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Il 150° anniversario dell’Unità d’Italia e la storiografia
di Giuseppe Galasso

A Giorgio Napolitano (pour cause)



*Si sa che la celebrazione del 150° anniversario della proclamazione di Vittorio Emanuele II a re d’Italia ha avuto nel paese un’accoglienza più calda del previsto. Questa data come inizio cronologico della storia dell’Italia unita ha il valore simbolico di tutte le determinazioni di questo tipo, ma ciò non ne riduce il significato storico. La sua celebrazione avrebbe potuto inasprire le recenti fiere discussioni sul Risorgimento e sull’unità, e non favorirne, così, lo scopo, non solo commemorativo. Ciò non significa che un repentino oblio abbia cancellato tutto quel che polemiche e discussioni hanno significato negli ultimi anni, ma certo è servito a meglio misurare la reattività nazionale alla forte attualizzazione del tema dell’unità. E il risultato è stato, appunto, positivo per chi del Risorgimento e dell’unità conserva l’alto concetto proprio della tradizione liberal-democratica e raccolto e sviluppato da altre fondamentali componenti dell’italianità politica e culturale, ma non può che spingere la politica e la cultura del paese a invigilare se stesse, per dirla col Croce, ancora di più nell’esercizio dei loro doveri di responsabilità nazionale.
Le celebrazioni hanno, naturalmente, gravitato, anch’esse sui motivi delle più recenti discussioni; e sarebbe stato dannoso ignorare una materia polemica tanto calda e pregnante. Si sarebbe tolto, in tal caso, alle celebrazioni ogni reale senso nella vita civile. Il che non è accaduto, anche, forse, perché alle polemiche e discussioni precedenti nulla di molto nuovo si è ora aggiunto dai più recenti critici della storia unitaria, mentre le profonde ragioni storiche e ideali, materiali e morali dell’unità sono risaltate ancora di più.
I punti critici sono sempre gli stessi: l’unità italiana frutto di violenza e opera di minoranze intellettuali e borghesi; mancata saldatura delle varie componenti regionali e locali della penisola in una effettiva unità di spiriti e di cultura; strozzatura del Mezzogiorno rispetto alle sue prospettive di sviluppo nel 1860 e vero e proprio saccheggio delle sue risorse, come per una “colonia interna”; repressione sanguinosissima della sua renitenza al torto dell’unificazione manifestatasi con la “guerra patriottica” dei suoi “briganti”; occultamento di tutti i vizi e magagne, colpe e violenze del governo unitario del paese da parte della cosiddetta “storiografia ufficiale”; giovamento dell’unità solo per poche regioni; dopo un secolo e mezzo un paese non più unito ed equamente governato di prima; permanenza della “questione meridionale” come un caso di sperequazione territoriale unico in Europa per la sua portata e per la sua durata; imposizione a forza della lingua italiana, che a tutt’oggi non copre profonde disparità di cultura e di usi e costumi, e così via dicendo.
Le celebrazioni sono state l’occasione per ribadire questi punti di critica, ma, per lo più, con una ripetizione o esagerazione di vecchi motivi, svolta, in generale, con tanto poco senso storico da inficiare e indebolire anche le poche novità critiche o documentarie venute fuori per l’occasione, e gli stessi ben più autentici elementi di critica già messi in evidenza da un secolo di dibattiti storici e politici.
Una delle principali accusate è stata, inoltre, ancora una volta la cosiddetta “storiografia ufficiale”, quasi una sorta di fosca ombra, di interessata e deformante nebbia distesa sulla verità storica.
Sarebbe niente se ci si volesse riferire così alla linea politico-culturale che animò una visione santificatrice e ideologica del Risorgimento, componendo in una luminosa concordia i suoi grandi protagonisti e segnando come positivo tutto ciò che era a favore del nuovo Stato e come negativo tutto ciò che lo ha preceduto o vi si è opposto. Nelle oleografie largamente diffuse in innumerevoli luoghi pubblici e privati i ritratti di Vittorio Emanuele II, Cavour, Mazzini e Garibaldi erano congiunti da un verde e unificante alloro: una rappresentazione piuttosto mitologica che molto si impresse nell’immaginario nazionale, e non solo ai livelli culturali più modesti, ma anche una linea comune a tutti i rivolgimenti politici nelle loro lotte e successi, per la necessità di consolidarsi, anche disconoscendo qualità e ragione storica degli avversari, pur di spegnerne ogni possibilità di ritorno.
Bisogna, comunque, ripetere che la discussione sull’unità e sui suoi esiti e svolgimenti non è affatto recente. Se ne discusse, infatti, fin dall’inizio, e spesso con accanimento non minore di oggi, già sul terreno politico. Basti pensare alle critiche di repubblicani, radicali, socialisti, cattolici o dell’opposizione meridionale al tempo della Destra storica, o a quelle di uomini della stessa Destra su varii temi di grande rilievo, o a quelle dei liberisti e dei meridionalisti, che formarono già prima del 1915 una vera biblioteca di testi appassionati e talora geniali. Certo, nella scuola si dava una certa immagine del Risorgimento e dell’unità, ma anche ciò è fisiologico in qualsiasi regime ai suoi inizi, se non altro per educare i giovani ai propri fondamenti etico-politici. Perciò la rappresentazione del Risorgimento e della storia italiana unitaria è spesso mutata; e, ad esempio, la nuova Italia liberal-democratica divenne l’Italietta della polemica fascistica; quello che fu un moto nazionale e culturale per gli uni, fu gretta azione di classe per gli altri; e la esaltata “rivoluzione italiana” del 1859-60 divenne per altri la spregiudicata “rivoluzione dei gattopardi”; e così via.
Se, però, si passa dalla lotta politica e dalle ideologie agli studi e alla ricerca storica, si constata che già a ridosso della prima guerra mondiale la storiografia italiana scompaginò la quadripartita oleografia della concordia risorgimentale come lontana dalla realtà. Nella stessa discussione sul Mezzogiorno gli anni ’20 segnarono mutamenti e innovazioni mai più venuti meno. Poi, superata la, per così dire, “parentesi fascista”, la discussione sul Risorgimento e sull’unità divenne anche più aspra.
Proprio, però, dallo scompaginamento della rappresentazione risorgimentale è derivato un rimescolamento delle carte storiche, che, da Chabod a Maturi, da Omodeo a Romeo, da Salvatorelli a Jemolo, da Salvemini all’Antistoria d’Italia di Fabio Cusin, ha ristabilito, in luogo di quella artefatta e ideologica unità oleografica, una più profonda e vera unità storica, con tutte le grandezze, e anche i contrasti, le pene, le miserie, le ingiustizie, le disparità che sono della storia e della vita.
Al confronto, perde di senso la polemica metodologica sulla cosiddetta “vecchia storiografia” come pura storia politica, non calata nella realtà umana e sociale del mondo di cui parla. Il pregiudizio metodologico qualifica sempre come “vera storia” un tipo, e solo un tipo, di storia. Ma per fortuna degli storici, nonché della vita intellettuale e morale degli uomini, le strade percorribili sono sempre molte. E ciò senza contare che a ridosso della “vecchia storiografia” una folta leva di più giovani storici ha ampliato di non poco i campi di studio e l’inserimento della ricerca nel quadro internazionale.
In altri termini, il 2011, ha riattizzato, e anche acuito, vecchi motivi polemici e critici, ma ha pure riaffermato, nell’insieme, con nuovi contributi e svolgimenti sollecitati dall’occasione, e con ampio consenso fra gli italiani, la positività della storia nazionale in una visione non agiografica o banalmente ottimistica o irenica, chiusa alla percezione di tutte le difficoltà, tortuosità e negatività del cammino percorso. Ha confermato, cioè, il senso storico di un progresso diffuso e condiviso che non ha reso ancora l’Italia quel paese tutto moderno, con forte spirito civico, nazionale e sociale vagheggiato dai nostri maggiori spiriti dal Risorgimento a oggi, ma rende pure improponibile qualsiasi confronto fra l’Italia di oggi e quella del 1861. Ha confermato l’idea di un cammino che, pur accidentato e non equamente ripartito nel paese e fra le classi, ha costituito nel mondo contemporaneo un episodio fra i più notevoli di trasformazione moderna, e un caso di unificazione nazionale e di ordinamento accentrato, fondato sempre su un sistema urbano fortemente policentrico, senza nessuna eclisse delle sue molte componenti e storiche identità culturali, come si vede anche dalla persistente forza dei corrispondenti localismi. Restando inteso che, se il confronto col 1861 mira a indicare il cammino ancora da fare, non si può che accettarlo, mentre non si può che respingerlo se mira solo a dichiarare falliti il Risorgimento e l’unità, o a negarne il valore di progresso, liberazione, apertura alla modernità e all’Europa, o a riproporre mitologie storico-politiche tanto poco valide storicamente quanto prive di senso positivo e costruttivo nella vita civile di oggi e del prossimo domani.







NOTE
* Si dà qui il testo della relazione letta al Quirinale, alla presenza del Presidente della Repubblica, il 17 marzo 2012, in occasione della cerimonia di chiusura delle celebrazioni del 150° anniversario dell’unificazione italiana.^
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