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Un anno della Chiesa di Antico Regime e l’Italia
di Valeria Cocozza
Il lavoro di A. Menniti Ippolito (1664. Un anno della chiesa universale. Saggio sull’italianità del papato in età moderna, Roma, Viella, 2011), su cui ci si accinge a stendere qualche nota, va a colmare un vuoto storiografico sulle Congregazioni pontificie in età moderna. Come lo stesso Autore scrive, gli studi finora condotti sulla documentazione delle Congregazioni romane sono sempre stati “viziati” dalla finalità esclusiva di rivolgersi a specifiche comunità diocesane, nell’ambito delle storie sulle chiese locali (p. 15). Con qualche eccezione, certo, come egli stesso sottolinea rimarcando i lavori di F. Romita [Le origini della Sacra Congregazione del Concilio, in La Sacra Congregazione del Concilio. Quarto centenario dalla fondazione (1564-1964). Studi e ricerche, Città del Vaticano, 1964] e di G. Romeo [La Congregazione dei Vescovi e Regolari e i visitatori apostolici nell’Italia post-tridentina: un primo bilancio, in Per il Cinquecento religioso italiano. Clero, cultura e società, M. Sangalli (a cura di), Roma, 2003].
In 1664. Un anno della chiesa universale, Menniti Ippolito prende in esame tre degli organismi curiali preposti alla gestione della vita amministrativa quotidiana della Santa Sede e, precisamente, le Congregazioni del Concilio, dei Vescovi e Regolari e dell’Immunità. Lo studio inizia proprio ricostruendo la nascita e le competenze spettanti alle tre Congregazioni facendo riferimento, in primo luogo, alla trattatistica seicentesca e in particolare all’opera del celebre canonista napoletano Giovan Battista de Luca, Theatrum Veritatis et Iustitiae.
Si entra, poi, nel vivo delle attività delle Congregazioni attraverso un resoconto ampio e particolareggiato offerto dai numerosissimi memoriali conservati presso l’Archivio Segreto Vaticano. Proprio la mole della documentazione prodotta dai tre istituti ha indotto a restringere il campo temporale dello studio, nel tentativo di ricostruire «il film di un anno» della Chiesa d’antico regime, espressione coniata dall’Autore sulla base di un celebre passo di Marc Bloch (p. 153). Non è ovviamente casuale l’intenzione di concentrare l’attenzione sul 1664. Menniti Ippolito, infatti, motiva ampiamente tale scelta, discernendo cause e contesti dei rapporti tra il papato e le differenti realtà politiche italiane ed europee. Alla metà del XVII secolo le competenze delle Congregazioni, istituite da Sisto V con la bolla Immensa Aeterni Dei del 1588, erano ormai definite ed erano certamente nel pieno della loro attività. In quell’anno, peraltro, ricadeva anche il primo centenario dalla pubblicazione dei decreti tridentini. Infine, c’è da ricordare che lo Stato Pontificio, all’epoca sotto la guida di papa Alessandro VII, stava subendo, proprio allora, una graduale marginalizzazione dalla scena della politica europea. Senza dubbio anche per queste ragioni, i fotogrammi messi in scena dall’Autore, costituiti dai memoriali giunti alle Congregazioni, vanno via via componendo una pellicola che mostra una Chiesa universale proiettata su uno scenario tutto italiano, non tanto e non solo per un aspetto geografico (per altro l’italianità “geografica” della Chiesa è stata recentemente discussa da Adriano Prosperi nel suo intervento La chiesa e l’italianità al convegno di studi “Italiani/italiane. Discorsi storici, tipologia, tradizioni”), quanto per la composizione della Curia e per il contesto territoriale nei confronti del quale la Santa Sede e, per suo conto, le Congregazioni si trovarono a spendere la gran parte delle proprie energie. Alla composizione delle Congregazioni l’Autore dedica uno spazio e un documento di appendice, che evidenziano l’italianità della Curia romana alla metà del Seicento, rilevando la percentuale di personale straniero sul totale dei porporati promossi da ciascun pontefice, a partire da Martino IV fino ai giorni nostri. Dunque, quello di scrivere un Saggio sull’italianità del papato in età moderna, come recita il sottotitolo del volume, pare essere uno dei più importanti esiti della ricerca condotta dall’Autore, che rimette in discussione la questione della cosiddetta “svolta innocenziana”, dibattuta anni or sono, e secondo cui il papato di Innocenzo XI avrebbe costituito una seconda ondata controriformistica, momento periodizzante della storia della Chiesa e delle relazioni tra Santa Sede e Congregazioni cardinalizie, segnando il rilancio delle chiese locali e la ripresa affermativa dell’episcopato italiano (avevano parlato di “svolta innocenziana” lo stesso A. Menniti Ippolito, Innocenzo XI, in Enciclopedia dei papi, III, Roma 2008; C. Donati, La Chiesa di Roma tra antico regime e riforme settecentesche, in Storia d’Italia. Annali, IX, Torino, 1986 e B. Neveu, Culture religieuse et aspirations réformistes à la cour d’Innocent XI, in Accademie e cultura. Aspetti storici tra Sei e Settecento, Firenze, 1979). È ora lo stesso Menniti Ippolito, più o meno dichiaratamente, a ripensare la portata e i limiti di tale “svolta”, mostrando come in realtà le riforme innocenziane fossero rimaste tutte più o meno allo stato di progetto, a fronte di una situazione ancora precaria dell’episcopato italiano, sia dal punto di vista culturale che di governo delle anime [per una discussione critica sui termini della “svolta innocenziana” si vedano i contributi di E. Novi Chavarria, Chiesa e religione e di G. Signorotto, Il ruolo politico di Roma e la nuova immagine del papato, in Italia 1650. Comparazioni e bilanci, G. Galasso e A. Musi, (a cura di), Napoli, 2002 e della stessa Autrice, Chiesa e chiese locali alla metà del Seicento: realtà e limiti di una svolta, in «L’Acropoli», 2 (2001)].
Nel libro l’italianità della Chiesa di età moderna emerge ancora più chiaramente sul piano giurisdizionale e delle attività svolte dalle Congregazioni. Sulla base di oltre 3.000 memoriali della Congregazione dei Vescovi e Regolari del 1664, inerenti le tre differenti serie delle Positiones Episcoporum, Regularium e Monialium, Menniti Ippolito ricostruisce una mappa dei casi possibili e una «geografia dei memoriali» che in filigrana disegnano una Chiesa d’antico regime impegnata nel governo effettivo e, oseremo dire, quasi esclusivo dell’Italia, con una particolare declinazione per l’Italia centro-meridionale. Infatti, l’83% di tutta la documentazione studiata e, quindi, delle attività delle Congregazioni pontificie era rivolta all’Italia centro-meridionale (p. 85).
Lo scenario che si va delineando suggerisce all’Autore l’immagine di un «Commowealth di chiese nazionali», espressione più volte utilizzata nel volume, per definire una Chiesa cattolica che sembrava essere composta da tante realtà autonome tra loro e distinte dall’autorità pontificia, dalle quali bisognava escludere il Mezzogiorno d’Italia. Il Regno di Napoli, con il suo elevato numero di diocesi e a causa della sua originaria dipendenza vassallatica dal Papato, era, forse, per la Chiesa stessa la realtà d’antico regime più problematica dal punto di vista geopolitico, economico e socioculturale, nonché l’entità statale più prossima allo Stato Pontificio. Anche per questi motivi, in quella parte d’Italia, era mancato lo slancio alla formazione di un apparato ecclesiastico autonomo, come invece era accaduto tanto negli altri antichi Stati d’Italia quanto nel resto d’Europa. Il Mezzogiorno continentale era sotto la diretta giurisdizione del papato e in un continuo dialogo con la Congregazione dei Vescovi e Regolari.
Menniti Ippolito è sempre attento a operare i dovuti confronti tra le diverse realtà italiane ed europee, come fa ad esempio nel paragrafo “L’Italia che non passò per la Congregazione dei Vescovi e Regolari”, analizzando le relazioni tra la Santa Sede e gli altri Stati dell’Italia di antico regime. Un intero capitolo del libro è dedicato, invece, all’esposizione della casistica dei memoriali giunti alla Congregazione dei Vescovi e Regolari, tratteggiando un quadro che si presenta, qualitativamente e quantitativamente, eterogeneo e composito, e che allo stesso tempo apre nuove strade e spunti di riflessione, nonostante ci si cimenti con una documentazione non facile e non necessariamente fruttuosa. Non sempre, infatti, le diverse questioni esaminate dalla Congregazione trovavano un esito concreto, dati i lunghi tempi richiesti per la raccolta e la verifica delle informazioni, ma soprattutto per la sempre più complessa trama giurisdizionale del Regno di Napoli, avvolta nel gioco di interessi e nella sovrapposizione di competenze, a livello sia periferico che centrale. Le problematiche per le quali si ricorreva alla Congregazione dei Vescovi e Regolari si può dire che fossero le più svariate, in un generico «tutti contro tutti» (p. 113), in cui chiunque dal singolo individuo alle comunità, dalle autorità civili a qualsiasi esponente del clero poteva denunciare ogni cosa disturbasse la quiete morale e civile. L’esigenza di “collocare i temi” – come recita il titolo di un paragrafo del quinto capitolo – apre la strada a una sorta di classificazione dei possibili memoriali, passando dai più comuni casi relativi ai benefici e ai patrimoni ecclesiastici, a quelli legati, per esempio, al numero dei chierici o ai comportamenti e ai livelli d’istruzione del clero locale. Non mancavano, inoltre, polemiche sui riti e sui cerimoniali, sulla vita quotidiana e sulle pratiche religiose, fino a quelle più gravose sulla giustizia penale e sull’ordine pubblico.
Dopo un lungo viaggio introduttivo, illustrativo e ricognitivo dei dati raccolti, negli ultimi due capitoli del libro ci si addentra nel vivo della storia del Mezzogiorno continentale alla metà del XVII secolo, in particolare nei numerosi contenziosi che vedevano opporsi feudatari, università e autorità diocesane. È il caso della contrapposizione, dibattuta sotto gli occhi della Congregazione dei Vescovi e Regolari da un lato e del viceré dall’altro, tra l’arcivescovo della diocesi calabrese di Santa Severina, Francesco Falabella, e il suo feudatario, il principe di Rocca d’Aspide, Francesco Filomarino, per rivendicare alcuni diritti sulla comunità di Cutro. Vicenda altrettanto complessa quella del vescovo spagnolo Juan Caramuel, intellettuale e uomo di Chiesa tra i più illustri del suo tempo, impegnato tanto nel governo spirituale quanto in quello temporale della diocesi lucana di Campagna e Satriano, dove era per l’appunto barone del feudo di Castellaro. Ebbene, il 1664 non fu certo un anno fortunato per il vescovo spagnolo, che si trovò, da un lato, a difendere e rivendicare il possesso del feudo ecclesiastico dalle usurpazioni dei baroni laici e, dall’altro, si vide respingere dalla Congregazione dell’Indice la licenza di stampa per una sua opera. Le vicende del Caramuel, come ricorda anche Menniti Ippolito, erano già note ed erano state studiate da A. Cestaro [Juan Caramuel Vescovo di Satriano e di Campagna (1657-1673). Cultura e vita religiosa nella seconda metà del Seicento, Salerno, 1992], ma l’Autore sceglie di trattarle di nuovo nel tentativo di ampliarne il quadro e, soprattutto, per dimostrare il difficile rapporto esistente tra ordinari e comunità diocesane, pronte ad accusare i presuli di eccessi e abusi di ogni tipo (p. 173). Inoltre, quella della feudalità ecclesiastica era un’altra realtà esistente nel Mezzogiorno moderno che vedeva presuli e istituzioni ecclesiastiche impegnati nella gestione non solo del potere spirituale di una comunità ma anche, come attivi governatori e detentori di giurisdizioni feudali in qualità di baroni, al fianco e sullo stesso piano dei feudatari laici [per questo si può vedere il recente contributo di E. Novi Chavarria, La feudalità ecclesiastica: fenomeno “residuale” o feudalesimo moderno? Una questione aperta, in Studi storici dedicati a Orazio Cancila, A. Giuffrida-F. D’Avenia-D. Palermo (a cura di), Palermo, 2011, vol. II, pp. 623-638].
Oltre al gioco di potere, chiaramente in atto nelle trame giurisdizionali del Regno di Napoli, emerge anche uno scenario che, ancora dopo un secolo, stentava a conformarsi ai dettami tridentini, come appare evidente dalle numerosissime istanze presentate da laici che, per motivi diversi, lamentavano scandali, negligenze e inadempienze di ogni tipo da parte del mondo ecclesiastico, il quale, a sua volta, rispondeva a suon di scomuniche di massa (p. 88). Si era, dunque, molto lontani dalla completa o anche parziale attuazione dei decreti tridentini, soprattutto per quanto atteneva, per esempio, l’obbligo per i vescovi di recarsi a Roma per la visita ad limina. In una relazione anonima inviata a papa Chigi, infatti, si vanno via via snodando le diverse motivazioni per cui i vescovi europei non adempivano a questo obbligo e perché, quando anche lo facevano, inviavano, come nel caso dei vescovi spagnoli, uomini di «condizioni inferiori» (il documento è in appendice al volume, pp. 225 sgg.). Si tratta, evidentemente, di una delle tante dimostrazioni della mancata autorevolezza del pontefice, che sembrava ormai esercitare una giurisdizione puramente «virtuale» (p. 13).
Il volume si conclude con l’analisi della documentazione della Segreteria di Stato, quale punto di osservazione per analizzare come il potere del pontefice fosse riconosciuto in modo diverso nei vari contesti dell’Europa cattolica di antico regime. Campo prescelto dall’Autore per misurare i rapporti tra la Santa Sede e le autorità statali sono le complesse dinamiche per la nomina dei vescovi nelle diocesi di regio patronato. Frutto di concessioni ratificate in momenti e con modalità differenti, tra Quattro e Cinquecento, il papato si trovò a conferire alle grandi potenze europee il diritto di patronato su un numero più o meno ampio di diocesi. Così, Ferdinando il Cattolico prima e Carlo V poi ottennero il real patronato dapprima su tutte le diocesi spagnole, poi su tutte quelle siciliane e, dal 1529, anche su ventiquattro diocesi del Regno di Napoli; il 1516 fu, invece, la volta della Francia quando Francesco I ottenne il diritto di nomina su dieci arcivescovati, ottantotto vescovati e 527 abbazie francesi [si vedano a questo proposito per l’Italia M. Spedicato, Il mercato della mitra. Episcopato regio e privilegio dell’alternativa nel Regno di Napoli in età spagnola (1529-1714), Bari, 1996; per la Spagna il lavoro di M. Barrio Gozalo, El real patronato y los obispos españoles del Antiguo Régimen (1556-1834), Madrid, 2004 e, in generale, quanto lo stesso Menniti Ippolito scrive a riguardo, pp. 56 sgg.].
Un quadro, quello complessivamente offerto dal volume di Menniti Ippolito, che non è ancora completo, ma che, come auspica l’Autore nelle conclusioni del libro, vuole essere un punto di partenza per dare voce, ancora una volta, a quella Italia «inquieta, divisa, insoddisfatta e indisciplinata» (p. 92), accanto alla quale certamente «v’era il resto, la vita cristiana vissuta, da chierici e da laici, da vescovi che riuscivano a non vivere conflitti con le proprie comunità» (p. 92) e che non passò per la Congregazione dei Vescovi e Regolari.
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