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“Il grottesco della realtà”. Friedrich Gentz e la Rivoluzione napoletana del 1820-1821
di Anna Maria Voci
Alla conoscenza della figura del pubblicista, diplomatico e scrittore politico Friedrich Gentz (1764-1832) ha contribuito in maniera determinante la biografia di Golo Mann, frutto del lavoro degli anni del suo esilio svizzero, francese e americano (1936-1941). Essa uscì in America nel 1946 con il titolo Secretary of Europe. The Life of Friedrich Gentz Enemy of Napoleon, e, l’anno dopo, in versione tedesca, a Zurigo, con un titolo diverso, che, tuttavia, sottolineava, anch’esso, la dimensione “europea” di Gentz1. Tale edizione tedesca fu ristampata con il medesimo titolo nel 19712. Una nuova edizione uscì, in Germania, un anno dopo la morte di Mann, nel 19953. Quest’ultima presenta un nuovo titolo che, ancora una volta, sottolinea il respiro europeo del pensiero politico di Gentz, ma che non risale all’Autore e risente, forse, della tendenza odierna a piegarsi troppo facilmente, e in maniera spesso impropria, alla moda dei “precursori”, veri o presunti, dell’idea di Europa. Nonostante la pubblicazione di qualche altro studio su Gentz4, il lavoro di Mann continua a rimanere un “classico”, per quanto, fin quasi ad oggi, poco conosciuto e poco letto dal grande pubblico, anche in Germania5, soprattutto per la tensione morale che ne fu all’origine e che spinse Mann a scriverlo, nella convinzione che la storiografia avesse in primo luogo il compito di fornire un contributo, almeno indiretto, alla comprensione del presente.
Lo scrittore politico “europeo” Gentz, prussiano di nascita, poi naturalizzatosi austriaco, nemico del principio della “legittimità” della nazione e sostenitore del principio della “legittimità” delle dinastie storiche europee, che si adoperò per realizzare una solidarietà paneuropea al fine di conservare la pace, messa in pericolo ogni volta che uno Stato scardinasse l’equilibrio europeo ed estendesse la propria egemonia sugli altri, è presentato da Golo Mann come una figura chiave della crisi attraversata dall’Europa in quel periodo di fondamentale trasformazione che fu il tornante tra XVIII e XIX secolo, tra la Rivoluzione francese, l’epoca di Napoleone I, e la sua egemonia sull’Europa, la coalizione delle potenze europee contro di lui, e la Restaurazione, che permise, infine, all’Europa di uscire dalle guerre e dal dispotismo napoleonico. Fu, quello, un periodo cruciale, che conobbe diversi tentativi di dare all’Europa un nuovo ordine. Nelle pagine del libro, dietro quell’epoca l’Autore fa scorgere al lettore il parallelo con l’epoca a lui contemporanea, segnata dalla dittatura di un uomo e di una nazione, aspirante all’egemonia europea, dalla lotta contro di essi, e, poi, dall’uscita del continente europeo dalla tirannia e dalle guerre di Hitler, e dall’instaurazione di un nuovo ordine europeo. Gentz incarnava per G. Mann un ideale di conservatorismo diverso da quello da lui sperimentato in Germania negli anni ’30, caratterizzato soprattutto da un violento nazionalismo. Per quanto si possa ritenere poco pertinente il parallelo tra l’epoca di Gentz e la realtà europea degli anni ’30 e dei primi anni ’40 del secolo XX, il libro di Mann rimane un’opera storica non solo valida, ma anche affascinante, perché all’Autore riuscì di tracciare il ritratto di un’epoca scrivendo la biografia di un uomo, perché la vita di quest’uomo fu specchio del carattere del suo tempo.
In Italia la figura di Gentz è poco conosciuta. A parte uno studio di Maria Pia Paternò, uscito nel 19936, non sono riuscita a trovare altri saggi significativi su di lui, né il libro di Golo Mann è stato tradotto in italiano. Con mia grande sorpresa ho inoltre constatato che nelle biblioteche pubbliche italiane risultano essere conservati soltanto due esemplari della sua edizione del 19957, mentre la prima edizione, del 1947, è presente, a quanto ho potuto vedere, in una sola biblioteca in tutto il nostro paese8.
Gentz nacque a Breslau, la capitale della Slesia, il 2 maggio del 1764, l’anno dopo la fine della Guerra dei Sette Anni, che segnò il passaggio di quella regione dal dominio austriaco a quello prussiano. La famiglia di Gentz era prussiana e si trasferì presto a Berlino. Il giovane Friedrich andò a studiare a Königsberg, dove ascoltò le lezioni di Kant. Tornato nel 1785 a Berlino, entrò nel servizio pubblico. In questo periodo imparò sia il francese che l’inglese, due lingue nelle quali si perfezionò in una misura rara anche a quel tempo, cosa che gli consentì, negli anni seguenti, di conseguire una posizione rilevante negli ambienti diplomatici. In un primo momento si entusiasmò alla Rivoluzione francese, che avvertì come il trionfo degli ideali diffusi dal movimento di pensiero giusnaturalistico del tardo Illuminismo europeo. Gli eccessi rivoluzionari e la “scoperta” del pensiero di Edmund Burke provocarono in lui una totale conversione verso posizioni conservatrici, di rifiuto delle idee di sovranità popolare, dei diritti di libertà politica. In questo rifiuto egli continuò a poggiarsi sullo stesso fondo di razionalismo che lo aveva indotto, in precedenza, a sostenere la Rivoluzione: quest’ultima, da allora, fu da lui combattuta come un fenomeno contro natura, contro il Vernunftrecht. Di Burke egli tradusse le Reflections on the Revolution in France, (London 1790; Berlin 1793) corredando il testo tedesco di aggiunte e lunghi commenti.
Questa è la prima opera che contribuì a diffondere la conoscenza del suo nome. Da questo periodo comincia anche la sua intensa attività pubblicistica, caratterizzata da una grande ammirazione per le istituzioni politiche britanniche, per il sistema costituzionale inglese, per gli uomini politici inglesi (che lo remuneravano bene per i prodotti della sua penna e gli consentivano di avere un tenore di vita dispendioso, ambìto da un uomo di mondo, quale egli era), e dalla critica alla pavidità della politica prussiana, timorosa di aderire alle coalizioni europee contro la Francia. A lungo andare non poté rimanere a Berlino. Nel 1802, a Dresda, entrò in contatto con Metternich che lo portò con sé a Vienna. Ivi ottenne dall’Imperatore un posto di consigliere con uno stipendio annuo fisso, ma nessun incarico politico, e continuò a ricevere sovvenzioni dal Governo britannico per la sua attività di pubblicista anti-napoleonico che vedeva solo nella coalizione di tutte le potenze europee e nella caduta del despota francese la possibilità di liberare l’Europa dalla dittatura napoleonica e di restaurarvi quell’equilibrio politico, basato sulla consapevolezza di una solidarietà comune, che, solo, poteva garantire la pace.
Soltanto nel 1810, mentre si allentavano i legami tra Gentz e l’Inghilterra, avvenne quell’avvicinamento tra Metternich e Gentz, che segnerà il resto della vita del pubblicista. Gentz ne divenne il segretario, l’intimo e più fido consigliere nelle materie politiche e finanziarie (delle quali era un grande esperto), e poté, pertanto, esercitare una grande influenza sugli indirizzi della politica austriaca di reazione ad ogni moto rivoluzionario; di opposizione ad ogni tendenza liberale e nazionale, ad ogni “novità”; di mantenimento della pace europea, della legittimità dinastica, dell’ordine instaurato in Europa nel 1815, per il quale le cinque grandi potenze europee dovevano convivere in equilibrio. Questa era l’Europa di Gentz. Era un’Europa che doveva volere la pace, per saggezza e per convinzione intima, perché la pace era l’unica garante del mantenimento dell’ordine. Non la guerra, ma la difesa da ogni aggressione, non la distruzione, ma la conservazione dell’esistente erano, per lui, l’anima del sistema europeo. Con l’Austria, con i suoi interessi e con la sua politica egli sempre più si identificherà. Accompagnava Metternich in tutti i suoi viaggi, era da lui costantemente informato di tutte le novità e di ogni iniziativa politica, redigeva scritti diplomatici, memorie, articoli per la stampa per difendere la politica austriaca, ebbe un ruolo centrale nell’organizzazione del Congresso di Vienna, del quale fu il primo segretario, si trovò a Parigi all’ingresso, nel 1815, degli eserciti alleati nella capitale francese dopo Waterloo, fu presente a tutte le sedute del Congresso a Vienna, ebbe una parte rilevante alla redazione del trattato finale del Congresso, partecipò accanto a Metternich alle conferenze di Karlsbad, Troppau, Lubiana, Verona, i cui principali scritti furono da lui redatti.
Scoppiata, nel 1830, la rivoluzione in Francia e andato al potere Luigi Filippo, re per volontà della nazione, Gentz, tuttavia, per amore del supremo bene della pace, si adoperò per indurre Metternich ad accettare senza troppe esitazioni l’esito di quella rivoluzione parigina, a non far precipitare in un conflitto bellico lo scontro tra i due principii del potere monarchico e della sovranità popolare. Lentamente, però, questa sua posizione conciliante gli alienò il favore di Metternich. Gentz, comunque, si spense poco dopo, il 9 giugno 1832.
Nell’Europa di Gentz non era compresa l’Italia. Mentre scrisse parole di comprensione per «l’eroico e coraggioso popolo polacco», rivoltatosi contro il dominio russo nel 1830, pur concludendo che i Governi europei non potevano accedere alla sua richiesta di indipendenza, né potevano rivedere le decisioni di dividere la Polonia, prese già decenni prima9, nei confronti dell’Italia, invece, egli non solo difese il diritto austriaco ad intervenire con le armi ogni volta che lo status imposto dal Congresso di Vienna fosse minacciato, ma, dai suoi scritti, soprattutto dal suo diario, risulta evidente che egli non amava e non ammirava né l’Italia, né gli Italiani. Per lui l’Italia era una reminiscenza storico-erudita, un’espressione geografica, un antiquarium a cielo aperto, un «aggregato di contrade divise»10; gli Italiani un popolo sostanzialmente ignavo e infido. L’Italia lo ha ripagato ignorandolo.
La sua posizione sul problema italiano si trova esposta con chiarezza in un articolo di risposta ad un intervento apparso il 1° aprile 1822 sul quotidiano francese di tendenza liberale «Journal des Débats». In tale articolo si criticava il comportamento passivo della Francia e della Gran Bretagna nel corso «dei recenti eventi in Italia», cioè dei moti del 1820-1821. Vi si affermava che il concetto di legittimità comprendeva sia i diritti dei popoli, sia quelli delle dinastie; che era illegittimo privare una nazione della sua indipendenza, come privare un legittimo sovrano del suo trono; che una nazione, una per religione, lingua ed interessi, aveva il diritto inalienabile di formare uno Stato, e che, quando tale nazione fosse sfortunatamente frammentata, la vera politica aveva il dovere di porre fine a tale stato, contrario alla natura ed alla giustizia; che, nel 1814-1815, era stata una jattura per l’Europa avere perso di vista il principio della legittimità nazionale; che colpevoli di tale errore erano state le potenze europee, poiché allora era dipeso soltanto dal loro volere di sostituire il sistema imposto in Italia da Bonaparte, e da esse rovesciato, con un altro più adatto alle aspirazioni degli Italiani; che la naturale conseguenza di questo errore erano stati i moti del 1820, e che Francia e Inghilterra sarebbero dovute intervenire per offrire ai Governi ed ai popoli d’Italia la Charte di Luigi XVIII; infine, che la loro neutralità era stata, invece, in sommo grado riprovevole.
Per incarico di Metternich Gentz replicò punto su punto a tale articolo del «Journal des Débats» scrivendo un pezzo che intitolò: Potevano le potenze alleate unire nel 1815 l’Italia in un Regno11? Gentz contesta la dilatazione ad libitum del significato delle parole e l’accezione data dal quotidiano parigino al termine “legittimità”, ricordando che nel diritto civile (Civilgesetzgebung) legittimità è solo quella della nascita, nel diritto pubblico (Staatsrecht) essa è solo quella del possesso del potere supremo conformemente alle leggi di successione o ad altre leggi fondamentali.
Che, inoltre, un popolo parli la stessa lingua, e che su tale base (gli altri criteri: uguaglianza del credo religioso, dell’origine, dei tratti caratteriali sono elementi troppo incerti) esso debba acquistare il diritto inalienabile a costituire un’unità politica, è un concetto finora, nota Gentz, sconosciuto al diritto pubblico. Ma la storia si è pronunciata in modo avverso rispetto a esso. Accanto al caso francese, nel quale una massa di genti, affini per destino, costumi, dialetti, si sono strette a poco a poco insieme fino a formare un unico corpo politico, vi sono dieci altri casi in cui ciò non si è verificato. Questo è il caso dei Tedeschi, che, nonostante tutti gli evidenti elementi di coesione, non hanno mai costituito un Reich veramente unito. Questo è il caso degli Italiani, che non hanno mai vissuto in uno Stato unitario, tranne che «sotto il ferreo scettro dell’antica Roma». Né la loro divisione politica ha, a suo giudizio, qualcosa di contrario alla natura. Le leggi, in base alle quali si formano Stati unitari, si modificano e si dissolvono, hanno poco o nulla a che fare con la comunanza di lingua, di costumi e di fede.
Pertanto, nel 1814-1815 non vi era alcun dovere delle potenze europee di modificare totalmente l’assetto politico italiano. Distruggere o frammentare uno Stato, un organismo statale unitario e in sé compiuto, è qualcosa di ingiustificabile. Ma non vi è alcuna regola del diritto, né alcuna massima statale che obblighi a ricomporre ad ogni costo un paese diviso. «Questo era lo stato delle cose al tempo del Congresso di Vienna. La legittimità è un principio di conservazione. Ciò che si sarebbe preteso dalle Corti europee sarebbe stata una creazione affatto nuova».
Le misure adottate da Napoleone nei confronti dell’Italia dimostrano che egli mai concepì seriamente un piano di riunire l’Italia sotto un’unica dinastia. Creò un Regno d’Italia mettendo assieme pezzi di territori di Casa d’Austria e altri ad essi vicini; annetté alla Francia il Piemonte, Parma e Genova; regalò a parenti la Toscana e Lucca; ridusse lo Stato della Chiesa ad una provincia francese; diede il Regno di Napoli prima ad un fratello, poi ad un vassallo. Tutti questi territori non avevano nulla in comune, se non il fatto di essere a lui soggetti. L’Italia continuò a rimanere ciò che era prima: un aggregato di contrade divise e spezzettate.

Non fu nello spirito della politica di Napoleone, né, forse, era in suo potere, anche se lo avesse voluto, di creare un paese unito da queste terre divise. Né egli fece alcunché per guadagnare lo spirito dei popoli italiani ad una tale impresa, o per prepararli ad essa in un qualche modo. Piuttosto si compiacque di veder continuare a sussistere le antiche ostilità, le antiche gelosie, l’antico odio nazionale tra Lombardi, Piemontesi, Fiorentini, Romani e Napoletani.

In questo stato le potenze trovarono l’Italia nel 1814, quando l’egemonia francese venne annientata. Mai un momento, conclude Gentz, sarebbe stato meno adatto a modificare in maniera radicale la situazione italiana: «Anche se gli alleati – cosa che è difficile sostenere – avessero avuto il diritto di tentare di consolidare l’Italia, tale tentativo sarebbe immancabilmente fallito davanti alla resistenza e all’opposizione delle popolazioni italiane».
All’anno precedente, all’aprile del 1821, risale, poi, un altro breve scritto di Gentz sulla campagna militare austriaca del marzo 1821 per reprimere il moto napoletano scoppiato nel luglio del 182012, che qui si presenta in versione italiana. Il lettore si accorgerà subito che Gentz mostra una conoscenza dettagliata dei luoghi e delle circostanze di cui scrive. Ciò induce subito a chiedersi come abbia potuto lui, che per tutto il tempo era rimasto a Vienna, e divideva la sua giornata tra i colloqui con Metternich, il quale spesso lo tratteneva a colazione, gli incontri con gli ambasciatori (anche degli Stati italiani) residenti a Vienna, la lettura, la scrittura, le passeggiate, le visite ad altri potenti o ad amici ed amiche viennesi, le cene ufficiali o galanti, i teatri serali, essere in grado di descrivere la campagna napoletana delle truppe austriache dell’inizio di marzo del 1821 in modo così preciso e ricco di particolari. La risposta è data dal suo diario, nel quale egli annotava giorno per giorno tutto ciò che faceva, riceveva, leggeva o scriveva. Il 27 marzo 1821 egli annota che era giunta notizia dal quartier generale di Teano dell’avvenuta stipulazione della convenzione di Capua, e il 30 marzo dell’ingresso delle truppe austriache a Napoli13. Il 15 aprile, poi, troviamo l’annotazione: «Rielaborato un saggio di un ufficiale austriaco inviatomi da Wallmoden da Napoli»14.
Ludwig Georg Thedel Graf von Wallmoden-Gimborn (1769-1862)15 era un generale di cavalleria e, dal 1816 al 1818, fu comandante delle truppe austriache rimaste a guardia del Regno di Napoli. All’insurrezione nel Regno di Napoli, egli fu nominato capo di una divisione dell’armata destinata a reprimere quei moti e affidata al comando del generale Johann Maria Philipp Graf von Frimont-Palota (1759-1831), poi principe di Antrodoco. Wallmoden capitanò le truppe che batterono le schiere di Guglielmo Pepe il 7 marzo 1821 nella stretta valle di Antrodoco, presso Rieti, e, il 24 marzo seguente, entrarono a Napoli. Il breve scritto di Gentz sulla campagna militare austriaca del marzo del 1821 è, dunque, con ogni probabilità, frutto della rielaborazione di un testo redatto da un testimone oculare, un ufficiale austriaco agli ordini di Wallmoden, che questi, poi, gli trasmise. Pertanto è da presumere che quanto descritto o narrato da Gentz corrisponda al vero, nella misura, ovviamente, in cui vi rispondeva la sua fonte, anche se egli, probabilmente, caricò, qua e là, il suo racconto di qualche pennellata di colore più o meno cupo, più o meno vivace, affinché il suo quadro avesse maggiore effetto sul lettore. L’articolo venne pubblicato qualche giorno dopo, il 26 e 27 aprile 1821, sull’organo di stampa più diffuso entro il ceto intellettuale di lingua tedesca e più letto da esso, la Allgemeine Zeitung, che, come è noto, difese, fino all’inizio degli anni ’60, posizioni conservatrici e si fece strumento di propaganda, in Germania, come in Austria, contro l’idea dell’unità e indipendenza dell’Italia.
Questo scritto di Gentz è una satira vivace, brillante e impietosa di un episodio inglorioso della rivoluzione napoletana, la rotta ad Antrodoco dell’esercito napoletano, il 7 marzo 1821, davanti ad una schiera di truppe austriache numericamente molto inferiori, e del successivo ingresso degli Austriaci a Napoli. Con uno stile ricco di fantasia e denso di artifici retorici, di arguzia e di sarcasmo, l’Autore mette a nudo quelli che egli (al pari di Metternich) considerava i difetti degli Italiani, in particolare dei Meridionali: codardia, sbruffoneria, volubilità, opportunismo, inaffidabilità, e copre di ridicolo un’impresa che era nata da un ristretto gruppo di ufficiali per ottenere una Costituzione e maggiore libertà personali e politiche per tutti i sudditi, ma che fu un moto di ribellione più “voluto” che “spontaneo”16, e finì con la disgregazione completa del molto esiguo fronte interno rivoluzionario, avvenuta in tempi rapidissimi dopo il 7 marzo 1821.
Il tono, che, all’inizio dello scritto, pur essendo palesemente satirico, è però trattenuto da una narrazione che si limita ad esporre fatti talmente ingloriosi e ridicoli da parlare da soli, si fa alla fine apertamente sprezzante. La descrizione del paesaggio impervio delle montagne tra Lazio ed Abruzzo, che incuteva paura a tutti, ed avrebbe potuto costituire un decisivo strumento sia di offesa che di difesa nelle mani dei rivoluzionari napoletani, ma che questi non seppero sfruttare, risulta viva e avvincente. L’artificio retorico della contrapposizione tra le aspettative fortemente preoccupate dell’opinione pubblica europea e dell’esercito austriaco, da un lato, e, dall’altro, la realtà ridicola di un esercito napoletano di gran lunga superiore a quello del nemico, che, al primo attacco di questi al ponte di Canetra e ad Antrodoco, scappa a gambe levate; l’altra contrapposizione tra i timori dei soldati austriaci di dover affrontare l’odio virile di un intero popolo indomito, di incappare in ogni angolo in insidie e di cadere vittime di tranelli, e la realtà di una popolazione, che, invece, li accoglie con entusiasmo e si unisce a loro offrendo vino, viveri, assistenza logistica e servizi di informazioni, in una parola: la contrapposizione tra quello che all’inizio era avvertito come un dramma e, che, alla fine, si rivela invece una farsa, tutto ciò crea nel lettore, prima, una forte sospensione che si scarica, poi, in un sorriso liberatore. Negli Italiani, forse, piuttosto in un sorriso amaro.
Non vi è dubbio, comunque: Gentz era uno scrittore di grande talento.





Friedrich Gentz, Sulla recente campagna militare napoletana (aprile 1821)17.

Vi sono eventi che il testimone oculare fatica a comprendere, e dei quali, per ciò, gli riuscirà solo molto imperfettamente di trasmettere a colui che è lontano un’idea chiara e convincente, dato che anche il quadro più vivo non riesce a riprodurre nella sua interezza la dimensione improbabile e grottesca della realtà. Tra questi eventi rientra senza dubbio quel che si è verificato nel corso degli ultimi mesi in una parte d’Europa, che ha attirato su di sé gli sguardi attenti e preoccupati di tutto il mondo, che ingannò l’osservatore più carico di passioni, come quello più imparziale, usando una lingua che induceva ad attendersi il massimo, e coronò l’impresa avviata con un epilogo che, per la sua ridicolezza e spregevolezza, superò di gran lunga anche l’opinione più sfavorevole dei suoi più decisi oppositori. Non parlo delle vicende militari vere e proprie della campagna contro Napoli; non della disintegrazione di un esercito numeroso e ben equipaggiato, e appostato in luoghi che la natura ha reso più di ogni altro insuperabili al nemico; non di quella strabiliante fuga, nel corso della quale questo esercito, dopo il primo attacco, si disgregò davanti ad una schiera di nemici venti volte inferiore, e scomparve completamente; non dello spavento che, trascinando via con sé inarrestabilmente ogni cosa, cedette posizioni, difese, fortificazioni, perché dispera di poter opporre qualsiasi forza di resistenza, essendone del tutto privo nel proprio petto. La storia di questo paese ha già conosciuto vicende simili, e i giorni di Rieti, Canetra e Antrodoco giustificheranno il comportamento di qualche generale del passato, per quanto poco i suoi soldati possano paragonarsi ai Fabii ed ai Bruttii del 7 marzo e della schiera di Monteforte, votata alla morte.
Nessuno che conosca la guerra ed i pericoli che corre il combattente può immaginare di trovarsi in mezzo agli stretti valichi rocciosi degli Abruzzi senza provare spavento. Ristretta su sentieri impervi, fiancheggiata da rocce irraggiungibili, a rischio di precipitare in un burrone ad ogni svolta ripida, o su oscuri precipizi ad ogni ponte che s’inarca, o di morire senza opporre resistenza davanti ai merli di ogni villaggio circondato da mura e torri difensive, minacciata da nemici invisibili, dalla penuria e dall’esaurimento fisico negli anfratti inospitali, così appare, perfino al viandante abituale, l’orrenda strada che si snoda dai piedi dello spaventoso bastione, che il Velino bagna, fino al suo vallo più alto, fino alla fortezza dell’Aquila18, attraverso una serie infinita di posizioni invincibili. Nessuno, né al campo, né al quartier generale dell’esercito austriaco, negava la difficoltà del compito bellico. Certamente, si riteneva che molto dipendesse dal nemico, che ci si apprestava a combattere, ma che, in fine, tutto dipendesse dal proprio coraggio, dalla perseveranza, dalla volontà incrollabile di affrontare il compito più difficile. Il successo insegnò che, muniti di questa doppia convinzione, si poteva facilmente conseguire anche l’obiettivo più arduo. Decine di migliaia di Napoletani scapparono a Rieti davanti ad una forza ben più ridotta, di 3 o 4000 uomini. Con lo scontro al ponte di Canetra ed il rapido attacco ad Antrodoco si compì il loro destino.
Da allora in poi non si videro più neanche le schiene dei fuggiaschi. Con intenti diversi, ma con la medesima premura, amici e nemici dei combattenti austriaci li avevano messi in guardia da paure di genere diverso da quelle che il soldato ha il dovere ed il desiderio di sfidare sul campo di battaglia e nei casi della guerra. Li avevano messi in guardia dall’odio di un intero popolo, che, con una sola volontà ed un vigore fino ad allora insospettato, si era votato alla rovina dei suoi nemici, e per il quale nessun mezzo doveva sembrare troppo caro, nessuno troppo crudele, per conseguire lo scopo prefissosi. Li avevano messi in guardia dall’apparenza ipocrita dell’ospitalità e dalle bande degli assassini a tradimento; dal veleno e dal pugnale e da migliaia di pirati e banditi con l’aforisma di morte e libertà in bocca; dagli strumenti di distruzione ingegnosamente occultati, che ovunque provocano la rovina di un esercito, distruggono tutte le sue fonti di soccorso e disseminano dappertutto morte e disperazione. Da queste atrocità avevano messo in guardia tutte le voci che pervenivano alle orecchie dei soldati dell’esercito in arrivo in territorio napoletano, i fogli quotidiani con le loro spacconate, il linguaggio minaccioso dei tribuni popolari. Il profluvio di parole dei discorsi pubblici, le urla della folla oziosa, lo spettro di armamenti giganteschi non avevano lasciato tranquillo neanche l’osservatore imparziale alla prospettiva dello scoppio di una battaglia che doveva essere combattuta con tali mezzi.
In tali condizioni primo dovere era la prudenza. Pervasi dal timore di chissà quali pericoli latenti, sorpresi da una fuga così precipitosa del nemico tanto rabbioso, e diffidando delle apparenze sospette, caddero i primi sguardi indagatori dei nostri soldati sul fatale confine. Ogni città ed ogni villaggio in territorio nemico erano deserti, nessun abitante si mostrava tra le loro mura, nessuno nelle valli spopolate; nelle case abbandonate si intravedevano solo gli orrori del saccheggio e della distruzione; dalle lontane montagne risuonava soltanto il muggito di mandrie fuggite; nella rena smossa all’ingresso delle case colava la bevanda che avrebbe dato ristoro agli affaticati e, tra i vortici di nuvole di fumo, videro divampare le provviste con le quali avrebbe dovuto rinvigorirsi. Un sommesso terrore si insinuò nel loro petto; ci si confessava timidamente che poteva ancora materializzarsi quanto di più orrendo vi fosse al mondo, ciò a cui nessun cuore umano con dei sentimenti avrebbe desiderato pensare.
Ma questo brutto presentimento durò solo brevemente e fu cosa di qualche momento. Improvvisamente, il carattere spaventoso ed elevato della scena, che aveva toccato il vertice, cadde e precipitò in un abisso di ridicolo. Ben presto si scorsero bande di uomini sui monti. Che fossero quelle le bande di guerriglieri, la cui presenza minacciosa era stata preannunciata? Da tutte le parti affluivano verso l’esercito ed il loro numero aumentava ad ogni momento. Ma inutilmente li si scrutava tentando di vedere se erano armati; inutilmente si tentava di percepire grida minacciose, e presto si udì, stupiti, un benvenuto ad alta voce ed un evviva!, gridato da una folla lieta, e ingiurie e imprecazioni contro i loro stessi soldati. Erano gli abitanti di Canetra, Borghetto, Antrodoco e delle località vicine, che erano scappati, cacciati dalla fuga sfrenata dei loro, e che, ora, esultanti, si univano alla spedizione, al servizio della quale, da allora in poi, essi si misero, fungendo da guide molto pratiche dei luoghi, da fidatissimi messaggeri, da fedelissime spie.
I casi, gli eventi più strani, che contrastavano in modo così stridente con le raffigurazioni serie che ci si era fatti in precedenza, e che sembravano ogni giorno sempre più burlarsi della prudenza ritenuta necessaria, si presentavano, adesso, ad ogni passo alle truppe che avanzavano inarrestabilmente, e troppo spesso davano luogo a situazioni veramente buffe. Servirà da esempio solo un aneddoto, verificatosi già il secondo giorno all’avanzata su Antrodoco. Esausta dalla marcia faticosa, l’avanguardia raggiunse il paesino di Borghetto al calar della notte. Anch’esso, come tutti gli altri già attraversati, era stato abbandonato e saccheggiato dai Napoletani. Nessuna traccia di abitanti, nessuna traccia di un ristoro, del quale il soldato stanco aveva più che mai bisogno. Messisi alla diligente ricerca di esso, nell’angolo di una casa si trovò nascosto un uomo, il cui aspetto e comportamento sembravano giustificare ogni sospetto. A lungo non si diede credito alle asserzioni della sua innocenza, e, infine, si diede ascolto solo alla sua offerta volontaria di andare a prendere nello stesso nascondiglio, nel quale era stato trovato, il perfetto ristoro di una ricca provvista di vino. Ancora, per un momento, si risvegliò la diffidenza, non del tutto vinta, di un assassinio a tradimento, ma l’enorme quantità di vino, con la quale il sospettato brindò con il presunto veleno alla propria salute, scacciò ogni preoccupazione, e la considerevole provvista di quel nettare, che il napoletano per tutta la notte tirò fuori con prontezza instancabile, sigillò ben presto la buona intesa con i suoi nuovi amici.
Così, in breve sparì anche l’ultima nuvola di diffidenza e al posto della circospezione subentrò presto una spensieratezza, invano combattuta, alla quale, forse, nessun esercito in terra nemica avrebbe dovuto abbandonarsi con uguale impunità. Deboli pattuglie e singoli soldati ritardatari si affidarono, tra le montagne più solitarie, come al mercato popolatissimo, al sentimento della superiorità della loro forza, e si esposero senza riguardo alla massa di gente ben superiore a loro, la quale, già da lontano, mirava a conquistare i nuovi arrivati agitando rami d’ulivo e con grida di gioia. Il saccheggiatore più sfrontato poteva esercitarsi indisturbato soltanto in una calca fittissima, poiché un volto brusco o un’imprecazione soldatesca disperdeva anche l’assembramento più gremito. Alcuni contadini si offrirono spontaneamente di condurre le pattuglie inviate a disperdere le bande di fuggiaschi napoletani, dieci volte più forti di loro; essi stessi disarmavano i loro e usavano le loro armi contro i pretesi difensori di quella costituzione, che era loro totalmente sconosciuta, al punto che non erano riusciti a comprendere neanche la corretta pronuncia di quella parola.
Questo era, dunque, lo stato d’animo di quella moltitudine che aveva giurato morte a tutti i Tedeschi; questi erano quei Sanniti, Dauni ed Irpini, quei Romani, destinati a divenire, di nuovo, i dominatori del mondo? Ma gli abitanti delle città, si chiederà il lettore, che dovevano almeno dare un qualche senso alle loro pretese aspirazioni, quei preposti alle comunità, quegli amministratori dei negozi pubblici, dai quali era partito l’entusiasmo generale, che avevano messo in moto gli eventi; costoro, che, vittime del tradimento e della codardia, forse si disperavano per quanto fosse caduta in basso la loro patria, che, ricolmi di una collera impotente, forse imprecavano contro i loro nemici, e che, infine, forse pensavano di raffreddare la loro vendetta nel sangue di qualche singolo traditore, i congiurati di Pepe, Morelli e di Minichini19, che cosa ne era di costoro, dato che non mancava nessun capofamiglia, dato che tra tanti volti servili, gai e gentili non si scorgeva quasi nessuno sguardo torvo, e, tra così tante fazioni, di solito in lotta l’una con l’altra, adesso si notava solo quella dei fedeli sostenitori del loro Re, e per niente al mondo un carbonaro voleva uscire allo scoperto? L’Aquila e Sulmona, Capua, Aversa, Salerno, la stessa Avellino, quelle sedi di amor patrio, che avevano fatto tanto parlare di sé, le città dei Bruttii e dei Fabii della sacra legione, facevano forse un’eccezione alle cortesi assicurazioni di dedizione e fedeltà intatta che si levavano da ogni luogo?
Solo una cosa risaltava, che i servitori più zelanti di un nuovo ordine furono i più solleciti a dichiararsi a favore del ritorno all’antico. E allora, forse la capitale – Napoli, lì dove migliaia, riconoscibili dai loro baffi patriottici, scossero con l’esplosione del loro entusiasmo le fondamenta del San Carlo, oppure a Toledo si infervoravano ad uno pseudo-sentimento di coraggio bellico con lo sfarzo di uniformi colorate; lì dove i membri del Parlamento avevano giurato la rovina delle potenze alleate, ed i fratelli della sublime Vendita avevano promesso solennemente di vincere o cadere per la libertà ai confini del paese – dove erano tutti costoro, i padri del Senato ed i timonieri, che mai avevano disperato di salvare la patria, e tutti gli eroi, uniti al grido di libertà o morte, dove erano, quando le truppe dei loro nemici si schieravano sul loro campo di Marte preparandosi ad entrare trionfalmente in quella capitale? Le strade si riempirono di curiosi, da finestre e balconi, dai quali fino a poco tempo prima era sventolato qualche fazzoletto o qualche scialle a salutare Guglielmo Pepe ed i suoi, sventolavano ora fazzoletti e scialli per dare il benvenuto alle bandiere austriache. Non si scorgeva quasi alcun volto sul quale fosse dipinto odio o sdegno; non si udiva quasi alcun suono di disapprovazione tra i clamori sonori del popolo; dalla calca rumorosa trapelava solo curiosità, la passione prevalente nella folla, che si deliziava allo splendido fasto del corteo guerresco.
Ben presto subentrò quell’oblio, con il quale il popolo delle grandi città torna alle sue abitudini quotidiane, da cui non desidera essere disturbato. Come al solito, le carrozze si dirigevano verso la Villa reale; come di consueto, i cittadini si volgevano alle loro occupazioni e mestieri; come sempre, il lazzarone prendeva il sole al solito posto, incurante delle sentinelle austriache messesi a guardia al Castello di Sant’Elmo. Come se nulla fosse successo, il medesimo reggimento, i cui tamburi tre anni fa risuonavano per le strade di Napoli (Spleny20), attraversò adesso la città, diretto alle ben note caserme, come se un’occupazione di truppe patrie si avvicendasse semplicemente ad un’altra e si procedesse al consueto cambio della guardia. Quella medesima sera, sulle stesse strade e piazze, agli stessi luoghi di piacere si accalcavano innumerevoli moltitudini, spensierate e tranquille, e si mischiavano alle file degli stessi nemici, per i quali, solo qualche giorno prima, il loro odio rabbioso e implacabile sembrava non avere spazio a sufficienza su tutto il globo terrestre!
Così miseramente terminò la farsa, che si era annunciata al mondo come un dramma terribile, e che, con la pompa vuota, con la quale era iniziata, aveva colpito l’immaginazione perfino degli spettatori più tranquilli. Il sipario si alzò, e gli spettatori ingannati si trovarono davanti ad una scena, che, per le arti di un Pulcinella, per i gesti burleschi degli eroi e lo spettacolo divertente della loro paura, poteva al massimo chiedere uno sguardo indulgente dal pubblico. Arrossendo, gli spettatori riconobbero il loro ridicolo errore; arrossendo i vincitori sconfessarono l’alloro conseguito troppo facilmente; non arrossirono solo le guance di coloro che si erano marchiati a fuoco davanti all’Europa, davanti al mondo, davanti ad ogni futuro, e delle cui viltà i posteri si stupiranno, o, leggendone negli annali della storia, le respingeranno, ritenendole delle favole. Ancora sussultano le membra gonfie di veleno del mostro schiacciato nell’oscurità; ancora cova, nel segreto, qualche debole società di assassini e traditori; ma impotenti, dispersi, privi di un luogo di riunione, senza fiducia in se stessi, i loro sforzi partoriscono solo spregevoli bande di briganti e profughi senza patria. Il cittadino migliore si unisce con gioia alla potenza superiore che gli offre tutela per ripulire la sua patria dalla feccia perniciosa degli elementi peggiori di questa setta, per i quali non vi è altra salvezza che l’infelicità generale, non altra speranza che quella di una sovranità solitaria sul luogo della loro distruzione.











NOTE
1 G. Mann, Friedrich von Gentz. Geschichte eines europäischen Staatsmannes, Zürich, Europa-Verlag, 1947.^
2 Frankfurt am Main-Berlin-Wien, Ullstein, 1971.^
3 G. Mann, Friedrich von Gentz. Gegenspieler Napoleons, Vordenker Europas, Frankfurt am Main, Fischer, 1995. Su Golo Mann rinvio alla recente biografia di T. Lahme, Golo Mann. Biographie, Frankfurt am Main, Fischer, 2009.^
4 Ad es. B. Dorn, Friedrich von Gentz und Europa. Studien zu Stabilität und Revolution, Diss. Bonn 1993; G. Kronenbitter, Wort und Macht. Friedrich von Gentz als politischer Schriftsteller, Berlin, Duncker & Humblot, 1994; Id., Friedrich von Gentz (1764-1832), in Politische Theorien des 19. Jahrhunderts, hrsg. von B. Heidenreich, Berlin, Akademie-Verlag, 2002, pp. 93-108.^
5 Indizio, forse, di un risvegliato interesse per questo libro potrebbe essere la ristampa, appena uscita (2011) dell’edizione 1995 del Gentz, sempre presso l’editore Fischer di Francoforte sul Meno.^
6 M.P. Paternò, Friedrich Gentz e la Rivoluzione francese, Roma, Università degli Studi La Sapienza, 1993.^
7 A Firenze, nella Biblioteca umanistica della facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università, e a Padova, nella Biblioteca del Dipartimento di lingue e letterature anglo-germaniche e slave dell’Università.^
8 Nella Biblioteca dell’Istituto Storico Italiano per l’età moderna e contemporanea di Roma.^
9 F. von Gentz, Betrachtungen über die politische Lage von Europa. Nach dem Fall Warschau’s, in «Allgemeine Zeitung», 27 e 28 settembre 1831, rist. in Id., Ungedruckte Denkschriften, Tagebücher und Briefe, hrsg. von G. Schlesier, Mannheim, Hoff, 1840, pp. 196-206.^
10 Cfr. alla nt. seg.^
11 Diverse annotazioni al riguardo si trovano nel diario di Gentz nel corso del mese di aprile del 1822: F. von Gentz, Tagebücher, vol. 3, Leipzig, Brockhaus 1873, pp. 33 e 36. L’articolo di Gentz si intitola: Konnten die verbündeten Mächte 1815 Italien in ein Reich verschmelzen? Gegen das Journal des Débats 1822, ripubbl. in Id., Ungedruckte Denkshchriften, cit., pp. 80-89. Non è chiaro dove tale intervento sia stato pubblicato prima, ma lo fu probabilmente in un quotidiano viennese.^
12 F. von Gentz, Ueber den letzten neapolitanischen Feldzug, in «Allgemeine Zeitung», 26 e 27 aprile 1821, rist. in Id., Kleinere Schriften, hrsg. von G. Schlesier, Mannheim, Hoff, 1839, pp. 214-224. Sul moto napoletano del 1820-1821 rinvio a G. Galasso, Il Regno di Napoli. Il Mezzogiorno borbonico e risorgimentale (1815-1860), Torino, UTET, 2007, pp. 165-250, in particolare, sulla breve campagna austriaca del marzo1821, pp. 215-222.^
13 Gentz, Tagebücher, cit., vol. 2, pp. 402-403. La convenzione è del 19 marzo; l’ingresso a Napoli del 24 marzo.^
14 Ivi, p. 407: «Einen von Wallmoden aus Neapel eingesandten Aufsatz eines österreichischen Offiziers bearbeitet».^
15 Su di lui rinvio alla voce biografica di J. Pallua-Gall, in Allgemeine Deutsche Biographie, vol. 40, Leipzig, Duncker & Humblot, 1896, pp. 761-762.^
16 Galasso, Il Mezzogiorno borbonico, cit., p. 231.^
17 Cfr. sopra, alla nt. 12.^
18 Qui non è ben chiaro se Gentz alluda alla città de L’Aquila. Se lo fa, è in errore, perché il Velino parte da Cittareale, lambisce le pendici del Terminillo, bagna poi Antrodoco e, vicino Terni, a Marmore, si versa nella Nera formando le Cascate delle Marmore.^
19 I due ufficiali dell’esercito borbonico, Guglielmo Pepe e Michele Morelli, ed il prete Luigi Minichini, affiliati alla Carboneria e tra gli iniziatori dei moti del 1820.^
20 I reggimenti austriaci Spleny e Vacquant avevano occupato Napoli fino alla fine del 1817.^
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