Rubbettino Editore
Rubbettino
Torna alla Pagina Principale  
Redazione: Fausto Cozzetto, Piero Craveri, Emma Giammattei, Massimo Lo Cicero, Luigi Mascilli Migliorini, Maurizio Torrini
Vai
Guida al sito
Chi siamo
Blog
Storia e dintorni
a cura di Aurelio Musi
Lettere
a cura di Emma Giammattei
Periscopio occidentale
a cura di Eugenio Capozzi
Micro e macro
a cura di Massimo Lo Cicero
Indici
Archivio
Norme Editoriali
Vendite e
abbonamenti
Informazioni e
corrispondenza
Commenti, Osservazioni e Richieste
L'Acropoli
rivista bimestrale


Direttore:
Giuseppe Galasso

Responsabile:
Fulvio Mazza

Redazione:
Fausto Cozzetto
Piero Craveri
Emma Giammattei
Massimo Lo Cicero
Luigi Mascilli Migliorini
Maurizio Torrini

Progetto grafico
del sito:
Fulvio Mazza

Collaboratrice per l'edizione online:
Rosa Ciacco


Registrazione del
Tribunale di Cosenza
n.645 del
22 febbraio 2000

Copyright:
Giuseppe Galasso
 
Cookie Policy
  Sei in Homepage > Anno XIII - n. 4 > Appunti e Note > Pag. 414
 
 
I bilanci del Regno di Napoli e degli Stati Sardi nel confronto risorgimentale di Antonio Scialoja
di Amodio Di Domenico
1. Le riflessioni di Antonio Scialoja sull’economia del Regno napoletano

Nel panorama del Risorgimento italiano, Antonio Scialoja è senz’altro tra le figure meridionali più significative: economista, patriota, uomo politico. Nel 1857, due anni prima della seconda guerra d’indipendenza che avrebbe portato alla scomparsa del Regno di Napoli, Antonio Scialoja1 pubblicò un’opera dal titolo I Bilanci del Regno di Napoli e degli Stati Sardi - Note e confronti2 comparando le finanze napoletane con quelle sarde. Le Note, che tanto irritarono Ferdinando II, non si limitavano a confrontare le entrate con le uscite evidenziate dai bilanci dei due Stati. In questo scritto si denunciava innanzitutto la corruzione dell’amministrazione pubblica e privata a Napoli, la tirannia della polizia e della gendarmeria e soprattutto l’incapacità di Ferdinando II a porre fine al malcostume. Scialoja nell’esaminare le entrate dei due Stati, le paragonava con le spese e le ripartiva secondo i vari rami della pubblica amministrazione. Gli argomenti economici così trattati rivelavano gravi inefficienze e rendevano evidente tutta l’arretratezza della vita economica e politica del Mezzogiorno.
In particolare l’esule napoletano rendeva noto che nel Regno di Napoli i tributi ragguagliati alla popolazione, davano una quota di 21 lire per abitante, mentre nel Piemonte il rapporto era di lire 26,60. In questo modo, risultava di piena evidenza l’alta posizione morale e politica del Piemonte ed il grado di inferiorità in cui era il Regno delle Due Sicilie.
Secondo quanto evidenziava Scialoja, il sistema delle imposte a Napoli era semplicissimo in quanto fondato su tre principi di massima: conservare le imposte antiche, la cui ingiustizia si avvertiva meno o risaliva ad altri governi; preferire quelle che erano pagate da chi meno se ne accorgesse, senza badare al loro peso effettivo, ne alla loro reputazione; infine, lasciare immuni da imposizioni dirette quelle classi di cittadini che erano più lamentose, o che avevano l’abitudine di ragionare.
Quindi, per effetto dell’applicazione di questi principi, si verificava che la fondiaria fosse quasi l’unica imposta diretta che si pagava nel Regno, rendendo il terzo delle entrate dello Stato. Per contro, i dazi di consumo della città di Napoli, le dogane, le privative del tabacco, il sale, le polveri ed il lotto, coprivano quasi per intero gli altri due terzi.
Inoltre, Scialoja nella sua analisi riscontrava che a differenza del bilancio Sardo, quello napoletano non conteneva tutte le entrate lorde dello Stato, di qualunque natura fossero. Infatti, alcune di queste erano escluse, perché venivano riscosse da speciali amministrazioni e, pertanto, non venivano registrate tra le partite di uscita nel bilancio, altre invece erano poste a disposizione dei ministri ed in quanto destinate ad usi determinati, non erano tenute in conto dalla Tesoreria Generale.
Alcuni dei capitoli omessi nel bilancio, costituivano una somma molto considerevole, uno tra tutti riguardava indirettamente la già citata fondiaria. Infatti, le spese di riscossione venivano coperte da una sovraimposta del quattro per cento, il cui provento veniva trattenuto dai percettori e ricevitori a titolo di compenso: di conseguenza, tale somma, non veniva compresa in quelle delle entrate scritte a bilancio.
Altra voce fuori bilancio esaminata da Scialoja, erano le multe che, insieme alle ammende e le spese di giustizia componevano i capitoli del Registro e Bollo. I proventi di tali entrate che, ammontavano a soli 159.000 lire, non venivano versati nella cassa centrale dell’erario, ma rimanevano presso le amministrazioni speciali per essere destinati ad usi prestabiliti.
La terza voce omessa dal bilancio del Regno, era la lotteria, entrata questa che veniva registrata tra quelle del Tesoro di Napoli per lire 5.850.000, contro i 6.300.000 del Piemonte. Da un primo confronto, parrebbe che negli Stati Sardi, la passione del gioco del lotto fosse maggiore che nel Regno di Napoli. La differenza invece derivava dal fatto che, nel bilancio napoletano l’entrata del lotto era già scorporata dell’importo delle vincite e dei biglietti annullati.
In ogni caso, Scialoja, riteneva tale tassa riprovevole, sia per il Regno di Napoli che per quello Sardo, sebbene fosse una tassa volontaria. Tuttavia, l’autore si soffermava in maniera più approfondita su questo gioco a Napoli, dove il popolo era più immaginoso e superstizioso dei sogni e delle divinazioni, anche per la minore istruzione. Per Scialoja, il gioco del lotto era una vero e proprio male per la società, giacché la povera gente pur di tentare la fortuna era capace di fare ricorso al monte di pietà ed anche di vendere addirittura qualche suppellettile per far fronte alla posta in gioco. In realtà l’amore sfrenato per il gioco del lotto e, l’interesse del governo a mantenerlo vivo come mezzo finanziario e politico avevano impedito che nel Regno di Napoli venissero create casse di risparmio o altre associazioni di benefica previdenza individuale.
Pur rilevando che le entrate del lotto erano aumentate anche in Piemonte, Scialoja, attribuiva tale evento ai mutamenti politici ed economici che sollevavano speranze ed emulazioni ingenerate a migliorare la propria condizione sociale anche tra il popolo piemontese3.
L’amministrazione finanziaria del Regno di Napoli nell’ultimo periodo borbonico era regolata da disposizioni che risalivano in parte al Decennio Francese così come recepite dalla legislazione degli anni dell’amalgama, in cui si tentò di evitare il ritorno all’antico Regime. Le attribuzioni del Ministero delle finanze, stabilite con la legge del maggio 1817, riguardavano le proposte ed esecuzione delle leggi sulla istituzione, ripartizione e incasso delle imposte dirette di registro e bollo; dogana; dazi di consumo, diritti riservati, polveri, lotteria e poste, demani, vendita dei beni dello Stato, Tavoliere di Puglia, acque foresta e caccia, Gran libro del debito pubblico; notai, agenti di cambio, sensali di commercio, amministrazione del demanio pubblico, zecca, reggenza del Banco di Napoli; Tesoreria generale con le sue dipendenze, ricevitoria generale e ricevitorie distrettuali e comunali.
Nelle competenze del Ministero delle finanze, rientravano la distribuzione dei fondi ai vari Ministeri, l’autorizzazione dei pagamenti a carico della Tesoreria generale o di qualunque altra amministrazione finanziaria, la formazione dei “bilanci preventivi”, il conto degli introiti e delle uscite di ciascun anno; il controllo di tutte le spese dello Stato.

La Tesoreria generale era così formata:

a) Tesoreria generale dello Stato che soprintendeva alla raccolta di tutte le entrate dello Stato per la parte continentale ed all’incasso delle quote dovute dalla Sicilia. La cassa del Tesoriere era a sua volta suddivisa in Cassa numerario e Cassa portafoglio, dove la prima era rappresentata da una madrefede sul Banco di Napoli, mentre il portafoglio comprendeva le cambiali, le obbligazioni, le dichiarazioni di debito ed altri titoli di credito dello Stato.
b) Scrivania di razione, alla quale era demandato di disporre i pagamenti, sia per le spese dell’amministrazione civile a carico dello Stato, che per quelli di guerra e marina. Tali pagamenti venivano disposti sulle assegnazioni di bilancio attribuiti ai vari Ministeri ed effettuati con polizze del Banco di Napoli;
c) Pagatoria generale che aveva il compito di eseguire i pagamenti delle spese secondo le liberanze dello Scrivano di razione;
d) Controllore generale che in sostanza era il sostituto del Ministro delle finanze per tutto ciò che riguardava le entrate e le pubbliche spese.
L’attribuzione ai singoli Ministeri di una parte delle pubbliche entrate veniva effettuata a mezzo dei bilanci preventivi, che, approvati preventivamente dal Re, costituivano i bilanci preventivi di ciascun Ministero. Negli stati discussi veniva eseguita la tradizionale ripartizione delle spese autorizzate in capitoli e articoli. Tali spese erano impiegate per il personale, che contava circa 400 dipendenti, per il materiale e gli imprevisti4.
Vi era dunque nel Regno un’amministrazione finanziaria moderatamente organizzata sul modello francese di cui Scialoja non rendeva testimonianza, preferendo soffermarsi sul fatto che alcuni di questi istituti richiamavano, nella denominazione e nel funzionamento, istituzioni presenti nello Stato napoletano dei secoli XV-XVIII.
Inoltre, il suo studio relativo ai bilanci preventivi relativi alle entrate del Regno di Napoli per gli anni 1831-1842, si riferiva alle sole province del continente, come emergeva, peraltro dallo stesso titolo dell’opera, che enunciava la volontà dell’autore di non voler tener conto della Sicilia, che aveva amministrazione e bilanci autonomi.
Il re Ferdinando II, profondamente scosso dalle tesi sostenute dall’autore della pubblicazione, per contrastarne le affermazioni, fece «scendere in campo nove campioni delle penne» per lo più, funzionari pubblici, i quali, armati di eccessiva retorica, si limitarono ad accusare Scialoja di malafede, attribuendogli dell’ignorante e ribelle, assalendo, nel contempo, con ingiurie il governo Sardo, ritenuto complice dello scritto. Tra le risposte, quelle che si rivelarono più incisive furono redatte da Agostino Magliani5, ufficiale del Dipartimento al ministero delle finanze, e da Nicola Rocco6, Sostituto Procuratore Generale della Gran Corte Civile.
Magliani nell’opuscolo Della condizione finanziaria del Regno di Napoli, concentrò la sua attenzione soprattutto sulla discussione dei documenti finanziari che a Napoli si denominavano stati discussi. Egli precisò che i bilanci napoletani venivano preparati dal ministro di ogni dicastero, che teneva conto degli elementi essenziali per la spesa dei servizi pubblici. Successivamente, i bilanci venivano esaminati dal Ministro delle Finanze, che aveva il compito di reparare anche il bilancio generale delle entrate del Regno, sottoponendolo infine al controllo del Consiglio dei Ministri e del Consiglio di Stato, presieduto dal Re. Il Magliani sostenne che questa rigida procedura scrupolosamente osservata, era garanzia di certezza finanziaria. Purtroppo, tale procedura, non veniva sufficientemente pubblicizzata. La difesa delle finanze napoletane ad opera del Magliani, si fondava su considerazioni di natura procedurale, tutta interna alla vicenda napoletana. Egli nel suo scritto dimostrò di conoscere in maniera approssimativa la reale condizione delle finanze piemontesi. In altri termini, gli stessi difensori del Re Borbone, non riuscirono a rendere nota la reale situazione delle finanze napoletane in confronto a quelle piemontesi.
Federico Del Re, ad esempio, con la pubblicazione del lavoro dal titolo Analisi dell’Opuscolo “I Bilanci del Regno di Napoli e degli Stati Sardi”, ritenne di aver evidenziato come il vero scopo del testo di Scialoja fosse quello di malignare sugli atti e la condotta del governo di Napoli, accumulando inesattezze. La prima delle critiche che il Del Re rivolse all’opera di Scialoja fu quella riferita alla parte in cui questi scriveva che in Europa, l’unico governo che non pubblicava bilanci e conti era quello napoletano, «mentre sono note le cure che si impiegano da parte dei singoli ministeri, oltre che da quello delle finanze, nella compilazione degli stati discussi. Inoltre, gli stati discussi, una volta approvati non rimangono nei ministeri, ma si comunicano e diramano, senza alcuna riserva, a tutte le officine della Tesoreria, alla Gran Corte dei Conti ed alle amministrazioni; essi, passano continuamente tra le mani di un immenso numero di impiegati ed anche degli ultimi uscieri delle segreterie e delle svariate dipendenze finanziarie e, tutti possono consultarli»7. Considerazione ancora una volta tutta interna alla tradizione amministrativa napoletana e borbonica che ignorava il rilievo della pubblicazione rivolta all’opinione pubblica interna e internazionale, ai fini di una discussione critica e politica degli atti di governo, tipica di una concezione liberale dello Stato che Del Re confondeva con l’inevitabile conoscenza che impiegati e funzionari di un apparato burocratico di uno Stato dell’Antico Regime non potevano non avere delle carte prodotte dal loro Ufficio.
Nello stesso paragrafo delle Note generali e Confronti, il Del Re rilevava un disavanzo più o meno considerevole nei bilanci napoletani, aggiungendo che in esso non si evidenziavano tutte le entrate lorde dello Stato, di qualunque natura, alcune riscosse da speciali amministrazioni ovvero, a disposizione dei ministri ed altre che pervenivano al Tesoro al netto di spese. Sulla questione degli stati discussi Del Re considerava del tutto erronei i ragionamenti e le illazioni contenute nel lavoro di Scialoja, dal momento che gli atti discussi delle entrate e delle uscite del 1857, risultavano essere stati compilati ed approvati, in parte negli ultimi mesi del 1856 e parte nei primi mesi del 1857.
L’opera di Scialoja fu un appello alla rivolta per i notabili del Regno napoletano. Le Note di Scialoja divulgavano un preciso messaggio politico sostenuto da considerazioni di carattere scientifico alle quali i compatrioti borbonici non seppero replicare in modo valido ed utile.



2. La collaborazione con Cavour

Antonio Scialoja nel periodo successivo alla prima guerra d’indipendenza fu al fianco di Cavour e per lui venne reintrodotta la cattedra di economia politica dell’Ateneo torinese8. Scialoja era infatti già noto, sia per le sue opinioni liberali che per i suoi studi economici: nel 1840 aveva pubblicato a Napoli i Principi di economia sociale esposti in ordine ideologico9, libro che seguiva principalmente le teorie di Jean Baptiste Say10. I Principi furono ripubblicati poi a Torino nel 1846. Anche il Trattato elementare di economia sociale (1848)11, composto dopo la chiamata all’Università di Torino nel 1846, aveva carattere accentuatamente didattico, seguiva il modello del Catechismo di economia politica di Say. Dell’economista francese, Scialoja riprendeva la teoria del valore, fondata sull’utilità e la difficoltà di conseguire le cose, la “loi des débouchés”, stando alla quale non era possibile il verificarsi di una crisi globale ma soltanto di crisi parziali, e la convinzione che il meccanismo proposito dell’andamento nel lungo periodo delle quote distributive tra profitti, rendite e salari, permetteva di superare tali crisi. Scialoja seguiva maggiormente Ricardo12, accettando in agricoltura la legge dei rendimenti decrescenti e la tendenza della rendita ad aumentare in seguito all’aumento della popolazione e dei prezzi agricoli. Ricardianamente, riteneva che vi potesse essere una conflittualità tra rendita e profitto, ma non tra profitto e salario. Secondo Scialoja la libertà economica era il principio generale su cui un sistema economico efficiente doveva basarsi: egli immaginava, in assenza di ostacoli, un unico sistema economico a livello mondiale caratterizzato da una forte specializzazione produttiva dei vari paesi nel quale lo scambio assicuri una disponibilità equilibrata e continua di prodotti. A differenza di Ricardo, Scialoja credeva nella capacità del sistema di mercato di mantenere nel tempo una crescita equilibrata. L’intervento pubblico aveva un ruolo limitato ma importante: nei Principi egli distingueva tra interventi dannosi (leggi sul lusso, sull’usura e sull’incoraggiamento demografico), interventi talora opportuni e talora no (sostegno alle industrie nascenti), e interventi necessari (a tutela della concorrenza e della proprietà letteraria). Scialoja resse la cattedra torinese di economia politica per breve tempo, infatti a seguito della rivoluzione napoletana del 1848 lasciò Torino per Napoli, ove l’attendeva la carica di Ministro per l’agricoltura ed il commercio nel governo costituzionale del Troja13. La nomina di Scialoja a ministro nel Gabinetto Troya venne molto festeggiata a Torino, poiché tale nomina voleva dire che il Governo Costituzionale di Napoli avrebbe aiutato la causa nazionale e partecipato alla guerra di indipendenza. In effetti, il Ministero Troya ebbe nobili e patriottici concetti a guida della sua politica, ovvero, indurre Ferdinando di Borbone ad abbracciare la causa nazionale, partecipando alla guerra contro l’Austria, svincolando il Governo di Napoli, dalla politica austriaca italianizzandolo nella sostanza e nella forma. Queste speranze furono presto deluse dal tradimento del Borbone alla causa Costituzionale. Nella notte del 26 settembre del 1849, Antonio Scialoja, già ministro e deputato del ministero Troya, venne catturato e chiuso nel carcere di Santa Maria Apparente in Napoli, dove erano già detenuti altri deputati che avevano sostenuto il governo costituzionale.
Scialoja tornò a Torino alla fine del 1852, esule, dopo anni di carcere a seguito della pesante reazione borbonica e con regio decreto fu confermato professore onorario di economia politica dell’Università di Torino, riconoscimento simbolico perché non remunerativo. Tenne per un biennio l’incarico di economia e diritto commerciale presso la Camera d’agricoltura e commercio, per poi essere assorbito, fin dal 1853, dagli impegni col Ministero delle Finanze, dove fu uno dei più stretti collaboratori di Camillo Cavour, e uno degli artefici della politica economico-finanziaria sabauda, fino al 1860, quando tornò a Napoli incaricato nella Luogotenenza del governo provvisorio delle finanze, per poi ricoprire incarichi di ministro delle finanze e della pubblica istruzione nell’Italia unita.
In questi anni piemontesi, Antonio Scialoja si confermò altresì, a tutti gli effetti, esponente di quella scuola giuridica napoletana cui appartenevano i compagni d’esilio Pasquale Stanislao Mancini, Giuseppe Pisanelli, compilatori, unitamente a Scialoja, del Commentario del codice di procedura civile per gli Stati sardi con la comparazione degli altri Codici italiani e delle principali legislazioni straniere. Questo Commentario non fu opera d’occasione o di speculazione libraria, ma un lavoro serio di diritto applicato e comparato. Infatti, gli autori dell’opera non si occuparono solo delle leggi dello Stato sardo, ma anche della legislazione e della giurisprudenza degli altri Stati italiani, ponendo in evidenza le differenze sia in ordine ai principi razionali del diritto, temperati dalle varie condizioni dei tempi e dei luoghi, quanto ai motivi che avevano contribuito a determinare quelle leggi. Le ragioni delle disposizioni legislative, trovarono il loro riscontro nel senso e nell’ampiezza del dettato, da ciò ne derivò l’esposizione interpretativa di ciascun articolo della legge. Questo lavoro di commento, concordato con la teoria e con la storia di ciascuna materia, diede una mano ad un altro lavoro più importante, la critica dei difetti incontrati nel Codice e l’indicazione delle disposizione che era necessario correggere o migliorare. Lo studio fu esteso ai codici ed alla giurisprudenza degli altri Stati italiani con il preciso intento di preparare quella uniformità di diritto che doveva formare in seguito il più saldo vincolo dell’unità nazionale. Il Commentario del codice di procedura civile per gli Stadi Sardi14 fu anche l’opera di tre esuli napoletani che sospiravano la terra natia e desideravano liberarla da un Governo considerato abbietto. Di qui l’attenzione per le sentenze dei magistrati di Napoli, per la giurisprudenza dei tribunali delle Due Sicilie, tanto più che in quel Regno l’applicazione dei nuovi Codici, era cominciata nel 1809, ossia nel periodo napoleonico, pertanto la codificazione aveva conseguito una più ampia esplicazione nei principi e nella dottrina15. In Italia, sino ad allora mai erano state svolti e approfonditi studi processuali civilistici con più corredo di dottrine giuridiche e di nozioni filosofiche e storiche. Mai, si era scritto con tanta forza di logica del processo civile, delle sue più naturali partizioni e della razionale distribuzione dei suoi elementi costitutivi. In quest’opera il compito affidato ad Antonio Scialoja riguardò la parte del procedimento davanti ai giudici di mandamento, il trattato sulle azioni possessorie, e l’intero trattato dell’esecuzione dei giudicati.
La storiografia non ha poi indagato approfonditamente l’opera svolta da Scialoja durante l’esilio in Piemonte quale collaboratore di Cavour per attuare lo svecchiamento della legislazione subalpina. In realtà, nel corso dei sei anni di permanenza in Piemonte, la principale attività dell’economista fu quella di redigere, su commissione di Cavour, numerosi progetti di legge da porre in discussione nelle aule del Parlamento subalpino, di fornire pareri su svariate questioni in materia finanziaria e giuridica. Di particolare rilievo fu l’opera dello Scialoja, in occasione della presentazione in Parlamento dei progetti di legge sulle privative industriali, sui marchi e segni distintivi d’industria, sull’abolizione delle piazze privilegiate e l’istituzione della cassa di rendita vitalizia per la vecchiaia.
La legge Scialoja sulle privative industriali, decretò “la fine dei privilegi”, instaurando una procedura assai più semplificata rispetto alla precedente normativa, che riconosceva all’Accademia delle Scienze di Torino ampio potere di controllo preventivo. Questa legge, che fu estesa nel 1859 alla Lombardia ed in seguito al resto del Regno d’Italia, influenzò in modo decisivo quasi ottanta anni di progresso economico italiano, essendo sostanzialmente rimasta in vigore fino al 1940, seppur con alcune modifiche16.



3. Scialoja, ministro delle Finanze dello Stato unitario

Gli anni piemontesi dimostrarono che Scialoja, aveva una specifica preparazione e competenza politica. Le sue riflessioni sui bilanci non erano quindi, strettamente legati all’esame esclusivo dei dati numerici ma maturavano in un contesto più ampio di valutazione economica e politica. Questa più ampia visione fu evidente nella serie di iniziative messe in atto a seguito della crisi finanziaria, quando il corso del consolidamento italiano alla Borsa di Parigi subì un ribasso considerevole. In quell’occasione il ministro delle Finanze Antonio Scialoja proclamò con abile iniziativa il corso forzoso, ossia l’inconvertibilità in oro ed argento della moneta circolante. La Banca Nazionale fu obbligata a fornire al Tesoro un mutuo di 250 milioni di lire, al tasso agevolato dell’1,5% in cambio del riconoscimento del corso forzoso per biglietti emessi dalla banca stessa, con l’emissione di un prestito redimibile forzoso. La banca a fronte dei prestiti concessi allo Stato fu esonerata dall’obbligo di convertire in moneta metallica i biglietti che venivano ad assumere la veste di una sorta di prestito forzoso senza interessi e, entro dei limiti massimi fissati dalla legge, poteva stampare banconote senza aver l’onere di dover far fronte alla conversione in oro. I cittadini erano furono così esposti ai rischi di svalutazione, perché l’aumento del circolante senza una corrispondente incremento di beni reali porta alla perdita del “potere di acquisto”. Tra il corso della moneta metallica e quella delle banconote si creò subito una differenza, chiamata aggio, che raggiunse anche valori consistenti. Il corso forzoso a favore di istituti bancari di diritto privato favoriva gli interessi particolari dei ceti industriali, commerciali, agrari, in quanto determinò un incremento del credito17.
In pratica il deficit statale venne finanziato emettendo moneta in misura superiore alle riserve di metallo prezioso possedute dall’istituto bancario senza con questo procedere alla svalutazione della moneta.
La guerra con l’Austria, poi aggravò la situazione e Scialoja fu costretto ad imporre ai contribuenti un nuovo prestito forzoso. Il Governo emise con decreto luogotenenziale del luglio 1866, un prestito redimibile di 350 milioni e lo collocò presso i contribuenti delle imposte sulla ricchezza mobile, sui fabbricati e sui fondi rustici. In altri termini, questa volta il prestito gravò direttamente sui contribuenti attraverso le imposte dirette. Il decreto ripartì il totale del prestito tra le province, fra i comuni o consorzi di comuni18. In effetti, Scialoja in qualità di ministro delle finanze, si dedicò alla elaborazione di un nuovo piano finanziario per l’esercizio 1866, che si preannunciava con un disavanzo di 266 milioni. Poiché la situazione non accennava a migliorare nel futuro, Scialoja ripose le sue attenzioni in primo luogo all’imposizione diretta proponendo l’istituzione di una grande imposta generale sul reddito e il riscatto dell’imposta fondiaria. Il 27 gennaio del 1866, chiese alla Camera dei deputati, nuove economie in maniera stabile, per ricercare, e quindi aprire nuove fonti di entrata in maniera definitiva. Pertanto, non ci si doveva limitare a introdurre nuovi tributi, ma piuttosto riformare quelli esistenti, distribuendoli più equamente in modo da ottenere un maggior rendimento. In definitiva Scialoja proponeva una profonda riforma dell’imposizione diretta, spinto dalla natura contraddittoria dell’imposta fondiaria19, che presentava due difetti di fondo, la sua sperequazione, poiché non si potevano chiedere un maggiore gettito senza costringere in condizioni disastrose alcuni proprietari e le modalità di accertamento, in parte mediante il catasto, e in parte con accertamento della rendita. Il piano finanziario di Scialoja riguardava anche il rapporto tra la finanza locale e quella statale, privando i comuni della assazione sulle farine, cereali e grassi, nonché della facoltà di sovrimporre la nuova imposta sull’entrata, limitando altresì la sovra imposizione dell’imposta fondiaria. Di contro, veniva concesso ai comuni la facoltà di istituire una tassa di licenza sull’esercizio delle professioni, arti industrie e commerci, nonché tributi diretti indiziari sulle porte e finestre, sul valore locativo, sulle vetture di lusso, i domestici maschi e sugli stemmi. Per le province, il piano di Scialoja prevedeva la soppressione totale della facoltà di imporre tributi, disponendo che al loro fabbisogno avrebbero dovuto provvedere i comuni mediante contributi obbligatori. Così determinato, il piano finanziario di Scialoja avrebbe dovuto condurre al pareggio dei bilanci nello spazio di 10-12 anni. Inoltre, per il riassetto finanziario, Scialoja si affidava, fra l’altro, ad una grande operazione di liquidazione dei beni ecclesiastici, il cui asse venne valutato in 1.800 milioni, dell’alienazione dei beni si sarebbero dovuti occupare i vescovi che, avrebbero dovuto versare allo Stato la somma di 600 milioni, in rate semestrali di 50 milioni. Nei successivi dieci anni, i vescovi avrebbero dovuto convertire i beni mobili i rimanenti beni immobili dell’asse ecclesiastico, facendo ricadere gli oneri del fondo per il culto a carico delle diocesi.
Tuttavia, il disegno di legge sulla liquidazione dell’asse ecclesiastico incontrò una quasi unanime contrarietà per le norme intese a disciplinare, i rapporti tra lo Stato e la Chiesa e non di meno che per quelle patrimoniali, poiché si considerava eccessivamente oneroso il contratto con la compagnia bancaria straniera (Langrand-Dumonceau) che avrebbe agito da esattore nei confronti dei vescovi, versando allo Stato le semestralità alle scadenze, a fronte di un compenso di 9 milioni20.
L’opposizione del Parlamento indusse il Ricasoli a chiederne al Re lo scioglimento. Sciolto il Parlamento, il 13 febbraio del 1867, Scialoja prima ancora della riunione della nuova Camera, ritenendo di non godere più la fiducia dei colleghi né quella del Parlamento, si dimise. A ricoprire il portafoglio delle finanze, fu chiamato Agostino Depretis21.



4. Tornando al confronto tra i bilanci del Regno borbonico e degli Stati Sardi

Il bilancio del regno delle Due Sicilie nasce storicamente con un debito pubblico di 20 milioni di ducati ereditato dal governo francese di Giuseppe Napoleone e Gioacchino Murat, un peso notevole che era pari ad oltre un’annata di entrate fiscali; l’Austria impose di estinguerlo a breve distanza e le scadenze furono previste sino al 1819; per fare ciò il governo dovette ricorrere al prestito ma non si trovarono banche internazionali disponibili, per cui, ad accollarsi il compito, fu la debole struttura napoletana del credito che, come in molti altri paesi, era frammista a quella mercantile.
Sfortunatamente il costo del denaro nel Mezzogiorno oscillava dal 20 al 30% (a Parigi era del 6%) per cui per avere un prestito 1.000.000 di ducati invece di essercene 60mila di interessi, si arrivava almeno a 200.000. Per pagarli lo Stato pensò di aumentare le entrate ma questo non fu possibile perché gli agricoltori erano già oberati dall’imposta fondiaria e l’industria, appena nascente, non poteva sopportare un carico fiscale; a questo bisogna aggiungere la necessità, per permettere alla classe mercantile-bancaria di finanziare il debito pubblico, di confermare l’abolizione dell’imposta personale, già eliminata da Murat; furono anche soppresse le patenti per i professionisti in modo da incentivare il loro contributo al finanziamento del debito pubblico tramite l’acquisto dei titoli di stato; da allora queste categorie non furono più colpite dal fisco e la borghesia meridionale cominciò così la sua ascesa economica.
Impossibilitato, quindi, ad aumentare le entrate, il governo decise, per incrementare i mezzi finanziari, di razionalizzare la spesa pubblica: l’85% di essa fu dirottata sui ministeri delle Finanze, della Guerra (l’odierno ministero della Difesa) e della Marina, dovendo questi provvedere agli stipendi degli impiegati, al debito pubblico e alle forze armate, tre tipi di spese ritenute inderogabili; agli altri ministeri rimase solo il 15%, a quello dei Lavori Pubblici andava un po’ più del 5% del totale delle uscite.
Nel 1820 il regno era ormai sull’orlo della bancarotta col debito pubblico salito a 30 milioni di ducati, un colpo quasi mortale fu il costo del mantenimento dell’esercito austriaco venuto a reprimere la svolta costituzionale di quell’anno; esso rimase nelle Due Sicilie fino al 1827 gravando il bilancio per l’astronomica cifra di 50 milioni di ducati e portando il debito a 80 nel 1825 e poi 110 milioni nel 1827. A correre in soccorso del regno arrivarono gli onnipresenti banchieri Rothschild che permisero allo Stato di riprendere fiato ma la mancata estensione della base dei contribuenti impedì che si potesse diminuire il debito pubblico; solo una accuratissima politica di gestione delle spese impedì che questo salisse ancora per cui, nel 1860, era agli stessi livelli del 1827: 110 milioni di ducati22.
Giovanni Carano-Donvito afferma che la politica finanziaria delle Due Sicilie era stata strutturata per scelta sul contenimento della spesa pubblica «pur di contenere al massimo le pubbliche entrate», addossando «il carico tributario alla classi meno querule, più docili». Ammette, però, che «prima dell’avvento delle moderne forme costituzionali di Governo, fu politica generale di quasi tutti gli stati di ricorrere il meno possibile ad entrate tributarie, spesso più per ragioni politiche che economiche». L’autore critica la equità della imposta fondiaria che si basava su rilevamenti catastali, iniziati nel 1807-8 nella parte continentale del regno e terminati in Sicilia solo nel 1853, che egli giudica non precisi, per l’esistenza di favoritismi e arbitri che si verificarono nelle ricognizioni dei terreni: «il tributo fondiario doveva riuscire grave e molesto più per lo eccesso delle valutazioni, per la non equa ripartizione di esso».
Per quanto riguarda le imposte indirette il Carano-Donvito conferma la grande mitezza di quella sugli Atti, Registro e Bolli «per questo lato le condizioni
furono eccezionalmente favorevoli ai contribuenti dell’ex Regno. Inoltre non è a dimenticare che le imposte successorie, così gravose in tutti gli Stati, furono completamente sconosciute ai napoletani»23.
In tale contesto, la pubblicazione del Confronto dello Scialoja aveva un significato preciso, quello di segnalare una arretratezza meridionale che non poteva sperare in alcuna cura. Unica soluzione era l’opposizione organica ai Borboni nella prospettiva di un Italia sotto i Savoia. Gli interessi del meridione d’Italia potevano ormai affermarsi solo con la demolizione dello Stato Borbonico. Il libro di Scialoja, proponendo una riflessione di tipo scientifico, anche se non fondata su dati verificati ed attendibili, invitava a pensare con spirito nazionale. Denigrare le finanze napoletane ed esaltare quelle piemontesi anticipava una scelta politica che, attraverso la contrapposizione dei sistemi, al momento dell’unità avrebbe portato alla inevitabile cessione territoriale dell’intero Regno Borbonico ai Savoia, causa il sottosviluppo meridionale e l’arretratezza delle sue strutture di governo.
L’esperienza storica, politica ed istituzionale del Regno di Napoli, doveva considerarsi conclusa: è questa l’ispirazione profonda del lavoro di Scialoja, contro questo obiettivo preciso, andavano svolte le controdeduzioni. Il piano dialettico non era assolutamente tecnico ma, di prospettiva politica. Balbettare su singole questioni di scienza delle finanze o correggere i dati e in conseguenza confutare le conclusioni sui singoli risultati del confronto era cimento inutile. Sarebbe stato opportuno confrontare complessivamente le istituzioni dei due Regni, tuttavia anche in questo caso il rilievo attribuito al valore della politica parlamentare cavouriana avrebbe screditato le fondamenta dell’assolutismo borbonico. In effetti di lì a breve, prima con la luogotenenza Farini, poi con la vera è propria unificazione legislativa nonché con la legge Pica e la repressione del brigantaggio, le provincie meridionali si sarebbero ritrovate alla periferia di una sistema politico ed amministrativo politicamente accentrato. Con l’Unità le decisioni politiche furono prese solo a Torino. Purtroppo, nel mezzogiorno il nuovo regno parlamentare fu edificato, per l’accreditata arretratezza, su una tabula rasa.
Scialoja ben interpreta questa direttiva, non a caso al momento dell’Unità, sarà componente della luogotenenza napoletana e poi, una volta dissolto il Regno delle due Sicilie, collaborativo ministro nazionale della nuova stagione politica di piemontesizzazione del Regno d’Italia.
In effetti, il giudizio sulle condizioni del Regno napoletano nella prima metà dell’Ottocento non può prescindere dal quello sulla figura di Ferdinando II, dall’analisi dei suoi errori di valutazione e delle occasioni che non seppe cogliere. Se infatti da un lato il suo Regno presentò molti risvolti positivi, dall’altro lato è bene ricordare che i tanti primati del Regno non trovarono uno sviluppo programmato e continuità di investimenti. La grande macchina industriale, riguardava quasi esclusivamente il napoletano, e le disparità con le Province restarono intatte. In politica estera il Borbone, cercò di sottrarre lo Stato alle mire delle potenze imperialiste: l’Inghilterra e la Francia “post-1848“ di Napoleone III che cercavano a turno di conquistare con ogni mezzo il controllo economico di tutto il Mediterraneo. Utilizzò a tal fine gli strumenti del protezionismo e dell’autarchia. In questo ambito particolarmente significative furono le iniziative a difesa delle miniere di zolfo siciliane. Cercò infatti di favorire il commercio e l’industria locale agevolando la più valida ed esclusiva risorsa mineraria della Sicilia, quella dello zolfo (all’epoca indispensabile per la produzione degli esplosivi). Fu stipulata una convenzione con ditte francesi più vantaggiosa di quella precedentemente in vigore con gli inglesi. Le relazioni con l’Inghilterra ne risultarono compromesse e Ferdinando, di fronte alla minaccia, si preparò alla guerra inviando in Sicilia ben 12.000 soldati mentre denunciava alle corti europee la condotta della Gran Bretagna. Poiché l’Austria non si dava da fare per un compromesso, il re si rivolse alla Francia. Luigi Filippo adoperò la sua diplomazia a vantaggio di re Ferdinando che nel frattempo aveva energicamente deciso l’embargo a tutte le navi britanniche. Questo provvedimento fu poi revocato, e la crisi rientrò, ma il Regno dovette versare degli indennizzi alle ditte francesi. La vertenza per lo zolfo influì molto sulle relazioni tra Regno delle Due Sicilie ed Inghilterra, attenta a conservare il monopolio dello strategico minerale siciliano.
Tuttavia, Ferdinando II con la sua ottusa difesa dell’assolutismo regio, determinò l’isolamento internazionale del suo Regno e contribuì a fornire quell’immagine istituzionale corrotta e feroce che l’opera di Scialoja, lontano da Napoli per il fallimento dell’esperienza costituzionale, ben seppe ulteriormente accreditare.
Con l’Unità il governo unitario estese il sistema fiscale piemontese a tutti i vecchi Stati che erano entrati a far parte del nuovo regno. Avvenne così, per effetto del nuovo ordinamento che le provincie dell’ex regno delle Due Sicilie si trovarono, ad un tratto a passare dalla categoria dei paesi a imposte lievi in quella dei paesi a imposte gravissime.
Accorpando i dati complessivi sulle imposte, dividendoli per categorie di entrate, si rileva che nel periodo 1861-1873 le imposte indirette erano quantitativamente il doppio di quelle dirette (663.599.000 milioni contro 326.481.000 le prime che, com’è noto, colpiscono i consumi, macinato, tabacchi, dazi di confine e di consumo, gabelle varie, sale, lotto) e quindi gravava proporzionalmente di più sui redditi più bassi mentre le seconde incideva sui redditi più alti. Ma non è tutto: le imposte dirette seguivano la proporzionale secca, non erano progressive rispetto al reddito individuale per cui i cittadini con poche sostanze e le classi agiate pagavano la stessa percentuale fissa di tasse; è noto come, invece, sia molto più equa una imposta diretta che cresce percentualmente rispetto ai vari scaglioni di reddito.
In realtà non la politica fiscale era stato il vero argomento contro i Borboni ma la politica tout court del Borbone. Non a caso il segno preciso di questa netta posizione ideologica era immediatamente percepibile nelle primissime pagine dell’analisi dei bilanci napoletano e sardo. Infatti, in via preliminare Scialoja teneva a sottolineare che il bilancio piemontese era stato discusso per davvero in Parlamento ed approvato nel primo semestre del 1856, ovvero che una libera discussione politica era alla base delle scelte della finanza piemontese.
La prospettiva era quella della politica contestativa dello Stato borbonico e dell’invito rivolto in quegli anni da vasti settori dell’opinione pubblica liberale italiana, a Vittorio Emanuele di «mettersi a capo dell’impresa nazionale, offrendo a casa Savoia il sostegno»24.
L’opera di Scialoja si inserisce perfettamente nel progetto cavouriano tendente a sostenere un programma di collaborazione fra movimento nazionale e monarchia sabauda dopo l’ardita partecipazione piemontese di Crimea al fianco della Francia e dell’Inghilterra. L’intervento piemontese nella guerra d’Oriente venne deciso non per ottenere concreti vantaggi per il Regno di Sardegna ma per accreditare la monarchia sabauda, nel contesto internazionale, come l’unica in grado di rappresentare la nazione italiana davanti all’Europa. Al congresso di Parigi del 1856 Cavour costrinse le potenze europee a prendere coscienza dell’esistenza del problema italiano e del ruolo del Regno di Sardegna, rivendicando una posizione di egemonia ideale e politica del governo di Torino su tutta la penisola. Condizione che Scialoja esalta prendendo spunto dall’ottimismo seguito all’approvazione del bilancio preventivo per il 1856 da parte delle due camere piemontesi25 che diffuse fiducia nel mondo degli affari per la consistente riduzione del deficit della bilancia commerciale, anche se l’effettivo pareggio era ben lontano dall’essere stato raggiunto nonostante l’entusiastica relazione di Cavour sulla situazione finanziaria del Regno di Sardegna26.
In questa prospettiva la politica fiscale perseguita dai due Regni fu dunque solo un pretesto. Altro era l’obiettivo del Confronto è senz’altro tutto politico e di parte quello più in generale della denuncia del malgoverno borbonico. Il fine era quello di provocare la caduta della dinastia e l’acclamazione di Vittorio Emanuele II come re d’Italia una volta accreditato nella politica internazionale il Piemonte sabaudo.
Come ebbe a far notare, poco dopo l’Unità e senza successive smentite, il barone Giacomo Savarese, nel 1860 il debito pubblico delle Due Sicilie ammontava a 26 milioni di lire contro i 64 dello Stato piemontese. Invero, la sua rettifica «intorno alla situazione finanziaria dell’antico regno di Napoli» giungeva in ritardo, quando la storia aveva ormai compiuto il suo corso. Tuttavia «unicamente nell’interesse della storia ed in omaggio allo spirito di imparzialità»27, il Savarese, si proponeva di correggere «un giudizio e rettificare un fatto» sottolineando innanzitutto che «il principio governativo che ha regolato tutto l’andamento delle nostre finanze, dalla restaurazione della monarchia napoletana che avvenne nel 1733, sino al 1860, è stato costantemente quello di non gravare i popoli di nuovi tributi, ma invece di scemare gli antichi»28. E riguardo alla trasparenza assicurata dal sistema di approvazione parlamentare per le finanze piemontesi segnalava che «fortunatamente in luglio dell’anno 1860 fu pubblicato per le stampe qui in Napoli la situazione delle nostre finanze dal 1848 al 1859»29; per contro, «per la storia delle finanze piemontesi, sebbene colà fosse stato in vigore il regime parlamentare, nondimeno l’assestamento definitivo dei bilanci giunge appena al 1853»30.
In altri termini nel 1862 il Savarese rivelava che proprio per i bilanci degli anni messi a confronto da Scialoja mancavano per il Piemonte «tanto i bilanci definitivi, quanto i conti amministrativi». Il regime parlamentare dunque non dava affatto certezza di diritto ne assicurava in assoluto la trasparenza amministrativa e correttezza governativa. Inoltre lo schema elaborato dal barone, relativo ai disavanzi annuali del regno di Napoli e del Piemonte, metteva in luce che le finanze napoletane in totale tra il 1848 ed il 1859 avevano riportato un disavanzo in lire di circa 134 milioni, mentre per quelle piemontesi il disavanzo per lo stesso periodo era stato di circa 369 milioni, con una differenza tra i due regni di ben 234 milioni in più per il costituzionale regno sabaudo. Il Savarese in conclusione osservava che la politica fiscale dell’ex Regno meridionale era stata senz’altro «meno dispendiosa»31 di quella piemontese.
L’esame dei conti, dopo l’Unità, conduceva a riflessioni diverse da quelle formulate con passione risorgimentale da Antonio Scialoja. Ma, dopo i plebisciti di annessione delle provincie napoletane, l’esame dettagliato dei dati tecnici del confronto era divenuto semplice esercizio di scrittura, tardivo ed irrilevante, per il nuovo dibattito sulle condizioni politiche ed i problemi sociali del nuovo Regno d’Italia.









NOTE
1 Al riguardo: C. De Cesare, La vita, i tempi e le opere di Antonio Scialoja, Roma, 1879.^
2 Il suo archivio privato è stato inventariato nel 1976: Primo inventario dell’Archivio di Antonio Scialoja a cura di M. Barocci, G. Gioli, V. Malagola, G. Palioga, P. Roggi, Firenze, 1976. L’opera, I Bilanci del Regno di Napoli e degli Stati Sardi. Note e Confronti, di 140 pagine, divisa in tre capitoli - I) Note preliminari e testo dei bilanci; II) Entrate; III) Note e confronti complessivi - fu pubblicata a Torino nel 1857.^
3 Sulla genesi del Lotto in Italia non ci sono elementi certi e molti i “progenitori” di questo gioco. All’argomento Scialoja dedica pagine di appassionata critica e denuncia sociale segnalando che i giocatori più accaniti a Napoli, appartengono alla «classe misera, nella quale è più efficace il pungolo della speranza e più pernicioso l’allettamento del gioco». Cfr. A. Scialoja, I Bilanci, cit., p. 54.^
4 G. De Meo, Le Entrate Complessive del Regno delle Due Sicilie per alcuni anni compresi fra il 1827 e il 1858, in «Archivio economico dell’Unificazione Italiana», 1 (1956), fasc. 7, p. 5.^
5 A. Magliani, Della condizione finanziera del Regno di Napoli, s.l. e s.d. (ma dopo il 1857), volumetto di solo ventotto pagine.^
6 N. Rocco, La Finanza del Reame delle Due Sicilie e la Pubblica prosperità: in confutazione dell’opuscolo intitolato “I Bilanci del Regno di Napoli e degli Stati Sardi con note e confronti” di Antonio Scialoja, Napoli, stabilimento tipografico del cav. G. Nobile, 1858, pp. 30.^
7 F. Del Re, Analisi dell’opuscolo I Bilanci del Regno di Napoli e degli Stati Sardi con note di Antonio Scialoja, s.l. e s.d. (ma dopo il 1857), pp. 31.^
8 Lo studio universitario dell’economia politica, abbandonato dopo i moti del ’21, era stato ripristinato nella facoltà giuridica torinese con la riforma Alfieri dell’agosto 1846, che aveva allargato il panorama delle materie insegnate. La riforma aveva introdotto una differenziazione negli insegnamenti della facoltà: da un lato il corso normale di «leggi», quinquennale, dall’altro un corso «completivo» di due anni di specializzazione. Nel corso «completivo» a un uditorio limitato, erano insegnate materie nuove come l’economia politica. Successivamente, con il regolamento Lanza del 1856, in piena epoca cavouriana, il corso completivo fu abolito e tutti gli insegnamenti vennero a far parte del quinquennio di laurea. In argomento C. De Cesare, La vita, cit., pp. 13 e sgg.^
9 A. Scialoja, I principi della economia sociale esposti in ordine cronologico (1840) - edizione a cura di G. Gioli, Milano, 2006.^
10 Il suo nome è associato ad una legge economica, la così detta Legge di Say o legge dei mercati, che disponeva la vendita delle merci a prezzi convenienti, dal momento che la produzione avrebbe favorito la creazione di nuovi mercati. Cfr. P. Maurandi, La legge di Say e il mercato della moneta nella teoria Ricardiana, Milano, 1991, pp. 47-65; G. Costa, Ricardo, Keynes, la causalità e la legge di Say: alcune osservazioni e considerazioni sui Saggi del professor Luigi L. Pasinetti, Milano, 1977, pp. 4-56.^
11 A. Scialoja, Trattato di economia sociale (1848), a cura di A. Magliuolo, Milano, 2006. In quell’occasione Scialoja scrisse una specifica prolusione: A. Scialoja Per la inaugurazione della cattedra di economia politica nella Regia Università di Torino. Discorso dell’avv. prof. A. Scialoja letto il 5 maggio 1846, Torino, stamperia della società degli artisti tipografici, 1846.^
12 David Ricardo, diede due versioni della teoria del saggio del profitto: la prima nel Saggio sui profitti del 1815 (il titolo originale completo è Essay on the influence of a Low Price of Corn on the Profits of Stock) e la seconda nei Principi di Economia Politica (uscita in tre successive edizioni: 1817-1921). Le Note di Ricardo ai Principi di Malthus furono scritte nel 1820, lette da Malthus stesso, da Mc Culloch, da J. Mill e da Trower prima della morte di Ricardo (1823), scomparvero dalla circolazione per circa un secolo; ritrovate fortuitamente nel 1919, furono per la prima volta pubblicate da T.E. Gregory e J.H. Hollander nel 1928 a Baltimora e ripubblicate, previa collazione del manoscritto e insieme al testo di Malthus, da P. Sraffa come secondo volume dei Works and Correspondence of David Ricardo, Cambridge, University Press, 1951.^
13 Al riguardo, Carlo Troya: vita pubblica e privata, studi, opere; con appendice di lettere inedite ed altri documenti, a cura di G. Del Giudice, Napoli, 1899.^
14 Commentario del Codice di procedura Civile per gli Stati Sardi con le sorgenti di ciascun articolo e le relazioni ufficiali, compilato da P.S. Mancini, G. Pisanelli, A. Scialoja con la cooperazione di altri giureconsulti del Piemonte e di altri stati d’Italia, con la comparazione degli altri codici italiani e delle principali legislazioni straniere: compilato dagli avvocati e professori di diritto, vol. V, Torino, s.d. (ma 1854).^
15 Il Codice civile piemontese fu promulgato nel 1837, dopo molti contrasti e resistenze. Sulle prime codificazioni italiane cfr. G. Alpa, La cultura delle regole. Storia del diritto civile italiano, Roma-Bari, Laterza, 2000, pp. 45-54 e pp. 81-84 e la bibliografia ivi citata.^
16 Il progetto sulle privative industriali fu uno dei primi di cui Scialoja si occupò subito dopo essere stato assunto, nel luglio del 1853, come consultore all’ufficio del catasto. Non era la prima volta che affrontava tale argomento, dal punto di vista della teoria economica se ne era occupato fin dal 1841 partecipando al grande dibattito che si era svolto nel regno delle Due Sicilie in occasione del concorso alla cattedra di economia politica nell’Università di Catania. In tale occasione Scialoja aveva scritto il saggio Su’ privilegi in materia d’industria. Osservazioni di Antonio Scialoja, s.l. e s.d. ma 1841 in quanto pubblicato sulla rivista «Ore Solitarie», 1841, fasc. 11, in cui commentava i temi svolti dai due concorrenti più accreditati: Placido De Luca e Salvatore Marchese. In quello scritto giovanile l’economista napoletano si dichiarava contrario ai privilegi, sostenendo che la libera concorrenza era lo stato normale dell’industria umana, mentre il creare monopoli autorizzati aveva la conseguenza di sopprimere lo stimolo all’emulazione e impedire il miglioramento dei prodotti. Con riferimento alle corporazioni osservava che se nel passato erano state necessarie per dare sicurezza all’industria ora occorreva sopprimerle, in quanto proprio «la libertà d’industria […] le condanna al presente» A questo proposito Scialoja si richiamava alle dottrine di Smith e di Say, ma in particolare al Cours d’économie politique di Pellegrino Rossi: «Rammenta in effetti il Rossi, aver l’industria fatto più progressi in venti anni dopo l’abolizione delle corporazioni e de’ privilegi che non prima in due secoli». Nell’edizione torinese dei Principi (1846) Scialoja dedicò poi ampio spazio al tema delle privative e dei privilegi (ivi pag. 45).Le privative erano dannose per la società, in quanto i produttori, non avendo alcun timore della concorrenza, avrebbero tenuto alti i prezzi. Le posizioni espresse da Scialoja nei Principi furono sostanzialmente riaffermate nel Trattato elementare di economia sociale (1848), dove si disapprovavano i privilegi, o privative, in quanto rallentavano i progressi delle arti e delle industrie, privavano i consumatori dei benefici di un prezzo più basso determinato dalla concorrenza e restringevano lo smercio e la produzione piemontese in progressiva espansione. Cfr. A. Portente e A. Tolomeo, Il progresso tecnologico nel Mezzogiorno pre-unitario: dalle iconografie dell’Archivio di Stato di Napoli, a cura di I. Principe, vol. 2, Vibo Valentia, 1991.^
17 Per limitare i possibili abusi, nel 1874 fu costituito il Consorzio Obbligatorio degli istituti di emissione. Veniva rigidamente determinato il tetto massimo di banconote che ciascuno dei sei istituti di emissione poteva emettere, così come i rapporti tra le riserve metalliche e i biglietti in circolazione. La Banca Nazionale continuava ad essere di diritto privato, ma i controlli ministeriali erano rafforzati. Nel frattempo il governo aveva raggiunto il pareggio del bilancio e nel nuovo clima di fiducia il corso forzoso fu abolito. I fatti davano ragione agli economisti che sostenevano che la moneta aveva, sostanzialmente un corso fiduciario, parzialmente svincolato dal rigido rapporto con la riserva metallica. Sul corso forzoso e sulla sua abolizione diffusamente: G. Parravicini, La politica fiscale e le entrate effettive del Regno d’Italia 1860-1890, Torino, 1958, pp. 37 e sgg. e pp. 146 e sgg.^
18 In ogni comune, o consorzio di comuni, i redditi complessivi dei contribuenti, ordinati in maniera decrescente vennero divisi in otto classi, ciascuna delle quali rappresentava l’ottava parte dei redditi complessivi della stessa circoscrizione. Complessivamente furono emessi 400 milioni di capitale nominale al prezzo di 95, stabilendo il pagamento in sei rati uguali dal mese di ottobre 1866 al mese di aprile del 1867, con un tasso di interesse fissato nel 5%, oltre ai premi per un importo ragguagliabile ad un ulteriore 1%. (Ivi, pp. 21 e sgg.).^
19 Dallo studio, in proposito, risulta che nel bilancio napoletano, un ruolo fondamentale fu svolto dall’imposta fondiaria a fronte di un preoccupante debito pubblico. Dal 1827, erano sorte una Cassa Rurale ed una Banca Fruttuaria, per i prestiti a favore degli impiegati e degli agrari. Diffusi erano anche i monti frumentari, che prestavano soprattutto beni agricoli. Nel 1808, per volere di Murat, dalla fusione dei sette banchi pubblici napoletani era nato il Banco delle due Sicilie che disponeva di una Cassa Depositi, che aveva diritto ad emettere le ben note “Fedi di Credito” girabili. Dal 1816, furono costituite anche la Cassa di Corte, dei Privati e quella di Sconto, la quale compiva operazioni di sconto, anticipazioni su titoli e gioie. Nel 1843,vennero varate le succursali siciliane, che confluirono, successivamente, in occasione dell’autonomia amministrativa siciliana, nel Banco Regio dei reali Domini al di là del Faro (il futuro Banco di Sicilia). Sia questi che il Banco, non emettevano biglietti propri ma le fedi di credito. L’elemento comune delle economie dei diversi stati era l’incremento industriale e commerciale (sia pure in diversa misura e modalità) di cui il rafforzamento di una nuova borghesia, una borghesia d’affari, era, al tempo stesso, causa ed effetto. La proposta di consolidamento dell’imposta fondiaria di Scialoja è riportata in G. Parravicini, La politica fiscale, cit. pp. 37-31.^
20 Lo scontro frontale con la classe politica italiana e il mondo liberale, che provoca il documento, evidenzia come il Risorgimento non sia soltanto un avvenimento politico e militare, ma soprattutto uno scontro ideologico. Il tentativo di risolvere i gravi problemi esistenti fra Stato e Chiesa, in particolare modo quello concernente le numerose sedi episcopali vacanti, fra cui Torino, Milano e Bologna, è ripreso dallo stesso Vaticano, dopo che don Bosco convince il Papa a scrivere al re in tal senso. La trattativa, nel 1865, è condotta dal deputato cattolico Saverio Vegezzi (1805-1888), ma l’ostilità della maggioranza del Parlamento e delle logge massoniche fa naufragare il tentativo. Intanto nel 1866 entra in vigore il nuovo codice civile, che toglie ogni effetto civile al matrimonio religioso oltre al provvedimento che incamera i beni di altre duemilacinquecento comunità religiose, decisioni che aggravano ulteriormente i rapporti fra Governo italiano e Santa Sede. Nel 1867 viene approvata la legge per la soppressione degli enti ecclesiastici e la liquidazione dell’asse ecclesiastico, che comporta la soppressione di altri venticinquemila enti ecclesiastici, l’incameramento dei loro beni e la vendita all’asta di circa un milione e trecentomila ettari di terreno. Cfr. C. Arena, La finanza pubblica dall’Unità ad oggi, in Aa.Vv., L’economia italiana dal 1861 al 1961, Milano, 1961, pp. 488-489; G. Parravicini, la politica fiscale cit. pp. 53 e sgg.^
21 In effetti, negli Stati Sabaudi l’amministrazione dei proventi statali spettava al Ministro delle finanze, che per la riscossione si avvaleva alle diverse Aziende e Direzioni. In particolare, all’azienda generale delle gabelle erano attribuiti il dazio di consumo della città di Torino, le dogane, le gabelle accensate, la vendita del sale, dei tabacchi, delle polveri e piombi. L’azienda generale delle finanze, aveva competenza in materia di imposte dirette, imposte sugli affari, i beni demaniali ed il lotto. L’azienda generale dell’estero si occupava della gestione dei proventi dei consolati all’estero. Alla direzione generale dei lavori pubblici era assegnata la gestione e ferrate e dei telegrafi. Alle direzioni generali delle poste, dell’interno e di marina, erano attribuite rispettivamente la gestione del servizio postale; la gestione delle carceri, miniere e cave demaniali e delle merci sui battelli a vapore dello Stato. I redditi derivanti dalla monetazione e dal marchio sui lavori d’oro e d’argento spettavano all’amministrazione generale delle Regie Zecche; i proventi delle scuole di pubblica amministrazione, erano affidate al Ministero della pubblica istruzione. All’Ispezione generale del Regio Erario, competevano infine tutti gli altri cespiti dello Stato. Quindi, i prodotti delle Regie Finanze venivano esatti dalle Aziende generali e delle altre Amministrazioni cui competevano, mediante propri agenti contabili, fatta eccezione per alcuni pedaggi, canali e le gabelle accensate, la cui esazione era data in appalto. Gli agenti contabili versavano l’ammontare delle loro esazioni nelle tesorerie provinciali, dove peraltro dovevano confluire anche i prezzi degli appalti e le somme dovute dagli altri debitori. Le tesorerie provinciali erano poste alle dipendenze del Ministero delle finanze, sotto la vigilanza del Controllo generale ed alla giurisdizione della Regia Camera; nel 1859 questi due organismi vennero soppressi e le loro attribuzioni devolute alla Corte dei Conti, istituita in quell’anno. L’esercizio finanziario, andava dal I° gennaio al 30 giugno dell’anno successivo, alla chiusura di ogni esercizio il Ministero delle finanze compilava il conto generale attivo e passivo dell’esercizio appena chiuso. In tale conto erano indicate: a) tutte le entrate e le spese proprio dell’esercizio; b) i residui attivi e passivi degli anni precedenti; c) la situazione delle Tesorerie; d) i conti dell’amministrazione del debito pubblico e degli altri servizi speciali; e) la situazione finanziaria generale. Ciascuna entrata o spesa propria dell’esercizio era descritta con tre dati: dato preventivo, dato consuntivo e dato di cassa. I primi due dati si riferivano all’anno solare, mentre il terzo all’esercizio finanziario, laddove il dato preventivo era rappresentato dall’ammontare presunto dell’entrata o della spesa in ciascun anno solare. Il dato consuntivo indicava la somma per la quale era sorto, dal I° gennaio al 31 dicembre successivo, il diritto dello Stato ad esigerla, (entrata «accertata») o il dovere dello Stato a pagarla (spesa «impegnata»). Infine, il dato di cassa indicava quanto, di ciascuna entrata accertata o spesa impegnata nell’anno solare, era stato riscosso nel corso dell’esercizio finanziario. Le notizie sono tratte da A. Scialoja, I Bilanci, cit., pp. 65 e sgg.^
22 Cfr. N. Ostuni, Napoli Comune. Napoli Capitale: le finanze della città e del Regno delle Due Sicilie, Napoli 1999, p. 115.^
23 G. Carano Donvito, L’economia meridionale prima e dopo il Risorgimento, Firenze, 1928, pp. 27 e sgg. Inoltre, come ha di recente osservato Giuseppe Galasso «nel suo proclama di ascesa al trono Ferdinando II aveva puntualizzato le questioni finanziarie e tributarie fra gli oggetti di sua particolare attenzione. E per affrontare i gravi problemi di politica economica il nuovo sovrano rifiutò subito sia manovre fiscali, sia l’accensione di nuovi debiti, puntando invece sulla diminuzione delle spese». G. Galasso, Storia del Regno di Napoli. Vol. 5° Il Mezzogiorno borbonico e risorgimentale: 1815-1860, Torino, Utet, 2010, p. 457.^
24 R. Romeo, Vita di Cavour, Roma-Bari, Laterza, 1984, p. 340.^
25 Ivi, pp. 359-361.^
26 Sul punto ancora R. Romeo, op cit., p. 360 che accenna a contestuali iniziative legislative che prevedevano ulteriori ingenti spese fuori bilancio per il medesimo anno finanziario.^
27 G. Savarese, Le finanze napoletane e le finanze piemontesi dal 1848 al 1860, Napoli, 1862, p. 5.^
28 Ivi, p. 6. La destrezza finanziaria del Medici e la sua attenzione per le manifatture locali è segnalata da G. Galasso, op. cit., pp. 334 e sgg., che segnala al riguardo anche le osservazioni critiche svolte al riguardo da L. Bianchini, Della Storia delle finanze del Regno delle Due Sicilie, Libri 7, Palermo, 1839, pp. 460 e sgg.^
29 G. Savarese, Le finanze napoletane, cit., p. 22.^
30 Ibidem.^
31 Ivi, p. 39.^
  Cosa ne pensi? Invia il tuo commento
 
Realizzazione a cura di: VinSoft di Coopyleft