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Autunno caldo
di G. G.
Tutti ormai prevedono per l’Italia, se si parla di economia o di occupazione e di relazioni sindacali o di clima sociale, un “autunno caldo”, o addirittura “caldissimo”; e, invero, non ci vuole molto a formulare e a giustificare un tale pronostico. L’autunno italiano 2012 promette, però, alte temperature non solo per la vita economica e sociale, ma – e con altrettanto motivabile probabilità – ancor più per la vita politica.
Quanto all’economia, nessuno potrebbe non apprezzare debitamente lo sforzo che il governo Monti ha condotto e conduce per il riequilibrio dei conti pubblici e per l’indispensabile, decisivo rafforzamento della posizione italiana sul mercato finanziario internazionale. Le vie seguite per questa azione definita di risanamento (ma quanto è debole questo termine per indicare il compito e l’obiettivo che ci si è posti!) sono le vie consuete della finanza classica: aumento dell’imposizione fiscale, taglio della spesa pubblica, dismissione (si dice così, ma è soltanto la vendita) di beni pubblici, privatizzazioni di attività già pubbliche, e così via. Di tali vie solo le prime due vie appaiono percorse davvero, e sono quelle che hanno avuto e continuano ad avere i maggiori effetti e ripercussioni nelle condizioni degli italiani e nel gioco della pubblica opinione.
I risultati non hanno, purtroppo, corrisposto all’impegno del governo, al peso che ne è venuto a gravare sul paese e alla portata dello sforzo che si è fatto e si fa. Il debito pubblico ha continuato a crescere e sfiora ormai i 2.000 miliardi di euro, con un andamento che, continuando così, supererà questa mostruosa cifra, al più tardi, nei primi mesi del 2013. La differenza di valutazione tra i titoli del Tesoro italiano e quelli tedeschi ha cominciato a scendere sotto quota 400 solo ai primi di settembre, ma – occorre averlo ben chiaro – non già in virtù dell’azione risanatrice del governo, bensì per l’effetto delle dichiarazioni di Mario Draghi, nella sua qualità di presidente della BCE, sulla possibilità e liceità dell’acquisto di titoli dei paesi europei da parte di quella Banca, nonché, almeno altrettanto, per effetto della risposta positiva data dall’Alta Corte tedesca al quesito di quel governo sulla liceità della sottoscrizione di quote di un particolare importo dei fondi europei cosiddetti “salvastati” (risposta, peraltro, non priva di risvolti problematici, così come la linea del governo tedesco, sui quali converrà ritornare in altra occasione). Solo da ultimo, poi, si è avuta notizia di una diminuzione del fabbisogno mensile: una notizia buonissima, ma anch’essa insufficiente.
La credibilità del Tesoro italiano non ha finora risentito troppo delle difficoltà tra le quali ci si dibatte. I suoi titoli continuano a essere acquistati con larghezza e la domanda continua a essere superiore all’offerta. Il che, beninteso, non è strano. Coloro che investono in titoli italiani sanno di non rischiare gran che, perché la situazione reale del paese dal punto di vista del sistema creditizio pubblico e privato non è più o meno disastrosa di quella di altri paesi, e intanto i sottoscrittori godono di interessi di pregevole consistenza. Non è un caso che l’ultima sottoscrizione di titoli tedeschi abbia incontrato difficoltà tuttora ignote a quelli italiani: lì la posizione di sicurezza è superiore a quella italiana, ma il rendimento è minore. Più di recente, uno studio della Banca d’Italia ha validamente indicato in una soglia intorno a 200 la portata effettiva dello spread fra BTP e Bund, e cioè a metà della quota che fanno registrare i mercati. Però, fino a quando il peso della sfasatura tra accettazione (stabile) dei titoli italiani sul mercato e ammontare (crescente) degli interessi pagati dall’Italia potrà essere sostenuto dalle finanze nazionali, se il debito pubblico e la differenza rispetto ai titoli altrui non prendono a diminuire?
Inoltre, fin dall’inizio, come si sa, il governo Monti ha annunciato che all’azione del rigore si sarebbe accompagnata quella per una ripresa della, da tempo declinante, economia nazionale. Noi stessi, in questa medesima sede, abbiano più volte ripetuto che al modello Monti-Tatcher era assolutamente indispensabile accompagnare il modello Monti-Roosevelt, al rigore lo sviluppo o, come ora si dice, la crescita. Dopo tutto, anzi: prima di tutto, è l’economia il vero problema. In una economia che girasse a pieno regime anche i problemi finanziari avrebbero tutt’altra, ossia un’assai minore consistenza e pericolosità. Né si può credere che il riassestamento finanziario possa davvero essere realizzato e promettere di essere rassicurante e stabile se l’economia, come si è detto, non riprende, a sua volta, davvero ritmo e forza.
Il governo ha ora assicurato di aver già iniziato anche l’azione di spinta alla crescita, ma, per la verità, quello che se ne vede a tutt’oggi è ancora, e molto, meno di ciò che si vede sul piano finanziario. Il PIL continua inesorabilmente a scendere, così come il debito pubblico a salire. La disoccupazione ha raggiunto livelli non toccati da moltissimo tempo e sempre meno socialmente sopportabili. Buoni risultati si conseguono ancora in questo o quel settore dell’esportazione, ma le imprese sono ovunque in difficoltà, ordini e fiducia tendono costantemente al basso, il credito continua a scarseggiare per gli imprenditori e operatori economici, i debiti non chiusi della pubblica amministrazione verso le imprese sono sempre paurosamente ingenti e difficilissimamente esigibili, la concorrenza estera va anch’essa crescendo anche in settori di tradizionale affermazione italiana, e, inoltre, non si può in alcun modo trascurare un altro elemento, di solito poco considerato, e cioè che gli investitori stranieri comprano ormai in Italia di tutto. E non parliamo dell’eterno problema delle sperequazioni territoriali che affiggono il paese, che, in pratica, si ha l’impressione che non si tenti neppure più di affrontare, come tali, né della situazione particolarmente critica di alcune aree del paese.
Questa molto insoddisfacente rispondenza dei risultati conseguiti non solo rispetto ai fini propostisi, ma, soprattutto, rispetto agli sforzi sostenuti dalla cittadinanza e la conseguente generale, innegabile frustrazione dell’opinione pubblica, anzi della coscienza del paese, deriva da una insufficienza di qualsiasi genere del governo Monti? Sarebbe ultroneo e ingeneroso affermarlo, e non perché rilievi critici, anche forti, non si possano muovere al governo, al suo capo e a questo o quel ministro, alla loro linea e alla loro azione. Un tale esercizio critico potrebbe, anzi, essere fin troppo facile. Da ultimo, poi, lo stesso presidente del Consiglio ha egli stesso dichiarato di essere consapevole che l’azione del governo ha aggravato la crisi e ha determinato difficoltà sociali maggiori di quelle che intende curare. Egli ha pure aggiunto che sarebbe stolto pensare possibile un’azione come quella che si conduce senza un iniziale maggiore restringimento (come suol dirsi) della cinghia, ma che solo così si garantisce, poi, una ripresa non solo illusoria o temporanea.
In teoria questo è giusto. La dichiarazione fa, anzi, onore alla lealtà di Monti, né si può negare un fondamento realistico delle sue considerazioni sulla necessità di un lungo impegno sulla strada del risanamento. Nella pratica, e in specie nella prassi politica, le cose non si possono facilmente sistemare con l’enunciazione di questi o altri simili teoremi. Il disagio sociale è talmente in crescita in Italia da far pensare alle eventualità peggiori, e addirittura a un “autunno bollente”. Il governo stesso sembra pensarlo. Certo, non è un caso che abbia deciso di incontrare le parti sociali, invitandole a fare di più per superare la crisi. E su di ciò è stato facile per sindacati e Confindustria rispondere che non è da quanto essi possono fare che dipende, se non in misura limitata, il superamento della crisi. Se, oltre tutto, il disagio sociale diventa dramma sociale, è anche comprensibile che lo spettro delle possibilità di azione sindacale si restringa. Né il governo può, da un lato, rifiutare ogni accenno di concertazione operativa coi sindacati e, dall’altro lato, limitarsi a incontrarli solo per invitarli a una maggiore responsabilità rispetto alla crisi. Bisogna dirne il perché? Inoltre, se il fatale aggravamento della crisi a opera propria, dato dal governo per scontato, in vista di un maggiore e più sicuro successo, è altrettanto fatale una maggiore possibilità che il disagio sociale scivoli nel dramma, allontanando ancora di più la ripresa a cui si mira e che Monti adombra ora per il 2013.
Checché, comunque, sia da pensare al riguardo, resta che il punto non potrebbe mai essere questo. Il punto più vero e più essenziale è che l’eventuale inadeguatezza del governo ai suoi compiti sarebbe pur sempre non più di un’aggravante di fattori di crisi ben più rilevanti e decisivi. Fattori che non si riferiscono solo al determinante quadro della crisi europea e mondiale in cui la crisi italiana si inscrive, bensì, in misura non molto minore, alle tante remore interne di ordine sociale, culturale e politico che si frappongono a ogni azione non diciamo di risanamento, ma, spesso, anche solo di modificazione dello stato delle cose. E la vischiosità della realtà italiana da questo punto di vista certamente non è una constatazione recente: cominciò a essere segnalata fin quasi già dagli inizi dell’Italia unita. Oggi sembra maggiore e più attiva solo perché i problemi odierni premono su di noi con maggiore e più drammatica urgenza.
Al riguardo il governo ha cercato di attuare quelle che, su conforme prescrizione europea, sono indicate come “riforme strutturali”. Con la consueta franchezza, diremo subito che sulla natura e sulla sostanza e, soprattutto, sulla portata “strutturale”di quanto si è fatto sotto questo nome crediamo di poter dire che il più e il veramente “strutturale” è, in rapporto alla realtà italiana, ancora da fare. Crediamo, inoltre, che per fare un più ampio, organico e fruttuoso discorso in questa materia occorra tornare a una normalità politica piena: il che non è esattamente prevedibile quando si possa dare: alla scadenza dell’attuale Legislatura? prima? dopo?
Diciamo “normalità” perché, come ben si sa, l’attuale congiuntura politica è dominata dalla straordinarietà, da tutti riconosciuta, della condizione del paese per effetto della crisi economica e finanziaria, che ha permesso al governo di godere di una maggioranza quanto mai larga e, per di più, nonostante i varii sgarri registrati, eccezionalmente sicura. Si è formata così una molto anomala “grande coalizione”: anomala perché non ha rappresentato lo sbocco di una scelta meditata, ma la rassegnata remissione delle principali forze politiche alla logica della situazione e alla direzione che al problema del governo ha dato nell’autunno scorso il Presidente della Repubblica. E, infatti, la convergenza così attuatasi ha di politico soltanto il riconoscimento della straordinarietà della situazione e delle conseguenti necessità. Per il resto è puramente numerica e non ha alcun nerbo programmatico. Ma come potrebbe una grande operazione riformatrice poggiare su un fondamento attuativo che non veda le forze politiche impegnate in prima linea e con diretta responsabilità e nel pieno esercizio del loro rapporto con la base sociale del paese? Anche i più azzardati politologi o sociologi non potrebbero che pienamente convenire nel facile, ma giustificato scetticismo al riguardo.
Senonché, è proprio il campo delle forze politiche del paese a continuare a costituire un motivo strutturale della crisi italiana in ciò che esso ha di più propriamente nazionale. Basti pensare a ciò che si dice (o, meglio, si dice molto poco) sulle responsabilità nazionali della crisi: la sinistra ne vede responsabile senz’altro, appunto, la destra; quest’ultima ne rovescia il peso sulla demagogia della sinistra nei decennii passati e nel passato prossimo. Basti pensare all’eco incredibile che sortiscono i discorsi del cosiddetto Movimento 5 Stelle, senz’alcun concreto fondamento progettuale, e soltanto velleitariamente e vuotamente eversivi dell’attuale classe politica. O al connesso scontro politicoprofessionale, a base di confronti dei rispettivi compensi (sempre lautissimi), tra Grillo e Benigni, che può apparire un mero episodio folcloristico, e, tuttavia, dice anch’esso qualcosa di non trascurabile sull’attuale congiuntura politica del paese. Oppure al cicaleccio inconcludente, a destra, sulla ricandidatura o non ricandidatura di Berlusconi a suo leader elettorale, improvvisamente rotto, non si sa ancora con quale definitivo effetto, dalle dichiarazioni dello stesso Berlusconi a Bari il 16 settembre. A sinistra, si dibatte, tanto per cambiare, sulle famose “primarie” (di partito? di coalizione? Renzi? Bersani?) e sul gioco (un vero “monopoli”) delle alleanze e dei candidati. Oppure, ancora, al rinnovato – sembra – estremismo della Lega, che l’imprevedibile Maroni candida a costituire prima forza politica del Nord, per i prevedibili fini fanfaronistici della secessione e indipendenza padana, e ora anche di una fantomatica “Europa delle Regioni”. E queste sono soltanto alcune delle perle che occupano l’attuale dibattito politico, mentre l’unico argomento che davvero vi ha un’eco sincera ed effettiva è quella della revisione della legge elettorale, che non a caso è anche l’argomento che fa registrare il massimo di discrepanze e disaccordi in un panorama costellato di discrepanze e disaccordi.
Così, l’avvenire economico del paese sembra presentare una triste certezza di precarietà e di negatività, bilanciata soltanto da (sembra) non infondate speranze di più positivi atteggiamenti e comportamenti da parte dei paesi europei in migliori condizioni e di risultati dei grandi sforzi fatti e in corso, che alla fine non dovrebbero mancare. Il futuro politico prossimo sembra, invece, consegnato a una generale incertezza, imprevedibilità e insicurezza, in una prospettiva piuttosto deprimente e accentuata dall’ormai acceso clima preelettorale e del sopravvenire della scadenza del mandato presidenziale di Napolitano e dai giochi già in corso per la sua successione (si è già affacciata, infatti, la candidatura di Prodi, ma si sa che i candidati in pectore proprio o di questo o di quel politico o gruppo o partito sono molti, senza contare che da più parti si è preso a fare senz’altro il nome di Monti).
Eppure, potrebbe non essere troppo avventato e audace ritenere che proprio la campagna elettorale possa segnare un salto di qualità dei discorsi, del dibattito e dell’attività politica, e portare a recuperare, almeno quanto più largamente possibile, un tono etico-politico di più alto livello, quale da tempo nella vita pubblica italiana manca. Non è che in Italia non vi siano le energie intellettuali e le risorse (per così dire) morali o le competenze e le forze sociali a ciò necessarie. Meno ancora mancherebbero, di certo, le ragioni e i fattori aggreganti in senso positivo e costruttivo, che in tale senso potrebbero convertire le spinte negative e disgreganti finora prevalenti. C’è, è vero, un macroscopico problema di
leadership. E le leadership non si improvvisano, né valgono molto, a questo proposito, gli annunci di “rottamazione” del personale politico attuale (un cui larghissimo rinnovamento sarebbe, comunque, positivo) e di avvento dei “giovani” o presunti tali o tali solo anagraficamente.
Insomma, un grande problema, ma – come si diceva una volta –
hic Rhodus, hic salta, o se si preferisce, that’s the problem. Un paese che non sapesse saltare questo ostacolo e risolvere questo problema, o, quanto meno, avvicinarsi in maniera civile e in misura decisiva a una tale meta, avrebbe da sperare ancora meno di quanto sia dato di sperare all’Italia di oggi. Ed è tutto dire.
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