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Un caso di ricezione cattolica del Perché non possiamo non dirci cristiani*
di Gianluca Genovese
«Sincer home d’Església, brillant escriptor, promotor de l’alta cultura internacional i editor intereuropeu», animatore di «admirables empreses editorials»: così ricordava la figura di Giuseppe De Luca, in un volume commemorativo1, uno dei maggiori protagonisti della cultura catalana del Novecento, il gesuita e storico Miquel Batllori, noto agli studiosi italiani soprattutto per le sue fondamentali indagini sul Lullismo in Italia2. Nel suo Amical Record, Batllori elogiava anche la lungimirante apertura al catalano di «don Giuseppe»: «Recordo el seu particular interès perquè, el 1949, any encara de represió político-lingüística a Espanya, li preparés en català el meu estudi sobre les versions italianes medievals de mestre Arnau de Vilanova». Questo «estudi» fu poi pubblicato «en el seu predilecte Archivio italiano per la storia della pietà», l’autorevole rivista ideata da De Luca e attiva dal 1951. Sarà ancora De Luca ad accogliere, nel 1958, un libro tra i più importanti di Batllori, Gracián y el Barroco, nelle «Edizioni di storia e letteratura»: la casa editrice, unica nel suo genere in Italia, fondata nel 1941 per dare spazio a quei lavori «ardui» che il prete-editore apprezzava sopra gli altri, quelli cioè di stampo storico, filologico ed erudito. Il catalogo delle «Edizioni» avrebbe vantato presto la presenza di studiosi di levatura europea tra i quali, insieme con Batllori, Paul Oskar Kristeller, Arnaldo Momigliano, Luigi Einaudi, André Wilmart, Werner Jaeger. E Palazzo Lancellotti, sede della casa editrice, si costituì subito come punto di ritrovo dell’intellighenzia cattolica romana, in un clima la cui vivacità culturale era rievocata da Batllori con una punta di nostalgia: «era molt més que un despatx o una oficina l’editor. Era un centre on es parlava primàriament dels llibres i de les obres en curs d’impressió o en immediat projecte; pero igualment de la cultura històrico-literària, en aquells moment de ràpida represa a Itàlia un cop acabada de segona guerra mundial, i també de la vida eclesial del moment − a les vigilies del Concili Vaticà II, no em plau d’emprar l’epítet eclesiàstica».
In un articolo-necrologio del novembre 1952, il «prete romano» originario della Basilicata tentava di chiarire in primo luogo a se stesso il senso del proprio trentennale, e spesso ambivalente, rapporto con Benedetto Croce: «io, per me, so una cosa sola: di ben altra fede della sua, con un concetto piuttosto diverso degli studii in genere, e degli studi storici in particolare, quasi insensibile inoltre alla corrente di pensiero filosofico che egli proseguiva, tuttavia sentivo per lui una venerazione e una affezione grandissima, sicché una sua parola aveva la virtù di farmi contento o scontento di me stesso». La congiunzione avversativa − tuttavia − ha, come si vedrà, valore di rivelatrice spia linguistica. De Luca la aveva adoperata con la medesima inflessione scrivendo proprio a Croce nel febbraio del 1937: «E non voglia male a questo strano prete che, prete quanto si può esser preti e altro non vuole che esserlo bene, tuttavia ha per lei sentimenti di grandissima stima e affezione». D’altra parte, il giovane sacerdote aveva cominciato molto presto a interrogarsi su ragioni e legittimità della propria «venerazione» per il campione riconosciuto della cultura laica. In una lettera del gennaio 1929 a Giovanni Papini, lo scrittore fiorentino convertitosi con clamore al cattolicesimo, De Luca la giustificava spostando la valutazione dal piano della filosofia (irricevibile per un cattolico) a quello di un ricco e sfaccettato umanesimo, al quale egli stesso aspirava con la propria attività d’erudito: «Per me Croce è stato [...] l’uomo che è uscito dai quadri positivi delle varie scienze e discipline, e si è nutrito di tutto ciò che valesse ad arricchire la sua umanità. In fondo (parrà una eresia) una nuova forma e incarnazione di umanista, non nel senso sciocco di rètore, ma in quello che sempre si sarebbe voluto dare a tale parola e poche volte nei fatti gli si è riuscito a dare, di uomo»4.
Questa vera e propria ansia giustificatoria riemerge anche quando l’opera omnia di Croce viene messa all’Indice dei libri proibiti, nel giugno 1934. Per l’occasione, De Luca si affrettò a scrivere al critico e filosofo una lettera nella quale riaffermava il suo «animo veramente e grandemente affettuoso», ma anche «le ragioni che, da privato e personalmente, mi giustificano l’atto della Chiesa». Nell’incipit di questa lettera riaffiora la spia linguistica − l’avversativa «tuttavia» − già segnalata: «Io non sono nulla di ufficiale né d’ufficioso, nella Chiesa; anzi, passerei presso qualcuno dei guai se dicessi tutta la stima e tutta l’affezione che ho per l’E.V.; tuttavia, sincero prete e uomo onesto, mi permetto di rivolgere all’E.V. una parola». Nelle lettere che De Luca, a lungo mediatore tra i vertici della Curia romana e il mondo politico, indirizza al laico Croce, il tuttavia risuona come un Leitmotiv per marcare la distinzione tra il piano della fede religiosa e quello della passione per l’erudizione. Ancora nell’aprile del 1950, quando stava per chiudere, dopo lunghissima gestazione, il primo volume dell’Archivio italiano per la storia della pietà, De Luca se ne serviva per isolare la componente del magistero crociano dalla quale riteneva di essere stato segnato: «Ella sa che sono prete prete, nel vecchio senso della parola, e cioè credente appieno e, nella quotidiana battaglia del pensiero e degl’incontri, fedele veramente, quanto dire del mio meglio; e tuttavia posso dirle che debbo a lei e al suo esempio, caro Senatore, questa mia fedeltà di ogni giorno e di tutte le ore d’ogni giorno a un lavoro senza arresti e, molto spesso, senza riposi». Analoga distinzione di piani era prospettata nel riportare le impressioni suscitate delle pagine crociane intorno a L’ombra del mistero, pubblicate nel 1939 nella «Critica»: «Ma cristiano e prete, fedele a Cristo e alla Chiesa, ho tuttavia sentita la profondità, la forza, la dolcezza umana di quelle pagine, non più (se non le dispiace) filosofia, ma (come dire?) umanità piena, pura, e (mi lasci dire) nell’aura di Dio».
Questa mobilità di piani e di prospettive consente di intendere meglio alcuni episodi cruciali, a partire dagli attacchi durissimi rivolti nel 1932 da De Luca, sotto pseudonimo, alla Storia d’Europa nel secolo decimonono5 (subito seguiti dall’«imperioso bisogno di ripetere» a Croce, per lettera, il proprio «affetto»), per giungere − ciò che qui più interessa − al suo ruolo nel dibattito sollevato dal Perché non possiamo non dirci cristiani.
La reazione dei cattolici allo scritto crociano fu immediata, ma di diverso tenore. Se in Italia i giudizi furono per la gran parte avversi, nella stampa europea si diffuse addirittura la voce di una conversione di Croce al cattolicesimo. Da Zurigo, Piero Pizzo riferiva che una delle maggiori testate clericali svizzere, il «Vaterland» di Lucerna, aveva annunciato il 22 gennaio 1943 la conversione del «filosofo della libertà»6. Attraverso la fitta rete dei propri corrispondenti, Croce monitorava da Napoli, tra il divertito e il seccato, l’evolversi di questo misunderstanding. In calce all’articolo dell’abate e professore Giuseppe Ricciotti, Perché cristiani, comparso ne «Il Popolo d’Italia» del 2 febbraio, egli riportava, chiosandolo con un Enfin!, il passaggio di una lettera ricevuta nello stesso mese: «All’estero è stata stampata la notizia: “Il Vaticano ci autorizza a smentire che B. Cr. si sia convertito al cattolicesimo”». L’equivoco dovette però persistere, se si rese necessario un comunicato ufficiale, attestato da un trafiletto della metà di agosto − Benedetto Croce non si è convertito − dal filosofo ritagliato e conservato nella «Miscellanea di scritti concernenti Benedetto Croce»: «Un recente articolo del filosofo italiano Benedetto Croce, pubblicato nella rivista “Critica” di Bari, ha fatto circolare in alcuni giornali di diversi paesi la voce di una conversione di Benedetto Croce al cattolicismo. In proposito l’interessato comunica che il suo articolo “Perché non possiamo dirci [sic] cristiani” è la espressione di idee che sono in tutte le sue precedenti opere filosofiche e storiche; ed è nuovo solo in questo: che Benedetto Croce ha creduto opportuno oggi compendiare quelle idee in una breve esposizione per il gran pubblico, sentendo l’urgenza di contribuire a risvegliare sentimenti che sono fondamentali della nostra civiltà. Nessuna conversione dunque e nessun omaggio alla Chiesa cattolica».
Almeno in principio, la stampa cattolica italiana non si mostrò compattamente ostile. Nel settimanale «L’Araldo di Volterra», il 3 gennaio, «Agra» si chiedeva se il Perché non possiamo non dirci cristiani dovesse leggersi come segnale di una «palingenesi crociana». Da segnalare, soprattutto, l’intervento del filosofo del diritto Guido Gonella, nominato tre anni più tardi primo Ministro della Pubblica istruzione della nascente Repubblica Italiana. Il 15 gennaio, dalle colonne dell’organo ufficiale della Santa Sede, «L’osservatore romano», Gonella giudicava lo scritto di Croce «uno dei più significativi documenti del disagio spirituale della nostra epoca, un rapporto storico sulla religiosità di questo tempo, sulla valutazione che del cristianesimo dà il pensiero moderno, sui motivi di verità che il cristianesimo può far fermentare anche nell’ambito di filosofie non cristiane».
Ben altri furono i toni della maggior parte dei cattolici, con critiche la cui gradazione andava dalla «diffidenza» al sarcasmo. Nel «Corriere padano» del 12 dicembre 1942, il maggior esponente del modernismo cattolico italiano, Ernesto Buonaiuti, accusava Croce di aver nascosto sotto la captatio benevolentiae le «insidie» di un discorso fondato su «sofismi» e «ignorantia elenchi». Lo stesso Buonaiuti sarebbe tornato sull’«istintivo moto di ribellione» in lui suscitato dalla lettura delle pagine crociane nell’articolo Arcades ambo, edito nella rivista «Religio» nel 1943. Dai fogli della «Civiltà cattolica» (20 febbraio 1943) il gesuita Domenico Mondrone denunciava analoga «irritazione», intravedendo immutate «tutte le accuse dal Croce mosse alla Chiesa» nel tempo, ora velate «sotto l’equivoco dell’espressione rispettosa e di qualche parziale riconoscimento». E nel «Corriere del Tirreno» del 16 aprile, il giornalista fascista Gioacchino Contri si burlava dell’articolo crociano riducendolo a uno dei tanti possibili «cristallini sillogismi» deducibili dalla filosofia dello spirito: «un giorno Croce ci dimostrerà che il gioco del tressette sta nella storia moderna, che quindi questa assorbe nel suo seno e rifrange adamantinamente anche il tressette ecc. ecc., e allora ci divertiremo foss’anche di più!». La prevedibile polarizzazione delle letture cattoliche fu subito avvertita come rischiosa da Papini, il quale rifiutò la richiesta di un commento rivoltagli dal direttore della «Nuova Antologia», Luigi Federzoni: «Non posso: se lo combatto diranno che il mio partito preso è tale che rifiuto Croce anche se cristiano (d’intenzione o per finta); se l’approvo direbbero che son mosso da personali interessi»7.
Giuseppe De Luca ebbe in questa vicenda un ruolo singolare: fu l’unico a portare sino alle estreme conseguenze entrambe le reazioni di parte cattolica, tanto l’apertura quanto la polemica irridente. Sul Perché non possiamo non dirci cristiani elaborò infatti non uno ma due articoli. Il primo gli fu commissionato dal gerarca fascista Giuseppe Bottai, da sette anni Ministro dell’Educazione nazionale, il quale, preoccupato soprattutto dalla possibilità di una sua lettura in chiave politica, intendeva demolire subito il saggio crociano. Come ha notato Gennaro Sasso, nelle argomentazioni da De Luca offerte a Bottai, e da questi pubblicate sotto il titolo Croce rincristianito per dispetto in «Critica fascista» (1 gennaio 1943), sono composti con «talento», «in un unico disegno, i loci communes di un quarantennio»8: Croce viene presentato come un «agitatore» e divulgatore «di idee altrui», un improvvisatore di filosofia, temperamentale e incostante, che aveva scelto lo storicismo perché gli consentiva di «teorizzare la propria mutevolezza».
Ma De Luca elaborò poco dopo, per la rivista cattolica «Il Regno», un pezzo molto diverso, intitolato Per un articolo del senatore Croce. A ragione Emma Giammattei ha collocato il duplice intervento deluchiano «dentro la migliore tradizione della sofistica gesuitica, secondo la quale il punto di vista può determinare differenti giudizi e conseguenti prese di posizione»9. Nella lettera a Bottai, De Luca precisava che gli argomenti in essa elencati erano quelli che avrebbe adoperato se si fosse trovato «al posto» del Ministro. In questa prospettiva, si valse del «lato negativo» delle proprie «impressioni»: un «lato negativo» tuttavia ben radicato, come attesta la ripresa dei topoi denigratori da lui già sfruttati in principio degli anni Trenta, in occasione dei ricordati attacchi alla crociana Storia d’Europa. Ma in chiusura della lettera De Luca faceva cenno anche a un «lato» positivo, sul quale avrebbe costruito di lì a breve il proprio articolo: il Perché non possiamo non dirci cristiani, oltre che «una stupenda pagina», è «una prova d’intelligenza piuttosto rara in Italia», un «segno» di «energia morale». Lo sdoppiamento del punto di vista è così radicale che De Luca, il quale aveva confessato a Croce di aver letto il suo saggio «non senza vere frequenti lagrime», può nelle pagine per Bottai concedere un “cameo” al proprio doppio: «Lasciamo da una parte i preti, che magari ci lacrimeranno sopra per la contentezza». E il “doppio”10 fa capolino anche nell’articolo concepito per il «Regno», nel riferimento a «coloro che (anche recentemente) si sono appigliati a escandescenze del suo temperamento per offenderlo»: era stato infatti De Luca stesso, nelle pagine per Bottai nel frattempo già edite, a dipingere Croce come «l’uomo del dispetto», uso a «denigrare, aggredire, mordere».
Nondimeno, nella riflessione consegnata al «Regno» e spedita a Croce subito, ancora in bozze, De Luca si fece il più lucido portavoce della − sia pur minoritaria − parte cattolica che giudicava il saggio «capitale», capace di far riprendere in Italia una «fruttuosa discussione religiosa», di stimolare una ricerca, «che vuole tutta una vita e immenso studio», «sulla fortuna di Cristo e del Cristianesimo nel pensiero critico dell’Ottocento». Soprattutto, contrapponendosi sia all’abbaglio della conversione sia a una lettura politica, individuava per tempo la «genesi» autentica del Perché non possiamo non dirci cristiani nella «storia del pensiero crociano», invitando gli studiosi − di ogni fazione − a una sua riconsiderazione «generale» e profonda, senza «l’ausilio delle formulette». Questo De Luca suggeriva dunque di non liquidare come «cosa leggera» «un articolo di grande intelligenza, di grande cultura, di grande cuore», elaborato da chi «tanta parte ha passato della sua vita nello studio del concetto di storia umana». D’altra parte, nonostante le ambiguità del proprio rapporto con Croce, da inserire nel contesto sin qui delineato, il filosofo sarebbe sempre rimasto per lui «il monte più alto nel paese (intellettuale) dove siamo nati e cresciuti»11.








NOTE
* Ringrazio il direttore della rivista del Centre d’Estudis Jordi Pujol per avermi autorizzato a pubblicare qui la versione italiana di un articolo edito, col titolo Giuseppe De Luca i el “Perché non possiamo non dirci cristiani”, in «Via. alors, idees, actituds», 13 (2012), n. 4.^
1 Don Giuseppe De Luca a cento anni dalla nascita. Nuove testimonianze e riflessioni, a c. di P. Vian, Roma, 1998. Per un ritratto esaustivo di De Luca, si veda L. Mangoni, In partibus infidelium. Don Giuseppe De Luca: il mondo cattolico e la cultura italiana del Novecento, Torino, Einaudi, 1989.^
2 Il lullismo in Italia, «tentativo di sintesi» risalente alla metà degli anni Quaranta, è stato di recente riproposto, nella traduzione italiana di F.J. Díaz Marcilla, Edizioni Antonianum, Roma, 2004.^
3 G. De Luca, Dopo la morte di Croce apriamo il processo al suo secolo, in B. Croce-G. De Luca, Carteggio 1922-1951, a c. di G. Genovese, intr. di E. Giammattei, Roma, 2010, p. 188. Da questa edizione derivano tutte le citazioni delle lettere di De Luca a Croce.^
4 G. De Luca – G. Papini, Carteggio. I: 1922-1929, a cura di M. Picchi, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1985, p. 221.^
5 Sull’accoglienza riservata alla Storia d’Europa nel secolo decimonono, cfr. la ricostruzione di G. Galasso nella sua Nota all’edizione Milano, Adelphi, 1991, pp. 441-461.^
6 P. Pizzo a B. Croce, lettera del 22 febbraio 1943 (Archivio della Fondazione Biblioteca Benedetto Croce).^
7 G. Papini, Scritti postumi, II, Pagine di diario e appunti, Milano, Mondadori, 1966, p. 113.^
8 G. Sasso, Buonaiuti e De Luca su Croce e il cristianesimo, in Filosofia e idealismo. V. Secondi paralipomeni, Napoli, 2007, pp. 477-512.^
9 E. Giammattei, Introduzione a B. Croce-G. De Luca, Carteggio, cit., p. XXIII.^
10 Sul «Doppio» come caratteristica del percorso biografico di De Luca, cfr. E. Giammattei, op. cit., p. XII.^
11 Dopo la morte di Croce apriamo il processo al suo secolo, cit., p. 186.^
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