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Diderot e la nazione napoletana
di Giuseppina D'Antuono
In un precedente intervento, pubblicato nel maggio scorso su questa rivista, è stata illustrata l’esistenza a far data dal secondo Settecento di consistenti rapporti tra Diderot e la Nazione napoletana la cui complessa natura sociopolitica e culturale in questa sede è nostro interesse approfondire.


1. Un comune progetto etico-politico di riforma della società (1764-1784)

I. Orazio

La semplicità e la moderazione che avevano permeato il progetto politico oraziano1 sigillarono nel 1773 il punto d’incontro tra Galiani e Diderot, avendo già costituito il collante del progetto culturale e socio-politico genovesiano e galianeo2.
Orazio «écrivain élégant et judicieux» per Diderot, era stato al centro degli interessi di Galiani fin dal biennio 1764-653 e rappresentò un oggetto di discussione comune prima nelle conversazioni e poi nella corrispondenza tra Galiani e Diderot. Genovesi era stato catturato e convinto non solo dallo stile e dal linguaggio ma dall’intera portata ideologica degli scritti del poeta latino, motivi che tra l’altro gli avevano fatto privilegiare anche Virgilio. Erano autori di opere, metafore di più ampi progetti fondati sul giusto mezzo, sulla semplicità e sul modello operoso, tutti spendibili in un serio piano di Salus Publica. Pertanto negli stessi anni 1763-’65 durante i quali Genovesi ampiamente attingeva al corpus del poeta venosino, Galiani come ha già illustrato Nicolini, si dedicava alla traduzione di Orazio4. E così, quando a distanza di un decennio Diderot si rivolgeva a Galiani consapevole delle ricerche dell’amico napoletano, era intriso delle medesime prospettive ideologiche comunicate in epistola il 25 maggio 17735. Alla luce di ciò può apparire più chiaro quanto Diderot, nel sottoporre le riflessioni sulla sesta ode del III libro di Orazio, causa tra l’altro della sua polemica con Naigeon, scriveva in quella data a Galiani: «Nous vous avons choisi pour juge, et vous nous jugerez, s’il vous plait». Diderot confessava di aver rinvenuto nel poeta latino «un projet de ramener ses concitoyens dissolus aux vertus de leurs premiers ancêtres»6.
Non a caso Galiani riconobbe a Diderot il merito di aver tentato di risolvere la questione legata ai versi 13-16 di quell’ode, di essersi accostato di molto alla verità e di aver compreso il pensiero di Orazio. Diderot aveva fin dagli inizi degli anni Sessanta coltivato la passione per l’autore latino, sulla scorta di edizioni critiche, come quella di Bentley e in particolare per un tema della poetica oraziana, quale fu il culto del futuro. La corrispondenza di Diderot degli anni 1765-66 è ricca di riferimenti in tal senso, sia che egli scriva al Falconet, sia che il suo destinatario sia Melchior Grimm7. La posterité fu un interesse vero, appassionato, al centro degli scritti di Diderot fino a qualche anno prima della sua morte, abbinato all’altro tema topico della gloria, sviluppato fino alle ultime pagine dell’Essais sur les règnes de Claude et Néron8.
Nel 1784 a Napoli si traduceva le Père de famille tributo a Diderot nell’anno della morte, sigillando così la riconoscenza ad un filosofo, ad un uomo di cultura, che come pochi aveva saputo avvicinarsi con la sua traduzione al vero significato dell’ode oraziana9. A lui Galiani, i galianei, oraziani meridionali animati dal «patriottico zelo» continuavano ad attingere attraverso la comune fonte antica e con altrettanto interesse avrebbero dedicato al «dioscuro» parigino quel tributo nel 1784. Era un omaggio che giungeva come ulteriore segno di un’amicizia letteraria e filosofica, a volte anche litigiosa, ma che nel culto dell’antichità e soprattutto in Orazio aveva trovato un solido punto di dialogo che per entrambi, tanto in Diderot quanto in Galiani, aveva rappresentato la fonte pedagogica per educare il cittadino all’«amore terreno» mai «più lodevole, più onesto quanto quel della Patria»10. L’ideologia oraziana è pregna di una funzione politica che costituisce, dunque, un legame tra il filosofo di Langres et il partito degli intellettuali meridionali, costruito mediante unità d’intenti che nelle metafore politiche trovarono i fondamenti educativi per la costruzione della morale del patriota napoletano così come del cittadino virtuoso.


II. Il gioco

La semplicità e la moderazione, come si può arguire, dovevano costituire reali valori, punti di riferimento funzionali a caratterizzare la condotta dell’uomo, così come l’intera struttura sociale. A conferma di ciò interviene la prospettiva attraverso la quale fu osservato uno dei mali della società napoletana: il gioco. Esso fu salvato nella sua componente ludico-formativa, ma respinto e stigmatizzato nelle sue espressioni eccessive, smodate, tipiche del gioco d’azzardo che tante famiglie aveva rovinato. Nell’analisi della vita economica, tanto in Galiani quanto in Diderot, attraverso l’uso di una tale metafora socio-politica, si giunse alla denuncia dell’azzardo regolato dal caso, come spia di un dannoso stile di vita11, che, invero, già Genovesi aveva denunciato, per costruire e proporne un altro fondato sul lavoro, sull’impegno quotidiano, sulla moderazione e sul giusto mezzo, lontani da forme di ozio e di sperpero. Non erano l’oro e l’argento a procurare stima all’uomo, ma le sue virtù: prudenza, onestà, lavoro, madri di ogni onore12.
Si tratta di un nodo centrale che diversi anni fa fu da Mercier messo in luce, ovvero, di un gioco accettato solo se integrato in una precisa idea di società. Infatti la metafora del gioco, lontana dal costituire un semplice paradosso, diventava piuttosto una modalità di esaminare le strutture socio-politiche in entrambi gli autori, ostili a quel fanatismo, che, non a caso, rientrava nel medesimo campo semantico del gioco. Tale traccia, invero, ancora poco investigata dalla storiografia meridionale, è stata al centro di un recente lavoro che nel delineare alcune coordinate per ricerche future, ha ricostruito il ruolo e le funzioni esercitate dal gioco nella formazione nobiliare13: se ne ricava la conferma di una parabola discendente del gioco, inteso nelle sue differenti componenti, nella seconda metà del secolo decimottavo. Ciò che s’intende dire è che il gioco finì sotto la lente d’osservazione dei riformatori illuministi, perché segno di una degenerazione dei costumi e lo salvarono, come accadde per il teatro, nelle sue componenti formativo-educative, funzionali all’elaborazione di un piano di Salus Publica costruito su basi etiche fondate sul giusto mezzo14.


2. 1784. Diderot nella Repubblica delle lettere

Fu poi Vincenzo Orsino, che si era già distinto nel panorama editoriale, a realizzare un’altra reale impresa, allorché decise nel 1784 a undici anni di distanza dalla prima rappresentazione, di proporre ad una città di amatori teatrali, di lettori dei philosophes e di filosofi-matematici la lettura di due opere di Diderot in italiano15. Le ricerche allo stato attuale non consentono di identificare il nominativo del traduttore, la cui operazione di mediazione linguistica sicuramente non rientra in quello standard definito qualche anno fa come «scadente e abborracciato». Non si trattava di uno «scribacchino». Il testo informa di un autore ben addentro l’ideologia del philosophe di Langres, attento conoscitore della lingua di partenza e altrettanto di quella di arrivo, al quale fu commissionata da un gruppo di intellettuali, sui quali più avanti si avrà modo di tornare, una ben precisa operazione culturale dai risvolti sociopolitici16.
Si trattò, infatti, di un lavoro che sulla scorta del successo dei primi effettuati in quella città, “porta aperta all’Europa” qual era Livorno, si metteva a punto anche a Napoli con lo scopo di raggiungere un pubblico più numeroso di “fanatici della lettura”, affidando alle volgarizzazioni il compito dagli auspici non poco ardui d’interpretare quel processo di trasformazione delle pratiche di lettura in continua evoluzione17. Orsino, infatti, avvocato, raffinato editore con un brillante catalogo e aperto alle richieste più innovative del pubblico aveva due obiettivi da perseguire. In primo luogo intendeva far di nuovo germogliare la letteratura drammaturgica italiana, poi con un’opera singolare, che riuniva entrambe le pièces, voleva fornire uno strumento efficace di educazione al pubblico, motivo molto caro ai riformatori, nonché ai futuri rivoluzionari, divenuto un cardine essenziale nel processo organico di riforme della società. Aveva aderito all’ambizioso progetto di costruire una repubblica letteraria europea in un unico corpo «i cui individui, sparsi in ogni paese dell’universo, non s’invidino scambievolmente gli elogi, si sforzino egualmente tutti di meritarli, e profittino senza prevenzione delle comuni produzioni. In questa intelligenza le cognizioni di una nazione saranno giovevoli à progressi di un’altra […] e faticando ogni popolo alla propria cultura, conspirerà alla universale perfezione dello spirito umano». Così Orsino scriveva nella Prefazione:
La Nostra Italia vanta i suoi gran modelli dell’arte drammatica; ma convien confessare che la Francia ha arricchito il suo teatro di capi d’opera, e ne ha fatto una scuola di sentimenti e di costumi. Gl’Italiani, già maestri delle altre nazioni nelle scienze e nelle arti, e fin nelle maniere di vivere di conversare, hanno oggi quasi rinunziato allo spirito d’invenzione, ed invasi dal genio imitatore, si rendono tributari delle nazioni oltramontane in applausi ed in denaro […]. Un autore giudizioso ha osservato che la misura della coltura di una Nazione è il grado di perfezione della lingua volgare. Infatti quando questa è già divenuta capace di rendere con dignità tutte le espressioni, tutti i sentimenti, e si è appropriati i termini tecnici e le frasi di ciascuna scienza e di ciascun’arte dee dimostrare ad evidenza i progressi nelle cognizioni […]. Questo è l’oggetto della nostra presente impresa; e speriamo che i Drammi Francesi volgarizzati che presentiamo al Pubblico, siano atti ad incorare la nazione italiana a coltivar questo ramo di letteratura, che può reputarsi gran parte della educazione pubblica. Se siasi adempiuto a quest’oggetto con quell’applicazione ch’esigeva la scelta della esecuzione, lo giudicheranno gli amatori dell’arte teatrale, i cui avvisi saremo disposti a seguire nella continuazione di questa raccolta. Intanto qualunque debba esserne il successo, potremo sempre aspirare al merito di aver fatto qualche sforzo per giovare al nostro paese»18.

La repubblica delle lettere a Napoli era una realtà sentita, sebbene frastagliata al suo interno e non omogenea politicamente, e alla sua crescita nel panorama transalpino collaboravano in maniera diversa scrittori, giuristi, magistrati, professori ed editori19 con l’obiettivo di far crescere in dignità internazionale la patria napoletana. Ebbene diverse erano le prospettive in quel disomogeneo contesto, ma all’interno dell’Accademia di scienze era fertile l’humus del culto delle memorie patrie, da arricchire per far raggiungere nuovamente lo splendore della Napoli aragonese, all’interno di una patria europea, abitata da spiriti cosmopoliti, non imitatori, ma animati da dialoghi intellettuali.
Sulla scorta di tali considerazioni è lecito, dunque, chiedersi a chi alludeva Orsino citando un autore giudizioso? Sembra essere questo un importante riferimento che racchiude non solo un nome, ma è segno di un’ideologia ben definita e sedimentatasi in alcuni milieux culturali cittadini che riconduce tanto agli ambienti tanucciani, che di taluni magistrati regalisti e sensibili alle idee dei philosophes. Questa volgarizzazione, infatti, testimonia una nuova coscienza acquisita dell’autonomia e delle possibilità espressive del volgare, strumento efficace che aveva dato prova di sé nelle aule universitarie, costituendo, tuttavia, solo l’incipit della realizzazione di quell’auspicio genovesiano, confidato nel 1765 a Ferrante De Gemmis Maddalena, di scrivere «nelle cose filosofiche non già in toscano ma in italiano» e a sollecitare ai maestri lo studio e l’insegnamento di Orazio nei seminari provinciali. Sembrava, infatti, sul finire degli anni Settanta del Settecento farsi sempre più strada e consolidarsi ciò che Nicola Fiorentino uno dei meno noti, eppure tra i più fertili allievi dell’abate salernitano, aveva introiettato e pubblicizzava, discorrendo di una lingua innovativa, funzionale strumento espressivo di un pensiero progressista e di un nuovo «costume scientifico», frutto del lume che si stava spandendo in Europa grazie alle accademie e alla stamperia20. Se Genovesi aveva partecipato alla formazione del clima nel quale l’operazione di traduzione fu congegnata, invece la diffusione drammaturgico-filosofica di Diderot a Napoli fu mediata dalla persona di Galiani, abate dal «diable au corps», nonché da uomini di quel circuito, connotato per larga parte come altri “patrioti europei” da una vocazione cosmopolita21, ma non meno impegnati sui problemi locali del vivere civile. E in quell’ambiente si coltivarono anche le forme del dramma, in particolare quelle dal contenuto filosofico e dai risvolti pragmatici etico-sociali. Si lavorava alla costruzione di un dramma per un teatro riformato specchio metonimico di una società riformata. A cambiare doveva essere il genere, non più quello tragico, tra l’altro esiguo a Napoli, anche nelle sue forme neoclassiche tradotte, né quello più fortunato della commedia22. Infatti si guardava con un certo interesse al genere drammatico. Ad essere oggetto del rinnovamento doveva essere così il codice linguistico, sul quale i francesismi agivano da elemento propulsore nelle traduzioni.
A tal punto è doveroso fare altre due considerazioni. La prima, articolata all’interno del panorama delle traduzioni italiane del teatro di Diderot datate 1762-1799, relativa all’unicità e alla singolarità di quella napoletana del 1784 che non calca, né riproduce quelle di Michele Bocchini e di Antonio Lodadio, utilizzate e riedite a Venezia nel 1799. In secondo luogo si nota ancora una volta la presenza della matrice oraziana nell’edizione di Orsino sintetizzata nelle due emblematiche epigrafi:
I) «Interdum speciosa locis, morataque recte fabula, nullius veneris, sine pondere ac arte, vladius oblectat populum, meliusque moratur, quam vertus inopes rerum, nugaeque canorae»;
II) «Aetatis cuiusque notandi sunt tibi mores, Mobilibusque decor naturis dandus ac annis»23.

Entrambe, nel consolidare il disegno politico e socio-culturale dell’intero progetto sorto in ambiente napoletano, chiariscono e la funzione e il fondamentale valore del poeta venosino, emblematico in quel processo educativo del genere umano e pertanto non più solo segno d’erudizione antiquaria. È in tale filiera e prospettiva che occorre collocare due altre operazioni editoriali compiute da Orsino, intenzionato a perseguire due parallele direttrici convergenti negli obiettivi di costruzione dell’identità della “socialità”. La prima risalente al 1785 con la pubblicazione della traduzione De’ doveri dell’uomo e del cittadino di Pufendorf curata da Domenico Amato24 e la seconda al 1788 con l’edizione della Vita dell’abate Ferdinando Galiani curata da Diodati25. Il “diligente” biografo Diodati, infatti, collocava Orazio in un’epigrafe ad accogliere il lettore «Non omnis moriar: multaque pars mei vitabit Libitam» ricordando e rinnovando così, non solo le due epigrafi proposte nel 1784, ma rievocando il motto che Diderot inseriva nelle lettere del 1766 inviate a Grimm, a Falconet e sentito vivamente da Galiani.


3. La formazione dei patrioti nel culto della Posterità

In tale complessiva aperta prospettiva, dunque, un elemento che appare saldo è il culto della posterità, costruito sulla metafora della memoria, cara agli oraziani moderni e meridionali che in Orsino e in Vinaccia trovavano i loro canali di diffusione. Ed è in tale contesto che va collocata la ricerca da parte di Galiani di un corrispettivo napoletano di Diderot, che fu rinvenuto nella persona del Genovesi, definito non a caso il “Diderot italiano”26. Il progetto etico-pedagogico ordinato sulle virtù antiche degli «exempla emolliunt mores» si rivolgeva alla società e alla politica, proprio negli anni durante i quali prendeva corpo la costruzione di una tradizione identitaria di valori condivisibili. Il testo diderotiano è emblema di un teatro politico dal nerbo etico. Il progetto educativo di derivazione lockiana – il cui pensiero era molto diffuso nel circuito di Galiani, che rimproverò a Genovesi di essere poco lockiano – ed helvetiana era alla base di un processo di costruzione di un’agognata identità patriottica basata sulla volontà di conquistare un decoro tipico di una società riformata innanzitutto nei costumi. Il rapporto privato-pubblico sebbene ancora labile e non bene definito affiorava, diventando fulcro di un progetto di sedimentazione di una morale individuale, fondata su uno scambio, in una sorta di gioco di specchi tra il macro-cosmo rappresentato dalla società e il micro della famiglia27.
Il Diderot drammaturgo, scegliendo il microcosmo della famiglia, aveva ristretto il campo d’azione al vero, riuscendo così ad analizzare ancor meglio e a distanza ridotta i rapporti tra i singoli, per far emergere con occhio analitico una società in mutamento, smascherando le forme del vizio e sottolineando in diversi momenti nell’evoluzione scenica l’importanza e l’imprescindibilità del processo educativo basato sullo sviluppo di una moderazione virtuosa. Si trattava altresì dello sviluppo di una tensione verso una nuova società che travalicasse convenzioni esistenti e divisioni cetuali, mettendo al centro delle critiche anche la forma matrimoniale vincolata alla dote28, in linea con una polemica interclassista che aveva trovato a Napoli in accordo, sebbene anche su fronti differenti, alcuni magistrati e Genovesi29.
Ed è in tale prospettiva di incrocio e sovrapposizione di modelli moderni e antichi che non emerge la distanza tra questi ambienti intellettuali napoletani, anzi si consolida l’immagine di un trinomio Diderot-Galiani-Genovesi ovvero di un Diderot ponte tra Genovesi, definito il Diderot italiano da Galiani, e Galiani stesso. L’abate autore Della Moneta al rientro da Parigi si era speso, cercando consenso nel sovrano, in una riforma del gusto e della musica ormai corrotti, considerati nei termini di perdita non solo estetica e d’immagine, ma anche e soprattutto in quanto grave perdita socio-economica per l’intera metropoli30. Il rimedio esisteva per offrire un piacere onesto e lodevole al pubblico e consisteva, non a caso, nel ritorno alla semplicità degli antichi. Ad avvicinarlo al teatro era stata una concreta ideologia che riconosceva grande responsabilità e funzione alle arti liberali come emerge dal Piano di un’accademia teatrale per profitto de’ giovani de’ Conservatorj. Se da un lato egli rifiutava messe in scena lussuose, pensando ai teatri minori, dall’altro dichiarava che il pregio del dramma risiedeva «nell’esattezza della declamazione» (clairté diderotiana) e nella musica31. Negli anni Trenta del Settecento era attiva, infatti, a Napoli l’Accademia galianea che rivelava la sua attività propriamente illuministica con la pubblicazione nel 1754 del Discorso dell’abate Genovesi32.
Fu nel progetto illustrato ancora sommariamente nel Discorso che si possono rintracciare altri nodi ideologici, costruiti sulle virtù etiche non ancora del tutto politiche, che legano Galiani a Genovesi e a Diderot. Gli obiettivi erano diversi ma intimamente connessi al culto del futuro. Essi desideravano allevare una nuova umanità, affermare una cultura differente e costruire una società attraverso il decoro e le virtù etiche. Non il Diderot antigesuita tout court, ma il maturo lettore di Orazio e impegnato drammaturgo poteva offrire tutto ciò. Egli non giudicando i vincoli sociali in quanto artificiali e negativi per l’uomo, aveva un differente approccio al teatro, che non isolava affatto l’uomo sociale e non lo rinchiudeva nei ristretti ambiti della rivalità mimetica, ma lo faceva vivere nel suo ambiente reale e lo rappresentava nelle sue condizioni concrete e attraverso dialoghi naturali33. Come il ginevrino autore del Contrat che avrebbe preferito abolire ogni tipo di rappresentazione teatrale, anche Diderot fu accolto dal gruppo di Galiani e da alcuni allievi di Genovesi in quanto ripensatore del rapporto tra natura e società e modificatore del teatro in funzione di un corpo sociale in fieri.
Il teatro, riappropriatosi della sua forma originaria, antica, poteva partecipare alla costruzione di una «raison comme juste milieu»34. Era un processo in atto per realizzare l’incontro tra un luogo sociale e la sua iscrizione istituzionale nel cuore della comunità che avrebbe accolto quel primato della cultura sulla natura, nei cui contesti poi l’educazione avrebbe acquistato forza sociale ed etica. L’educazione, prospettando miglioramento, era incentrata sulle forme delle virtù nei drammi di Diderot e di Galiani e consentiva di consolidare in pieno il culto del futuro, fondamentale nel pensiero non solo degli illuministi, ma anche di alcuni repubblicani del 1799.


4. Dal vero agli eroi

Ma che quella tradizione fosse in costruzione durante gli anni 1780-1790 anche su altri versanti, sebbene con diversi obiettivi, lo attestano i seguenti elementi. Se si voleva attendere alla formazione del buon cittadino, che doveva essere bravo e virtuoso tanto nella sfera pubblica che privata, è noto quanto il teatro apparisse un canale di diffusione da non evitare, anzi da riutilizzare in quanto perfettamente funzionale al nuovo e arduo compito. Il “padre” e il “figlio” rappresentavano emblemi, simboli di mediane virtù di più antica matrice35, da veicolare sul doppio binario della scrittura e dell’oralità, ovvero con il volgarizzamento e la scena. Il che era testimoniato anche dai redattori di «Scelta Miscellanea», riuniti come Pagano, Pasquale Petroli attorno ai fratelli Di Gennaro e al direttore De Silva. Se l’obiettivo appare il medesimo, tuttavia, in quella sede si prediligevano esempi tratti dall’antichità greca, spartana ed ateniese, soggetti, non a caso, delle tragedie di Pagano, anche se i riferimenti ai patrioti-eroi americani abbracciati dalla figura del sovrano-padre virtuoso non mancavano36. E lo stesso Diderot aveva mostrato apertura verso le figure dei “bravi” americani nel suo Apostrophe aux Insurgents d’Amérique incipit de l’Essai sur les règnes de Claude et de Néron, scrivendo: «Puissent ces braves Américains […] prévenir l’accroissement énorme et l’inégale répartition de la richesse»37.
Il padre di famiglia nel microcosmo familiare era l’esempio di padre virtuoso, al quale doveva corrispondere nel macrocosmo politico-istituzionale un principe virtuoso, degno di stima in quanto principe-patriota che aveva a cuore il bene dei suoi cittadini, della Patria, come un padre dei suoi figli38. I gruppi dei virtuosi dovevano perseguire un unico obiettivo custodire e accrescere il bene della patria. Una modificazione di questo progetto a Napoli aveva origine in Filangieri il quale legava quel discorso diderotiano alla lezione genovesiana, innalzandolo nel campo della tensione intellettuale.
Il teatro diventava così funzionale per azioni sul sociale, ma come mezzo che la legislazione governativa avrebbe dovuto impiegare dall’alto per introdurre ed invigorire la passione della gloria39, traendo esempi di eroismo dall’antichità, modello al quale s’ispiravano proprio i redattori di «Scelta Miscellanea». La gloria distinta dalla cupidità, discorso di genovesiana matrice, era sublimata in linguaggi particolari, tipici del genere eroico-tragico, rappresentata non più come conditions di rapporti familiari, metafora di più alti rapporti con l’autorità, quanto piuttosto calati nelle dinamiche reali dei legami e dei contrasti politici. Diderot era una fonte di filosofia civile del Filangieri40, costituendo il modello auspicato del rapporto di collaborazione del re con i filosofi, caro all’autore della Scienza della Legislazione, propugnato con forza già da Genovesi e da Galiani41. Si prospettava la possibilità d’intervenire attraverso l’educazione, per plasmare il comportamento individuale, in modo da renderlo conforme all’interesse generale della società attraverso il teatro degli eroi. Gli uomini eccellenti del passato sarebbero diventati gli exempla da imitare per gli uomini contemporanei. Si trattava di una particolare forma di teatro nuovamente tragico dell’uomo dotato di forza morale che combatte contro il destino dal contenuto politico in costruzione a Napoli durante gli anni Ottanta in una forma e in un genere che sarebbero stati utilizzati anche nel 179942.
Nell’analisi di un contesto, già complesso, tuttavia, manca un ulteriore e fondamentale tassello. Si tratta di non trascurare una caratteristica pregnante della nuova gioventù alla quale per buona parte erano destinati tali exempla. Come ha mostrato Blanch, non è possibile eludere l’incidenza e il condizionamento di quel progressivo e graduale ruolo svolto dalle «passioni della gioventù». Infatti le azioni di due generazioni pur proiettate nel contesto delle famiglie nucleari iniziavano a sentirsi meno ostacolate dalle nuove dottrine, più emancipate e sollecitate dai principi rivoluzionari francesi, e soprattutto «ardenti di passioni» e entusiasti delle novità. E così la nuova generazione piuttosto che coltivare un dramma di soggetti dotati di virtù mediane, preferì gestire la materia entusiasmante dell’eroismo tragico dell’uomo che combatte contro il destino. Non si volevano formare eroi la cui preoccupazione risiedesse nell’affermare la superiorità del proprio mondo morale contro le ragioni corruttrici del potere; non si desideravano più eroi che illanguidivano di fronte alle miserie del presente. L’eroe che entra in scena a Napoli dalla metà degli anni Ottanta è un anticipo della sintesi tra morale e storia, è un preambolo della ricomposizione tra individuo e collettività. Era aperta la strada agli uomini non più comuni, ma grandi, singolari, oscuri, forniti di «una più pronta e totale adesione ai valori generali»43.
E a ben vedere questo modulo che si affermò a Napoli è del tutto coerente anche con quell’ultimo Diderot che Wilson e concordemente Diaz hanno definito come amante di «quel libro che il re e i cortigiani invece detestano, quel libro dal quale nasce Bruto». Dunque se da un lato sembra chiaro che quel dramma diderottiano non potesse trovare in alcuni ambienti della società napoletana le ragioni di successo, tuttavia, occorre ribadire che agli inizi degli anni Ottanta era stato lo stesso Diderot ad aprirsi ancor di più alla radicalità del modello eroico44.
Così appare chiaro quanto nel decennio 1773-1787 avevano preso corpo anche a Napoli un progetto allargato fondato sulla “modération”, sul “juste milieu” da veicolare mediante un linguaggio politico che si affidava a personaggi comuni, e un altro modulo discorsivo che intesseva già trame eroiche. Era obiettivo comune pubblicizzare la riforma della società negli anni della collaborazione tra gli intellettuali e la monarchia, ma adottando moduli espressivi differenti. Quando quella collaborazione politico-istituzionale fu, per note ragioni, interrotta, il teatro eroico emerse, almeno se si osserva la produzione di opere, in maniera schiacciante sul teatro della vita quotidiana, nel condiviso intento pedagogico d’insegnare i valori delle virtù mediane del decoro, dell’amor di patria così come dell’amor di famiglia45. Genovesi non a caso nella Diceosina si era speso su diverse forme auspicabili del decoro, della moderazione, come cardini essenziali della socialità, del vivere civile. Si trattava di modelli da opporre ad estremi quali la cupidità e l’ambizione fondanti l’etica dell’individualismo.
Ci furono anche a Napoli i sostenitori di una non frattura, ovvero, di una corrispondenza tra il privato e il pubblico, messaggio che fu poi coltivato in diversi milieux letterari. Nel 1784, infatti, anno della morte dell’ideatore dell’Encyclopédie era su «Scelta Miscellanea» che si sceglieva di pubblicare un inedito di Genovesi tutto concentrato sull’idea di “socialità”46, sulla definizione di patria e di patriota, il che finiva col costituire proprio il fulcro genetico di entrambe le operazioni editoriali, tanto di quella pubblicistica che di un’altra novellistica. Tra il 1783 e il 1788 si davano alle stampe tre edizioni differenti delle Novelle morali di Diderot47; a distanza di qualche anno negli ambienti fisiocratici si consumava la ricezione di un’operetta I doveri della vita domestica di un padre di famiglia pubblicata a Parma per i tipi bodoniani e recensita su «Il Giornale letterario di Napoli» nel dicembre 1795. Si trattava di un’operazione che mostrava i segni di un’ulteriore ridefinizione di quel modello, in una prospettiva non più propriamente diderotiana, ma volta alla fondazione di un tipo di moralità che restringeva il campo d’azione alla realtà domestica, escludendo altri spazi all’interno dei quali far fruttare nelle pratiche quotidiane quel modello48.
Si era però distanti in quegli ambienti dall’obiettivo della felicità integrale, privata e pubblica, raggiungibile attraverso un processo di educazione pubblica e privata, nei termini proposti da Chastellux, che mediato da Galiani era giunto a Fiorentino e Salfi49, il quale nel 1787 in un discorso di rinvii tipico di Chastellux tra felicità pubblica e privata proponeva una lettura degli eventi drammatici calabresi mediante un modulo interpretativo incentrato sul rapporto tra natura/cultura derivante dal Diderot delle Interprétations50.


5. Un primato napoletano?

Il modello della drammaturgia filosofica diderotiana, anche se a Napoli sul versante del decoro e delle virtù non fu fondante nel progetto di educazione sociale, basato sul nesso teatro-etica, tuttavia diede modo ad un’area europea, nel momento stesso in cui recepiva quel modello, di rielaborarlo, innestando pensieri e problemi proprii sul tronco della ricezione, riuscendo a dare un contributo cospicuo e una forma importante a quell’idea51. Gli auspici di Orsino rimasero in parte inattuati e quel particolare ramo di letteratura drammaturgica civile e politica non fu negli anni Novanta del Settecento declinato, nonostante in città non si trascurasse affatto il settore teatrale, che da genere non occasionale fu strumento ideologico-politico prima, durante e dopo il 179952.
Ciò che va evidenziato è il primato di una città italiana che prima di altre aveva colto il rinnovamento nella distanza di Diderot dalla tragedia e lo aveva largamente diffuso in lingua volgare, pubblicando in un’unica cornice entrambe le pièces del Dioscuro francese. Gli intellettuali napoletani avevano contratto altresì un altro debito di natura etica, proprio con la figura del “padre di famiglia” che, seppur di derivazione classica, aveva proprio in quegli scritti trovato un consolidamento delle virtù laiche. Non doveva trattarsi di un evento marginale, se nel 1799 alla vigilanza dei padri di famiglia la Nazione napoletana rimetteva il deposito della Costituzione, anche a fronte di un processo di sublimazione del personaggio virtuoso in eroe imposto dalla necessità dei tempi, che aveva condotto dal giusto mezzo all’estremo del “Massimo dei beni”.
Nel 1806 la lungimiranza politica consentì a Cuoco di cogliere la necessità di favorire un processo di crescita civile declinando su altri, ma non nuovi cardini (Nazione, Educazione popolare, attacco alla Crusca, difesa dell’uso del dialetto e di Galiani) quel progetto, non abbandonando il discrimen etico come baluardo contro la corruzione, collante nella costruzione di una politica delle riforme tra la nuova classe politica degli uomini al potere dell’età napoleonica e il gruppo di girouettes napoletani53. Ci si ricollegava alle parole di Orsino sulla funzione dell’educazione del popolo come fondante della Nazione, si assisteva alla ripresa di un modulo educativo che aveva fatto uso anche delle opere di Diderot per costruire «una scuola di sentimenti e di costumi».


6. La funzionalità di Diderot nell’Italia postunitaria

Si è illustrato il percorso del pensiero a-sistemico di Diderot allorché fu trasmesso tra allievi, studenti e maestri nella seconda metà del Settecento a Napoli nella scuola dei matematici vicini a Galiani e in quella di Genovesi54. Accanto agli scritti dell’enciclopedista censurato aveva cominciato a circolare tra gli “amanti delle lettere”, sensibili alle idee d’Oltralpe, l’immagine di un Diderot meno radicale, depurato dalle posizioni anticlericali e intento a registrare il reale potere delle gerarchie ecclesiastiche. Egli come il saggio, autore di satire morali, non meno provocatorio di Galiani e Genovesi, figurava nelle biblioteche di alcuni intellettuali55 come Pironti, e tanto in absentia che in praesentia nei processi di ricostruzione e di messa a punto di un modello identitario nazionale56. Si trattava di un duplice aspetto che avrebbe segnato la fortuna di Diderot a Napoli, contraddistinta dall’opposizione scrittore filosofo, saggio-folle, moderato-radicale la cui scelta da parte dei lettori e commentatori era dettata dalle esigenze storiche e dai contesti socio-culturali e politici di riferimento.
Un lungo silenzio doveva calare sulla persona e sulle opere di Diderot, che figurava marginalmente nelle analisi blanchiane come coautore dell’impresa enciclopedica, strumento in uso nel Collegio del Salvatore e nell’Università. Anche se si diffondeva «l’imperativo della legge morale nell’esercizio della volontà» come insegnamento più profondo di Genovesi, lettore di Diderot, messo in ombra da un Kant mediato dall’interpretazione galluppiana, era, tuttavia, ancora il tempo storico a determinare le esigenze culturali. A Napoli infatti perdurava il modello eroico, ormai collante extragenerazionale e “suono guerriero” alla base dei percorsi formativi dei patrioti mazziniani e costituzionalisti57.
Solo dopo aver compiuto l’Unità d’Italia, sul finire dell’Ottocento si sarebbe mostrato pubblicamente nuovo interesse per Diderot. Così ad evidenziarne il pensiero armato, perseguitato e censurato fu Cesare Dalbono l’8 giugno 1881 che nell’Accademia Reale di Napoli lesse la Memoria su Dionigi Diderot. Egli ai suoi interlocutori forniva notizie bibliografiche sul Neveu tradotto dalle due edizioni del 1761 e del 1775, dopo aver raccolto lo stesso suggerimento schilleriano consegnato a Goethe. Dalbono introduceva le novità prodotte nel Settecento, secolo delle scienze, perché conscio di dover ritrarre l’ambiente fisico nel quale era stata congegnata quell’opera, così come il processo di formazione del culto delle scienze che nel Mezzogiorno d’Italia aveva avuto inizio con la diffusione del pensiero di Diderot. Era quel vasto concetto della natura, corredato e confortato da una conoscenza profonda di tutte le scienze fisiche e naturali ad aver formato la grandezza di Diderot e a farlo precursore delle dottrine dell’Ottocento. Nel presentarne le qualità Dalbono cercava anche di ricomporne le fila in un unico corpus letterario-filosofico, compresi i drammi per il teatro, illustrando quel pensiero attuale di un «nostro contemporaneo». Nella Memoria vi era come nodo centrale, oltre che la predilezione per lo scientismo, in stretto legame con l’ideologia rivoluzionaria, anche l’attenzione destinata dal Diderot all’educazione letteraria, lodevole perché rivolta non tanto alla formazione di un professionista quanto piuttosto dell’«uomo in quanto uomo»58.
Che sul finire del secolo decimo nono si assistesse ad un crescente interesse per Diderot precursore, concomitante alla diffusione del positivismo e del darwinismo in Italia, lo dimostrava dopo Dalbono anche Vittorio Pica. Egli nel 1897 a Firenze si soffermava sul legame di Diderot con un altro «dimenticato» Ferdinando Galiani, entrambi uniti dalla condivisione delle forme dello sperimentalismo settecentesco59. Erano le prove della letteratura della Nuova Italia che non sfuggivano a Croce il quale, se mostrava riluttanze in quella ricerca anacronistica dei precursori, tuttavia, del colto, ingegnoso e garbatissimo prosatore Dalbono conservava le acute e necessarie distinzioni poste tra il Diderot filosofo e scrittore e tra il parlatore e l’oratore60.
Si erano così formati e progressivamente consolidati i tre momenti distinti di un unico processo che avevano segnato il rapporto di storici e letterati nei confronti dell’opera e della biografia del filosofo, enciclopedista, drammaturgo, romanziere di Langres. Cosicché le tre azioni: I) selezione nel corpus; II) scelta del singolo scritto; III) privilegio di un modello, finivano per essere le emblematiche operazioni che compiva chi lavorava su Diderot.
Negli anni Cinquanta del Novecento Lidia Herling Croce dava alle stampe una nuova traduzione del manoscritto autografo del Neveu molto diversa da quella di Dalbono. L’interesse dell’autrice era stato individuare e sviluppare le espressioni di una fantasia «che di improvvisazione in improvvisazione, di emozione in emozione conduce ogni ragionamento all’assurdo». La contraddittorietà folle-saggio dello scrittore Diderot era così la linfa vitale del rinnovato interesse che aveva condotto alla messa a punto di una nuova cornice editoriale, nella quale accanto al Nipote di Rameau c’era il Compianto sulla mia vecchia veste da camera. Si trattava del frutto non scontato e nemmeno insolito di una scelta che privilegiava due dialoghi satirici, genere tipicamente napoletano, nati entrambi sotto il segno di un progetto sotterraneo, etico-politico di lunga data e pertanto condivisibile di denuncia degli abusi e dei pregiudizi di una società corrotta, in nome di uno stile di vita umile, lontano da forme di lusso e dai vizi sfrenati, incentrato solo sul lavoro61. Ma c’era a sostenere quell’edizione anche la volontà di concretizzare una sintesi dialettica in una sola cornice di due profili contrastanti, facendone scaturire un modello etico riproducibile.
Era il segno che la fortuna di Diderot, eclissata fino alla fine dell’Ottocento, aveva conosciuto un nuovo slancio, rappresentando nei circuiti intellettuali il collante ufficiale dai risvolti etici espressi tanto nelle forme dello sperimentalismo, che in quelle didascalico-pedagogiche, non smettendo altresì di essere segnata dal noto dualismo virtù/vanità e appariva pienamente fondata su un retroterra teoretico e problematico tutto condizionato dalle necessità storiche.










NOTE
Abbreviazioni: AHRF = Annales historiques de la Révolution française; BCFa = Biblioteca comunale di Faenza; BNPz = Biblioteca nazionale di Potenza; BPC = Biblioteca provinciale di Campobasso; BSNSP = Biblioteca Società Napoletana Storia Patria; BUN= Biblioteca universitaria di Napoli; DS = Diderot Studies; RDE = Recherches sur Diderot et sur l’Encyclopédie.
1 Sono elementi fondanti nella costruzione di un gusto laico della vita in A. La Penna, Orazio e l’ideologia del Principato, Torino, Einaudi, 1963; ID., Orazio e la morale mondana europea in Orazio. Tutte le Opere, Firenze, Sansoni, 1969, pp. CLXXVI-CLXXIX.^
2 In disaccordo con Rosena Davison (Diderot et Galiani: Étude d’une amitié philosophique, Oxford, The Voltaire Foundation, 1985) Paolo Amodio ha illustrato le divergenze politiche dell’abate con Diderot. ID., Il disincanto della ragione e l’assolutezza del bonheur: studio sull’abate Galiani, Napoli, Guida, 1997, pp. 200-03.^
3 BSNSP, ms. XXXII.C.1-4 Ferdinando Galiani, Vita di Orazio. Inoltre cfr. F. Nicolini, L’Orazio dell’abate Galiani, Roma, Atti della Accademia Nazionale dei Lincei. Classe di scienze morali, storiche e filologiche. Memorie, XXII, 1978, 2, p. 231. ID., Il pensiero dell’abate Galiani. Antologia dei suoi scritti editi e inediti con un saggio bibliografico, Bari, Laterza, 1909, pp. 427- 28. Dieckmann reca la notizia che a Parigi già nel 1764 Galiani lavorava ad un Commentaire delle poesie di Orazio. Cfr. H. Dieckmann, Ferdinando Galiani, “Atti del Convegno italo-francese” (Roma 25-27 maggio 1972), Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, CCCLXXII, 1975, p. 320.^
4 F. Nicolini, L’Orazio dell’abate Galiani, cit., pp. 232-33. L’abate giunse ad una soluzione nel 1773.^
5 Decisivo il 1772 nel processo di consolidamento di specifiche posizioni politiche di Diderot, cfr. D. Diderot, Pensées détachées ou Fragments politiques échappés du portefeuille d’un philosophe, textes établis et présentés par G. Goggi, Paris, Hermann, 2011.^
6 BSNSP, Epistolario francese dell’abate Ferdinando Galiani. I. Lettere di diversi XXXI.A.132 quaderno 23, lettera 4, foglio 106r. Sui rapporti tra Galiani e Diderot, cfr. H. Dieckmann, Ferdinando Galiani, cit. e R. Davison, Diderot et Galiani, cit; Ead., Diderot, Galiani et Vico: un itinéraire philosophique, in «DS» (a cura di O. Féllows e D. Guiragossian Carr), 32 (1988), pp. 39-54. Nicolini accennava alla polemica con il Naigeon, citando la lettera del Diderot, OEuvres nell’edizione di Assézat e Tourneux, 1875-76, Paris, VI, p. 302, cfr. F. Nicolini, L’Orazio, cit., pp. 123-24. Nel biennio 1773-74 Diderot maturava in Russia, ospite di Caterina II, progetti di educazione dei cittadini ai doveri civili. Cfr. R. Mortier, Le rêve politique de Diderot. Dans les mélanges pour Catherine II, in Dall’origine dei Lumi alla Rivoluzione. Scritti in onore di Luciano Guerci e Giuseppe Ricuperati, a cura di D. Balani, D. Carpanetto, M. Roggero, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2008, pp. 411-22, qui 419.^
7 Così Diderot su Orazio: «Quand le poète disoit: Non omnis moriar; multaque pars mei vitabit libitinam; il disoit une verité presque rigoureuse». E ancora scriveva a Falconet: «Mais les grands noms sont maintenant à l’abri de ces ravages, et tu subsisteras éternellement, ou dans un fragment de marbre, ou plus sûrement encore dans quelques-unes de nos lignes». Correspondances, janvier 1765-février 1766, a cura di G. Roth e J. Varloot, Paris, Les Editions de Minuit, 1955-1970, pp. 12-16. Su questo punto rinvio a E.B. Hill, Diderot’s letter to Falconet. Summer 1767, in «DS», 25 (1973), pp. 125-41. La citazione tratta da Orazio, Odi, III, 30, vv. 6-7. Di Orazio Diderot, come Galiani, diedero una lettura differente che non confluiva in quell’ideologia della tranquillità dell’anima che La Penna ha illustrato, in quanto, il rapporto tra morale e poesia è forte, così come, l’esigenza dell’autonomia del privato. Id., Orazio e l’ideologia, cit., pp. 175-76. Così la Cammagre, la quale ha argomentato la presenza in Diderot di un progetto etico-morale. Cfr., G. Cammagre, Corréspondance et morale, in «RDE», 11 (1996), pp. 21-37, in particolare pp. 36-37. Si veda inoltre J. Seznec, Essais sur Diderot et l’Antiquité. The Mary Flexner Lectures delivered at Bryn Mawr College, Pennsylvania-Oxford, Clarendon Press, 1957.^
8 Diderot riprese più volte il tema della gloria abbinato alla medietas, ma in maniera determinante nel 1782. Il tema della posterità è stato analizzato da Paolo Alatri nel 1957 in Diderot the testing years, Oxford, University Press e tradotto in Italia da Libero Sosio in Diderot l’appello ai posteri. Cfr., inoltre M. Posada, An introduction to the textual problem of the Diderot-Falconet Correspondence on Posterity, in «DS», 16 (1964), pp. 175-96. Felice l’intuizione di Bonnet sull’escamotage dell’imperfetto “pséudo-itératif” condizione del philosophe per discorrere direttamente con la posterità. D. Diderot, Le Neveu de Rameau, a cura di J.C. Bonnet, Paris, Flammarion, 1983, p. 15. Per una disamina dell’opera cfr., Id., Essai sur les règnes de Claude et de Neron, et sur les moeurs et les écrits de Sénèque, pour servir d’introduction à la lecture de ce philosophe, 2 voll., Londres, Bouillon, 1782. Id., Saggio sui regni di Claudio e Nerone, e sui costumi e gli scritti di Seneca, con una nota di Luciano Canfora, trad. it. di S. Carpanetto e L. Guerci, Palermo, Sellerio, 1987.^
9 A Napoli la poesia di Orazio si studiava abbinata alla lezione dei filosofi moralisti dalla quale si doveva trarre «la suppellettile più doviziosa». Così in uno scrittore «meno ardito», cfr. G. Vico, Autobiografia, a cura di M. Fubini, Torino, Einaudi, 1977, p. 12.^
10 Secondo Blanch (BSNSP, Miscellanea XXXIV.A.12 Lettere sul corso drammatico di Schlegel, c. 84r) l’uso dell’Antichità, di fronte alla caduta delle illusioni, come nella Francia post 1789, poteva essere causa di chimerici progetti. Non era il caso nella Napoli di Galiani che, a dire di Blanch, negli scrittori meno arditi, aveva intravisto, come fonte, per lo studio dei fondamenti dell’ordine sociale, il ricorso alle tradizioni storiche dell’antichità. Cfr. G. Galasso, La filosofia in soccorso de’ Governi. La cultura napoletana del Settecento, Guida, Napoli, 1989, pp. 54-55. Al riguardo Galiani riteneva che «Tra tutti gli amori terreni niuno certamente è più lodevole, più onesto, quanto quel della Patria». «Qual non dovrà essere più, che presso tutte le nazioni, il patriottico zelo in noi, che da quaranta anni in qua ne veggiamo cangiato in tutto il duro tenor della sorte?» dopo aver recuperato i «suoi sovrani benefici e clementissimi». Cfr. Scelta di scrittori ne’ dialetti del Regno delle due Sicilie e nella lingua maccaronica latina, I, Del dialetto napoletano. Opera del Consigliere Abate Ferdinando Galiani, Napoli, pe’ Tipi della Minerva, 1827, pp. 1, 4-5. Inoltre l’abate aveva confessato che l’opera sul dialetto gli era stata ispirata e suggerita da Diderot.^
11 R. Mercier, La métaphore du jeu dans l’analyse de la vie économique (Galiani-Diderot), in Le jeu au XVIIIe siècle. Colloque d’Aix en Provence (30 avril-2 mai 1971), Aix en Provence, Edisud, 1976, pp. 104-06.^
12 Dissertazione. Della moderazione de’ mali costumi appoggiata alla ragion come c’insegna la legge di natura, p. 78. Nel libretto di Orazio Galeota (Ferdinando Galiani) composto all’indomani del terremoto di Calabria del 1783, si legga il sonetto Al gran merito, e virtù del Signor D. Virgilio Gargiulo letterato virtuoso e umile dedito solo alla fatica. E non si trascurino le critiche mosse a danno dei geometri napoletani, sprovvisti di virtù, che con la loro incompetenza mettevano in pericolo la vita dei cittadini.^
13 A. Musi, Il gioco nella formazione del nobile napoletano tra Seicento e Settecento: prime ipotesi di ricerca, in «Mediterranea. Ricerche storiche», 16 (2009), pp. 303-14. Fondamentale R. Turchi-B. Alfonzetti, Spazi e tempi del gioco nel Settecento, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2011.^
14 Si trattava della lunga fortuna a Napoli dell’uso di un modello mediano, che anche nell’Orazio delle Satire avrebbe alcuni anni più tardi trovato la fonte della giusta pena, a misura del delitto, trasmessa da Pagano ai suoi studenti di diritto criminale. BNN, Sez. Manoscritti, Ms. XIX 74, Della ragion criminale libri due di Francesco Mario Pagano. Dettati nell’Università degli studi di Napoli dal dì 5 Novembre 1794 sino a 3 Giugno 1795. Prima dell’Indice si legge «Adsit Regula, peccatis quo poenas irroget aequas: Ne saetica dignum, horribili sectere flagello. Horat. Sat. 3. Lib.1. La pena non deve superare la misura del delitto». La stessa citazione nel 1832 fu scelta da Pellegrino Rossi come epigrafe del suo trattato.^
15 Coloro che manifestarono in maniera diversa interessi scientifici ricorsero alle tavole dell’Encyclopédie, come fecero Genovesi tra il 1765 e il 1769 per la redazione dei Dialoghi morali (A. Genovesi, Dialoghi e altri scritti. Intorno alle Lezioni di commercio, a cura di Eluggero Pii, Napoli, Istituto Italiano per gli Studi filosofici, 2008, pp. 236-37) e Nicola Fiorentino, uno dei suoi allievi critici, ma anche più produttivi che non solo difese tale metodo di lavoro ma lo applicò nei Principj di Giurisprudenza criminale (Napoli, Presso Gennaro Verriento, 1782 [ma 1783], p. 192) e nel Saggio sulle quantità infinitesime e sulle forze vive, e morte, Napoli, s.d., p. 48.^
16 Si tratta di una traduzione autoctona, napoletana, come lo erano quella livornese di Bocchini del 1762 edita dal libraio Fantechi e quella modenese di Antonio Lodadio pubblicata da Giovanni Montanari nel 1768. Se quella livornese fu ristampata nel 1799 a Venezia, a Napoli invece, dove pur erano notevoli gli scambi librari con la città lagunare, si lavorò ad una nuova versione in italiano. Si tratta di un esemplare che richiederebbe uno studio linguistico approfondito. Tuttavia l’esemplare napoletano non reca il nome del traduttore. Era una pratica diffusa non firmarsi e restare nell’anonimato: note distintive di un lavoro non garantito giuridicamente. Sulla condizione di anonimato dei traduttori, sui quali ancor oggi sono lacunose le informazioni, cfr. C. Bertoni, Editoria e romanzo fra Venezia e Napoli nella seconda metà del Settecento, in A.M. Rao, Editoria e cultura a Napoli nel XVIII secolo, Napoli, Liguori, 1998, pp. 699-722. In questo contesto posso solo accennare ad alcune ricerche in corso sulle biografie di patrioti-traduttori napoletani del secondo Settecento reali mediatori politici e socio-culturali di modelli d’Oltralpe.^
17 R. Chartier, Libri e lettori, in V. Ferrone-D. Roche, Dizionario storico dell’Illuminismo, Roma-Bari, Laterza, 2000, pp. 293-300; M.C. Napoli, Nobiltà e teatro. Dalle antiche Accademie alla nuova società drammatica, in M.A. Visceglia (a cura di), Signori, patrizi, cavalieri in Italia centro-meridionale nell’età moderna, Roma-Bari, Laterza, 1992, pp. 340-54.^
18 BUN, Raccolta di drammi francesi volgarizzati. Il figlio naturale o le pruove della virtù, il Padre di famiglia, Napoli, Orsino, 1784, pp. V-VIII.^
19 La “Repubblica delle lettere” come entità sovranazionale presentava connotazioni specifiche in ogni paese d’Europa. Per la Francia, cfr. R. Darnton, L’intellettuale clandestino. Il mondo dei libri nella Francia dell’Illuminismo, Milano, Garzanti, 1990, pp. 119-21; H. Bots-F. Waquet, La Repubblica delle lettere, Bologna, il Mulino, 2005.^
20 Lettere di Gaetano Fiorentino ad un suo amico sopra il saggio di Don Ermenegildo Personé nella Diceosina dell’abate Antonio Genovesi, Napoli, presso Gennaro Verriento, 1780. Su Nicola Fiorentino è d’imminente pubblicazione una biografia politica a cura di chi scrive.^
21 Il cosmopolitismo di Galiani era singolare. Egli come Napoli Signorelli non seguiva le mode. Entrato, infatti, in aperta polemica con l’Accademia delle Scienze domandò più di una volta nel 1780 se fosse vero, come affermava il segretario Michele Sarcone, che da tempo d’Alembert avesse accettato la nomina a socio aggregato. F. Galiani, Del Dialetto napoletano, a cura di F. Nicolini, Napoli, 1923, p. XXXVI.^
22 Da un’indagine si rilevava come nelle traduzioni teatrali napoletane, il numero delle tragedie fosse esiguo e quello più consistente fosse il genere comico. Cfr. G. Galasso, La filosofia in soccorso cit., p. 18. Si tratta di un gusto poco amante delle tragedie e dedito al divertimento e al sollazzo che Galanti notava in condivisione tra Napoli e altre città italiane, convinzione che lo rendeva persuaso del fatto che il teatro non potesse assolvere importanti funzioni civili. Cfr. M. Mafrici, Galanti e l’Italia, in Ead.-M.R. Pellizzari (a cura di), Un illuminista ritrovato. Giuseppe Maria Galanti, Salerno, Laveglia, 2006, p. 276.^
23 Orazio, Ars Poetica, vv. 319-322; vv. 156-157.^
24 L’esemplare della biblioteca Rondinelli di Montalbano Jonico è inserito nel più lungo processo di costruzione dell’identità nazionale in A. De Francesco (a cura di), Costruire la Nazione. Francesco Lomonaco e il suo tempo, Montalbano Jonico, Dofra, 2000, p. 59. Nel 1785 a Napoli oltre a Orsino anche Petraroja pubblicava la traduzione di Amato. All’invito di Antonio Trampus a lavorare su questa traduzione (Morale, felicità e diritto: Metamorfosi di linguaggi tra Genovesi e Verri, in Dall’origine dei Lumi cit., pp. 537-57) si aggiunga però che per la circolazione a Napoli di Pufendorf non si possono trascurare gli ambienti del Sacro Regio Consiglio con le figure di Giacomo Antonio Vinaccia e di Salvatore Palermo. Fondamentali restano F. Palladini, Samuel Pufendorf discepolo di Hobbes: per una reinterpretazione del giusnaturalismo moderno, Bologna, il Mulino, 1990; V. Fiorillo (a cura di), Samuel Pufendorf filosofo del diritto e della politica, Napoli, La città del sole, 1996.^
25 L. Diodati, Vita dell’abate Ferdinando Galiani Regio Consigliere, Napoli, Orsino, 1788. A legare il ritratto di un uomo di governo all’ideologia diderotiana è il culto del futuro, tipico di un’epoca e costruito sul nesso memoria-tempo. Su questi aspetti rinvio a G. D’antuono, Drammaturgia, censura e ricezione in Italia e in Europa del teatro di Diderot, Tesi di laurea a. a. 2000-2001, Università degli studi “G. D’Annunzio” Chieti-Pescara, pp. 37-38. Inoltre F. Nicolini, L’Orazio dell’abate cit., pp. 111-314. Nicolini riferiva di brani tradotti dal Diodati, ritradotti in francese da Barbier e Salfi nell’edizione del 1818 della Correspondance del Galiani, esemplari poi smarriti o piuttosto portati a Parigi. Ivi, p. 114.^
26 Si colgano i nessi Genovesi-Diderot mediati da Galiani già in A. Genovesi, Scritti, a cura di Franco Venturi, Torino, Einaudi, 1977, pp. VII-VIII. Il che fornisce una chiave di lettura sul cui significato e risvolto non si è indagato ancora abbastanza. Se Galiani e i galianei, infatti, seppero cogliere negli scritti del filosofo di Langres tutte le derivazioni newtoniane, invece, diversa e più mediata fu l’operazione di ricezione altrove. E a tal riguardo sembra, quanto mai pertinente, ciò che Ajello ha illustrato in merito alla funzione positiva del metodo sperimentale di Diderot, il quale seppe filtrare il newtonianesimo che solo in tal modo fu assimilato nel gruppo di Genovesi. E così accadde nel gruppo di afrancesados (Argento, Grimaldi e Galiani) uomini di legge, attenti alle idee oltramontane, di certo non quelle à la mode delle Gazzette, che tanto furono odiate anche dal Napoli Signorelli e nelle pratiche culturali e nell’ideologia politica lontani e in aperta polemica con i misogalli. In altra sede si è colta l’applicazione di quel metodo a processi cognitivi etici: «Chez Diderot, l’éloge de la penseée expérimentale n’a jamais été démenti» spostando l’attenzione alla ricerca avviata dal filosofo, per estendere il metodo nei soggetti morali, così come aveva fatto Hume, il Newton nelle scienze umane. Cfr. G. Cammagre, Corréspondance, cit., p. 24.^
27 Al riguardo così Imbruglia: «The recognitions of facts “tels qu’ils sont” led Diderot to accept life as a contrast of movements wich were sometimes converging and conflicting: man was neither only spontaneity, nor only self-control. Morality could not be separated from the science of man, from the recognition of his complex nature». G. Imbruglia, From Utopia to Republicanism: the case of Diderot, in B. Fontana (a cura di), The invention of the modern Republic, Cambridge, University Press, 1994, pp. 63-85, in particolare p. 78.^
28 Diderot in questa polemica non fu isolato, infatti, diverse le personalità della magistratura che ne condivisero le idee e che furono dal philosophe difesi, come nel caso di Caradeuc de la Chalotais che mise a punto un Essais d’Éducation Nationale ou Plan d’études pour la jeunesse, a cura di Robert Granderoute, Sainte-Etienne, Publications de l’Université de Saint-Etienne, 1996.^
29 Questa polemica che investì a Napoli l’istituto matrimoniale fu sviluppata in ambienti socio-culturali contigui, ma non del tutto simili, fu dettata da obiettivi diversi che si tradussero in altrettanto differenti modelli presentati e in edizioni e in scena. Infatti come ci si interessò a Diderot per la proposta di un matrimonio extracetuale tra una fanciulla non benestante e un giovane “borghese”, così in alcuni accademici napoletani circolò, grazie al teatro, il modello innovativo del matrimonio che legava nobile-borghese. Su questo secondo caso rinvio a M.C. Napoli, Nobiltà e teatro cit., p. 349.^
30 BSNSP, XXX.C.12, Lettere ed altri scritti dell’abate Ferdinando Galiani (copie), fogli 63-65 A S.M. sulla corruzione del gusto e della musica. Era un grande intenditore di musica, amava Paisiello e Pergolesi e giudicava troppo fragorosa quella francese. V. Pica, L’abate Galiani (1723-1787), in La vita italiana nel Settecento. Conferenze tenute a Firenze nel 1895, Milano, Treves, 1917, p. 146.^
31 Galiani prediligeva lo stile chiaro e le argomentazioni nette e distinte tipiche di Diderot anche non condividendone in toto il metodo newtoniano. Fu attraverso il vitalismo di Diderot che Genovesi accolse il pensiero di Newton, e conobbe uno Shaftesbury filtrato, mentre invece il Galiani che di Diderot coglieva aspetti divulgativi, fu l’espressione di quella cultura tanto lockiana del primo Settecento nel Mezzogiorno d’Italia. BSNSP, XXX.C.12, Lettere ed altri scritti dell’abate cit., fogli 65-70 Piano di un’Accademia teatrale per profitto de’ giovani de’ Conservatorj, in particolare foglio 67. Alfonso Salfi, memore di Galiani, nel 1878 si rifece alla teoria e all’insegnamento di Diderot nella tecnica della declamazione. Id., Della Declamazione, Napoli, Di Ambrosio, 1878, pp. 50-51.^
32 G. Galasso, La filosofia..., cit., p. 225.^
33 Y. Lafon, Fiktion als Erkenntnistheorie bei Diderot, Stuttgart, Steiner, 2011.^
34 Di recente nel 1748 è stato individuato il momento a quo di un processo di costruzione di una politica fondata su «la raison, la mésure et la témperance» e che tende ad un nuovo regime poggiante sulla «modération, princip actif». «Après le constat que la Révolution est l’invention paradoxale d’une forme de modération du politique» «il faudrait ajouter la modération, pensée comme un mode de gouvernement». P. Serna, Radicalités et modération. Postures, modèles, théories. Naissance du cadre politique contemporain, in «AHRF», 2009, n. 357, pp. 3-19, in particolare pp. 9, 19.^
35 Era un’altra lettura della “medietà”di ascendenza rinascimentale che prevedeva la possibilità della scelta e l’adattamento alle circostanze. «Coloro che scrivono di etica definiscano aggiungendo alle parole le nostre azioni che costituiscono costumi e virtù». «Bisogna osservare quella medietà che costituisce le virtù ed è giustamente da lodare in ogni genere di vita, virtù e vizio troveranno posto nel discorso e nel discorso la virtù si è assicurata un proprio luogo e lo occupa anzi con onore e lode». Così il teatro nel discorso filosofico-civile pontaniano, modello di Genovesi, doveva rispecchiare la vita, il teatro doveva smettere di essere istrionico per diventare decoroso, rispettando il rapporto tra vizi e virtù. Cfr. G. Pontano, De Sermone, a cura di Alessandra Mantovani, Roma, Carocci, 2010, pp. 139, 357. Al modello culturale di Pontano corrispondeva un’idea socio politica, ben evidenziata da Bentley, di patriota che lavora con realismo per la difesa della Repubblica. J.H. Bentley, Politica e cultura nella Napoli rinascimentale, con Introduzione di G. Galasso, Napoli, Guida, 1995, pp. 57-61, 193-205.^
36 «Nel proclamarsi a Filadelfia nel passato maggio il trattato definitivo di pace con la Gran Bretagna e di 13 Stati Uniti d’America fu innalzato un magnifico arco trionfale. Nella sommità dell’arco vedevasi il tempio di Giano chiuso con la leggenda Numine favente magnus ab integro seclorum nascitur ordo. Nella parte meridionale della balaustrata v’era il busto di Luigi XVI con il motto Merendo memores facit. Poi l’obelisco in onore degli eroi morti per la patria. Sul quadrato del piedistallo meridionale una biblioteca con molti strumenti ed emblemi di scienze ed arti e il motto emolliunt mores. Cincinnato coronato d’alloro che torna all’aratro e le truppe che s’esercitano all’arme, un aratro, alcuni granaj e una nave con vele spiegate che sono le armi della Pensilvania con la leggenda Terra fuis contenta bonis». BNN, Scelta Miscellanea, VII, luglio 1784, Notizie politiche. Nei primi numeri si era insistito su: Amor di patria, il vero cittadino, la vera cittadina, emblematici di quell’ideologia sopracitata. Sul modello francese coltivato nel salotto dei Di Gennaro cfr. F. Venturi, Il movimento riformatore degli illuministi italiani, in «Rivista storica italiana», 74 (1962), pp. 18-19; E. Chiosi, Il Regno dal 1734 al 1799, in G. Galasso-R. Romeo, Storia del Mezzogiorno, Roma, Edizioni del Sole, 1986, IV, t. II, p. 448.^
37 D. Diderot, OEuvres politiques, a cura di Paul Vernière, Paris, Garnier Frères, 1963, p. 491. Dove il termine brave significa tanto “onesto”, “semplice” quanto “eroe”. Si legga inoltre come lo scritto diderotiano sia stato inserito in un più generale contesto di pessimismo dei filosofi del secolo decimottavo debitori nei confronti di una concezione ciclica del tempo: «Se dessine ici une sorte de motif de la Chute inéluctable dans le paradis politique. Il transparaît mieux encore à travers la peur que la corruption européenne ne souille le jardin américain. C’est l’idéal de la république agrarienne fondée sur la méfiance platonicienne à l’égard du commerce et du luxe qui se fait jour une fois de plus. À part Soulès et Raynal, entre autres, on citera une des grandes figures du siècle, Diderot». C. Lounissi, Penser la Révolution americaine en France (1778-1788). Enjeux philosophiques et historiographiques, in «Cercles», 16 (2006), n. 2, pp. 97-113, in particolare p. 103.^
38 Tipico discorso nei trattati de institutione principis di cui abbonda la letteratura politica antica e moderna e che ancora tra Seicento e Settecento continuano a rappresentare una forma letteraria particolare della riflessione sul potere, sui doveri dei monarchi e sui rapporti tra potenti e filosofi. Inoltre Diderot aveva offerto l’immagine di Enrico IV come di un sovrano che grazie alle sue virtù comprendeva quali fossero i doveri verso i sudditi. Cfr. V.H. St. John Bolingbroke, L’idea di un re patriota, a cura di G. Abbattista, Roma, Donzelli, 1995, pp. VII, 101.^
39 G. Filangieri, La Scienza della Legislazione del cavalier Gaetano Filangieri, Libro IV, parte II, cap. XLIV, Napoli, nella stamperia Raimondiana, 1783, pp. 389-93.^
40 Su Diderot fonte di Filangieri, G. Goggi, Ancora su Diderot-Raynal e Filangieri, cit. Inoltre cfr. V. Ferrone, I profeti dell’Illuminismo. Le metamorfosi della ragione nel tardo Settecento, Roma-Bari, Laterza, 2000, pp. 338-59.^
41 Al contempo assumeva anche le sembianze di quel vitalismo diderotiano, giunto a Genovesi nella veste neonaturalista filangieriana. Gli scritti di Pagano e di Cirillo furono contraddistinti dalla medesima concezione che leggeva l’universo attraverso la metafora di un animale piuttosto che di una macchina. Cfr. R. De Lorenzo, Un Regno in bilico. Uomini, eventi e luoghi nel Mezzogiorno preunitario, Roma, Carocci, 2001, pp. 257-76, p. 259.^
42 Quel modello nel 1799 fu utilizzato da de Silva, fondatore di «Scelta Miscellanea» nella nuova testata bilingue «Corriere d’Europa». Cfr. Patrioti e insorgenti in Provincia: il 1799 in Terra di Bari e Basilicata, a cura di A. Massafra, Bari, Edipuglia, 2002, p. 497.^
43 L. Mascilli Migliorini, Il mito ell’eroe: Italia e Francia nell’età della Restaurazione, Napoli, Guida, 20034, p. 13.^
44 F. Diaz, Discorso sulle Lumières. Programmi politici e idea forza della libertà, in Età dei lumi. Studi storici sul Settecento europeo in onore di Franco Venturi, 2 voll., Napoli, Jovene, 1985, I, pp. 101-63, in particolare p. 153. Id., L’ultimo Diderot dall’entusiasmo alla rinunzia, dalla rinunzia all’entusiasmo, in «Intersezioni», 4 (1984), pp. 533-47. Inoltre si veda G. Goggi, Diderot e il paradigma repubblicano: il ricorso all’eloquenza politica, in F. De Michelis Pintacuda-G. Francioni, a cura di Ideali repubblicani in età moderna, Pisa, ETS, 2002, pp. 283-318.^
45 Categorie interpretative fruttuose in uso in B. Didier, Diderot dramaturge du vivant, Paris, PUF, 2001.^
46 L’inedito è stato pubblicato da R. Ajello, cfr. A. Genovesi, Considerazioni sui fondamenti della civile società o sulle leggi dei corpi politici, in «Frontiera d’Europa», 10 (2004), n. 2, pp. 234-45.^
47 Si fa riferimento all’esemplare conservato nella BPC. Sul conflitto che si creò tra l’editore Roland, possessore della privativa e la Società letteraria del Galanti, il quale all’indomani del 1783 proseguì l’attività con il Gabinetto letterario, cfr. A.M. Rao, La stampa francese a Napoli negli anni della Rivoluzione, in «Mélanges de l’École française de Rome» (1990) 102/2, pp. 469-520, in particolare pp. 475-76. Dopo il 1783, tanto nel 1786 che nel 1788, altre edizioni delle Novelle morali furono pubblicate a Napoli. Nel 1786 l’editore Merande pubblicò una raccolta di novelle di Diderot e St. Lambert tradotte da Niccola Martinez. I due esemplari sono ora conservati nella BNPz e nella BCFa. Nel 1788 La Nuova Società Letteraria e Tipografica metteva sul mercato due edizioni delle Novelle morali di Mr. Diderot separate da quelle di Marmontel come nel 1783.^
48 BNN, «Il Giornale Letterario di Napoli», 15 dicembre 1795, p. 106. Di una lunga fortuna avrebbe goduto questa operetta presente ancora e con un elevato prezzo nei cataloghi dei librai editori napoletani del secondo Novecento.^
49 Oltre Galiani, Nicola Fiorentino fu diffusore della produzione di Chastellux integrato con Hume. N. Fiorentino, Principj di giurisprudenza criminale, cit., p. 99. In seguito la Società letteraria di Galanti pubblicò nel 1782 in allegato alle Considerazioni sopra la sorte dell’umanità nelle diverse epoche della storia moderna la Dissertazione sopra il governo feudale del signor David Hume. Cuoco nel 1801 e nel 1804 nello scrivere a de Gérando riconobbe a Chastellux il merito di essere stato l’unico scrittore francese ad aver compreso la dottrina del pensiero precorritore di Vico. Cfr. Abbozzi di lettere a Jean Marie de Gérando sulla filosofia vichiana. Primo e secondo abbozzo (intorno al 1801); Terzo abbozzo (1804), in V. Cuoco, Epistolario (1790-1817), a cura di M. Martirano e D. Conte, Roma-Bari, Laterza, 2007, pp. 345-62.^
50 Salfi giungeva a Chastellux attraverso la mediazione di Galiani e di Diderot. F.S. Salfi, Saggio di fenomeni antropologici relativi al tremuoto, ovvero riflessioni sopra alcune opinioni pregiudiziali alla pubblica o privata felicità, Napoli, Flauto, 1787, p. 35. Per cogliere i punti di contatto tra Diderot, Chastellux e Galiani, cfr. G. Imbruglia, From Utopia to Republicanism, cit., pp. 79-81.^
51 G. Galasso, La filosofia cit., p. 20.^
52 A Napoli come in Francia il teatro era luogo d’azione di un’altra forma di linguaggio politico costituito da metafore funzionali al consolidamento delle patrie virtù in rapporto al potere legittimo. È un aspetto sviluppato nel Convegno internazionale Images, fictions, concepts: le langage politique de Diderot, (comité scientifique G. Dulac, G. Goggi, B. Binoche), organizzato dall’Institut de recherches sur la Renaissance, l’âge Classique et les Lumières e dall’Université Montpellier-III (Montpellier 20-21 maggio 2011). Cfr., http://rde.revues.org/index4786.html. Inoltre si veda P. Pellerin, La place du théâtre de Diderot sous la Révolution, in «RDE», 14 (1999), 27, pp. 89-104.^
53 A. De Francesco, Vincenzo Cuoco. Una vita politica, Roma-Bari, Laterza, 1997.^
54 Blanch si soffermò non tanto sulla biologia e sulla fisica sperimentale di Diderot, quanto sul certificato di modernità offerto dal Discorso preliminare di un filosofo qual era stato D’Alembert. Egli volle insistere sulla funzione innovativa di una conoscenza di base offerta ai giovanetti dall’Encyclopédie, che nel metodo nell’Università di Göttingen fu poi superata. BSNSP, ms. Miscellanea XXXIV.A.12, Sul discorso preliminare dell’Enciclopedia, cc. 135v-140v. Una lettura progressista de l’Encyclopédie è rinnovata in E. Badinter, Les passions intellectuelles. I. Désirs de gloire (1735-1751), 2 voll., Paris, Fayard, 2010, pp. 568-69.^
55 Non basta limitarsi alla descrizione di un’unica fisionomia culturale del giurista meridionale in grado di rappresentare ogni forma mentis. Se così fosse in quale Weltanschauung rientrerebbe Pironti lettore di Diderot, artefice negli anni Cinquanta dell’Ottocento con Settembrini di un monumento ghibellino, che nel 1871 riconoscendo in Cavour l’artefice di una radicale riforma, era lieto di trovarsi finalmente ad agire sul terreno delle libertà costituzionali che declamavano lo Stato sovrano? Cfr. M. Pironti, Lo Stato e la Chiesa, Napoli, Argenio, 1871, p. 34.^
56 Due casi al riguardo sembrano paradigmatici. Melchiorre Gioia «disprezzava come guazzabuglio metafisico l’Essai sur le mérite et la vertu, che egli attribuiva al Diderot e che in realtà Diderot aveva tratto da Shaftesbury, il cui intuizionismo morale non poteva non ripugnargli profondamente, imbevuto com’era di utilitarismo benthiano». Cfr. E. Garin, Storia della filosofia italiana. Dall’Illuminismo al Risorgimento, vol. III, parte V, Torino, Einaudi, 1966, pp. 1044-45. Sacconi nel 1850 notava che Sismondi aveva dato le ultime strette al fanatismo dell’Inquisizione, per sostituirlo poi con il fanatismo di Diderot. Cfr. S. de Sismondi, Storia delle Repubbliche italiane del Medioevo, traduzione italiana riscontrata corretta e reintegrata sul testo francese dell’edizione di Bruxelles del 1836, a cura di L. Sacconi, voll. 5, Milano, 1850, vol. I, p. XXXV. Merito di Quintili è l’aver ormai dimostrato la distinzione del pensiero di Diderot da registri concettuali non metafisici e da forme di fanatismo intellettuale. Cfr. P. Quintili, La pensée critique de Diderot. Matérialisme, science et poésie à l’âge de l’Encyclopédie. 1742-1782, Paris, Honoré Champion, 2001.^
57 L. Mascilli Migliorini, Il mito dell’eroe, cit., pp. 146-47.^
58 Cfr. C. Dalbono, Memoria su Dionigi Diderot. Letta all’Accademia Reale nella tornata dell’8 giugno 1881, in Del movimento scientifico in Napoli nell’ultimo secolo 1750-1850. Programma letto all’Accademia Pontaniana, nella tornata del 13 luglio 1878, in Id., Scritti varii, prefazione di F.S. Arabia, Firenze, Le Monnier, 1891, pp. 134-209. Si noti l’uso della categoria di contemporaneo in Dalbono e in Armando La Torre. Cfr. A. La Torre, Diderot nostro contemporaneo. La fondazione della critica materialistica e della sociologia dell’arte, Roma, Editori riuniti, 1977.^
59 V. Pica, L’abate Galiani, cit.^
60 Croce tracciava di Dalbono il profilo di un «gaudente dell’intelligenza» che non fu preso «da un fuoco sacro, da un appassionamento per un sentimento» dotato di un ingegno di greca eleganza, che sebbene scrittore di poche pagine, aveva fornito con il suo Diderot cose da imparare. B. Croce, La letteratura della Nuova Italia, Roma-Bari, Laterza, 1973, IV, p. 294; Id., La letteratura, cit., 1974, V, pp. 353-54. Ad allontanare Croce da ammiratori di Diderot come Dalbono e Pica fu anche il rapporto che lo storico intessé con ogni figura di precursore a suo parere inattuale e inefficace nella politica del presente.^
61 D. Diderot, , trad. it. e nota introduttiva di L. Herling Croce, Milano, Rizzoli, 1957, pp. 5-7. La traduzione de Le Neveu è stata poi ripubblicata con introduzione di J. Starobinski, Milano, BUR, 1998.^
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