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Asterischi
di Giuseppe Galasso
CHIESA E RISORGIMENTO – “Campania Sacra” (rivista della Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale) ha dedicato il suo n° 43 (2912), curato da Ugo Dovere, al tema “Chiesa e Risorgimento nel Mezzogiorno”. È una scelta coraggiosa. La Chiesa fu aspramente ostile al Risorgimento come movimento nazionale e liberale, senza tenere alcun conto del fatto che una parte di quel movimento era formato da cattolici liberali, ossia da fedeli dal profondo e fine sentire religioso, ma anche di sincere convinzioni nazionali e liberali (basti il nome di Alessandro Manzoni). L’idillio fra movimento nazionale e Papato nei primi due anni del pontificato di Pio IX (il più lungo di tutti: 1846-1878) svanì subito alla prova dei fatti. Pio IX scomunicò tre volte Vittorio Emanuele II, e vietò ai cattolici, col famoso Non expedit (Non conviene), ogni partecipazione alla vita pubblica dell’Italia unita. Nel Concilio Vaticano I, indetto dallo stesso Pio IX nel 1870, la condanna del liberalismo fu totale, e vi fu un arroccamento della Chiesa sulle posizioni di un tradizionalismo ormai bocciato dalla storia e dai fermenti più vitali della stessa Chiesa.
Nel Mezzogiorno la componente tradizionalista e conservatrice del clero e del mondo cattolico fu altrettanto avversa al movimento nazionale e liberale. A unificazione compiuta, fu evidente il suo appoggio al brigantaggio antitaliano che imperversò al Sud dopo il 1860 (e che ora un revisionismo oltranzista ha ribattezzato come “guerra nazionale”). Ovviamente, anche nel Mezzogiorno non mancò la partecipazione del clero e del laicato cattolico al Risorgimento, anzi ve ne furono casi insigni. Tra l’altro fu proprio al Sud che forse attecchì di più il neo-guelfismo giobertiano, che prima del 1848 sembrò avviare a una piena intesa fra cattolicesimo e italianità.
Ecco perché è coraggiosa la scelta del tema di “Campania Sacra”. La prefazione di Ugo Dovere, e così pure, con un tono diverso, il saggio iniziale di Michele Dulvi Corcione lo riconoscono, ripercorrendo il cammino che dal 1860 via via ha portato la Chiesa, specie dopo la Conciliazione del 1929, a un nuovo atteggiamento e a una piena partecipazione alla realtà e alla vita dello Stato nazionale e della liberal-democrazia italiana. Corcione ricorda a ragione le parole di Paolo VI su Roma come la sola città che “poteva dare alla nazione italiana la pienezza della sua dignità statale”; e aggiungeva: “così fu, e così è”. Dovere ha ricordato, a sua volta, le più recenti parole di Benedetto XVI e la messa celebrata dal cardinale Bagnasco per il 150° dell’unità italiana. E così si può pure ricordare il contributo fondamentale dei cattolici alla vita dell’Italia unita, soprattutto a partire dall’azione di don Sturzo, che fu, tra l’altro, un ragguardevole esponente del meridionalismo (e nella sua scia si è poi sviluppato anche un meridionalismo della gerarchia meridionale che dal 1948 a oggi ha portato ad alcuni documenti di vario valore sulla “questione meridionale”).
Naturalmente, una certa inflessione irenica ricorre fatalmente nel cattolico che considera queste materie, ma è un costo accettabile per un lavoro storico di grande interesse, articolato secondo le varie realtà regionali del Mezzogiorno e coi contributi di studiosi specialisti, ben riassunti da Dovere nella sua prefazione. La distinzione, poi, di Dovere tra le posizioni della gerarchia ecclesiastica e il sentire e l’agire del laicato (“il vissuto religioso dei fedeli era una nebulosa vasta e confusa, fatta di devozioni e superstizioni, normalmente sfuggenti anche ai più analitici questionari delle migliori visite pastorali”) è importante ben al di là del periodo storico di cui si parla, e in specie per il Mezzogiorno. E ancora, forse, si farebbe bene a tenerla più presente nella vita ecclesiastica di oggi, se è permesso a un laico integrale, quale sono io, di osservare ciò, oggi che, per fortuna, il clero partecipa appieno alla vita nazionale (ma fa forse troppe lezioni, e troppo spesso, sull’azione di governo e sui comportamenti dei laici e della classe politica e amministrativa, senza, peraltro, indicare alternative).



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TEMPI LUNGHI – “Tempi lunghi”, “tempi eterni”: sono alcune espressioni dei commenti giornalistici alle dichiarazioni del ministro Clini circa la cosiddetta messa in sicurezza (termine, detto per inciso, alquanto approssimativo) del territorio nazionale. Per una tale operazione egli ha parlato, in effetti, di 15 anni. Ha, però, anche aggiunto che sono necessari 40 miliardi di euro.
Una esagerazione? Per nulla. Anzi, a nostro avviso, si tratta di una previsione assai più per difetto che per eccesso. Si tenga presente che in Italia non c’è soltanto il rischio sismico. A tale rischio vanno aggiunti i diffusi movimenti franosi e gli effetti del dissesto idrogeologico, con alluvioni e altre conseguenze, pressoché in ogni parte del paese. In alcune zone (Vesuvio, Etna, Stromboli) c’è un’attività vulcanica in potenza o in atto di grande rilievo. Nella Laguna di Venezia il moto ondoso basta da solo a determinare un allarme che ha ragioni ben più generali. E non parliamo delle zone litoranee, sempre esposte al rischio di movimenti disastrosi del mare su coste sulle quali la frequenza abitativa e, soprattutto, l’intensità e la posizione delle costruzioni sono fortemente pericolose. Né parliamo (anche perché è cosa sulla quale meno possiamo dire e fare) di ciò che sappiamo circa il movimento naturale della nostra penisola che, in generale, tende a essere mangiata dal mare sul Tirreno e mangiare il mare sull’Adriatico.
D’altra parte, l’insoddisfazione per le previsioni del ministro si manifesta in un paese in cui già per il solo rischio sismico l’informazione della pubblica opinione è minima. Un sondaggio effettuato il 29 e 30 maggio su un campione di 1000 intervistati da un accreditato istituto demoscopico, la Demopolis, ha riscontrato che solo il 43% del campione conosce l’anno di costruzione della propria abitazione; e che solo il 34% sa se il luogo di lavoro è rispondente alle normative antisismiche (e di essi il 15% dice che lo è, e il 19% dice che non lo è), mentre il 66%, i due terzi, non ne ha nessuna idea. Appare, tuttavia, che la percezione del rischio sismico è cresciuta dal 2009 a oggi, passando dal 45 al 71%. Il che ben si spiega per il susseguirsi di due forti terremoti, in Abruzzo e in Emilia, a così breve distanza di tempo, per cui la sensazione di una fondamentale insicurezza geofisica del paese appare cresciuta anche nelle zone in cui finora ci si sentiva (come nelle terre emiliane ora terremotate) al riguardo molto tranquilli. E allo stesso modo si spiega che non meno dell’80% del campione di Demopolis chieda maggiori controlli sui criteri di costruzioni edili, mentre il 61% chiede la messa in sicurezza degli edifici a rischio.
Che nella classe politico-amministrativa (Stato, Regioni, Province, Comuni e altri enti territoriali) vi sia una percezione delle cose in questo campo molto maggiore che, in generale, nella pubblica opinione non diremmo. Certo è, comunque, che quanto si è fatto in questo campo è molto meno di quanto era non solo necessario, ma anche possibile. Basterebbe aprire il doloroso capitolo dello scempio paesistico e ambientale di cui nella maggior parte del paese si hanno tanti tristi e sempre nuovi documenti per rendersene conto.
Tutt’altro che eccessive, anzi piuttosto minimaliste, le indicazioni del ministro Clini. E tanto più in quanto, come si può dedurre da ciò che abbiamo detto, per un’azione seria ed efficace in questo campo si esige non solo una grande politica di interventi e di opere settoriali, bensì anche una politica generale del territorio che vada dall’urbanistica al paesaggio e alla utilizzazione produttiva, turistica e culturale del territorio stesso, sulla base di una sua ampia e documentata conoscenza storica, fisico-naturalistica e geo-economica.
Questa conoscenza i nostri scienziati, gli studiosi e i tecnici (a partire dagli ingegneri) sono del tutto in grado di assicurarla, e anzi l’hanno già ampiamente offerta nei loro scritti e nella loro attività. Il problema – come si diceva una volta – è politico. E, almeno in questo caso, torna a proposito ripetere una vecchia e quasi del tutto dismessa usanza.



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MEDITERRANEO MEZZOGIORNO TURISMO – Si parla molto del Mediterraneo come prospettiva di crescita e di sviluppo del Mezzogiorno, e ci si richiama perciò alla necessità di intensificare i rapporti del Mezzogiorno coi paesi mediterranei rivieraschi, a cominciare da quelli del Nord-Africa, che guardano, si dice, a noi come a un loro primario punto di riferimento. Considerazione senz’altro accettabile. Del resto, anche in passato i periodi di fioritura del Mediterraneo sono stati pure i periodi di maggiore fioritura italiana, non solo del Mezzogiorno.
Guardare a Sud, dunque, piuttosto che al Nord e all’Europa? Sono in molti a pensarlo, e il pensiero è allettante e tentatore. Nulla, allora, da dire?
Già altre volte abbiamo detto che non è proprio, non è assolutamente del tutto così. Prescindiamo dal fatto che i paesi mediterranei nostri dirimpettai sono contraddistinti da economie che non sono complementari di quella meridionale, ma omogenee ad essa e, quindi, anche concorrenti di mercato. Solo in Israele, nella Catalogna, in Provenza, in qualche zona della Turchia ritroviamo economie complementari con le quali uno scambio sia non solo possibile, ma anche reciprocamente vantaggioso. Prescindiamo pure dal fatto che nell’attuale economia globale la collocazione geografica non ha più la stessa importanza che aveva finora per una originaria tradizione storica. E prescindiamo anche dal fatto che nella stessa Italia è dubbio, per non dire infondato, presumere che i rapporti più intensi con le opposte sponde mediterranee non li hanno le regioni meridionali, ma altre zone d’Italia, ad esempio Milano, per non parlare di altri paesi europei come Germania, Francia o Inghilterra.
Teniamoci solo a un punto. Un punto semplice e di immediata percepibilità logica: e, cioè, che i paesi nostro rivieraschi avranno tanto più interesse a colloquiare e integrarsi col Mezzogiorno quanto più quest’ultimo assumerà una fisionomia europea, e più rassomiglierà all’Europa renana o al triangolo anglo-franco-Benelux intorno alla Manica, o alla Svezia meridionale, o ad altro di simile e di equivalente. È solo questo a poter dare al richiamo meridionale verso i paesi mediterranei una forza determinate e risolutiva, al di fuori di circostanza temporanee o di iniziative di corto respiro. Senza contare, poi, che, in ulteriore e più essenziale istanza, o il Mezzogiorno (come pure tutto il Mediterraneo) vince la sfida al Nord, vince la sfida con l’Europa modello Francoforte o Londra o Parigi, o può fare molte cose utili e belle, ma senza rovesciare il rapporto di subordinazione e di scambio ineguale, in cui ora si trova rispetto alla più avanzata Europa (vale lo stesso per la più avanzata Italia), e senza, quindi uscire dalla necessità di assistenza e di sostegno che lo costringono a invocare principii di solidarietà nazionale o europea, che oggi non sono molto ascoltati e ascoltabili, e lo resteranno, verosimilmente, per un bel po’.
E, poiché siamo in tema di Mediterraneo, e si parla dello sviluppo del turismo come strada regale, se non addirittura unica, per il Mezzogiorno nel suo sforzo di sviluppo, guardiamo un po’ alle statistiche recentemente diffuse da Legambiente sulla salvaguardia delle coste e delle acque marittime in Italia. Esse rilevano in Italia nel 2011 oltre 11.000 infrazioni e guasti o deturpazioni in violazione delle norme di protezione ecologica e paesistica. Di questa cifra il 56% è registrato in solo quattro regioni. Tutte, beninteso, meridionali, con la Campania in testa (18%), seguita da Sicilia, Puglia e Calabria.
La solita solfa, si dirà. La solita Legambiente. Bene, ma quelle percentuali pesano come macigni su qualsiasi discorso mediterraneistico e turistico per il Mezzogiorno, ed è piuttosto difficile smentirle. Se vogliamo parlare di certe cose, bisogna dimostrare di amare e rispettare al massimo gli elementi in cui siamo immersi e che pensiamo di usare a nostro vantaggio. Bisogna amare e rispettare al massimo questo splendido, irresistibile Mediterraneo nel quale il Mezzogirono è nato ed è stato spesso grande e felice. Che qualcuno (si sa chi) se ne dia per inteso!



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MEZZOGIORNO RISORSA Avete notato? Al contrario di quanto accadeva ancora fino a poco tempo fa, del Sud non si parla più come grande “risorsa” dell’Italia. Era un discorso seducente. Riscattava la crescente difficoltà e imbarazzo meridionale nel parlare di Sud. Qualcuno si spingeva fino ad affermare che o si risolveva il dualismo italiano o per il paese non c’erano prospettive migliori del triste presente.
Poi il vento è cambiato. Della risorsa ci si è dimenticati. Ha ripreso quota “la questione settentrionale” e la tesi del “sacco del Nord” (così Luca Ricolfi). A stento qualcuno dice ancora che l’Italia non ce la può fare se non scioglie il nodo del suo Sud (Carlo Trigilia). Lasciamo stare il sacco del Nord. Più volte Adriano Giannola ha dimostrato che le cose non stanno proprio così. Quel che, però, non pare cambiare è la frequenza con la quale si scoprono e si riscoprono le medesime cose.
Lo sappiamo. L’attrezzatura civile del Sud è molto deficiente, e ciò si risolve in un handicap per tutta l’Italia. La gestione politico-amministrativa del Sud lascia sempre molto a desiderare (basta a dirlo la questione dei fondi europei). La malavita organizzata è diventata un problema di dimensioni enormi e il suo inquinamento della vita civile rende tutto qui terribilmente più difficile. Insomma, non si finirebbe più di elencare problemi, per la massima parte dei quali le diagnosi meridionalistiche nell’essenziale restano valide. Rimane, però, anche vero che sul Sud la politica italiana da tempo ormai è latitante. Non che non si faccia niente. L’attuale governo, ad esempio, si adopera, al riguardo, lodevolmente. Ma non è in ciò uno dei fronti principali del suo impegno. Eppure si sa che nella crisi attuale è il Sud a soffrire e a rischiare di più, e che ciò aggrava la crisi italiana.
Nasce da ciò una nuova, paradossale ripulsa del Sud nell’opinione nazionale, e in specie al Nord, come bene ha notato in un suo recente articolo Paolo Macry.
A tutto ciò dovrebbe reagire l’intera classe politica italiana, non solo quella meridionale, e con indirizzi e comportamenti chiari ed efficaci. Non e è così, e non ci si deve sperare troppo. Si deve sempre ricordare bene che il superamento dell’arretratezza o inferiorità economico-sociale del Sud non può che essere opera dei meridionali stessi. Come ha detto un industriale napoletano, Paolo Graziano, “lo sviluppo non lo porta la cicogna”. Atteggiamenti vittimistici sono controproducenti. Le petulanti richieste di soccorso, anche se accolte, non risolvono nulla. Ricordiamo pure che il Sud non parte affatto da zero, e non ha alcuna ragione di limitare le sue prospettive al turismo e di non aprirle al più vasto arco di un moderno sistema socio-economico, che vada dall’industria ai servizi e alle attività di più alta qualità. I suoi punti di eccellenza sono molti e importanti. Se, pur nelle condizioni attuali, li abbiamo saputo realizzare, perché non dovremmo poter fare ancora di più e di meglio?
Si tratta di lavorare sodo nella società nel solco del Sud migliore, di vincere tutte le remore ambientali (malavita in testa) che rendono il Sud più infelice di quanto comportano le sue condizioni strutturali. E politicamente non si tratta di fare nuovi partiti e movimenti sudisti, ai quali subito si pensa con vera faciloneria. Si tratta di italianizzare di nuovo i nostri problemi e di trasformarli in problemi europei. La vecchia centralità italiana dei problemi del Sud non è servita a risolvere la nostra vecchia “questione”, ma chiediamoci quanto ciò è dipeso e dipende da noi, oltre che da negligenze e inintelligenze dell’intera classe politica e dirigente del paese. Solo così, oltre a fare tutto quanto possiamo fare da noi (che non dovrebbe essere poco), potremo imporre in Italia e in Europa una diversa considerazione delle cose meridionali, rinnovando a un più alto livello l’irrinunciabile vincolo storico che ci ha fatti italiani ed europei. E solo così potremo far fallire i cattivi consigli, che non vanno presi sottogamba, di una netta espunzione del Sud dal quadro di un’Europa presuntuosa, chiusa nelle sue aree più avanzate.
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