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Il Partito Democratico e Berlinguer
di Adolfo Battaglia
In occasione della riforma del mercato del lavoro la divisione tra le “due anime” del Partito Democratico è apparsa più che mai evidente. E anche questa volta la divisione è stata mediata, con risultati non infelici, dal segretario del Pd Bersani, il quale in sostanza ha impedito che venisse colato a picco quanto si era realizzato di positivo dopo la caduta di Berlusconi. Peraltro, egli ha dato in tal modo – senza addentrarsi in delicate questioni ideologiche un obbiettivo contributo al programma del Partito Democratico per il Governo che, stando ai sondaggi, dovrebbe uscire dalle elezioni del 2013 guidato dalla sinistra. Ha posto cioè l’opera del Governo Monti come la premessa e la piattaforma indispensabile da sviluppare col suo Governo: e, certo, ciò non è poco.
Il dibattitto tra le “due anime” non è tuttavia terminato e neppure è prevedibile che termini presto. Alla sua origine sta la doppiezza che ha sempre travagliato fin dalla sua nascita la sinistra italiana di origine marxista. Da una parte l’idea di un partito di sinistra che oggi, ben s’intende, non sia più “rivoluzionario” ma resti aperto a tutte le suggestioni dei movimenti antagonisti, legato alle basi sindacali più intransigenti, pronto all’accordo con forze a sinistra del Pd: dunque, nella sostanza, un partito antico e massimalista, aspirante a chiamarsi “socialdemocratico” senza avere della socialdemocrazia europea né l’ispirazione culturale né il programma politico. Una cosa, comunque, poco chiara, pur essendo chiarissima.
I caratteri dell’altra “anima” sono egualmente noti. Un moderno partito di sinistra democratica di tipo europeo: con un innesto di temi nuovi (d’ispirazione liberal-democratica, riformista, ambientalista, laica) sul tronco caratterizzato dai motivi della giustizia sociale e della protezione delle parti deboli della società. Con una prospettiva politica che non è la raccolta del ribellismo ma l’esercizio della funzione di Governo attraverso politiche di riforma basate sui nuovi problemi che la condizione storica ha determinato. Un partito, dunque, vicino a tutti i partiti di sinistra occidentali: che solo in Europa nacquero socialdemocratici mentre negli Stati Uniti, in Canada, in Australia, in America del Sud, in India, in Nuova Zelanda sono retti da storie e impostazioni di carattere “democratico”.
La mediazione tra queste due “anime” è inevitabile se non si vuole amputare il partito di una delle ali con le quali vola verso il consenso. Ma indispensabile è che la mediazione si svolga sul filo del partito moderno, di una prassi e di un’immagine non massimaliste. È questo che permette di interpretare tutta intera la storia della nazione e di garantire così una credibilità spesso sfuggita in passato.
Accanto a tutto ciò, peraltro, non è casuale che si innesti nel dibattito tra le “due anime” anche una questione storiografica, che riguarda le radici della nostra sinistra di governo. Alcune di esse sono chiaramente quelle della sinistra non marxista italiana ed europea. Altre, inevitabilmente, sono le radici delle due principali componenti del Partito democratico, quella cattolica e quella comunista. Ma mentre per il mondo cattolico è facile identificare l’ispirazione riformatrice che in esso si manifestò, sia in chiave di riformismo democratico, da Vanoni a Saraceno, sia in chiave di cristianesimo politico, da Fanfani e Dossetti a Moro, sia in chiave cattolico-liberale da De Gasperi a Scoppola, non sono chiare, invece, le radici e il percorso attraverso cui richiamare l’esperienza del vecchio Partito comunista, dalla scissione del ’21, alla fase stalinista, all’Occhetto della Bolognina.
Ora, prescindendo da Gramsci, e considerando orientamenti ed azioni di valore superiore alla cronaca, i leader politici che hanno ispirato e guidato il PCI nei suoi ultimi cinquant’anni del Novecento non sono stati più di due: Togliatti e Berlinguer. Se proprio non sbagliamo, non c’è nessuno nel Partito democratico che pensi adesso di richiamarsi a Togliatti, alla sua politica moderata, al suo incontro con le masse cattoliche, alla sua tattica parlamentaristica anticipatrice del consociativismo. Il dibattito si concentra inevitabilmente sulla figura di Berlinguer: da tutti considerato con grande rispetto, ma dagli uni riguardato come il leader che bloccò il partito su posizioni moralistiche impolitiche e persino settarie; dall’altra, visto come il leader che iniziò il difficoltoso percorso che ha portato infine la parte più rilevante del Partito comunista di ieri al Partito democratico di oggi.
Che cosa dire di queste differenti, e anzi opposte, valutazioni? Forse, anzitutto, che la garanzia delle radici profonde di una forza politica si identifica con la lungimiranza dei suoi leader. Con la loro capacità di vedere, al di là della contingenza e degli interessi di partito, i grandi problemi che condizioneranno in futuro la vita della società e dunque la piattaforma politica su cui far fronte a questi problemi.
Ora, il punto vero e la questione prima cui i Governi della Repubblica debbono oggi far fronte, dopo la prima Repubblica e il ciclo berlusconiano, è quello della questione “morale”. È una questione da interpretare naturalmente non come una serie di episodi di corruzione o di incompetenza, ma nel suo senso più complesso: come la questione che attanaglia e deprime lo spirito pubblico, il senso etico del paese, l’eguaglianza della legge per tutti i cittadini, cioè le fondamenta stesse di uno Stato democratico. Un complessa questione in cui precipitano tutti i problemi, dall’economia alla giustizia, dalla burocrazia al welfare, dal Mezzogiorno all’istruzione e alla ricerca. Una questione che investe la condizione in cui vecchi e nuovi elementi negativi della società si coagulano a costituire il tessuto gelatinoso su cui il paese oscilla e rischia.
Da questo punto di vista, è difficile affermare che non risulti lungimirante l’analisi del problema di fondo dell’Italia che fece Berlinguer: deperimento dello Stato; occupazione delle istituzioni; concezione misera del metodo di governo; i partiti come «macchine di potere e di clientela», con «scarsa o mistificata conoscenza della vita della società o della gente», presi nella gestione degli interessi «più disparati, più contraddittori, talvolta anche loschi». Sono noti gli scritti e i discorsi che Berlinguer dedicò al problema di fondo della democrazia italiana, del resto non ancora risolto. Ed è ancora ben conosciuta l’intervista che il segretario del PCI rilasciò al direttore di «la Repubblica», nella quale riassunse le sue tesi.
Certo, quello di Berlinguer fu un cammino lungo, con fasi differenti, non coerenti fra loro: dalle iniziali esperienze antifasciste di Sassari alla direzione di grandi organizzazioni giovanili italiane e internazionali, alla vita della Direzione del suo partito, dove regnavano Togliatti e Longo; fino a divenire il leader del PCI e il promotore di processi di revisione profondi. È un percorso che potrebbe definirsi, appunto, non coerente ma in crescita rettilinea: passo dopo passo, stratificazione dopo stratificazione, si accumula lentamente la riflessione che diventò lucente, per dir così, nei suoi ultimi 12-14 anni, e che caratterizzerà storicamente il ruolo e la figura di Berlinguer.
La riflessione esplosa in quegli anni fu per tutti, entro e fuori il PCI, una sorpresa. A compararla con le formule utilizzate dai tradizionali partiti comunisti, meravigliava che Berlinguer stesse innovando a tal punto la loro tradizionale tematica. C’erano accenti del tutto nuovi posti sui diritti umani, sulla laicità dello Stato, sulla questione ambientale, sulla questione femminile. Nuova fu la percezione della decadenza delle strutture partitiche tradizionali. E del tutto inconsueto era il tema dell’austerità, non a caso assai contestato tanto allora quanto adesso: e che tuttavia era inteso, da lui come da La Malfa, non sotto un profilo moralistico, ma come base necessaria dell’azione economica e civile, come questione di nuovo orientamento delle politiche riformatrici. Un colpo di fulmine fu poi il rovesciamento della posizione del Pci sulla Nato. E fu un trauma per molti intellettuali di sinistra la rottura morale, prima che politica, con l’estremismo e il terrorismo rossi. Infine, è innegabile che la sottolineatura delle novità della condizione mondiale, e della trasformazione del rapporto squilibrato tra il Nord e il Sud del pianeta, implicavano una volta dimostrato il fallimento dell’economia di piano centralizzata, una profonda revisione della teoria della crisi del capitalismo: nel senso di porre la questione dell’economia di mercato come strumento dello sviluppo e della creazione di ricchezza per il Sud del mondo, non più come struttura da abbattere.
Sono tutti temi, come si vede, di attualità, che si sganciano non solo dalla tradizione comunista, ma anche dalla tradizione socialdemocratica, essenzialmente legata alla problematica del welfare. Si tratta piuttosto di temi e impostazioni che hanno nuovo carattere “democratico” (talvolta “democratico-liberale”); e che, lanciati da Berlinguer, seppure non adeguatamente approfonditi, rappresentano uno sviluppo importante del pensiero politico della sinistra. Quello che ha permesso, appunto, l’evoluzione del PCI in direzione del nuovo Partito Democratico.
La fase della emergenza democratica e della solidarietà nazionale è quella in cui Berlinguer, segretario e leader, si sentì in grado di trasporre in formulazioni generali e in azione politica le concezioni da lui via via maturate. Non erano sistematizzate e prive di contraddizioni, derivanti più che altro dalla novità delle cose da far assorbire alla struttura rigida del suo partito; ed erano, anche, concezioni accompagnate da una limitata capacità di movimento tattico e dalla sostanziale incoerenza programmatica derivante dalla cultura del partito togliattiano. Ma, complessivamente, è quello degli anni Settanta il momento creativo che caratterizza la sua figura. Poiché quella politica non si identificava con il “compromesso storico” ma era piuttosto l’espressione sia della condizione sostanzialmente drammatica del paese, sia di un’ipotesi politica profondamente innovativa sul piano interno che internazionale.
Nel suo pensiero, l’Europa, l’austerità, lo schema bipolare della lotta politica, nacquero insieme con il valore universale della democrazia e della libertà e lo “strappo” con l’URSS. E l’idea di fondo, che accomunò uomini diversi come Berlinguer, Moro e La Malfa, era che solo una solidarietà politica generale, una svolta in certo senso storica, avrebbe potuto generare la condizione per salvaguardare il paese e dargli un nuovo sistema politico. Qualunque iniziativa si fosse frapposta a questa strategia lenta ma sicura, da parte di chiunque, non poteva che essere scartata se si voleva tutelare quella Repubblica: la Repubblica uscita dalla Resistenza e dalla Costituzione.
Più volte è stata mossa a Berlinguer la critica di aver disconosciuto le novità che percorrevano il socialismo italiano e di essersi scarsamente impegnato sul terreno delle riforme istituzionali. Ma la solidarietà nazionale nasceva anzitutto dall’analisi della gravità della crisi istituzionale politica e morale del paese, e proponeva una politica di salvezza capace di affrontarla non attraverso una riforma Istituzionale ma con una strategia politica da cui soltanto il paese poteva sentirsi garantito: cioè con una drastica svolta politica che impegnasse insieme forze moderate e forze di sinistra (la politica che Bersani fa col Governo Monti, mutate naturalmente le cose da mutare, non sembra molto diversa da questa).
Era una visione che aggrediva il presente e apriva a orizzonti lontani. In Italia, senza dubbio, v’era bisogno di una profonda opera di riforma. L’esigenza non nasceva soltanto dai ritardi e dai mali tipici dell’Italia, accentuati dal fallimento della spinta riformatrice del centro-sinistra. Era il portato di fenomeni mondiali che domandavano novità di riflessione, non ideologica ma “laica”. E l’idea alternativa di affrontare la vastità della crisi italiana e la complessità delle sue cause senza una reale novità politica, ovvero con una modesta dose di modernizzazione dell’esistente, sul filo dell’ondata liberista mondiale, poteva forse ridurre lacci e laccioli ma non poteva cogliere le ragioni profonde del tragico e peculiarmente italiano intreccio di crisi economica, inflazione, corruzione, terrorismo e disorientamento morale che angosciava il paese. Anzi, quella idea alternativa rappresentava, nella sostanza, un disegno deviato, che si prevedeva avrebbe portato dove poi effettivamente ha portato: cioè all’accentuarsi della crisi, alla caduta della prima Repubblica e alla scomparsa del suo sistema di forze. Ad un nuovo corso che appariva allora indecifrabile, ma che già si pensava sarebbe stato dominato da forze diverse da quelle che avevano fatto la storia italiana dell’ultimo mezzo secolo.
In questo senso è più facile oggi, quando i processi temuti si sono verificati e hanno portato dove hanno portato, vedere che la politica di solidarietà nazionale era un disegno di tutto riguardo, omogeneo all’intelletto acuto dei tre leader che la portarono avanti, Moro, Berlinguer e La Malfa. Se fallì, penso si possa dire che fallì non per inattualità storico-politica e neppure per la debolezza programmatica del progetto. Fallì subito, invece, perché venne colpito da un fatto imprevedibile e decisivo: l’assassinio. Il corso iniziato si invertì per un assassinio, non per una sconfitta politica. E infatti, l’equilibrio su cui Moro era riuscito a stabilizzare la Dc, portandola a collaborare col Pci, svanì quasi di colpo con il trauma della sua morte. E la scomparsa di Moro, e i nuovi pensieri nati nella Dc, rinforzarono a loro volta nel Pci le resistenze, già sordamente manifestatasi, alla politica di solidarietà.
Così, caduto il disegno politico, ed eletto Pertini alla Presidenza della Repubblica, ci fu apparentemente una modifica nelle posizioni pubbliche assunte da Berlinguer. E tuttavia sarebbe sbagliato sostenere, come molti hanno fatto, che dopo il ’78 sia esistito “un altro” Berlinguer, del tutto opposto, o assai diverso, rispetto a quello della solidarietà nazionale, moralista più che politico, esclusivo portatore della “diversità” comunista, confuso alternativista, responsabile della marginalizzazione politica del Pci. Un giudizio che ad una analisi attenta appare più un abbaglio sul piano storiografico che una strumentalizzazione sul terreno politico: perché la visione politica di Berlinguer non si modificò affatto dopo la caduta dell’ipotesi massima da lui sostenuta.
Già, in linea generale e astratta, è molto difficile che un leader politico muti di colpo tutta la propria visione. E ovviamente tale mutamento è tanto meno credibile nel caso di un uomo particolarmente rigoroso, che era anche, poi, un sardo particolarmente ostinato. Sulla stessa linea, è bene anche tener presente che la radicalizzazione della identità di un partito è un percorso pressoché obbligato, quasi una legge di sociologia politica, per una forza che abbia subìto una rilevante sconfitta, come certo la subì il Pci. Ma la radicalizzazione di un’identità a fini difensivi non implica di per sé un mutamento di visione e di strategia. E nel nostro caso, infatti, le carte del suo “braccio destro”, Tonino Tatò, pubblicate da Einaudi ma, aggiungiamo, non solo esse – dimostrano che dopo la rottura del ’78, e per tutti i quattro anni successivi (fino all’82, Berlinguer muore nell’84) il favore del segretario del Pci continuò ad andare a forme di collaborazione generalizzata fra le forze politiche. E non a caso egli ebbe contatti, e fece passi, in varie direzioni, con una continuità ed una riservatezza che sembrano più importanti e significative dell’enfasi storiografica sulla “controsvolta” del Pci, quasi a voler radicare la mitologia di una “seconda svolta di Salerno”. L’unica cosa che c’è di sicuro dietro questa tesi è la mitologia del documento politico: che in politica, come si sa, è emesso per una molteplicità di ragioni e di esigenze, rispetto alle quali bisogna indagare attendibilmente.
Il fatto è – e si torna qui alla questione delle radici cui il Pd può riferirsi – che c’era un’acuta visione dietro la politica perseguita dai tre leader democratici. La loro strategia si fondava saldamente sull’analisi della condizione italiana e dei motivi profondi della crisi del paese, che, se non affrontata con grandi decisioni, faceva prevedere come inesorabile ciò che poi effettivamente avvenne.
Così, dunque, l’intransigenza, la “diversità”, l’insistenza sui fattori di degenerazione morale, cioè gli elementi da cui fu caratterizzata la posizione di Berlinguer nei suoi ultimi anni, non possono essere attribuiti né a una sorta di moralismo impolitico né tanto meno a una modifica della sua visione di fondo. E non appare una grande idea rimproverare Berlinguer di aver visto giusto nell’identificare il peso degli elementi morali nel processo di collasso della prima Repubblica. «Non so più cosa inventare», ebbe a dire in uno sfogo lo stesso La Malfa dopo il ’78. Ebbene, non c’era più nulla da inventare: perché ben poco poteva arrestare la crisi italiana dopo la rottura della solidarietà nazionale. E nulla comunque l’arrestò. Né il governo di Spadolini dell’80-81, né il governo Craxi dell’83-87, né i vari governi dei leader democristiani dall’88 al ’92. Ognuno di essi fece qualcosa di buono: ma complessivamente essi non potevano riuscire e non riuscirono ad evitare l’avvitamento del processo negativo previsto dai tre leader sconfitti, e poi scomparsi a pochi anni l’uno dall’altro.
La verità è che al fondo della loro posizione era l’analisi del problema di dimensione storica costituito dalla crisi dello Stato e della vita democratica, in un mondo che si stava trasformando e poneva nuovi problemi. Per quanto lo riguarda, Berlinguer non sbagliò complessivamente né l’analisi né la valutazione dell’opera che conducevano le forze in campo, né conseguentemente la posizione di fondo. Se in quest’ultimo ventennio turbinoso le strutture disgregate, il ritorno delle vecchie propensioni politico-ideologiche, l’antica provinciale debolezza della visione internazionale, le cadute nel giuoco di potere, non sono state vinte attraverso una trasformazione ampia come quella pensata da quei tre leader si può intendere agevolmente che ha poco senso attribuire ad essi una mancanza di visione e di coraggio nell’opera invero audace che compirono.
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