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Cattaneo: una visione della storia d’Europa (e altri aspetti del suo pensiero storico)*
di Giuseppe Galasso
Sul pensiero storico di Cattaneo è abbastanza conosciuto ciò che si riferisce all’Italia (e, certo, anche per la sollecitazione del saggio famoso su la città come principio ideale delle istorie italiane).
Meno conosciuto, o, meglio, meno diffuso è il suo pensiero storico per quanto riguarda l’Europa. Anche su questo tema, come per l’Italia e, più in generale, per tanti aspetti dell’intero pensiero di Cattaneo, le sue posizioni ricorrono spesso, e per lo più, in riflessioni di varia ampiezza presenti nei suoi scritti, che possono anche essere definite rapsodiche, ma, altrettanto certamente, non sono occasionali.
A cominciare, infatti dall’affermazione che i suoi «popoli più antichi (Etruschi, Greci, Liguri, Celti) – come si dice nelle Interdizioni israelitiche – ancora vergini di conquista o almeno non congiunti in servaggio ad altre genti, formavano ciascuno in sé un tutto proprio, benché compartito in varie membrature ». Poi vi fu Roma, nella cui realtà imperiale «tutti questi sparsi nodi di popoli si disciolsero come le masse saline nella vastità dei mari».
Ne risultarono «quattro grandi unità, cioè quella del potere nell’autorità imperiale, quella delle leggi nel diritto romano, quella della credenza nella fede cristiana, quella della lingua in un latino popolare e snodato». Unità che appaiono sopravvivere alla rovina dell’impero di Roma, tanto che «le novelle nazioni d’Europa» allora formatesi «non poterono più divenire tanti corpi separati con una esistenza tutta propria a nazionale, come si vedeva nei popoli primigeni».
Il sigillo unitario impresso da Roma alla posteriore storia europea si mantenne, in altri termini, forte e vivo. «La universa popolazione d’Europa popolazione romana era divenuta una massa in cui varii principii erano mescolati in una proporzione quasi uniforme dappertutto. Dappertutto s’incontrava il cristiano e l’ebreo, il laico e il clerico, la scrittura latina e le denominazioni gotiche, i testi civili e le saghe barbariche, il diritto e la violenza, le istituzioni municipali e la conquista; una rimanenza indelebile di pratiche domestiche, agrarie, mercantili e fabrili: e sopra ogni cosa l’idea di una commune e suprema ragione imperiale e romana».
La «massa uniforme» di queste «novelle nazioni d’Europa» era, tuttavia, «spaccata in tanti compartimenti quant’erano i regni», anche se «si ricomponeva e decomponeva senza fatica come le zolle di un campo arato», per cui si poterono formare rapidamente imperi come quelli di Carlomagno e di Ottone I o regni come quello di Guglielmo il Conquistatore. Nell’impero di Carlomagno, per l’appunto, rientrò anche il regno dei Longobardi in Italia, i cui sovrani «non potevano tener fronte» al re dei Franchi «perché il loro regno non aveva carattere nazionale»: non aveva, cioè, a quanto sembra di poter intendere qui come significato del termine “nazione”, una coesione politica sufficiente per resistere all’invasore. Anzi, una volta avvenuta la conquista franca, poiché «l’idea dell’unità», retaggio dell’opera di Roma, «predominava», accadde che, come i Longobardi, anche gli altri «si acquietarono nell’unità dell’impero» ricostituitosi con Carlomagno.
Dopo quest’ultimo, però, il suo impero si dissolse, e «più non vi fu un’autorità pubblica in Europa», ossia un potere politico di ampio raggio riconosciuto e accettato. Si ebbe allora il trionfo del particolarismo, del quale Cattaneo traccia un quadro molto vivace.
«I re parziali – egli scrive – erano distrutti, il re centrale non poteva in tanta selvatichezza di tempi, senza strade, senza commerci, senza esercito stanziale dominar così lontano. Ogni capitano, ogni possidente comandò dove si trovava […] La Francia più secoli non ebbe né legislatori né leggi. In seguito per necessità di sicurezza si confederarono in gremi [= raggruppamenti] feudali e crearono senza saperlo un sistema. Ma questo sistema era fortuito e tumultuario. I confini delle nazioni erano promiscui. Parte della Francia era unita all’Inghilterra, parte all’Aragona, parte allo Stato Pontificio, parte alla Germania, il resto era diviso i re, i duchi e conti di Francia, di Borgogna, di Bretagna, di Tolosa, di Provenza, di Fiandra. Così altrove».
Al particolarismo politico si accompagnò per Cattaneo quello del diritto e dei suoi istituti. «In mezzo a quell’anarchia – egli scrive – ognuno seguì le proprie tradizioni. In luogo dell’equità, dominarono le consuetudini dei forti e le colleganze dei deboli. Quindi due fonti principali di leggi: il costume e gli statuti. I castellani, informe esercito disseminato su tutta la superficie del paese, formarono il gius feudale. Il sacerdozio promulgò il diritto canonico, adattando successivamente i principii romani alle esigenze della fede e della gerarchia. Nelle città i mercanti e gli artigiani tennero il diritto municipale. I naviganti, toccando nel giro d’un anno più porti e più nazioni, sublimarono le pratiche commerciali in diritto marittimo. Ogni corporazione stabilì una pratica che, scritta, divenne regola e legge. Ogni ordine monastico ebbe regole proprie e nome ed abito distinto, sicché fu necessario limitarne con prammatiche il numero sempre crescente».
Fu su questo sfondo che «gli ordini cavallereschi attrassero colla varietà degli istituti, dei privilegi, delle insegne la bisognosa gioventù, a cui il sistema feudale negava la debita parte della terra paterna», mentre «tutta l’Europa si trovò schierata in corporazioni mercantili, fabrili, nautiche, cavalleresche, monastiche, universitarie».
Da una tale frammentazione politica e sociale non potevano che nascere contraddittorietà e giustapposizioni vistose. «Nel medio evo un uomo professava di vivere colla legge romana e un altro colla legge longobarda». I baroni giudicavano attraverso la prova del duello, mentre la chiesa scomunicava i duellanti. I naviganti trovavano sicurezza nei porti, dove si raccoglievano, al tempo stesso, «le spoglie dei naufraghi. Al potere illimitato di un barone corrispondevano i limiti fissati a un altro da accordi con «beccai e ciabattini collegati in corporazioni con armi e bandiere». Insomma, «i regni del medio evo erano accozzamenti fortuiti e tumultuarii. I varii ceti coesistevano in una perpetua lotta, ora palese e armata. Ora involuta nei contratti e nelle legislazioni».
Gli ebrei stessi non erano che una «di queste corporazioni». Perché, però, tutte le altre erano concordi nell’avversarli, ne derivò il loro isolamento e la loro condizione di inferiorità sociale. In quel tipo di società la loro sorte non aveva speranza di essere diversa. Perché diventasse diversa occorreva un mutamento radicale dei fondamenti della società.
La sovversione dell’ordine medievale e la sua sostituzione con un ordine opposto è stata l’opera storica dell’età moderna. L’ordinamento corporativo della società divenne «un continuo inciampo, che rendeva la gestione degli affari lenta, faticosa, minuziosa, litigiosa». Si mirò, quindi, a costituire una «società civile, aperta ai vitali impulsi della libera concorrenza». Il particolarismo giuridico fu superato dando «luogo a codici uniformi e nazionali». Le lingue nazionali soppiantarono il latino, e favorirono così «lo spirito nazionale, il quale è in ragione inversa dell’uso dei dialetti e in ragion diretta della lingua commune». A sua volta, la pratica delle lingue nazionali servì a meglio determinare «i confini naturali delle nazioni», costituendo «un fomento della pace universale». La eterogenea e indisciplinata accolta di milizie feudali fu sostituita da «eserciti animati da una sola volontà». A sua volta, la pratica delle lingue nazionali servì a meglio determinare «i confini naturali delle nazioni», costituendo «un fomento della pace universale».
Lungo la linea di una tale logica, lo Stato nazionale, «coll’uniformità e perpetuità delle sue tendenze», svolse «un’azione ugualitaria», che restaurò «l’equità civile», propria dell’antica tradizione romana. Si ebbe una «esplosione popolare», che «in alcuni paesi» conseguì «in un giorno» ciò che «il potere consueto» avrebbe «quietamente» realizzato in un secolo. Subentrato poi il «potere assoluto» di Bonaparte al «poter popolare» rivoluzionario, entrambi «convennero nella dissoluzione dei privilegi e nell’adeguamento delle utilità», pareggiando così «i membri dello Stato nel cospetto della legge e nel godimento dei diritti civili».
Su questo sfondo della storia europea era, quindi, inquadrato il problema e delineata la storia del superamento delle interdizioni israelitiche, come Cattaneo definisce le limitazioni e gli ostracismi a cui erano sottoposti gli ebrei. Egli parte, al riguardo, dal trattato di Passau e dalla pace di Augusta a metà del secolo XVI, per giungere alla situazione della prima metà del secolo XIX nei varii paesi europei e negli Stati Uniti, e per esprimere il giudizio che «quest’epoca immensa e sublime non sia ancora condotta a compimento; può dirsi cominciata appena».
Fin qui le Interdizioni israelitiche; e non è difficile scorgere – nella trama della storia dell’Europa medievale e moderna che il Cattaneo vi abbozza – il riflesso diretto delle idee che la storiografia europea elaborò a tale riguardo fra la metà del secolo XVIII e la metà del XIX. Una storiografia che nel 1865 (una trentina di anni dopo le Interdizioni, che sono del 1836) il Cattaneo definì nei suoi principii e in alcuni dei suoi principali esponenti, parlando – nel saggio Su la Scienza nuova di Vico – della «storia filosofica, che indaga ed associa le grandi e le piccole cagioni degli eventi umani». La definizione di “storia filosofica” non deve portare, però, fuori strada. Si tratta di una storia fatta con la «pazienza [che], applicata agli studi, è un portato di quello spirito analitico, che accerta in ogni sua parte il vero ed al quale dobbiamo le più belle conquiste del nostro tempo». Di qui la rinuncia a «sistemi storici o filosofici»; e, invece, la pratica dell’«ufficio di eruditi», che si applicano alla ricerca e allo studio dei documenti per raffigurare «gli eventi colla fedeltà dello specchio». Dove è facile ravvisare un chiaro riflesso delle idee del Ranke, sul ricorso agli archivi, in particolare per la storia diplomatica, per vedere “che cosa sia realmente accaduto”: il Ranke che Cattaneo cita tra «i più recenti riformatori della istoria», assieme a Thierry, Thiers e Mignet.
La “storia filosofica” non è, dunque, altro che una storia rigorosamente filologica, tutta archivi e documenti, tutta analitica e induttiva, che rinuncia «al successo passeggero, benché spesso rumoroso, di chi rimaneggia, a comodo proprio e a diletto altrui, la storia», e ancor più rinuncia a una prassi storiografica, in cui «la fantasia porgerebbe ala à voli più arditi». Non letteratura; si, invece, «storiche discipline», alle quali sia legge «l’osservazione per guida e l’imparzialità e la giustizia per meta», secondo il «movimento della odierna scola storica, iniziato da lunga stagione in Germania, e che ebbe in Francia un ricolpo sì vivo nei lavori del Guizot, del Fauriel, del Thierry». Movimento al quale il Cattaneo riporta pure, per l’Italia, la Storia della diplomazia europea in Italia dal 1814 al 1861 di Nicomede Bianchi, parlando della quale esprime altre sue idee sulla storiografia contemporanea.
Su altre opere storiche dello stesso periodo Cattaneo esemplò pure la sua visione delle origini della civiltà europea e dell’antichità greca e romana.
Per la storia di questa antichità egli si rifece essenzialmente al primo volume della Universalgeschichte di uno storico autorevole, qual era Heinrich Leo, la cui seconda edizione era del 1839. In uno scritto del 1840 (Dell’evo antico) Cattaneo commentò diffusamente l’opera di questo «ingegnoso storico», del quale non approvava il criterio di costruzione di una “storia universale”.
Leo si era attenuto al criterio di non trattare dei varii popoli e paesi, se non partendo da quando «ciascuno d’essi si mosse dal suo naturale isolamento per prender parte all’opera commune del genere umano». Quasi, dunque, «come il geografo che nel descrivere un paese, annoverasse i fiumi secondo l’ordine con cui vengono a farsi tributari d’altro fiume, e non secondo l’ampiezza del loro proprio corso». Per Cattaneo, invece, è soltanto una ongettura indicare un popolo o un paese da «riguardare come il tronco primitivo» dell’albero della civiltà. Egli si limita, perciò, a supporre che «forse […] l’opera dell’incivilimento ebbe varii principii presso varie nazioni» e «si svolse a poco a poco dalla sovrapposizione di molte civiltà contemporanee nell’origine loro, e commiste poi dalla guerra e dalla servitù».
Ancora una volta il principio delle «molte radici», a cui egli lega l’idea della libertà, si fa sentire nel pensiero di Cattaneo un principio ispiratore generale e di fondo, per cui egli esorta a lasciare del tutto da parte, in materia storica la vichiana boria delle nazioni.
Proprio per il rifiuto di questa boria, Cattaneo parte senz’altro dal ricordare che «già grandeggiavano nell’Oriente vastissimi regni sacerdotali» quando l’Europa si trovava ancora immersa «nelle tenebre dei tempi primitivi» e «non v’erano ancora grandi consorzii di nazioni, ma minute tribù e discorsi favelle». È da quei «regni sacerdotali», sia pure soggiacenti a una «tetra disciplina», e da Cattaneo localizzati dall’India alla Mesopotamia (non è menzionata qui – e la cosa va rilevata – la Cina), che si diffondono le istituzioni della civiltà. In Europa quei «vasti ordinamenti sacerdotali» non attecchiscono. Dalla Grecia arcaica fino al grande Alessandro, Cattaneo ripercorre le tappe dello svolgimento politico della Grecia, con varii richiami a vicende europee posteriori, come la conquista normanna dell’Inghilterra o le lotte comunali a Firenze o le sommosse e rivoluzioni parigine.
Il succo di questa storia greca è che i popoli ellenici e le loro città o leghe rimasero sempre del tutto legati alla loro individualità, senza mai rinunciare all’autonomia delle loro tradizionali istituzioni e costumi; e per ciò «quella stessa indipendenza, che fu la fonte della civiltà greca, produsse un’intima divisione di fini e di forze», dalla quale quei popoli e città non uscirono mai, condannandosi così a essere assoggettati prima dai Macedoni e poi dai Romani. Il Leo giudicava, quindi, negativamente il fatto «che i popoli greci non si riguardassero mai come nazione se non a fronte degli stranieri». Ma Cattaneo osserva che ciò avvenne perché «non poterono mai sentirsi abbastanza greci, solo perché troppo ateniesi, e spartani e tebani»; e che «questa divisione stessa attesta una tenace aderenza ai vincoli primitivi e popolari».
Ciò non va ritenuto frutto di un “atomismo morale”, o di un “egoismo” etnico o culturale, come pensa il Leo. Atomismo ed egoismo non possono «spiegare la morte di Leonida, né quella di Archimede, né il vivere sempre in pubblico, da cui tanto aborre l’egoismo moderno, né il combattere per falange, né lo studiare per setta [cioè, per scuole e dottrine filosofiche], né l’aggregarsi in colonie fino nella Colchide [Crimea] o nella Battria [Afganistan settentrionale]». L’egoismo o atomismo sopravverrà con Alessandro e coi suoi successori. «L’indole greca ripugnava all’ammortimento e all’abnegazione degli aggregati meccanici dell’Asia», cioè di quei «vastissimi regni sacerdotali», nei quali è iniziata la civiltà. «Altrettanto», però, essa «tendeva all’associazione geniale e spontanea delle tribù, delle anfittionìe, dei municipii, dei porti marittimi, delle palestre, dei teatri». Al militarismo del «principio dorico» si contrappose «lo spirito jonico», e la contrapposizione portò alla «fortuna dei Macedoni [che] annunciava una nuova vita e prometteva l’unità nazionale ma non la raggiunse».
L’espansione, con Alessandro, nell’Oriente snaturò «l’indole greca» e, per di più, «lasciò di bel nuovo la Grecia in preda allo spirito municipale, ma questo non rappresentava già più la nobile natura dei popoli, bensì le passioni d’ignobili condottieri». E, «tuttavia, ad onta della compressione macedonica, la socievolezza greca ripullulò» ancora, pur mentre «un nuovo ordine sociale» germogliava «dall’incontro della ragione greca colla rassegnazione orientale». Il Leo riteneva, perciò, che ancora «sette secoli dopo Aristotele lo spirito greco [vivesse una] più profonda vita». Per Cattaneo, però, l’eredità dell’antica Grecia rimase «un tesoro ignoto ch’ella trasmise all’occidente e al settentrione»; e solo dopo quattordici secoli, e dopo che esso era «giaciuto nel sepolcro della servitù bizantina e della servitù musulmana», fu possibile «trarre da quell’arcano principio la scintilla d’una nuova vita civile», che non si accese, peraltro, «se non per impulso di altri principii, venuti a lei dal lontano occidente e dalla forza innovatrice dei tempi».
Questa sintesi della storia dell’antica Ellade può ben essere considerata esemplare per intendere la formazione, la natura e la struttura del pensiero storico di Cattaneo. Egli procede, per lo più, dando conto di determinate opere storiche e sintetizzandone il contenuto. La sua non è, però, mai una sintesi pura e semplice. Egli vi introduce a ogni pie’ sospinto commenti e osservazioni che esprimono le sue riflessioni; ed è facile notare che tali osservazioni e commenti di rado sono estemporanee e occasionali. Rispondono, infatti, con tutta evidenza, a una considerazione storica che si rivela ogni volta matura e complessa; e ciò spiega perché in varii scritti storici o non storici Cattaneo possa procedere – come in modo del tutto esauriente dimostra il saggio sulle città italiane quali “principio ideale” della storia del paese – con completa autonomia sulla strada di un tema individuato e svolto di propria iniziativa e invenzione.
Nella storia della Grecia antica egli si allontana dal Leo, di cui segue le tracce, o si contrappone a lui, essenzialmente per la valutazione del particolarismo ellenico. L’antica polis appare al Leo destinata a risolversi in una negazione disastrosa della comunanza nazionale dei Greci, che li porta all’asservimento. Per il Cattaneo la polis è, invece, una grande realizzazione di quella grandezza e vitalità dello spirito cittadino e delle autonomie municipali e locali, che sono un punto fondamentale e caratterizzante, come si sa, del suo pensiero politico. L’antitesi tra l’«ammortimento e abnegazione degli aggregati meccanici dell’Asia» e l’«associazione geniale», ossia lo spirito comunitario improntato a libertà e dignità che è base di una piena esplicazione delle facoltà e delle potenzialità dello spirito umano, è per lui esemplare.
Allo stesso modo, ma con un’attenzione molto più concentrata sulla vicenda politica, è ripercorsa, sulle orme del Leo, la storia di Roma fino agli inizi del Medioevo. Ne emerge come elemento di fondo la conferma della fecondità del libero principio associativo e della libera esplicazione della propria individualità nelle istituzioni politiche e nelle vicende dei popoli. L’imperialismo e, poi, il regime imperiale di Roma operano in senso del tutto opposto e portano alla rovina non solo l’impero, ma anche la civiltà antica. Rispetto a quest’ultima si staglia, però, in ultimo, il trionfo del Cristianesimo, nato da Israele, per cui «il libro degli Israeliti diviene il libro del mondo romano», e «col quale soltanto [l’unità imperiale di Roma] poteva fondere le avverse e ripugnanti nazionalità che la conquista aveva strette ad una sola catena».
Ai criteri e agli svolgimenti della Universalgeschichte del Leo il Cattaneo riserva, inoltre, alcune osservazioni di carattere generale, molto interessanti per il suo pensiero storico. Un rilievo tematico è che lo storico tedesco non abbia dato spazio «alla stirpe fenicia», che pure «ebbe tanta parte nelle origini europee, e sola tra le antiche nazioni trasse il potere dal nudo principio dell’interesse mercantile». Un più sostanziale rilievo è che il Leo abbia avvolto in «un velo di formule» le «profonde astrazioni» dei principii da lui ravvisati negli svolgimenti della storia. Cattaneo riconosce la radice storica di quelle “astrazioni”, ma nega che quelle “formule” siano «prettamente istoriche» perché «entrano piuttosto nel dominio dell’affetto e della mistica aspirazione». Il Leo sembra, così, «obliare troppo presto che il campo dell’istoria è nel dominio dei sensi e nelle forze che operano nel mondo visibile».
L’esemplificazione che segue chiarisce che tra le formule e astrazioni e le realtà storiche sussiste spesso un iato profondo. Così, «la parola di fratellanza e di pace» del Cristianesimo «è annunciata e accettata, ma lo spirito istorico dei popoli europei ancora oggidì rimane bellicoso e invasore, come quello dei loro progenitori Greci e Romani e Celti e Goti». Perciò, gli Europei «fanno suddito il bianco e schiavo il negro, e tributari tutti i viventi, e la loro avarizia e ambizione non hanno confine su la faccia della terra».
Non bisogna confondere, dunque, formule e astrazioni con la realtà: «dividiamo le acque dalle acque» e «conteniamo gli studii istorici al di qua del limite delle cose sovrumane». A determinare il corso storico sono «in ogni tempo il flusso e i riflussi degli’interessi armati, non quello degl’inermi, pensieri». Non ha senso, quindi, mostrarsi, come il Leo, «così avverso al principio dell’indagine filosofica, incolpandola quasi d’aver corrotto il senso morale delle nazioni». A parere, invece, del Cattaneo, «le nazioni furono piuttosto corrotte dal fatto della conquista», definito «funesto» perché separava «il diritto dalla forza». Nella storia va sempre ricercato «quanto d’utile e di glorioso ci trasmisero le estinte generazioni», ma ciò non può portare a «un’assoluta adesione all’antico», inconciliabile «col convincimento che il corso dell’istoria è progressivo». Conta l’«esistenza d’un popolo» soltanto quando «servì di fondamento e quasi di suolo allo sviluppo dell’intelligenza». Nulla si saprebbe neppure del nome di Sparta, «se tutta la Grecia fosse stata fedele alle barbare origini come Sparta, e se lo spirito dei popoli marittimi non avesse generato Erodoto e Tucidide e Senofonte». Mentre Sparta resta incolta, «le tradizioni degli eroi greci diventano poemi in Jonia, e si sublimano in tragedia sui teatri d’Atene». La rovina della Grecia va quindi addebitata ai rudi Spartani e Macedoni, che «col rozzo loro predominio soffocarono l’intelligenza e il progresso», senza, con ciò, neppure «salvar la morale», la quale «non richiede l’immobilità, ma uno sviluppo spontaneo e continuo».
È per questi motivi che Cattaneo giudica insoddisfacente nell’opera del Leo, la considerazione delle «opere della scienza, della parola, della’arte, [e di] ogni nobile prodotto dell’intelligenza a dell’umanità». Anche se appare «troppo angusto nell’istoria il campo della ragione e della volontà», sono proprio l’intelligenza e la volontà a dover essere poste in rilievo dallo storico. Per Leo «le cause prime delle sorti dei popoli [sono] le istituzioni religiose», ma egli stesso delinea, poi «benché con mano avversa, l’influenza emancipante della ricchezza mobile e delle imprese coloniali, gettando così su la lontana antichità la luce che sgorga dall’esperienza moderna». Anche nelle pagine del Leo «i popoli cadono» e «la sventura si rigenera sulla terra», e, tuttavia, «un principio inestinguibile sopravvive, e da ogni rivolgimento ritrae nuove forze, e scorre di terra in terra, e, incorporandosi nelle nuove nazioni, condensa a tesoro delle successive età l’opera dei secoli e le più remote fatiche del genere umano».
È in tal modo che, attraverso l’opera del Leo, Cattaneo rintraccia sulla storia greca e quindi in quella di Roma e del suo impero, le «origini europee». E, come si è visto, nel tracciare questo ampio quadro storico, egli formula anche alcune linee essenziali del suo pensiero storico, che, certo, in parte è una filosofia della storia, ma in altra parte consiste in una serie di punti metodologici di grande interesse, e, anche, modernità. In ultimo, come si dice nel saggio Della Sardegna antica e moderna, l’intera area mediterranea dalla Mesopotamia al Danubio e al Reno è «annodata alla vasta associazione dell’imperio romano, ch’è quanto dire della civiltà europea»: identificazione di non ordinaria importanza per il pensiero di Cattaneo.
La quale “civiltà europea”, pur mentre non tutto il mondo è ancora esplorato e lavorato dall’uomo, finisce nell’età moderna, pur essendo «l’angusta Europa » solo la «cinquantesima parte del globo», col dominare la terra e il mare «in virtù della preponderante sua virtù», scrive Cattaneo nel commentare l’opera di Cristoforo Negri, Del vario grado d’importanza degli Stati odierni, edita a Milano nel 1841, che allo stesso Cattaneo offre l’occasione per trattare Di alcuni Stati moderni: un altro dei suoi scritti storici più significativi.
Nell’Europa moderna è tramontata la potenza spagnola «sì formidabile ai nostri padri», anche se «la nazione spagnola non fu mai tanto numerosa come ora in Europa, in America, in Oceania». Il campo è stato occupato, in sua vece, dalla Francia e dall’Inghilterra, nelle quali Cattaneo vede rispettivamente rappresentati due grandi “modelli”, ossia delle grandi ispirazioni e dottrine di organizzazione civile dei popoli progrediti: quello greco e quello cinese.
Il modello cinese è rappresentato dalla Francia. Esso comporta «il principio dell’onnipotenza e dell’onniscienza ministeriale, che per una scala infinita d’incaricati discende a regolare le faccende dell’ultimo casale del Regno e dell’ultima capanna delle colonie». L’Inghilterra rappresenta, all’opposto, il principio greco, che comporta le «libere associazioni, protette sempre dalla forza pubblica, ma non mai dirette dalla pubblica autorità». Perciò, il governo inglese «fa soltanto ciò che i privati e le loro aggregazioni non possono fare da sé, e porta la minaccia delle formidabili sue forze ovunque le intraprese dei privati le invochino». In Francia, invece, da Richelieu a Luigi XIV e a Napoleone il centralismo «sopravvisse a tutte le rivoluzioni; e, mentre forma il nodo dell’unità e potenza francese, le tolse sempre il potere d’estendersi vastamente e riprodursi in terre lontane, con libere propaggini viventi di propria vista», come è accaduto agli Inglesi. E qui ancora una volta ricorre – in una di quelle frasi immaginose e pregnanti così frequenti e caratterizzanti nella prosa del Cattaneo – la sua idea delle molteplici radici necessarie alla più feconda e duratura realtà della storia: «i rami di un tronco solo – dice – non possono mandar ombra su tutta la terra». Perciò, ad esempio, l’Inghilterra e gli Stati Uniti «sono venate per ogni senso di strade ferrate», opera della società civile e dell’iniziativa privata, mentre «la Francia fu costretta ad aspettarle dall’onnipotenza officiale». Perciò, ancora, «in Francia poco s’intende l’ordine municipale, che combina coll’unità degli Stati la vitalità delle provincie, né si afferrò ancora il principio delle libere associazioni», dominante nel mondo anglosassone.
Tuttavia, non tutto è detto, così, circa la natura e la funzionalità dello Stato nell’età moderna. È chiaro per Cattaneo che anche il modello francese, in risvolto della negatività che glielo rende tanto meno accetto del modello inglese, presenta, però, caratteri che si prestano a una valutazione diversa. «Se – egli scrive sempre nel saggio Di alcuni Stati moderni – la centralità francese non favorisce lo sviluppo di robuste colonie e stabili conquiste, se le sue imprese marittime muovono piuttosto da rivalità generosa che da intima necessità o spontanea esuberanza di forze navali», al contrario, dunque, dell’Inghilterra, è, però, «poi certo che la Francia, perdendo anche tutte le sue navi e le sue colonie, nulla perde mai di ciò che fa il nervo della sua vera potenza». La Francia ha in sé un’autosufficienza di risorse e di energia che, grazie al sistema politico centralistico, e alla forma acquisita con la monarchia fin dagli inizi dell’età moderna, la rende un blocco compatto, difficilmente uguagliabile da altre potenze europee: giudizio che, come è noto, corse in Europa sulla Francia già dai tempi di Luigi XI e che Machiavelli riflesse con straordinaria efficacia nel suo Ritratto delle cose di Francia. «A pari massa, nessuna nazione – nota Cattaneo – oserebbe invadere la Francia; a pari massa la Francia assalirebbe con alacrità qualsiasi nazione». E l’opera di trasformazione sociale promossa dalla monarchia nella sua lotta con la feudalità e proseguita da Napoleone e dalla rivoluzione ha anche fatto sì che la Francia diventasse «il paese d’Europa ove è men possibile una rivoluzione, se con questo nome intendiamo, non un superficiale mutamento del rituale amministrativo, ma una profonda sovversione e rinnovazione d’interessi».
Sulle orme del Negri, Cattaneo vede così, ruotare la storia dei moderni Stati europei intorno al modello francese (Piemonte, Russi, Prussia) e al modello inglese (Olanda, Svizzera, paesi scandinavi e – a sorpresa – «le nazioni spagnole d’Europa e d’America»). Pochi i modelli diversi dai due maggiori, come in Ungheria. Egli tiene, però, a rilevare come nell’opera del Negri costituisca una carenza la scarsa considerazione e trattazione della «più eletta ed ardua parte del grave argomento» che vi è affrontato. Questa parte sono «le influenze e le potenze morali, e sopra tutto quelle che provengono dallo splendido predominio dell’ingegno, e dalle fondamentali somiglianze degli ordini sociali fra nazioni e nazioni». Osservazione che suona naturale in un autore che in pagine memorabili rivendicò l’importanza, come suona il titolo di quelle pagine, Del pensiero come principio d’economia pubblica. Ma non è solo questa fusione a richiamare in Cattaneo l’attenzione alle “influenze” e “potenze” morali. Chi manchi di questa attenzione – egli nota – non può «dominare le grandi curve sulle quali si muove l’istoria» e comprendere come, pur attraverso i maggiori drammi, il corso della storia «torna in ogni modo favorevole all’intelligenza e all’umanità». Proprio la lettura dell’opera del Negri lo spinge, quindi, a desiderare «svolto più accuratamente il calcolo delle forze morali, e conciliato il conflitto degli interessi armati colla dottrina del continuo progresso, delle emancipazioni indirette e della successiva equità».
Sono, queste, indicazioni da non trascurare, anzi da privilegiare nel delineare il pensiero storico di Cattaneo sia dal punto di vista più generale di merito e di metodo, sia dal punto di vista specifico della storia europea. Un «cavalleresco amore della scienza come pura scienza», «la fiducia e affezione al merito sotto tutte le forme, anche quando si appresta a servirla con nome straniero », hanno «sparso sul nome francese uno splendore incantevole». Da un lato, quindi, in Francia «sempre risorge l’unità prefettizia, l’unità universitaria, il principio assoluto che il gran Cardinale aspirò dalle tradizioni del secolo di Costantino». Dall’altra parte, «la schietta e pura scienza, senza tenebre, senza ambagi, senza spine» connota lo spirito francese a tal punto da aver modellato «nel suo più bel fiore la lingua francese». Una lingua, dice Cattaneo, «succinta in cui tutto s’intende, quella lingua che nell’apparente sua povertà dice tutto ciò che bisogna, mentre le lingue doviziose inciampano nei lunghi panni; quella lingua della scienza e delle inezie, della guerra e della commedia, dei principi e delle femminette; debole nel verso, ma calda e poetica nella prosa». In definitiva, una lingua che «fu sempre una delle più grandi armi della potenza francese».
Due aspetti della Francia, che sono, però, per Cattaneo, constatazioni storiche di valore globale. Un valore globale che presenta anche il modello contrapposto a quello francese, ossia il modello inglese. Se, infatti, vale per il caso francese un riferimento extra-europeo come quello alla Cina, che addirittura dà il nome al modello francese, un riferimento extra-europeo vale anche nel caso inglese. «Poco importa – si dice – che codesta stirpe britannica si ordini sotto uno o sotto più governi, poco importa che in un paese si chiami Regno Unito e l’altro Stati Uniti. La misura e la tempra delle stirpi è la medesima; medesima la lingua, medesime le tradizioni religiose, eguale la forza espansiva, pari il genio delle grandi associazioni, l’indifferenza ai luoghi, la grandezza e la presenza dei pensieri, il rispetto al merito, la fecondità delle invenzioni e l’attitudine ad applicarle e dilatarle».
Questa capacità espansiva porta Cattaneo a definire il mondo anglosassone come «un polipo», aggiungendo che, «se ogni [sua] propaggine […] avrà indipendenza di voto e governo locale, tanto meglio [esso] promuoverà e svolgerà ogni parte degli immensi suoi destini in tutte le parti del mondo». Né serve che qualcuno confidi in lotte intestine di questo modo che ne riducano o vanifichino tali destini. Questa eventualità si è già verificata con la ribellione delle colonie americane a Londra, e molti si sono fatti, perciò, l’idea che «la migliore speranza per un nemico dei Britanni d’Europa sarebbe l’alleanza coi Britanni d’America». Ma quel mondo è, secondo Cattaneo, tanto solido che le peggiori eventualità «non potrebbero uccidere la nazione», e, al massimo, se ne potrebbero avere soltanto «la preponderanza del principio repubblicano e una rapida assimilazione della madrepatria alle colonie». A superare l’Inghilterra non serve sforzarsi di formare grandi marine militare in paesi «senza proporzionato fondamento di popolazioni marittime». Vi si può riuscire soltanto «col cogliere ed imitare l’intimo principio di quella grandezza», espresso dal suo sistema di governo o regime politico. A domare l’Inghilterra non bastava neppure la tratta degli schiavi, diventata «il più acerbo argomento di discordia fra inglesi e americani»; neppure «il debito pubblico, il cui interesse eguaglia tutte le altre spese nazionali, epperò raddoppia la somma delle pubbliche gravezze»; neppure la profonda differenza tra la politica di raccoglimento in patria degli Americani e quella espansiva inglese, con le relative conseguenze di spesa pubblica produttiva e di risparmio di forza lavoro nell’assemblea di grandi impegni militari. Il segreto della grandezza britannica (ed è significativo anche che Cattaneo preferisca molto spesso britannico a inglese) è molto più interno alla struttura politico-sociale del mondo anglosassone che non alle sue condizioni materiali. Ma, come non trascura di vedere il lato positivo del regime francese, così Cattaneo non omette di notare gli aspetti meno lodevoli della politica inglese, a cominciare dagli interessi materiali presenti sia nella guerra dell’oppio con la Cina che nella lotta alla tratta degli schiavi. L’ammirazione per il mondo anglosassone non ne soffre, e la civilizzazione dell’Australia ne appare come un ultimo esempio. Se qui gli Inglesi avessero solo conquistato un impero, come essi stessi hanno fatto in India o come i Manciù hanno fatto in Cina, avrebbero compiuto un’impresa che anche «la scaltrezza e l’audacia di genti barbare» sono bastate a compiere, come, appunto, i Manciù in Cina. In Australia, Nuova Zelanda, Tasmania gli Inglesi hanno fatto ben altro, poiché sono riusciti a «improvvisare tutte le meraviglie della civiltà nelle selve d’una terra intatta».
La Francia è, quindi, grande per ciò che di essa contraddice al suo sistema politico, l’Inghilterra perché il suo sistema politico è congeniale a ciò che di essa è grande. Il che conferma che nella storia degli uomini «ciò che monta si è che l’intelligenza trovi un campo sul quale dar di cozzo ai sistemi retrogradi e perversi, e sospingere su le vie del progresso in tutte le parti del mondo lo spirito umano». L’Europa ha impersonato questa felice e feconda «intelligenza». È questa la forza che spiega «la misteriosa debolezza che aggioga l’India ad un’isola remota, la quale era popolata da barbari dipinti d’azzurro quando l’India possedeva già leggi e riti e monumenti». In India il dinamismo che produsse «leggi e riti e monumenti» si è arrestato. Allo stesso modo, è un errore distorcente ritenere che la Cina, come ritengono tanti europei, sia un mondo immobile, senza storia. Al contrario, la Cina è un mondo della storia estremamente complessa e senza soluzioni di continuità, alla quale, però, «la legislazione minuziosa e complicatissima, il sordo rumore degli indigeni e dei Manciuri che si contendono i ministerii, un’istruzione serva e ingannatrice, una scienza di parole, una pertinace repressione delle idee [hanno spento] ogni generosa passione». Ma se la civiltà europea penetrasse in questo mondo, se ne vedrebbero subito gli effetti, e la Cina conseguirebbe «su l’Asia e l’Oceania un’influenza proporzionata alla sua mole», poiché «le forze materiali, di cui la fiacca amministrazione cinese può disporre, sono immense».
Su queste linee corre, quindi, per Cattaneo, la differenza tra l’Europa e il resto del mondo. A compendiare questa differenza vale soprattutto il riferimento alle città, quasi che per Cattaneo il principio delle “libere associazioni” – così esaltato da lui come immediata traduzione sul piano politico e sociale, della “intelligenza”, da lui giudicata il primo motore del movimento storico – bastasse da solo a fondare l’ordine civile che sta alla base della moderna potenza europea.
È quel che Cattaneo, per l’appunto, dice in una delle sue pagine più efficaci, quando si chiede «per verità, che sogliamo noi significare anche oggidì quando chiamiamo barbara l’Asia». La risposta è eloquente: «Non è già che non siano quivi sontuose città; che non siavi agricoltura e commercio, e più d’un modo di squisita industria, e certa tradizione d’antiche scienze, e amore di poesia e di musica, e fasto di palazzi e giardini e bagni e profumi e gioie e vesti ed armature e generosi cavalli e ogni altra eleganza. Ma noi, come a fronte dei Persi e dei Siri i liberi Greci e Romani, sentiamo in mezzo a tutto ciò un’aura di barbarie. Ed è perché in ultimo conto quelle pompose Babilonie sono città senz’ordine municipale, senza diritto, senza dignità; sono esseri inanimati, inorganici, non atti a esercitare sopra sé verun atto di ragione o di volontà, ma rassegnati anzi tratto ai decreti del fatalismo. Il loro fatalismo non è figlio della religione, ma della politica. Questo è il divario che passa tra la obesa Bisanzio e la geniale Atene; tra i contemporanei d’Omero, di Leonida e di Fidia e gli ignavi del Basso Impero». E, come gli dice della civiltà europea in Cina, anche nell’«India decrepita» la sola «istituzione dei municipii basterebbe a infondere un principio di nuova vita».
È una lezione della storia, questa, di cui l’Europa deve fare tesoro. Nel considerare la storia del Giappone, che fra tutte le nazioni «è la sola che in venticinque secoli non fu mai conquistata», scrive Cattaneo nel saggio Il Giappone antico e moderno, egli nota che «seicento milioni di viventi, possiamo dire, la maggioranza dell’umana generazione, appartengono alle vetuste civiltà delle due penisole indiane, dell’imperio chinese e delle isole del Giappone. Fiorenti quei popoli fin da quando l’Europa era in gran parte selvaggia, ma stretti con tenaci nodi da quelle medesime istituzioni dalle quali era discesa in loro una precoce cultura, non provarono mai quegli indomiti impulsi di libertà che rinnovano continuamente la vita civile in Europa. Essi vivono d’una vita antica, imposta dall’autorità del passato, ove tutto è rigidamente definito, e la ragione degli avi rende superflua la ragione dei posteri e nulla la loro volontà. Essi mostrano ciò che sarebbe l’Europa, se la reazione fosse mai riescita a incatenare il genio del progresso e della libertà».
Sempre, dunque, gli stessi principii guidano il Cattaneo, sia che egli parli di India o di Cina, di Giappone, di Aztechi, di Sardegna, d’Irlanda o di altri popoli e paesi. L’individualità europea gli appare risaltare in maniera netta e inconfondibile non solo negli ordinamenti politici e sociali, ma anche nelle caratteristiche delle sue lingue e nelle idee e ideologie della sua tradizione filosofica e religiosa. Il vero, grande fatto della storia europea finisce con l’essere, in questo quadro, quello di aver destato, con l’età moderna, la novità del pensiero critico, sperimentale, positivo, da un lato, e del pensiero storico gradualista e processuale, dall’altro. E per penetrare nella logica e nello spirito della riflessione europea di Cattaneo non vale a molto l’indicarne particolari tematiche o materie (come il selvaggio, o le teocrazie, o i popoli extra-europei, o i popoli elaboratori dei pensieri che hanno fatto progredire l’umanità e la civiltà, o quello del pensiero europeo). Occorre, al contrario, seguire il filo delle trattazioni organiche che Cattaneo dedica a popoli, Stati, paesi, classi sociali (come nel saggio su Il Terzo Stato) o istituzioni di civiltà (come la città). In altri termini, il suo pensiero storico procede sullo sfondo di una solida idea di ciò che è civiltà, progresso, ordine civile, libertà, fattori realistici della storia, natura e ufficio del pensiero, ma dispiegandosi, volta a volta, in articolati e specifici saggi su concreti e chiari ambiti o problemi storici. È, infatti, l’individuazione di ambiti o problemi a costituire il proprium della storiografia; e, ciò, in Cattaneo, per la semplice ragione che anche la storia procede sempre definendo ambiti e ponendo problemi.
Che, nello svolgere questi pensieri, possa emergere in lui uno schema di filosofia della storia, è vero. È, però, ugualmente vero che lo schema non giunge mai a formare per lui un sistema chiuso di teoria dello sviluppo storico dell’umanità. La sua riflessione è sempre aperta alla possibilità di svolgimenti imprevedibili, come appare quando egli si pone il problema di quel che sarebbe l’Europa se abbandonasse i principii che ne hanno fatto la grandezza e cadesse nel torpore cinese o nella decrepitezza indiana. E l’accenno, che non di rado ricorse in lui, di una possibile, futura omogeneizzazione delle condizioni civili dell’umanità in tutto il mondo, con un superamento delle condizioni di conflittualità regnanti nella storia dall’alba dei tempi, non è in lui né una profezia, ne un auspicio, né una proposta. È solo la considerazione di una possibilità che alla sua considerazione storica comporta di per sé e la cui realizzazione è rimessa del tutto al futuro.
Nato, come si è detto, quasi sempre e del tutto, in saggi di recensione di questa o quell’opera storica di autori a lui contemporanei, ed esemplato sulla tradizione storiografica europea che va da Machiavelli agli storici della prima metà del secolo XIX, il pensiero storico di Cattaneo si rivela, tuttavia, anche sul tema della storia d’Europa. non solo denso, ma, su varii punti, profondo e originale, senza trionfalismi, ma anche con una salda consapevolezza del valore e della forza delle esperienze europee. Un pensiero storico che, per concludere, resta, comunque, certamente istruttivo per tutti coloro che continuano a porsi il problema storico dell’Europa, della civiltà europea, dei suoi tempi, delle sue forme, del suo luogo e del suo ruolo nel contesto della storia dell’umanità e del mondo.








* Le citazioni che qui si ritrovano dalle opere di Cattaneo sono attinte all’Edizione Nazionale delle Opere, Firenze, Le Monnier, dove sono facilmente ritrovabili in base all’indicazione che diamo ogni volta degli scritti di Cattaneo di cui parliamo.^
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