occorre intendere che la sostanza di quelle sta nel modello di equilibrio politico e di Stato unitario che si è in fine conseguito3. Altrimenti tantomeno si capisce l’opera di Cavour. Potevano in questo processo conseguirsi modelli diversi?
L’interrogativo rinvia innanzitutto ad un confronto che ha investito una parte della pubblicistica e della storiografia dell’800, quello tra Cavour e Bismarck, recentemente rivisitato da Gian Enrico Rusconi4. Per brevità di analisi mi piace coglierlo nella biografia di Cavour di un grande storico tedesco, Heinrich von Treitschke5. Egli si era proposto di scriverla nel 1865, per proporre l’opera di Cavour, nei suoi presupposti demo-liberali, come modello da perseguire nel processo di unificazione della Germania. Poi nel 1866, sopravvenne la vittoria di Sadowa sull’Austria e la definitiva affermazione del Reich germanico. Così la figura di Bismarck si sovrappose a quella di Cavour. Il libro è testimonianza significativa dell’allineamento del liberalismo tedesco allo Stato autoritario e burocratico germanico. Proponeva tuttavia due modelli contrapposti per il conseguimento dell’unità e dell’indipendenza nazionale, quello liberale di Cavour e quello autoritario di Bismarck. Ponendo un ulteriore problema: la libertà di mercato, attraverso cui allora la Germania si avviava a diventare la nazione industriale più potente d’Europa, era condizione necessaria, ma non sufficiente ai fini di un ordinamento liberal-democratico6.
L’unità politica, nella soluzione fornita da Cavour al Risorgimento, non va intesa dunque come omogeneità, tanto meno come identificazione in uno stesso indirizzo politico, piuttosto come il realizzarsi della convergenza di più parti politiche, tese allo stesso fine dell’indipendenza e dell’unificazione statale, nel medesimo stabile assetto istituzionale, come sede ordinata e duratura della vita politica e dei processi conflittuali e dialettici che essa comporta. In questo senso dunque l’“unità politica” si pone come premessa pregiudiziale del processo unitario, e così del resto necessariamente accade per la stabilizzazione di qualsivoglia equilibrio costituzionale.
Nel caso del compimento del nostro Risorgimento un’altra caratteristica va sottolineata e cioè che esso fu processo principalmente politico, saldamente concepito e guidato da Cavour e non propriamente di natura rivoluzionaria, come invece storicamente si caratterizzò in altri paesi europei l’approdo ad ordinamenti costituzionali liberali e democratici, di cui la Francia offre l’esempio classico con la Grande Rivoluzione, attraverso un lungo e drammatico processo di assestamento dell’equilibrio politico-istituzionale, sulle cui premesse, come si è accennato, sarebbe poi traumaticamente tornata nel corso del secolo XIX. E anche in ciò la soluzione cavouriana differiva da quella alternativa che proponevano i democratici. I due modelli contrapposti, quello cavouriano e quello democratico, costituiscono dunque i due corni di un contrasto profondo che attraverserà negli anni seguenti le due parti del movimento risorgimentale, per concludersi definitivamente con l’incontro di Teano, rimanendo tuttavia a lungo rivendicazione della sinistra democratica del paese e continuando idealmente a formularsi come approdo necessario attraverso una “rivoluzione democratica”.
Verso la metà del sec. XIX, anche in Italia, il tema dell’“unità politica” non poteva prescindere da un’analisi attenta dei mutamenti socio-economici che segnavano, a partire dalla seconda metà del sec. XVIII, prima l’Inghilterra poi l’Europa continentale. La rottura delle vecchie strutture gerarchiche della società, con i vincoli di natura economica che ne derivavano, lo sviluppo crescente del mercato e accanto ad esso la trasformazione dei modi di produzione, determinavano cambiamenti profondi nella composizione della struttura organica delle società stesse di cui occorreva cogliere le nuove coordinate. La concezione nuova della sovranità popolare con cui l’ordine antico era stato rovesciato era basata su l’astrazione che la funzione politica della comunità si basasse sul concorso democratico delle volontà individuali dei suoi componenti. Il giacobinismo aveva portato questo assioma alla sue conseguenze estreme con la legge Le Chapelier, che vietava la costituzione di qualsiasi forma associativa di interessi socio-economici, corollario della concezione monistica della nazione (unico “corpo” collettivo, a fronte del quale stanno solo gli individui uti singuli), presupposto della rappresentanza politica in cui si votava “per testa” (secondo una logica che sarebbe giunta fino al suffragio universale) e delle assemblee parlamentari come centri di irradiazione della volontà generale.
La contraddizione di questo approccio originario fu del resto, com’è noto, il tema centrale delle critiche conservatrici alla rivoluzione, ma non solo di esse. Si può dire che il liberalismo continentale europeo nasce anch’esso su questo specifico terreno ed è riconoscimento implicito del carattere organico della società e del suo mutamento, così da elaborare la distinzione tra società e Stato e fondarla su statuti diversi, quello dei diritti la prima, quello di un esercizio costituzionale della sovranità il secondo. Ed ancora i diritti sono fondamento della libertà e postulano la regolazione costituzionale della sovranità statale come sua garanzia necessaria. Il liberalismo nasce così bifronte, per un verso radicato nella società, dove gli individui esercitano i propri diritti, che lo Stato non deve in alcun modo violare, per altro verso, poiché gli ostacoli a questo esercizio potrebbero venire anche dalla sopravvivenza e resistenza dei rapporti sociali più tradizionali, il liberalismo guarda allo Stato come garante di quegli stessi diritti, attraverso forme di intervento attivo.
Lo storicismo e la scienza economica furono gli strumenti di questo approccio complesso del liberalismo ai problemi del suo tempo; non deve quindi stupire che storici ed economisti fossero allora i suoi mentori principali. Di qui una grande ricchezza di sensibilità, approcci e soluzioni diverse nel pensiero politico, nell’azione sociale ed economica, che ne fanno, fin dalle origini, una famiglia composita protesa su versanti diversi.
Cavour si formò quando questo processo aveva già dato frutti maturi. L’ambiente ginevrino, a lui per più versi familiare, era stato veicolo per assorbire lo spirito del circolo di Coppet, che rimase la base irremovibile del suo liberalismo, come naturale era stata la lettura giovanile di Rousseau, attentamente meditata7. Ma, come mostrano anche i suoi quaderni di appunti e i suoi primi meditati lavori sulla riforma inglese della legge sui poveri e sull’Irlanda8, vaste le sue letture, sia economiche (Smith, Ricardo, Nassau Senior per la scuola classica), sia storiche (Guizot, Thiers, Tocqueville). Maturava da esse un’idea chiara di qual erano i presupposti e le dinamiche del “progresso” della società, che era una delle idee chiave del suo liberalismo, ma anche elementi costitutivi della struttura sociale e dei fattori di mutamento a cui era soggetta. L’inclinazione era quella di una conoscenza economico-sociologica dei contesti in cui queste dinamiche operavano che si giovava, sia delle letture storiche, in cui il mutamento prendeva la forma irreversibile di un nuovo sistema di ordinamento delle istituzioni pubbliche, sia da quelle economiche che attraverso le categorie del salario, del profitto e della rendita, fornivano primarie nuove categorie di classificazione sociale che non sfuggivano a Cavour9.
La lettura della Démocratie en Amérique, uscita proprio nel 1835, l’anno del suo primo viaggio a Parigi10, aveva segnato profondamente la sua riflessione, come mostra una lettera al De la Rive11, con serrati riferimenti sull’inarrestabile marcia della democrazia e dalle sue conseguenze, che sembrano parafrasare l’opera di Tocqueville. Un tema su cui ritorna nel suo Diario, all’indomani di una conversazione svoltasi nella casa londinese di Nassau Senior, durante la quale era stato naturale soffermarsi sull’argomento, e a cui egli aggiungeva l’annotazione sua propria, circa l’anomalia sociale del processo di concentrazione della ricchezza «dans un petit nombre de main»12, che determinava un ulteriore squilibrio sociale che si sovrapponeva all’espansione della democrazia ai fini dell’equilibrio politico. Questo portare l’accento sulle cause economiche che determinavano le divisioni di classe in un società non era, come è stato notato13, un tema propriamente della riflessione di Tocqueville, mentre invece costituirà un riferimento costante dell’analisi di Cavour sulla società a lui contemporanea.
Cavour, in altri termini, sarebbe tornato sulla questione del rapporto tra democrazia e rivoluzione, che a Tocqueville era parso superato dalla stretta connessione tra libertà e democrazia come si manifestava nella società americana, di contro alla quale si poneva il pericolo dell’indistinta omologazione del principio democratico e la rottura del presupposto stesso della libertà. Dalla riflessione di Tocqueville Cavour aveva colto il carattere tendenzialmente irreversibile di questi processi, ma tornava a collocarli nella diversa dinamica propria della società europea con la sua complessa stratificazione sociale e a cercare all’interno di essa i temperamenti e le soluzioni. Si poneva così oltre il tema della «lotta alla tradizione del Terrore»14 che aveva impegnato fino ad allora la riflessione del liberalismo e segnatamente anche quella di Tocqueville, che ancora, nei suoi Souvenir del 1848, non si tratteneva dall’avvertire che «voici la Révolution française qui recommence, car c’est toujours la même»15. E il documento cavouriano più importante ed esplicito di questa nuova coscienza dei termini in cui il problema della rivoluzione si poneva, sta nel questionario ch’egli compilò a Parigi nell’aprile del 1835, sui problemi sociali e politici della capitale francese, con domande precise sullo stato ancora embrionale dello sviluppo industriale e sui problemi sociali che ne derivavano16.
C’è una evoluzione nelle analisi di Cavour su questi temi dall’iniziale approccio che risale al suo primo soggiorno parigino del 1835. Allora maturò una netta ripulsa delle tesi più estreme del repubblicanesimo francese, in cui distingueva sommariamente l’affacciarsi del socialismo utopistico francese. Vedeva quelle tesi e quelle inclinazioni politiche minacciare lo stesso progresso della società a causa di un’indiscriminata tendenza egualitaria e dei confusi approcci collettivistici e statalistici. La polemica aspra di Cavour tradisce un determinato conservatorismo sociale, lo scagliarsi contro gli estremismi rivoluzionari e contro il liberalismo radicaleggiante, i cui protagonisti dipingeva come «trembleurs, conservateurs au fond du coeur, radicaux par peur, nayant ni couleur, ni opinion tanchée»17. Era polemica politica che tuttavia non si volgeva in negazione dei problemi sociali che nascevano dalla povertà di vasti strati sociali e l’impegno a studiarne le cause: lo dimostrano gli studi che Cavour conduceva sul pauperismo18, distinguendo le dinamiche di sussistenza nel mondo agricolo, da quelle delle plebi cittadine e in Inghilterra con l’attenta valutazione di quanto di nuovo i processi di industrializzazione introducevano in questa problematica. Il suo non era un approccio umanitario, come lo si può trovare in Sismondi, o più tardi in John Stuard Mill, ma valutazione realistica della necessità che l’equilibrio sociale non mettesse in discussione quello politico e con ciò la linea di progresso a cui allora tendeva la civiltà europea19.
Più matura sarà l’analisi che ne farà nel ’48, quando i contorni e le differenze della nuove correnti egualitarie e socialiste si faranno più nette. La ripulsa dell’estremismo rivoluzionario è la stessa, ma diversa è la conoscenza e la consapevolezza dei caratteri fondanti il progresso della società e la nozione stessa della sviluppo capitalistico, valutandone bene il diverso grado di espansione nei paesi europei e le diverse dinamiche sociali che metteva in moto. Ciò risulta con evidenza dal raffronto tra la Francia e l’Inghilterra.
Era la Francia a proporre un modello di rivoluzione sociale che rischiava di mettere in discussione il processo di sviluppo economico della società, quale aveva preso a svolgersi dall’età napoleonica nell’Europa continentale, mentre l’Inghilterra era già andata oltre le caratteristiche di una crescente estensione della commercializzazione dei rapporti economici, propri di una incipiente società di mercato, per assumere una forma industriale e un modello nuovo di accumulazione capitalistica.
Cavour si applicò ad una confutazione radicale delle teorie socialiste così come le proponeva l’utopismo di Saint Simon e di Fourier. Distinguendo in esse il problema della distribuzione da quello della produzione della ricchezza non gli sfuggivano neanche gli effetti delle «dottrine, nate nei cupi cervelli di alcuni filosofi della Germania», che agitavano in Europa lo «spettro del comunismo»20. La confutazione era solidamente ancorata ai presupposti dell’economia classica. La ridistribuzione della ricchezza non poteva andare oltre un certo limite, che era quello di rendere possibile l’accumulazione della ricchezza attraverso il risparmio e con esso la funzione primaria della proprietà privata. Il progresso implicava «l’aumento continuo di capitali», quale si era verificato negli ultimi venti anni in Europa ed anche in Italia. Conseguire questo obbiettivo attraverso una soluzione collettivistica portava inevitabilmente alla «violazione dei principi di libertà individuale, investendo la società di un potere senza limiti e riducendo gli individui a far la parte degli automi». Che comunque un siffatto sistema di accumulazione potesse funzionare era tutto da dimostrare, ma poteva prevedersi che essendo «la parte di ciascun individuo minima, la società sarà povera».
Così dicasi per l’altro aspetto toccato dalle teorie socialiste e relativo all’organizzazione del lavoro. Esso rispondeva alla necessità di realizzare il diritto al lavoro, principio che poteva essere assunto come un fine necessario a cui doveva tendere la società, ma non poteva essere raggiunto, affidando allo Stato, in luogo dei privati, l’organizzazione della produzione. Fino a che l’intervento statale riguardava «le opere pubbliche di non difficile esecuzione, o che eccedono le forze dell’industria privata» era plausibile e necessario, ma non era possibile conferire al «potere sociale» la facoltà di «estendersi oltre quei limiti», affidandogli «la direzione delle operazioni ordinarie dell’industria, dell’agricoltura e del commercio, senza cadere in difficoltà infinite, che avrebbero trascinato l’impresa nell’“assurdo”»21.
Sono assunti chiari, che scaturivano da una padronanza sicura dei presupposti dell’economia classica, capace di tradurli in forma elementare per i lettori del Risorgimento e su cui era meritava di indugiare, anche per mettere in luce i caratteri inappuntabili di una polemica “ante litteram” che si sarebbe trascinata poi oltre un secolo. Con ciò Cavour non si nascondeva che il problema della povertà e dell’indigenza nella società di allora non poteva essere più eluso e che occorresse trovare i mezzi adatti ad affrontarlo. Gli strumenti che suggeriva rimanevano tuttavia quelli che aveva analizzato con perseveranza nella gioventù, e cioè quelli della carità legale, e tornava a proporre il modello inglese della New Poor Law, quale era stato previsto con la riforma del 1834, non rilevando gli esiti negativi a cui pure quella legislazione era andata incontro. Tuttavia si mostrava consapevole che la questione operaia poteva mettere in discussione «’esistenza stessa dell’ordine sociale» e che così l’equilibrio sociale diveniva prioritario rispetto a quello politico22.
Quanto all’Inghilterra dava un giudizio diverso, non raccogliendo le suggestioni malthusiane, vedeva nella crescita continua della produttività, congiunta all’ampliarsi del libero scambio, che la riforma delle Corn law aveva assicurato uno sviluppo accelerato dell’occupazione e dei salari23. Constatava la maggiore saldezza del corpo sociale e consapevolezza della classe dirigente politica nel fronteggiare le richieste operaie, come mostra il suo articolo sul cartismo inglese e l’esito delle sue rivendicazioni24.
E su questo tema pregiudiziale dell’ordine pubblico tutti i mezzi andavano dispiegati, perché elemento indispensabile allo sviluppo della vita politica, entro ordinamenti liberal-democratici, e dello stesso progresso socio-economico. Le preoccupazioni maggiori venivano dalla Francia che per una scarsa chiaroveggenza politica nel giugno si era di nuovo trovata sull’orlo della guerra civile, per constatare in fine, innanzi all’esito delle elezioni presidenziali del dicembre 1848 favorevole a Luigi Bonaparte, che «l’ordre social est sauvé en France et par conséquent en Europe»25.
Ci siamo soffermati a lungo su questi aspetti della riflessione di Cavour per sottolineare un punto ulteriore. Questa sua più matura riflessione sul progresso economico e sociale e sull’incidenza negli equilibri politici, lo porta a considerare anche in termini più complessi il canone politico del “juste milleu” che aveva maturato col suo primo soggiorno parigino. Dalla famosa lettera al De la Rive del 1835, molte ulteriori riflessioni si erano aggiunte che ne arricchivano il significato. All’epoca aveva scritto che «quant a moi, je été longtemp indécis au millieu de ces mouvement en sens contraire,…je fini pour me fixer come le pendule dans le juste millieu. Ainsi je vous fais part que je souis un honnête juste-milieu désidderant, souhaitant, travaillant au progress social de toutes ses forces, mais décidè de ne pas l’acheter au prix d’un boulversement gènèral, politique e social»26.
L’espressione “juste-milileux” l’avrebbe poi colta sulla bocca di Guizot e di Thiers nei dibattiti che avrebbe seguito all’Assemblea Nazionale, tema consueto della riflessione dei dottrinari. Ma con il ’48 il problema non era più quello di un normale e stabile stato di cose e di propositi illuminati dalla ragione, da contrapporre, come si esprimeva in un’altra lettera27, all’idea di un necessario “boulversement général”, bensì quello di un nuovo equilibrio politico da conseguire per evitare quest’ultimo e perseguire i fini del progresso sociale e civile. Non ci si poteva più chiudere nella formula, come l’avevano intesa i dottrinari francesi, che si esauriva nella fissazione di un equilibrio parlamentare, esclusivamente funzionale all’azione di governo28. Bisognava promuovere una più larga convergenza sociale e politica e trarne piuttosto un’idea di centralità dell’azione di governo, che si proponeva con più facce a seconda delle circostanze.
Questo mutamento di prospettiva segna anche il suo approccio al problema del nuovo regime costituzionale. All’origine della vicenda statutaria c’è del resto Cavour. Il 7 gennaio del 1848 a Torino, nell’albergo Europa, si riunivano i rappresentanti del liberalismo piemontese con la delegazione genovese, per concordare la petizione da presentare a Carlo Alberto. Genova, la città di Giuseppe Mazzini, in cui l’antico spirito municipale si era trasformato in un diffuso credo democratico, era stata la prima a muoversi29. Chiedeva subito le elezioni municipali e la guardia civica. Cavour, divenuto direttore del quotidiano «il Risorgimento», propose ed ottenne che la principale richiesta fosse quella di una costituzione. Era entrato in quella assemblea con l’etichetta del conservatore. D’un lampo scavalcava l’intero schieramento democratico. Non era solo una mossa tattica dettata dal suo innato talento politico. L’idea di darsi subito una Costituzione, come primo atto necessario di un processo riformatore, si contrapponeva all’idea d’un esito costituente come ultimo approdo d’una parabola rivoluzionaria.
È significativa la difesa che avrebbe svolta subito dopo la proclamazione dello Statuto, dinnanzi alle critiche che venivano mosse a quest’ultimo da parte democratica. Cavour sottolineava come tutti i presupposti di una costituzione liberale vi fossero incardinati, dall’introduzione pervasiva del principio elettivo, esteso, oltre alla Camera legislativa, ai Consigli comunali e provinciali e alla Guardia nazionale, al controllo dell’esecutivo e all’indipendenza della magistratura, che sotto più aspetti le leggi organiche di attuazione avrebbero completato. Difendeva quanto previsto dal suo preambolo come «legge fondamentale ed irrevocabile della monarchia», che intendeva non come ostacolo a modifiche volte a migliorare lo Statuto o ad interpretarlo in senso più liberale, come sarebbe stato il caso del rapporto tra poteri del legislativo e prerogativa regia. Su questo tema cruciale Cavour negava che la prerogativa regia potesse sovrapporsi allo Statuto stesso, affermando che «una nazione non può spogliarsi della facoltà di mutare con mezzi legali le sue leggi politiche. Non può menomamente, in alcun modo, abdicare al potere costituente. Questo, nelle monarchie assolute, è riposto nel sovrano legittimo; nelle monarchie costituzionali il Parlamento, cioè il Re e le Camere, ne sono pienamente investiti».
La sovranità popolare stava dunque alla base dello Statuto del cui esercizio, in conformità ad esso, era garante il sovrano insieme alla Camera elettiva. Ne derivava dunque che «la parola irrevocabile, come è impiegata nel preambolo dello Statuto, è solo applicabile letteralmente ai nuovi grandi principi proclamati da esso, ed al gran fatto di un patto destinato a stringere in modo indissolubile il popolo al Re». E, quanto alle modifiche che si rendessero necessarie allo Statuto per un suo progressivo sviluppo in senso sempre più liberale, soggiungeva che, «se un tale potere sta nel Parlamento da noi dichiarato onnipotente, il Re solo non lo possiede più»30. Era pure un implicito accenno alla formula inglese del «King in Parlament». L’unione di Re e popolo si poneva dunque anche come la garanzia “moderata” di continuità e stabilità dello Statuto, rispetto al rischio di essere travolto da un’estrema deriva democratica, che Cavour vedeva realizzata proprio dal modello costituzionale inglese. Riaffermata così la sovranità popolare, il ruolo del Sovrano rappresentava la garanzia dell’irrevocabilità dello Statuto, in un duplice senso, garanzia della Camera elettiva verso il sovrano e di quest’ultimo verso la stessa Camera elettiva.
Il mantenimento dello Statuto, reso possibile dal proclama di Moncalieri e dal voto conseguente della Camera, faceva della monarchia sabauda il necessario punto di riferimento e, così pure, di larga convergenza del movimento risorgimentale. Con ciò, in realtà, dopo Novara, veniva superata la crisi del neoguelfismo, trovando nella monarchia piemontese quel riferimento che Pio IX non aveva potuto rappresentare nelle vicende del ’48 e che in sede costituzionale Cavour vedeva realizzato nello Statuto, attraverso il «gran fatto di un patto destinato a stringere in modo indissolubile il popolo e il Re»31.
Sono questi i presupposti costituzionali da cui Cavour non defletterà mai e intorno a cui raccoglierà la maggioranza del movimento Risorgimentale, scontrandosi su di essi con la parte democratica e repubblicana. Aveva del resto già constatato come il rapporto tra equilibrio sociale e politico, che nel caso di altri paesi europei aveva impegnato la sua riflessione, in Italia si poneva in termini diversi, con il lucido giudizio che «en Italie une révolution démocratique n’a pas de chances de succès. Pour s’en convaicre, il suffit d’analyser les élements dont se compose le parti favorable aux nouveautés politiques. Ce parti ne rancontra pas de grandes sympathie dans les masses qui, à l’exception de quelques rares population urbane, presque exclusivement dans la classe moyenne et dans une partie de la classe supérieure. Or, l’une a l’autre ont des intérêts très conservateurs à défendre. La proprieté, grâce au ciel, n’est en Italie le privilege exclusive d’aucunne classe. Le même où il existe le débrìs d’une noblesse féodale, celle-ci partage avec le tier-état la propriété Territorialle32.
Agli inizi del movimento neoguelfo Cavour ne aveva così intuito a fondo gli effetti positivi e poteva disegnare un quadro completo di quelli che erano i sentimenti espliciti o latenti della parte moderata. Sottolineava come «il nostro Risorgimento non è, non sarà somigliante alle rivoluzioni inglesi, francesi e spagnole; perché esso ha l’appoggio di un clero sinceramente religioso, schietto amico della libertà; perché non è condannato alla funesta necessità di dover entrare in lotta mortale con nessuna classe cittadina, irreconciliabile nemica dei nuovi sistemi politici». La rivoluzione inglese, nel suo principio, aveva un profondo movente religioso; quella francese era stata non solo «una rivoluzione politica, ma ancora più una rivoluzione sociale», quella spagnola aveva visto ergersi contro la parte liberale un’agguerrita e irriducibile opposizione legata al vecchio ordine sociale. In Italia i presupposti di una rivoluzione sociale, come già osservato, non esistevano, una opposizione legata al vecchio ordine sociale era impossibile, perché le idee di libertà hanno messo radici nel secolo passato, i principi di eguaglianza civile, base degli ordini nuovi, sono stati consacrati nei tempi della dominazione francese e, da oltre trent’anni, noi ci educhiamo alla vita nova, con lo studio assiduo degli eventi che succedono nelle nazioni più inoltrate sulla via della civiltà, col seguitare assidui le grandi lezioni che si bandiscono dalle tribune dell’Inghilterra e della Francia.
Notava ancora che «se il Risorgimento italiano fosse stato, se divenisse mai ostile alla Chiesa, anticristiano, come fu la Rivoluzione francese, in allora l’influenza di quell’ordine ci parrebbe a temere». Non che sottovalutasse le resistenze conservatrici e clericali. Queste riflessioni scritte nel periodo “liberale” del pontificato di Pio IX, risentono probabilmente del clima di allora. Ma il senso profondo di esse era che ormai il dado era tratto ed era difficile tornare indietro e una reazione clericale non poteva riproporsi come ai «tempi del dominio assoluto, per esercitare qualche influenza, possedere qualche impero sull’animo dei governanti», perché «se nel regno delle tenebre le fu dato, mercé oscuri raggiri, costituire una specie di potenza nella nazione, rimarrà impotente e disarmata in faccia alla luce»33. Di qui l’imperativo di distinguere e di non violare il sentimento religioso della nazione, piuttosto di separare le due sfere del civile e del religioso, condizione indispensabile perché non si determinasse una frattura insanabile all’interno del movimento risorgimentale.
È questa anche la constatazione dell’incipiente volgersi del moderatismo cattolico dal neoguelfismo al cattolicesimo liberale e quest’ultimo andava inteso come primato sul piano civile del principio liberale su quello cattolico, separazione intrinseca tra fede individuale, che rimaneva intimamente e devotamente integra, e il sentimento di partecipazione alla vita civile della nazione.
Non si insisterà mai abbastanza su questo punto, perché il fenomeno del cattolicesimo liberale venne a colmare in Italia la frattura profonda operata dalla Controriforma e fu l’esito storico di una “riforma” italiana, anche se sotto specie di una “riforma cattolica” a carattere politico e fondamento liberale, che si imponeva come sviluppo storico dell’evoluzione sociale e culturale, in cui si scioglieva non il vincolo religioso, ma quello, “latu sensu”, temporale con la Santa Sede. E lo scioglimento di quest’ultimo vincolo è appunto uno dei presupposti costitutivi della concezione della nazionalità, come comunità civile e politica autonoma e naturale, che contraddistingue i processi storici in Europa nell’età moderna e che in Italia ha la sua affermazione decisiva solo nel sec. XIX. Per questo inoltre il “cattolicesimo liberale” postula presupposti diversi dal successivo “cattolicesimo democratico”, che nascerà invece sotto il magistero della Chiesa, avendo necessariamente altro fondamento e, pur facendo in larga parte proprio il lascito del cattolicesimo liberale sul piano costituzionale, caratterizzerà un’altra storia, che è anche di rapporti tra la Chiesa e lo Stato su quello sociale e politico34.
Il Risorgimento com’è noto non ebbe motivazioni economiche, ma fu moto di sentimenti nazionali. Tuttavia nel ’48, anche sotto questo aspetto, si era già formata un’opinione pubblica italiana, che non avrebbe più potuto essere governata utilmente coi principi e coi metodi dell’“ancien régime”, non tanto perché gli interessi della società italiana erano stati rivoluzionati, quanto «perché al pubblico era stata insegnata una nuova concezione di quegli interessi»35. Ed anche sotto questo aspetto dell’opinione prevalentemente moderata, il liberalismo di Cavour, integrato al suo libero-scambismo e al suo realistico liberismo, forniva una risposta immediata e rassicurante36.
Il sentimento nazionale dunque fu di per sé un cemento che unificava le diverse componenti del movimento risorgimentale, anche se era diviso sull’esito politico costituzionale da dare al processo unitario. Il ’48 aveva sperimentato almeno due strade per conseguire l’indipendenza nazionale, quella neoguelfa dell’unione degli Stati italiani contro l’Austria37 e quella democratica dell’iniziativa popolare che aveva dato luogo alle due pagine emblematiche delle repubbliche di Roma e di Venezia. Tutte e due erano state sconfitte. L’iniziativa piemontese costituiva l’unica possibile uscita di sicurezza. A ciò si aggiungeva una constatazione: la parola d’ordine del ’48, «l’Italia deve fare da sé», era tanto suggestiva quanto irrealistica. La base volontaristica, propria delle forze democratiche nazionali, non aveva alle spalle un solido riferimento europeo. Perché, se la solidarietà internazionale era stato un afflato, che pur aveva attraversato in Europa le rivoluzioni del ’48, su di esso avevano preso il sopravvento le questioni nazionali in quanto tali.
Rimaneva dunque il Piemonte nella sua realtà statuale di monarchia costituzionale che in questa veste veniva a costituire un punto di riferimento largamente accolto. Questo era anche il veicolo possibile su cui costruire l’unità del movimento risorgimentale. Ma tutto ciò era allo stato potenziale. Bisognava dare corpo a questa ipotesi da tre lati, quello del rafforzamento della Stato costituzionale sabaudo, dell’azione diplomatica e dell’incorporamento dell’intero movimento risorgimentale nell’iniziativa politica piemontese. Ma questo progetto, per sua intrinseca natura, non poteva stagnare in tempi indefiniti. Bisognava fare presto38. Questa fu in effetti l’opera politica del conte di Cavour.
È da questo contesto che nasce il così detto “connubio”, patrocinato da Cavour, l’alleanza con il leader della sinistra moderata, Urbano Rattazzi, creando una maggioranza parlamentare stabile che univa i moderati liberali e una parte dei democratici. Fu la creazione di un partito a intera vocazione nazionale, che mutava la dinamica del Parlamento subalpino, la quale cessava di avere come punto principale di riferimento l’equilibrio politico interno allo Stato sabaudo e configurava l’asse portante sul quale il governo poteva far ruotare la politica di unità nazionale39.
Siamo qui evidentemente in un’altra dimensione politica rispetto al “juste milleux”. Può dirsi che il carattere necessariamente centrista di questo partito parlamentare rompesse la regola aurea del bipartitismo e dell’alternanza di governo, come notarono subito polemicamente nel dibattito parlamentare tra gli altri Cesare Balbo e Pier Dionigi Pinelli40. E questo carattere centrista che così veniva impresso al sistema parlamentare, sarebbe divenuto poi un motivo ricorrente nel giudizio della stessa storiografia41, che vi ha visto il punto di partenza di un tratto distintivo di lungo corso della vita parlamentare e del sistema politico italiano e ha anche individuato in esso le origini del “trasformismo” che seguì, dopo l’unità, la caduta della Destra storica.
Cavour, nella sua fede per le istituzioni inglesi, non era mai stato pedissequo imitatore di quel modello. Aveva dato le sue preferenze ad un Senato elettivo, così come sugli effetti del bipartitismo aveva accennato piuttosto al caso del Belgio in cui la contrapposizione tra cattolici e liberali era stata causa profonda di divisione dell’unità nazionale di quel paese42. Quanto al Parlamento subalpino la realtà non era affatto quella di un bipartitismo puro, ma piuttosto di una crescente frammentazione dei gruppi parlamentari che spingeva Il Risorgimento a vedere, tra l’altro, nel connubio il superamento di una situazione in cui «le minime frazioni dei partiti facevano d’ogni anche leggera gradazione un motivo di separazione ed uno stimolo di reciproche ostilità»43.
L’equilibrio politico del ministero d’Azeglio era determinato da cogenti necessità: c’era da ottemperare agli oneri, anche finanziari, imposti dalla pace con l’Austria; occorreva tener conto che sull’Europa continentale si era ristabilito il principio d’ordine che aveva preceduto il ’48 e su cui anche il conservatorismo clericale di una parte, per quanto minoritaria, del Parlamento subalpino faceva conto, c’era soprattutto da tenere in piedi il compromesso che su ciò era stato stabilito, quello di mantenere integre le garanzie costituzionali dello Statuto e di continuare la strada alle riforme liberali. L’ispirazione del ministero d’Azeglio non può definirsi moderata, ma liberale a tutti gli effetti, pur nella necessità di procedere con moderazione per questi cogenti condizionamenti esterni, che ponevano l’equilibrio politico su di un piano inclinato. E la stessa dialettica parlamentare era vincolata da questo punto. Sono significativi a riguardo i comportamenti della sinistra, dei Brofferio, Valerio, Sineo, assai cauti se non moderati44, nella preoccupazione di mettere a rischio gli equilibri raggiunti sul piano politico-costituzionale.
Col tempo questi motivi andavano attenuandosi, quando sopraggiunse in Francia il colpo di stato del 2 dicembre 1851. Il giudizio di Cavour, come egli avrebbe più tardi rievocato, era stato questo: «da un lato la fazione rivoluzionaria non era più da temere, dall’altro il partito reazionario diventava pericoloso. E fu perciò che io credetti fosse non solo opportuno ma indispensabile di costituire un grande partito liberale, chiamando a farne parte tutte le persone che, quantunque avessero potuto differire sopra questioni secondarie, consentivano però nei grandi principi di progresso e libertà»45. L’avvento del II Impero fu accolto come una garanzia d’ordine in tutta Europa, ma non era però, né poteva essere, un ritorno a quel principio legittimista, ch’era stato fondamento della Santa Alleanza. Era da presumere inoltre che le conclusioni del Congresso di Vienna non rientravano nel modo di sentire e nelle prospettive politiche caldeggiate da Napoleone III e queste cose pure avvertiva Cavour. Del resto la strada del connubio aveva preso le mosse proprio da questo punto. L’Austria aveva fatto un passo diplomatico presso il nuovo Imperatore dei francesi, patrocinando un intervento sul Piemonte perché rinunciasse al suo assetto statutario e la risposta era stata negativa, chiedendo però a Torino un maggior controllo sull’opposizione rivoluzionaria e sulla stampa. Un progetto di legge su questo tema era stato portato dal governo in Parlamento, dove la destra chiedeva più risoluti provvedimenti, mentre la sinistra si opponeva duramente. Cavour intervenne alla Camera con uno dei suoi più importanti discorsi, per lo spirito liberale che lo pervadeva, dichiarandosi contrario ad ogni limitazione della libertà di stampa e lasciando in vita della legge solo il guscio che serviva a cautelarsi da un punto di vista diplomatico46.
Era l’avvio del “connubio”47, per quanto la legge passasse poi non con i voti del “centrosinistra”, ma della destra. Comunque era la fine deliberata dell’ambivalenza che reggeva il ministero d’Azeglio. Era un prendere il largo, facendo uscire l’impostazione liberale dagli equilibri interni della Stato sabaudo per abbracciare la prospettiva dell’indipendenza nazionale. Era anche il definitivo disvelamento della destra subalpina, tra la sua sostanza reazionaria e clericale e le sue preoccupazioni moderate che non volevano mettere in discussione quella che si presentava come inscindibile, l’unione del re con lo Statuto. Ma poteva determinarsi un’altra unione del re con la destra e questa era l’unica ipotesi reale per cui quest’ultima potesse costituire un’effettiva alternativa parlamentare, che altrimenti sul terreno più propriamente politico non si sarebbe potuta configurare. Ed occasioni di questo tipo in effetti si presentarono, «non tanto con la crisi, del maggio 1852, risoltasi con un rimpasto del ministero d’Azeglio, quanto con l’altra crisi dell’autunno successivo, con la manovra che nel gennaio 1855 per poco non condusse alla caduta di Cavour e con la crisi Calabiana dell’aprile maggio dello stesso anno»48.
È piuttosto da questa concreta analisi delle forze politiche in campo, lasciando gli astratti modelli, che bisogna valutare storicamente la possibilità o meno che la logica parlamentare del Parlamento subalpino potesse conformarsi o meno ad una dialettica bipartitica, nonché esprimere un giudizio sulla centralità che assunse la scelta cavouriana del “connubio”. Quando uno schieramento partitico vede in posizione dominante una componente eversiva, non solo rispetto all’indirizzo politico della parte avversa, ma al contesto stesso costituzionale in cui si svolge l’azione politica, non è data la possibilità di un sistema bipartitico e alternativo sul piano del governo, perché l’alternanza investe ragioni costitutive dei fondamenti dell’azione politica che dovrebbero essere generalmente condivisi. Ciò sfuggiva alla logica conservatrice di un Balbo, ma non a Cavour. L’indirizzo politico di quest’ultimo escludeva le estreme, sia a destra, sia a sinistra, poggiando su di uno schieramento centrale, quello del “connubio”, ma flessibile sui due lati, così da conseguire il massimo di unità politica possibile del sistema.
Il cemento di quest’unità era dato da un lato dal contesto costituzionale in cui si svolgeva allora la lotta politica nel Piemonte sabaudo, dall’altro dal programma volto a conquistare l’indipendenza e l’unità italiana. Quest’ultimo motivo di per sé era destinato a raccogliere consensi più ampi per la concretezza della prospettiva politica che veniva costruendo. Come notava Michelangelo Castelli, uno dei più fidati collaboratori di Cavour, «l’unità del fine non escludeva la varietà dei mezzi, come la grandezza di quello non richiedeva ognora egual grandezza in questi; importava solo che fossero possibili e giusti»49.
Quanto alla varietà dei mezzi Cavour mise in pratica tutti quelli che erano possibili, necessariamente non sempre “giusti”50. Quanto al fine dell’unità egli seppe conseguire il risultato più ampio possibile. Dopo il ’48 l’iniziativa mazziniana si era sterilmente consumata, perdendo molto del suo grande credito. Pur con tutti i distinguo necessari la sinistra democratica venne stringendosi sempre più intorno all’iniziativa cavouriana. Dopo Plombiers questa convergenza di propositi raggiunse il suo apice. Ma dopo Villafranca i propositi tornarono a dividersi ed ebbe fine quella proficua fusione dialettica di intenti che Adolfo Omodeo ha identificato nelle figure di Cavour e Mazzini, che nell’acceso contrasto di opinioni e prospettive finivano l’uno per condurre, l’altro per alimentare idealmente in modo decisivo la tensione vitale che avrebbe sorretto il movimento risorgimentale51.
Quando Cavour riprese le redini del governo, con le annessioni seppe fronteggiare, a livello internazionale ed interno, una situazione che non era nel suo originario disegno52. La spedizione dei “mille”, ancor più il passaggio dello stretto e la conquista di Napoli da parte di Garibaldi, configuravano uno scenario, quello della conquista e dell’unificazione del regno meridionale, che non era nei suoi programmi, anzi nell’intimo paventava53. Garibaldi non era Rattazzi e con lui non c’erano né ragioni, né possibilità di “connubio”. Egli aveva un rapporto privilegiato con Vittorio Emanuele a cui rimase fedele. Intese tuttavia giocare questo rapporto contro Cavour e il governo legittimo di Torino. Vittorio Emanuele non poteva a sua volta seguirlo su questa strada54. Anche dopo la battaglia del Volturno Garibaldi non controllava le provincie meridionali che aveva liberato, né probabilmente avrebbe avuto le forze per farlo. I sogni di una marcia su Roma e quindi di una ripresa della guerra con l’Austria erano chimere pericolose. Sotto la sua Dittatura, nel governo provvisorio che aveva istaurato a Napoli, anche se Garibaldi manteneva le distanze con Mazzini che vi era approdato, i propositi di rialzare la bandiera repubblicana della costituente erano all’ordine del giorno55. Cavour sentiva che bisognava fare presto ed impiegò a tal fine ogni mezzo, lecito od illecito che fosse. Non c’erano margini istituzionali e democratici per avviare un confronto su questi temi. Il pericolo era quello di una disgregazione del movimento risorgimentale in un contrasto grave dalle imprevedibili conseguenze che avrebbe potuto mettere in discussione quanto si era raggiunto, in termini di indipendenza ed unità. Più ipotesi di guerra civile si affacciavano ed anche Garibaldi ne era consapevole. Tuttavia l’incontro di Teano continuava a lasciare dietro di sé nuove profonde divisioni che i decenni seguenti avrebbero lentamente riassorbito. E ciò fu possibile per la solidità dell’edificio unitario costruito da Cavour, l’unità politica nella salda cornice dello Statuto e degli ordinamenti del vecchio Stato sabaudo, su cui si chiudeva il sipario del Risorgimento e iniziava la nuova storia dello Stato italiano.
Pur tra profonde contraddizioni56 l’unità politica della nazione, si mantenne salda nel suo lievito etico-politico, quale leva indispensabile di progresso civile ed economico, volta, attraverso il nuovo Stato, ad unificare assieme alle istituzioni politiche e all’ordinamento giuridico, il mercato interno, dando una spinta decisiva alla sua trasformazione attraverso un vasto piano di infrastrutture necessarie alla commercializzazione dei beni della sua produzione prevalentemente agricola, in termini di viabilità, trasporti, strutture creditizie, in un quadro di rapporti con l’estero basati sul libero scambio. I primi vent’anni dell’unità realizzano ampiamente queste premesse. Il progresso è stato lento ma costante, ha gettato anche le basi di quel processo di capitalizzazione da cui, a partire dall’ultimo decennio del secolo, si avrà l’avvio dello sviluppo industriale italiano, superata la cesura degli anni ’80, quella che accompagna la prima grande crisi ciclica del capitalismo internazionale e inaugura la fase protezionista e di chiusura dei mercati interni. Con questa industrializzazione sarebbe mutata morfologicamente la composizione della società, sarebbe nata la questione sociale e con ciò la necessità di configurare altrimenti il rapporto tra le pubbliche istituzioni e la società, problema non risolto dall’Italia liberale nel passaggio del primo dopoguerra, ma che ha segnato il travaglio di tutti i paesi europei nella transizione ad una seconda più compiuta fase della democrazia, quella che denominiamo come la “democrazia dei partiti” e che in Italia si realizza interamente soltanto nel secondo dopoguerra.
Siamo entrati oggi in una fase storica del tutto nuova, determinata da una nuova profonda modificazione nella morfologia delle nostre società, nella formazione del consenso e nel modo di porsi dello stesso agorà civile e politico, che probabilmente postula un’ulteriore nuova fase della democrazia, tutta da definire, come sempre più si preannuncia con segni diversi nella stessa Europa occidentale. Le circostanze mutano profondamente, ma il nodo concettuale, nella sua nomenclatura elementare, rimane sempre lo stesso, non diverso da quello che Boisy d’Anglass aveva presagito all’inizio di questa storia, a cui Cavour, nella vicenda del nostro Risorgimento nazionale, aveva approntato l’iniziale soluzione necessaria.






NOTE
* Debbo alle conversazioni con Stefano De Luca e Lauro Rossi molte suggestioni per la redazione di questo articolo.^
1 Il testo apparve sul «Moniteur», citato da B. Baczko, Come uscire dalla Rivoluzione. Il Termidoro e la Rivoluzione, Milano, Feltrinelli, 1989, p. 285.^
2 B. Constant, Mèmoires apologètique (1815), in Oeuvres complete, Berlin-New York, De Gruyter, 2010, X, I, p. 53.^
3 Vedi le considerazioni di G. Galasso, Esperienza risorgimentale e Stato unitario, in L’Italia nova, IV, Roma, Ed. di Storia e lett., 2011, pp. 68 ss.^
4 G.E. Rusconi, Cavour e Bismarck. Due leader fra liberalismo e cesarismo, Bologna, il Mulino, 2011.^
5 Vedi ora A.M. Voci, La Germania e Cavour. Diplomazia e storia, Roma, Ed. di storia e lett., 2011, pp. 122 sgg.^
6 Vedi questa osservazione in B. Croce, Storia d’Europa nel sec. XIX, Bari, Laterza, 1957, pp. 268 sgg.^
7 F. Ruffini, La giovinezza del conte di Cavour, I, Torino, Fratelli Bocca, 1912, pp. 172sgg. con una lettera significativa di Cavour a J.J. Sellon del 5 giugno 1833.^
8 Vedi Extrait du rapport des commissaires de S.M. Briitannique qui ont execute une enquête generale sur l’adminastration des fonds provenant de la taxe des pauvres en Angleterre, in Tutti gli scritti, a cura di C. Pischedda e G. Talamo, Torino, Centro di Studi Piemontesi, I, 1976,pp. 473sgg. e Considèration sur l’ètat acque de l’Irlande et sur son avenir, ivi., pp. 747-812.^
9 Su questi aspetti l’introduzione di F. Sirugo a Cavour, Scritti di economia. 1835-1850, Milano, Feltrinelli, 1962.^
10 La lettera a Gustavo del 20 marzo 1835, in Epistolario, a cura di G. Pischedda, Firenze, Olschki, 2007, I, pp. 197 sgg.^
11 Epist., I, p. 202.^
12 Diario inedito con note autobiografiche, a cura di D. Berti, Roma, 1888, 28 maggio 1835, p. 186.^
13 R. Romeo, Cavour e il suo tempo, Bari, Laterza, 2012, I, p. 468.^
14 R. Romeo, I, p. 464.^
15 Souvenirs, in Oeuvres completes, XII, Paris, 1964, p. 87.^
16 Vedi R. Romeo, I, pp. 471 sgg.^
17 Cavour a Paul-Émile Maurice, 22 giugno 1842, in Epist., II, p. 314.^
18 Sul pauperismo, in Scritti, II, pp. 423sgg.^
19 Non ci pare esatta la contrapposizione, nell’approccio ai problemi sociali, tra un più avanzato liberalismo di Stuart Mill e una posizione più conservatrice di Cavour, svolta da M.L. Salvadori, Cavour. L’iter di un liberale conservatore, in Liberalismo italiano, Roma, Donzelli, 2001, pp. 18sgg., che non tiene conto dell’approccio realistico di quest’ultimo, con quel suo non perdere mai di vista i parametri delle condizioni necessarie allo sviluppo economico e al connesso equilibrio socio-politico. Il liberalismo di Cavour sta nella sua idea di “progresso” che è saldamente fondata sull’economia classica, progresso economico dunque ed anche progresso “civile” che ha due principali volani, il principio della separazione tra Stato e Chiesa e la riforma della pubblica amministrazione (vedi l’Introduzione e la raccolta di scritti a cura di R. Balzani, Cavour, I due progressi, Roma, Atlantide ed., 1995,.^
20 La rivoluzione di febbraio, 1. Esperimenti politici e riforme sociali, in «Il Risorgimento», 6 marzo 1848, ora in Scritti, III, p.1111.^
21 La produzione della ricchezza. 2. Produzione e distribuzione della ricchezza, in «Il Risorgimento», 11 marzo 1848, ora in Scritti, III, pp. 117-1121 e La rivoluzione di febbraio. 3. L’organizzazione del lavoro, in «Il Risorgimento», 17 marzo 1848, ora in Scritti, III, pp. 1122-1126.^
22 La rivoluzione di febbraio. 3. L’organizzazione del lavoro, in «Il Risorgimento», 17 marzo 1848, ora in Scritti, III, pp. 122-1126.^
23 Su questo punto l’ampia disamina nel saggio De la questione rèlative à la lègislation anglaise sur le commerce de cèrèales, in Scritti, II, pp. 837-894.^
24 Cartismo e libertà politica in Inghilterra, in Il Risorgimento, 17 aprile 1848, ora in Scritti, III, pp. 1175.77.^
25 Cavour a Émile De La Rue, 18 dic. 1848, in Nouvelles lettres inédites, a cura di A. Bert, Torino, 1889, p. 256.^
26 Cavour a Auguste De la Rive, 31 marzo 1835, Epist., I, pp. 201 sgg.^
27 Epist., I, p. 174.^
28 Un “liberalismo di governo” come lo definisce L. Jaume, L’individu effacé ou le paradosse du liberalisme français, Paris, Fayard, 1997, pp. 413 sgg.^
29 La riunione all’Albergo Europa, in Scritti, III, pp. 1033 sgg.^
30 Critiche allo Statuto, in «Il Risorgimento», 10 marzo 1848, ora in Scritti, III, pp. 1112-1116.^
31 Ibid.^
32 Des chenins de fer en Italie, in Scritti, II, p. 952.^
33 Il Risorgimento italiano e la Rivoluzione inglese, francese e spagnola, in «Il Risorgimento», 4 febr. 1848, ora in Scritti, III, pp. 1080-1084.^
34 Sulla discussione su questo punto della storiografia cattolica vedi ora F. Mazzei, La “questione Sturzo” nella nuova storiografia cattolica del secondo dopoguerra, in «Ventunesimo secolo», IX (2012), n. 28, pp. 11-36 e soprattutto F. Traniello, Religione cattolica e Stato nazionale, Bologna, il Mulino, 2007, specialmente da p. 125 a p. 178.^
35 R. Romeo, Economia e liberalismo, in il giudizio storico sul Risorgimento, Acireale, ed. Bonanno, 1987, p. 437, pref. a K.R. Greenefield, Economia e liberalismo nel Risorgimento. Il movimento nazionale in Lombardia dal 1814 al 1848, Bari, Laterza, 1964.^
36 Si veda il saggio di Cavour, Dell’influenza che la nuova politica commerciale inglese deve esercitare sul mondo economico e sull’Italia in particolare, in Scritti, II, pp. 971-1004 e le considerazioni a riguardo di G. Galasso, Il pensiero italiano di Cavour, in Cavour, Autoritratto. Lettere, diarii, scritti, a cura di A. Viarengo, Milano, Rizzoli, 2010, pp. I-XVIII..^
37 Sul rapporto tra neoguelfismo e “partito moderato” si veda S. De Luca, Moderati e moderatismo nell’Italia in cammino verso il Risorgimento, in «Rivista di Politica», n.2, aprile-giugno 2011, pp. 5-14.^
38 Coglie bene questo aspetto dell’azione politica di Cavour, L. Cafagna, Cavour, Bologna, il Mulino, 1999.^
39 Su questo punto il contributo di F. Grassi Orsini, Cavour: la trasformazione del sistema dei partiti e la costruzione del “grande” «Ventunesimo secolo», X (2011), novembre, pp. 43-61.^
40 R. Romeo, III, p. 571.^
41 I lineamenti di questa discussione sempre in R. Romeo, III, pp. 570 sgg.^
42 Del numero dei deputati, in Il Risorgimento, ora in Scritti, III, pp. 1096 sgg.^
43 «Il Risorgimento», 7 febbraio 1852.^
44 R. Romeo, II, pp. 530 sgg.^
45 Discorsi parlamentari, (6 febbraio 1855), Camera dei deputati, 1886, V. p. 442.^
46 Discorsi Parlamentari, III, ivi, pp. 263-287 (5 febbraio 1852).^
47 A. Viarengo, Cavour, Roma, Salerno ed., 2010, pp. 228 sgg.^
48 R. Romeo, III, p. 575.^
49 A. Castelli, Saggi sull’opinione politica moderata in Italia, Torino, Cotta e Pavesio, 1847, p. 23.^
50 Su cui ha insistito Mack Smith per rendere plausibile un’alternativa democratica e costituente alla linea politica di Cavour, Garibaldi e Cavour, Torino, Einaudi, 1958.^
51 A. Omodeo, L’opera politica del conte di Cavour. 1847-1857, prefazione di G. Galasso, Roma, Mursia, 2012, specialmente pp. 410 sgg.^
52 E. Passerin d’Entreves, L’ultima battaglia politica di Cavour, Torino, ILTE, 1956, pp. 102 sgg.^
53 Sulla questione vedi G. Galasso, Cavour e il Mezzogiorno, in Cavour l’Italia, l’Europa, a cura di U. Levra, Bologna, il Mulino, 2011, pp. 167-178.^
54 Viarengo, pp. 438 sgg.^
55 A. Scirocco, Governo e paese nel Mezzogiorno nella crisi dell’unificazione, Milano, Giuffrè, 1963.^
56 G. Galasso, Dal “giacobinismo” alla “democrazia latina”, in L’Italia nova, IV Roma Ed. Storia e Lett., 2011, p. 96.^
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