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Europa, Germania…e non solo
di G. G.
Se dovessimo indicare gli avvenimenti più significativi per la vita e lo sviluppo dell’Unione Europea sino alla metà di giugno, non esiteremmo molto a indicare le ultime elezioni per il Parlamento greco e quelle presidenziali e parlamentari in Francia.
Dalle elezioni greche è immediatamente risultato il dato politicamente decisivo, nella presente congiuntura, espressosi nella volontà popolare di quel paese, di non voler lasciare l’area dell’euro. Nelle difficoltà enormi in cui la Grecia si sta dibattendo ormai da qualche anno, ma decisamente accentuatesi dalla scorsa estate in poi, la tentazione di vedere nell’euro e nell’appartenenza alla sua area la causa di tutti i mali dell’attuale condizione greca poteva essere sia forte che comprensibile. Un motivo ricorrente nelle elezioni greche è stato, perciò, proprio il ritorno alla dracma. Hanno vinto, invece, i gruppi e i partiti che si sono dichiarati e impegnati per la permanenza della Grecia nell’area dell’euro. Hanno vinto, cioè, quelli che sostenevano di perseverare sul percorso della strada più difficile e più condizionante per un paese che è stato già tanto seriamente provato dalle difficoltà in cui si è trovato, e nel quale si sa bene che, nonostante gli aiuti ricevuti o promessi, il proseguire su questa strada non promette per nulla di riuscire meno ostico di quanto il cammino è stato finora.
Per la Francia non si ponevano in alcun modo i problemi della Grecia. Tuttavia, il responso delle urne presenta una singolare analogia con quello di Atene. La vittoria di Hollande nelle elezioni presidenziali e quella dei socialisti e dei gruppi che lo appoggiano nelle elezioni al Parlamento sono state, infatti, giocate, come i commentatori hanno in larghissima maggioranza notato, sul motivo di una radicale revisione della stretta osservanza dell’asse Parigi-Berlino, in fatto di politica europeistica, a cui ci si era sostanzialmente e strettamente tenuti durante la presidenza Sarkozy. La solidarietà francotedesca si era progressivamente configurata come un direttorio di fatto dell’Unione Europea, che riduceva gli altri paesi partecipanti a membri di minore diritto della stessa Unione. O, meglio, questo appariva come il dato di fatto per quanto riguardava i paesi dell’Unione aderenti all’area dell’euro, tanto è vero che, fra gli altri paesi partecipanti all’Unione, si è sempre badato a mantenere un chiaro rapporto con Londra. Con l’unico risultato, però, di far apparire che, se nelle cose pertinenti all’euro vigeva un direttorio francogermanico, per quanto riguardava l’Unione quel duo si trasformava in un trio, senza nessun sollievo di tutti gli altri paesi membri, comunque esclusi da una così ristretta partecipazione a contatti e accordi, poi imposti e di fatto obbliganti per tutti gli altri.
La Francia avrebbe potuto essere contenta, se non lieta, di una tale posizione di privilegio e di primato? Fino a un certo punto. Sempre più si era diffusa l’impressione che nel duo franco-germanico chi prevalesse e finisse col farla da “più grande” dell’altra “grande” era, poi, la Germania. Si sa che la suscettibilità francese su questo piano è sempre stata, e rimane, altissima. Ma non era soltanto questione di suscettibilità. Il fatto è che la potenza economica della Germania è ormai diventata cospicua, e tenerle dietro diventa sempre più difficile anche per un paese con tante risorse, e tradizionalmente forte sui mercati finanziari, quale è stata e in gran parte rimane la Francia. Ci si è cominciato a chiedere, a Parigi, se non si stesse lavorando, sulla linea Sarkozy, per finire col trovarsi in una posizione sostanzialmente subordinata, anche se formalmente sempre privilegiata, rispetto al paese le cui fortune economiche sono ormai chiaramente prevalenti in Europa, e che appare come quello dell’Europa continentale meglio in grado di farsi valere fuori dell’Europa. E ciò senza contare che qualche sospetto di scricchiolio si è cominciato a farsi sentire anche per l’ancora ben solida situazione francese; e che non può garbare ai circoli di governo a Parigi, e ancor più all’opinione pubblica francese, un sia pur splendido isolamento in posizione preminente accanto alla Germania,con l’eventuale conseguenza di tensioni e difficoltà di rapporti con paesi tradizionalmente legati alla Francia da forti vincoli materiali e culturali.
Può darsi che si trattasse di timori eccessivi, di eccessi di giudizi negativi e di preoccupazioni dovute anche alla circostanza elettorale. Ma, anche se si fosse trattato solo, o soprattutto, di questo, sarebbe ugualmente significativo che questi motivi abbiano trovato tanto ascolto presso gli elettori francesi. Ne è derivato, a generale giudizio, che la presidenza Hollande non si muoverà più soltanto o per lo più in asse con Berlino, e cercherà di muoversi su una linea che faccia cadere i sospetti e i timori di un direttorio franco-germanico a tutto svantaggio degli paesi dell’euro.
Naturalmente, si vedrà poi se al verdetto elettorale greco seguiranno gli sviluppi in materia politica e finanziaria coerenti con la decisione di restare nell’area dell’euro; e così pure si vedrà se effettivamente l’asse Parigi-Berlino declinerà. Certo, il collaudo greco è molto più impegnativo di quello francese, e ciò anche per la semplice ragione che per esso occorrerà alquanto più tempo che per l’altro. Se una cosa si è capita della crisi in atto in Europa e, per la verità, anche largamente al di fuori dell’Europa, a cominciare da quel che si vede e si sa degli Stati Uniti, è che non solo non ne sarà semplice, ma neppure rapida la soluzione. Credere che bastino poche misure, sia pure radicali o chirurgiche, per rimettere nella pienezza del suo assetto e della sua funzionalità il giocattolo che si è rotto, è pura illusione. L’importante, in questa materia, è cominciare a mettersi seriamente all’opera, avere chiari gli strumenti da adoperare e gli obiettivi a cui mirare, e andare avanti senza interruzioni del lavoro né temporali, né di rigore e coerenza.
Vedremo, dunque. Già sino alla metà di giugno era, però, il significato europeistico delle elezioni greche e di quelle francesi fuori dubbio. Quello greco può apparire un sintomo più importante. Una secessione dalla scelta della moneta unica indebolirebbe quest’ultima, quale che sia la dimensione economica e politica del paese secessionista, in misura non valutabile a priori. Lo si è fatto rilevare da parte americana, ma è un rilievo sul quale è difficile dissentire anche fra gli europei che abbiano lucidità e responsabilità di giudizio. Da un punto di vista politico, tuttavia, il dato francese è, forse, almeno nell’immediato più importante.
Allargare l’area decisionale dell’Unione Europea è il problema più determinate ai fini del suo futuro. Ciò si può fare in due modi. O estendendo ad altri paesi la partecipazione al club direttivo di fatto dell’Unione stessa, come si è cominciato a fare con una maggiore presenza italiana, e anche spagnola, alle riunioni del duo franco-germanico. Oppure trovando dei sistemi di rappresentanza esecutiva al massimo livello decisionale reale dell’unione: reale, non quello degli organi elettivi e statutari di Bruxelles e di Strasburgo. È chiaro che soltanto questa seconda è la scelta davvero auspicabile, è la vera garanzia di un futuro dell’Unione migliore, più pieno e concreto, più organico e robusto, più operativo e più efficace di quello che abbiamo avuto finora.
Per questa seconda possibilità occorre, come ben si comprende, una riforma politica del patto di Unione Europea. Un nuovo patto che, se vi sarà, potrà anche comportare un rifiuto di aderirvi da parte di questo o quel paese, che attualmente all’Unione partecipa, ma con una praticamente piena autonomia economica, finanziaria, monetaria (e, quindi, anche politica), come è sicuramente il caso della Gran Bretagna. Inoltre, anche un tale fondamentale elemento di innovazione del patto europeo non sarebbe ancora decisivo se a un nuovo e ben più rappresentativo esecutivo europeo non si dessero non solo i poteri del caso, ma anche gli strumenti operativi più idonei ai fini comunitari, (a cominciare dalla trasformazione della Banca Centrale Europeo in una vera banca centrale, con le facoltà, a livello dell’Unione, che a livello dei paesi membri sono propri delle banche centrali), e se non ci si decide ad aprire il capitolo della istituzione di un debito pubblico della stessa Unione.
Sono obiettivi difficili, che esigono capacità innovative e operative di cui la dirigenza europea – dopo il grande atto della formazione dell’Unione – non ha dato prova. Sono anche problemi di alta politica. La stessa Merkel – che un giornale inglese ha definito, all’incirca un mese fa, “the most dangerous european leader” – ha dimostrato di aver cominciato a capirlo. Pur ribadendo strettamente il criterio del massimo rigore e un’assoluta intransigenza per quanto riguarda Eurobond e crediti agli Stati membri in crisi o in difficoltà, ella ha pure, un po’ inaspettatamente dichiarato che era giunta l’ora di una vera e propria riforma politica dell’Unione: evidentemente nel senso politico intensivo da noi sopra indicato.
Non c’è una contraddizione in questo nuovo atteggiamento della Merkel? Che senso ha auspicare una più stretta unione politica, se poi si escludono atti qualificanti di una tale più stretta unione? Che significa trovare “impressionanti” gli sforzi fatti da Italia, Spagna, Portogallo (e, bisognerebbe aggiungere, Grecia), e non dedurne l’opportunità di atteggiamenti politici diversi in materia di solidarietà europea?
A dire il vero, però, la contraddizione c’è e non c’è. Il problema non è personalmente la Merkel. Siamo sicuri che un cambio di direzione politica nelle elezioni tedesche dell’anno prossimo garantisca un atteggiamento germanico diverso dal suo? Chi si sente di affermarlo? Il problema, infatti, non è la persona Merkel. È la Germania che ella rappresenta, e che qualche altro del suo o di altro partito, se non lei stessa, continuerà a rappresentare dopo le elezioni del 2013. È la Germania nel senso che si è determinata tra la sua forza economica e le sue possibilità di farla valere politicamente e la forza e le possibilità degli altri paesi dell’Unione, Francia compresa (mentre, come si è detto, il problema non si pone o si pone in modo diverso e, comunque, con molto minore rilievo, per la Gran Bretagna). Dopo l’unificazione – capolavoro dell’immeritatamente dimenticato Kohl – una volta superato l’impatto dei problemi di integrazione che ne nacquero e una non lieve crisi connessa a questo impatto e ad altro, le potenzialità tedesche si sono di molto incrementate. Il governo e il paese (un paese di 90 milioni di uomini, una volta e mezza la Francia o l’Italia o la Gran Bretagna, più di due volte la Spagna) hanno saputo metterle a frutto molto meglio di quanto altri paesi europei hanno fatto nella gestione dei propri affari economici e finanziari. Il capitale tedesco ha acquisito o riacquisito una capacità di penetrazione che ricorda i migliori momenti di altri tempi. Il solo pensiero di dividere con altri il peso di debiti e di obbligazioni che quegli altri hanno insanamente contratto non trova una diffusa accoglienza favorevole neppure nel più comprensivo dei tedeschi più sinceramente europeisti: non si può non capirlo, né si può non capire che la classe politica tedesca, non solo la Merkel si sentano fortemente obbligati a non contrastare una tale diffusa opinione. Il peso politico del paese è anch’esso in fase di forte crescita, e ciò sia come paese singolo, sia come membro influente e determinante dell’Unione. In Francia c’è già chi ricorda con una certa nostalgia De Gaulle, il quale dichiarava di amare tanto la Germania da desiderare che ve ne fossero due, anziché una sola.
A questo punto erano le cose sino a fine giugno. È significativo (e, un po’ tristemente, divertente) il modo come alcuni giornali europei hanno riportato il 22 giugno il succo di una intervista di Mario Monti. In Spagna El País ha titolato il suo resoconto col richiamo di Monti alla opportunità del ricorso agli Eurobond. In Inghilterra The New Statesman ha titolato col giudizio di Monti per cui vi era solo una settimana per salvare l’euro. In Germania la Süddeutsche Zeitung ha titolato con l’affermazione di Monti che l’Italia non ha e non avrà bisogno di aiuti dall’Unione. La preferenza titolistica dice eloquentemente la difformità degli interessi e degli atteggiamenti fra i paesi europei: una difformità nella quale le carte decisive per una soluzione auspicabile in senso europeistico sembrano essere oggi soprattutto nelle mani della Francia.
Poi a fine giugno è intervenuta la due giorni di Bruxelles, e la situazione, almeno nell’immediato, sembra mutata. L’irrigidimento italiano e spagnolo (che non avrebbe avuto molte frecce al suo arco, senza il supporto francese) ha avuto successo. La Merkel ha aderito ad alcune fondamentali richieste, sulle quali, prima, non aveva assolutamente voluto concedere alcunché.
Vedremo poi il decorso degli sviluppi che ne seguiranno (e ciò soprattutto per quelle che potranno essere, a più lunga scadenza, le reazioni tedesche agli accordi di Bruxelles). Si può già osservare, che si è avuto un netto successo europeistico.
A patto, però, si badi bene, che i paesi più in crisi e in difficoltà non solo continuino, ma anche intensifichino e qualitativamente migliorino i loro sforzi per togliere ogni appiglio alla comprensibile riluttanza germanica a farsi carico di debiti fatti da altri con pratiche politiche che dire discutibili (come soprattutto nel caso greco) è molto poco. Non si possono, e non si saprebbero, fare previsioni, ma che le circostanze siano oltremodo gravi, e che esse siano rese oltremodo difficili anche dal contesto globale in cui bisogna muoversi, è dimostrato da un elemento, a nostro avviso, senz’altro probante. Come si spiega, infatti, che, nonostante tutti gli sforzi dei paesi in questione, la situazione non migliora? In Italia cresce ancora il debito pubblico, e la differenza col rendimento dei titoli tedeschi non scende o, se scende, dopo un po’ torna ai livelli più alti, o quasi. La recessione si fa sentire sempre di più nella produzione e nei consumi. La pressione fiscale inaridisce le fonti di una eventuale ripresa, facendo pensare al classico caso per cui la cura sicura uccide l’ammalato.
La speculazione, si dice. Il mercato. Ma che sono, speculazione e mercato? Una specie di misteriosa entità e congiura, come la famosa Spektre dei film dell’incantevole James Bond 007? Se è così, bisogna regolare i mercati e spegnere la speculazione. Siamo al punto che sono orami le società di rating a decidere dove e in che misura intervenire nella politica finanziaria delle maggiori potenze economiche e politiche del mondo. Così non può durare a lungo, senza provocare disastri enormi. Una via per ottenere insieme rigore e ripresa dev’esserci. Altre volte si è trovata. Bisogna capirlo, e regolarsi di conseguenza, in Germania, in Europa, negli Stati Uniti e altrove.
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