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Gli accresciuti pericoli di una collisione tra democrazia politica e indici di mercato: il caso del governo Monti
di Piero Craveri
La crisi del 1929 iniziò negli Stati Uniti ma, per la prima volta nella storia dell’economia di mercato, assunse, in breve, quei caratteri internazionali che nascevano da un’interconnessione tra le diverse economie nazionali, già matura allo scoppio della prima guerra mondiale e che nel dopoguerra prese ulteriormente a svilupparsi. Le economie industriali applicarono allora due sostanziali ricette: politiche protezionistiche e, direttamente ed indirettamente, intervento dello Stato nello sviluppo industriale. Sotto questo secondo aspetto, negli anni ’30, gli USA col New Deal, i paesi scandinavi con i loro accordi neo-corporativi, l’Inghilterra, specie con l’elaborazione teorica di Keynes e della scuola di Cambridge, fecero fare passi avanti al superamento della crisi. Una crisi più che decennale, se si pensi che gli Stati Uniti ne uscirono definitivamente solo con la seconda guerra mondiale.
Non possiamo ascrivere interamente alla crisi del ’29 l’emergere in Europa dei due totalitarismi, fascista e comunista, ma tuttavia essa ebbe un peso decisivo nella disintegrazione della repubblica di Weimar e nella fortuna iniziale del modello sovietico. Nel secondo dopo guerra i paesi occidentali provvidero a rimuovere la camicia di forza del protezionismo, creando innanzitutto i presupposti di un sistema finanziario internazionale improntato a regole di stabilità, con gli accordi di Breton Woods, premessa di un lungo e costante processo di liberalizzazione degli scambi, che per l’Italia ebbe due spartiti, quello internazionale, che ebbe il suo perno prima nell’istituzione del Gatt che poi sarebbe diventato il WTO, e quello europeo, con il MEC e la CEE. È singolare constatare che la percentuale del prodotto lordo mondiale che entrava nel processo di scambio internazionale nel 1914, doveva essere recuperata solo nel 1970, quando la liberalizzazione degli scambi, nei suoi diversi ordini e gradi, si era ulteriormente estesa. Potremmo anche dire che il così detto “secolo breve” sta tutto tra queste due date.
Nel primo venticinquennio dopo la guerra la crescita economica dei paesi occidentali, e in particolare dell’Europa fu, per intensità e ritmo, senza precedenti, considerando i due secoli di sviluppo da cui era nata la società industriale. Nel 1971, con la fine della convertibilità del dollaro, saltava il criterio regolatore dei cambi previsto da Breton Woods. Un criterio che, in sé per sé, andava allargato e modificato, anche in presenza dei nuovi soggetti internazionali emergenti, ma la cui assenza privò il sistema finanziario internazionale dei suoi principali fattori di regolazione. Dagli anni ’80 abbiamo avuto un processo di espansione del mercato internazionale, che gli accordi di liberalizzazione degli scambi, attuati attraverso il WTO, ha enormemente favorito, fino alla crisi del 2009. Questa è innanzitutto crisi del sistema finanziario internazionale e pone il problema, difficile da risolvere, di una sua rinnovata regolazione, essendosi fatto più stringente che mai il rapporto tra indici di mercato ed equilibri democratici.
Potremmo dire che le direttive di politica economica che contraddistinguono l’attuale fase di crisi economica in tutti i paesi dell’Occidente si ispirano a principi opposti a quelli che maturarono per affrontare la crisi del ’29. I processi di liberalizzazione degli scambi, ulteriormente estesi nell’ultimo ventennio, non sembrano messi in alcun modo in discussione. Quanto all’intervento dello Stato nel processo produttivo, abbiamo strategie diverse. Negli Stati Uniti l’amministrazione Obama è intervenuta sia nel settore bancario, sia in quello industriale, con risultati di stabilizzazione del sistema, che già l’anno in corso metterà in luce se hanno anche inciso sul processo di sviluppo e sul piano della crescita dell’occupazione. E ciò senza sostanziali modifiche alla pressione fiscale, facendo leva sul deficit di bilancio ed allargando notevolmente il debito americano. In Europa, all’inverso, la pressione fiscale è rimasta alta, in alcuni paesi, come l’Italia, sensibilmente aumentata, con politiche deflattive per contenere i deficit e invertire la tendenza ad accumulare debiti di bilancio.
La moneta unica ha giocato un ruolo decisivo nel determinare questa linea. I vincoli alle politiche dei singoli Stati, già fissati a Maastricht, sono stati rafforzati. La moneta unica ha costituito un fattore di stabilizzazione, soprattutto per un paese come l’Italia che da un quindicennio a questa parte ha avuto una bilancia dei pagamenti negativa, evitando così deflagranti processi di svalutazione e contenendo la crescita dei prezzi. Ma il costo da pagare è quello che conosciamo e che il governo Monti ha avuto il pregio di mettere a nudo in tutta la sua reale dimensione. Il limite evidente di Maastricht non sta nei vincoli che pone alle politiche di bilancio degli Stati, ma nel non aver previsto politiche di sviluppo a livello europeo e concepito una moneta unica, centrata su regole che prescindono da una conseguente politica economica. Del resto, alle origini, il trattato sulla moneta unica era stato previsto come strettamente connesso a quello sull’Unione Europea, che invece è stato accantonato. Anche la BCE è stata concepita con funzioni di regolazione del cambio che prescindono da strumenti di sostegno delle economie dei singoli Stati. E i pochi strumenti che le sono stati attribuiti hanno, a riprova, un peso, come dimostrano i suoi recenti provvedimenti sulla liquidità del sistema delle banche europee, da cui speriamo vedere già nel 2012 risultati positivi. C’è un vuoto istituzionale e politico nel cuore del sistema europeo che si riflette nelle diverse realtà nazionali.
C’è dunque un rapporto, non di oggi, come abbiamo cercato di delineare, ora fattosi ancora più vincolante, che lega gli indici di funzionamento del sistema di mercato, così come è dato dalle regole vigenti, con i sistemi politici. È come se la sovranità del mercato si sovrapponesse alla sovranità popolare. Coniugare le due cose è divenuto, oggi più di ieri, un imperativo primario e costante della “politica”. Se una classe politica non è in grado di fronteggiare questo imperativo, determina un vuoto “politico” che può portare direttamente al default del sistema economico e minare le stesse istituzioni politiche. Lo spread ha simboleggiato in questi mesi questa sovrapposizione del mercato sulle istituzioni democratiche. Sono due indici di consenso della politica, quello del mercato e quello popolare, che debbono concordare. In Italia si è arrivati così al governo Monti.
Governo tecnico, a termine, nato da un’evidente emergenza finanziaria e da una paralisi parlamentare e di governo, determinatasi con lo sfrangiarsi della maggioranza di Berlusconi nel 2010 e trascinatasi tra i contrasti interni alla coalizione di governo, tra Pdl e Lega e nello stesso governo tra Berlusconi e Tremonti, fino a determinare l’impossibilità, responsabilmente avvertita, sia di continuare con quella formula gravemente consumata, sia dalla constatazione, condivisa anche al centro e a sinistra, di non poter andare ad elezioni anticipate
nella grave congiuntura europea di cui l’Italia era la principale parte in causa.
Giuseppe Galasso, nello scorso numero di marzo della rivista, ha svolto considerazioni sulla natura e congenita ambiguità dei termini “tecnico” e “politico” che non possono essere eluse. Il “vuoto” politico che si è determinato è innanzitutto dovuto al sistema dei partiti così come ha agito politicamente in questi anni. È un’implosione dovuta alla incapacità di governare i problemi che nascono dal sistema economico, sia internazionale, sia nazionale. Il governo Monti risponde così all’inderogabile necessità di dare una risposta a questo problema, non risolto dal sistema politico. Da questo punto di vista è un governo con un preciso compito “politico”, assunto attraverso un necessario commissariamento dell’attuale sistema dei partiti. Un governo che non ha rappresentanza politica, che non è costituito per raccogliere un consenso democratico, ma per risolvere un problema senza il quale lo stesso sistema democratico rischia di andare a pezzi. Questa discrasia esiste, tanto che a coprirla formalmente sta il consenso, fornito in Parlamento, dalle forze politiche così esautorate. Un governo tecnico dunque che assume una funzione “politica” primaria nel contesto dell’attuale sistema dei partiti.
Si può tuttavia, sotto altri aspetti, considerare che il governo Monti postuli un problema più interno allo stesso sistema dei partiti. La loro incapacità, nel corso di questo ultimo ventennio, a stabilizzare una democrazia dell’alternanza che, dopo la caduta della prima Repubblica, sarebbe stata auspicabile, porta a ritornare al tema della “centralità” come principio di funzionamento del nostro sistema politico.
Il governo Monti in realtà può anche dirsi un governo centrista senza maggioranza centrista, in un sistema anomalo d’alternanza che ha marcato un punto fallimentare di crisi e ha dovuto autosospendersi, risolvendosi in un’inedita maggioranza di tutti e di nessuno. Questo governo, al di là dei vincoli per cui è nato, ripropone dunque il problema dell’equilibrio politico nel nostro sistema istituzionale in uno spartito che conserva due problemi pregiudiziali irrisolti: da un lato l’emergenza finanziaria ed economica rispetto a cui il governo Monti sta facendo la sua parte, anzi l’unica parte possibile, ma i cui risultati rimangono incerti, dall’altro i temi della riforma della legge elettorale, dei regolamenti parlamentari e di alcuni aspetti del sistema costituzionale.
Il governo Monti ha raccolto stima e consensi dai governi delle due sponde dell’Atlantico, restituendo all’Italia un credito di fiducia e rinsaldando un patrimonio di relazioni che è il prodotto di decenni di partnership con i paesi dell’Occidente. Ma questo patrimonio si è indebolito sia negli Stati Uniti, sia in Europa. Gli Stati Uniti scontano il ventennale declino da potenza egemone unipolare e il rapido passaggio ad un mondo multipolare in cui il loro ruolo di prima potenza ha margini sempre più ridotti. Colpiti da una crisi del sistema finanziario, ne stanno ora uscendo con difficoltà, come si è detto, con un forte deficit di bilancio oltre a problemi politici interni ancora da risolvere. La crisi finanziaria americana ha investito anche l’Europa che non l’ha saputa affrontare unita. In questi quindici anni che ci separano dal compimento dell’ultima fase dell’euro, l’Europa è venuta meno dal realizzare il programma di unificazione che si era proposta alla fine degli anni ’80, rafforzando le sue strutture comunitarie in parallelo col processo di realizzazione della moneta unica. Quello che era l’originario progetto del così detto asse franco-tedesco è uscito dall’agenda di questi due paesi. La Francia copre le sue crescenti debolezze con un’aggressiva politica nazionalistica, sul piano europeo di fatto subordinata alla Germania. Questa poi si è sempre più chiusa in se stessa, imponendo all’eurozona una disciplina di bilancio ferrea che avvantaggia l’economia tedesca nel mercato comune europeo, in particolare comprime un sistema manifatturiero come quello italiano. In un sistema così rigido di vincoli di bilancio è venuto a mancare qualsiasi sostegno pubblico alla domanda, non assolvendo questo ruolo le istituzioni europee, rimanendo la crescita così affidata al mercato e ad un sistema bancario la cui struttura internazionale fa capo ad un oligopolio di istituzioni finanziarie americane ed europee che governano il credito anche attraverso le agenzie di rating, incidendo sulla stabilità stessa dei debiti sovrani.
L’Italia con il suo grande debito vi è particolarmente esposta, mentre i crescenti vincoli di bilancio gli impongono una politica recessiva. Invero l’Italia è in una tendenziale recessione dal governo Amato del 1992, cioè dall’inizio della seconda fase dell’euro. Sono vent’anni in cui non si è saputo fare di meglio. E sarà difficile anche per il governo Monti invertire questa linea di tendenza. Mentre il debito rende difficile assicurare uno stabile equilibrio di bilancio, una politica per la crescita, affidata ad una serie di interventi necessari volti a rendere più elastico e scorrevole il processo produttivo ed economico, adeguando il paese a condizioni di concorrenza che altri paesi europei hanno raggiunto (la Germania con Schröder e poi con la Merkel ha, ad esempio, liberalizzato il mercato del lavoro ad un livello, impensabile allo stato dei nostri dibattiti interni), può dare dei risultati nel medio e lungo periodo. Nel breve periodo, con un tasso di crescita -1, se non -2, il debito, percentualmente sul PIL, cresce, invece di diminuire, e i problemi si accumulano. Il traguardo del 2013 costringe il governo Monti ad un percorso, per quanto virtuoso, tuttavia dagli esiti incerti.
Le elezioni del 2013 si affacciano dunque su un panorama irto di difficoltà, che al meglio ci proporrà un lungo e difficile percorso di ripresa economica e sociale. Può presentarsi a questo appuntamento l’attuale sistema politico così come si è proposto nelle ultime due legislature e fino ad oggi si propone? Tutto è possibile nel basso grado di responsabilità della nostra attuale classe politica. Alcuni tenui segnali tuttavia si avvertono anche se tra loro contraddittori.
Si possono fare delle ipotesi sui movimenti in corso che tengano conto di alcune regole logiche a cui normalmente la “politica” non può deflettere. C’è un evidente spostamento verso il centro, sia dall’interno del centrodestra, sia del centrosinistra. Spostamento invero contraddittorio perché sembra escludere un eventuale amalgama in un possibile centro di settori di centrodestra con settori di centrosinistra. Questi tendenziali spostamenti sono condizionati dallo spostarsi a sua volta dell’attuale centro o verso destra, o verso sinistra. Innanzi a questo rebus assistiamo al permanere senza possibili ulteriori esiti dello status quo, anche se è prevedibile che qualcosa si muoverà.
Il punto critico è dato dalla eventuale legge elettorale. L’attuale legge, un vero obbrobrio, corrisponde al sistema di coalizione che ha retto, fino al governo Monti, il sistema di alternanza. Ora questo sistema è in crisi, a destra per l’allentarsi del rapporto tra Pdl e Lega (che è forza demagogicamente eversiva non diversamente dalle estreme di sinistra), mentre a sinistra costringe il PD a un’alleanza con Di Pietro e Vendola che ripropone i limiti della coalizione che portò al governo Prodi nel 2006.
È da rimarcare che tra i tre attuali partiti della maggioranza di governo si è rapidamente avviato un confronto positivo su un pacchetto di riforme costituzionali, mentre più difficile pare un comune approdo alla riforma della legge elettorale. Il pacchetto costituzionale è il distillato di più di cinquant’anni di discussioni in materia, perché rafforzamento dell’esecutivo, risoluzione del bicameralismo perfetto, riforma dei regolamenti parlamentari sono temi all’ordine del giorno dalla prima legislatura degasperiana, a cui, con la legge maggioritaria del ’53, già ci si riproponeva di porre un primo rimedio. È un programma di riforma costituzionale semplice ed elementare nella sua articolazione che è davvero auspicabile vada in porto per la stabilità del nostro sistema politico costituzionale. Anche l’indubbia anomalia dell’estendersi a dismisura dei poteri del Presidente della Repubblica, che pure in questa fase ha avuto un esito assai benefico, troverebbe il giusto correttivo costituzionale, riconducendosi implicitamente i correttivi a regole, come la sfiducia costruttiva ora prevista, formalmente espresse e proprie del sistema ai fini della sua stabilità.
Sulla legge elettorale assistiamo ad un tendenziale ritorno di tutte le forze politiche al proporzionale con sbarramento per evitare l’eccessiva frammentazione. Ciò risponde alla logica delle attuali fratture che attraversano il sistema politico, a cui abbiamo sopra accennato. Il Pdl si libererebbe di un vincolo inevitabile con la Lega, il PD con le forze che stanno alla sua sinistra. Le alleanze con il proporzionale possono essere rinviate ex post. Ciò non vuol dire, se permangono a destra e a sinistra due maggiori forze politiche, che il sistema di alternanza venga del tutto meno. Può rimanere, ma tendenzialmente bilanciato al centro, invece che sulle estreme, come è stato, per più cause che non sono qui da approfondire, in questi ultimi venti anni. Così come può tornare a rendersi necessaria e possibile un’ipotesi di grande coalizione che di per sé non inficia la logica di fondo di una politica di alternanza.
Certo le correzioni legislative del sistema sono riferimenti essenziali, ma vanno accompagnate da un’inclinazione politica dei partiti che sia chiara e congruente. A chiarire questo punto, nell’attuale situazione, è l’attuale centro che deve fare la mossa decisiva. Nuovo centrodestra, nuovo centrosinistra, queste sono le due sue alternative a cui non corrispondono ancora scelte chiare. Ma il programma di riforme sia costituzionali, sia della legge elettorale può aiutare. L’eccezionalità del governo Monti sta nel coprire un vuoto politico e preconizzare un nuovo approdo del sistema. È cosa altrettanto importante del calo dello spread. Se infatti non avvenisse torneremo al caos, probabilmente anche con una nuova maggioranza di centrodestra o di centrosinistra, quale uscirebbe dalle urne, e lo spread per forza di cose tornerebbe a salire. Perché nessuna delle due attuali coalizioni, come provano i precedenti, è in grado di proseguire la linea di politica economica intrapresa da Monti e che negli anni prossimi, ben oltre il 2013, continuerà ad essere necessaria.
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