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Perché restino fissate le ragioni del "No"
di Antonio Maccanico
Il referendum popolare confermativo sulla riforma della Costituzione approvata nel corso della XIV legislatura che si svolgerà il 25 giugno prossimo è l’ultimo atto di una vicenda politica di notevole importanza per l’Italia, iniziata con le elezioni poliiche generali del 9 e 10 aprile, vinte dall’Unione di centro-sinistra, continuata con l’elezione del nuovo presidente della Repubblica Napolitano, da parte della sola maggioranza di governo, e con le elezioni amministrative del 28 e 29 maggio, che hanno confermato la tenuta della nuova maggioranza. Il referendum appare come il momento conclusivo di una fase di cambiamenti, che possono imprimere una svolta importante alla vita politica e istituzionale del Paese.
E ciò non solo perché con le elezioni politiche vi è stata una vittoria, sia pur di stretta misura, dell’Unione di centrosinistra, che ha segnato un’alternanza alla guida politica del paese, ma perché l’asprezza dello scontro, la reciproca delegittimazione, la palese impossibilità di un minimo di convergenza sul piano delle politiche e delle scelte istituzionali tra le due coalizioni che si fronteggiano dimostrano che non si tratta di un avvicendamento di governo, del tutto normale in una democrazia rappresentativa, ma di un fenomeno che ha una sua specificità, una sua particolarità; è una rottura, l’interruzione di un processo che merita di essere analizzata. Si tratta in sostanza di capire che cosa è stato il quinquennio di governo della Casa delle Libertà e che cosa in realtà significa l’alternativa dell’Unione di centrosinistra, e quali possibilità esistano di un superamento dell’attuale condizione di blocco totale di una normale dialettica politica. Non si vuole drammatizzare la situazione, che suscita una inquietudine per l’avvenire del paese, ma di capirne i reali termini, i motivi veri del confronto, perché questo è il solo modo per tentare di imboccare con sicurezza una via d’uscita.
È innanzi tutto da rilevare che la consultazione referendaria prossima è di per sé palesemente fuori dalla logica dell’articolo 138 della Costituzione. Il corpo elettorale è chiamato a votare su di un testo di 53 articoli, più 6 disposizioni transitorie, cioè sull’intera seconda parte della Costituzione, con un voto “si” o “no”. È chiamato cioè ad approvare o respingere con un “si” o con un “no” una completa riformulazione di tutte le norme che riguardano l’intero ordinamento della Repubblica, il Parlamento, il Presidente della Repubblica, il Governo, l’ordinamento regionale, locale, gli organi di garanzia e la Corte Costituzionale. In altri termini la maggioranza della XIV legislatura si è autoattribuito un vero e proprio potere costituente in perfetta solitudine.
È questa un’anomalia molto grave, perché l’articolo 138 non attribuisce alcun potere costituente al legislatore ordinario, ma solo un potere di revisione, che per sua natura è limitato e parziale, può riguardare uno o più istituti, non certo l’intero assetto costituzionale. È una anomalia che di per sé ha natura eversiva, inconcepibile in una normale dialettica politica.
È noto infatti che quando si è preteso nelle precedenti legislature di affrontare il tema della riforma organica dell’ordinamento, si è proceduto con una deroga rispetto all’articolo 138 della Costituzione, adottata con legge costituzionale, che istituì le note Commissioni bicamerali.
Fu a mio avviso una soluzione tutt’altro che soddisfacente (e il fallimento che seguì ai due tentativi ne è la prova), ma tuttavia nella forma e nella sostanza, rispettoso del dettato costituzionale di cui all’articolo 138. Il mio rilievo non riguarda tanto l’approvazione a maggioranza assoluta del testo, senza negoziazioni o accordi con l’opposizione, (possibilità che la Costituzione esplicitamente ammette, con la garanzia del successivo referendum popolare), quanto una vera rottura dell’ordinamento implicita in una riforma integrale dell’ordinamento in tutti o quasi i suoi istituti, attuata con il ricorso improprio all’articolo 138 della Costituzione. Mi pare opportuno ricordare al riguardo l’opinione di un illustre costituente, Giuseppe Dossetti, che su questo argomento scrisse: «una maggioranza, che non ha ricevuto alcun mandato al riguardo, si arrogherebbe un compito che solo una nuova Assemblea Costituente, programmaticamente eletta per questo e a sistema proporzionale, potrebbe assolvere, come veramente rappresentativa di tutto il nostro popolo; il ricorso all’articolo 138 sarebbe in sostanza un autentico colpo di Stato».
Già questo primo elemento, che ha spinto alcuni illustri studiosi a parlare di «riforma costituzionale incostituzionale» conferisce alla prossima consultazione referendaria un significato particolarmente rilevante e in un certo senso drammatico per l’avvenire della nostra democrazia.
Ma se si passa ad analizzare anche sommariamente i contenuti di questa megariforma questo giudizio ne esce ancora più rafforzato.
In tema di forma di governo è evidente che l’intento di dare stabilità al Governo e di consolidare l’istituto del Presidente del Consiglio, obbiettivo in sé condivisibile, ha spinto gli estensori del testo a soluzioni che determinano la completa fuoriuscita dal modello della democrazia parlamentare.
Prevedere l’obbligo “costituzionale” della indicazione nelle schede elettorali del nome del candidato presidente del Consiglio significa determinarne l’elezione popolare diretta, sia pure in modo contorto ed ambiguo.
La legittimazione democratica del Presidente del Consiglio nasce dalla elezione popolare, non dalla fiducia del Parlamento. Su questa base è costruito il potere esclusivo del Presidente del Consiglio, che è il dominus assoluto del procedimento legislativo e della stessa vita dell’assemblea legislativa, disponendo del potere del suo scioglimento. La norma, inoltre, detta “antiribaltone”, che ammette la sfiducia costruttiva solo se sottoscritta da tutti i deputati che hanno, all’inizio della legislatura, approvato il programma del governo, rende il Presidente del Consiglio condizionato anche da piccole minoranze del suo schieramento. È un tiranno, ma è ricattabile.
Si tratta dell’abbandono completo del modello di democrazia parlamentare che fu scelto dall’Assemblea Costituente con l’approvazione del famoso ordine del giorno Perassi, per una nuova forma di governo indefinibile, che non esiste in nessun paese democratico, che non è né parlamentare né presidenziale.
Il problema della stabilità di governo sarebbe facilmente risolto da una norma sulla sfiducia costruttiva del tipo previsto dalla legge fondamentale tedesca o dalla Costituzione spagnola, senza inutili forzature. Del resto, in Italia i Governi sono sempre caduti non su mozioni di sfiducia, ma per crisi extraparlamentari; e quindi una norma sulla “sfiducia costruttiva” come unico mezzo per cambiare governo senza provocare lo scioglimento dell’Assemblea sarebbe del tutto adeguata a questo scopo.
Rilievi non diversi suscita la parte relativa alla forma di Stato, a quell’assetto federale avviato con la riforma del titolo V della Costituzione alla fine della XIII legislatura.
Che quella riforma richiedesse aggiustamenti, modifiche e completamenti era abbastanza pacifico. Ma l’opera scaturita dalla riforma costituisce un completo capovolgimento di quel federalismo cooperativo e solidale, che era il modello imboccato nella XIII legislatura e anche in sede dell’ultima “Bicamerale” all’unanimità.
La competenza “esclusiva” dello Stato in tema di “norme generali sulla tutela della salute” e di “norme generali sull’istruzione” non si vede come possa convivere con la competenza, anch’essa esclusiva, delle Regioni in tema di “organizzazione e assistenza sanitaria”e di “organizzazione scolastica, e gestione degli istituti scolastici e di formazione”.
Si delinea un panorama di conflittualità e di lacerazioni interpretative dai confini imprevedibili, e con gravi effetti disgreganti.
Quanto all’argomento particolarmente spinoso della riforma del bicameralismo tra i due modelli più noti di Senato federale, quello del Bundesrat tedesco e quello del Senato americano, si adotta una soluzione originale che ha suscitato critiche quasi unanimi. È un Senato non rappresentativo delle collettività Regionali, con competenze ampie, che partecipa a un processo legislativo assai complesso, con ben tre tipi di leggi, che sarebbero fonte perpetua di conflitti e di contrasti.
Quanto alla riduzione del numero dei parlamentari vi è da osservare che non si capisce perché dovrebbe essere ridotto il numero dei deputati, che nei rapporti con la popolazione è molto vicino a quello delle assemblee legislative di altri grandi Stati del continente (Gran Bretagna, Germania, Francia), e non contenuto drasticamente il numero dei senatori. Il Senato americano è di 100 componenti. Anche in Italia un Senato di 100 componenti, eletto su una base paritaria tra le varie Regioni, potrebbe svolgere utilmente la funzione di raccordare gli interessi delle Regioni agli interessi generali del paese.
Quanto poi agli organi di garanzia, particolarmente grave è il depotenziamento dei poteri del Presidente della Repubblica e la manomissione in senso più politico della composizione della Corte Costituzionale.
Assenti del tutto norme in difesa delle garanzie per le minoranze.
Appare evidente da questo rapido esame che la riforma costituzionale sulla quale si pronuncerà il corpo elettorale, e la legge elettorale proporzionale, anch’essa approvata dalla maggioranza in perfetta solitudine alla fine della legislatura, costituiscono i momenti culminanti di una politica istituzionale della Casa delle Libertà, che ha una sua ispirazione coerente e che ha avuto il suo svolgimento in tutto il corso della legislatura.
La linea ispiratrice alla quale mi riferisco è stata quella di scardinare alcuni pilastri dell’ordinamento costituzionale, colpendo di volta in volta il pluralismo dell’informazione di cui all’articolo 21 della Costituzione, l’accesso alle cariche elettive in condizioni di uguaglianza, di cui all’articolo 51, inteso a prevenire i conflitti di interesse, l’imparzialità della pubblica amministrazione, la “laicità” dello Stato, l’autonomia e l’indipendenza della magistratura.
È soprattutto questa linea di politica istituzionale che ha reso impossibile il dialogo tra i due schieramenti.
E la ragione è abbastanza evidente: la Casa delle Libertà ha messo insieme prevalentemente tradizioni e culture politiche che sono state estranee e ostili alla costruzione delle repubblica democratica, e che tuttavia non avevano un modello alternativo da proporre, ma solo intolleranza per il modello del primo cinquantennio repubblicano.
La riforma della Costituzione è il momento più significativo e comprensivo di questa linea di “populismo” istituzionale, che colpisce valori costituzionali “indisponibili” e che rende impossibile un confronto politico normale tra i due schieramenti.
Ora, riconoscere questa realtà non significa fasciarsi la testa e rassegnarsi all’ineluttabilità dello scontro.
Che esista nel paese una forte corrente “antipolitica”, di sfiducia nelle istituzioni e nel ceto politico, una convinzione della inadeguatezza delle classi dirigenti politiche è un dato politico di primaria importanza che deve far riflettere anche lo schieramento di centro-sinistra, che sul piano istituzionale si richiama all’esigenza di non stravolgere l’assetto della “Prima Repubblica” ma solo di correggerlo.
È sul mood antipolitico che è nato il populismo berlusconiano, e l’antipolitica è il frutto della cattiva politica, quella cattiva politica che ha determinato la crisi della Prima Repubblica e il trauma del distacco crescente di settori importanti della pubblica opinione dalla vita politica e istituzionale del paese.
Il problema ora non è solo quello di farsi carico della necessità di superare questo deadlock costituito dalla riforma costituzionale, un macigno che è rappresentativo di una linea legata ad una esperienza della legislatura passata finita in un fallimento. Ma convincere l’elettorato che solo la reiezione popolare della riforma potrà dare inizio ad una nuova fase, nella quale i due schieramenti potranno cercare di ricostruire un minimo di tessuto istituzionale comune, che è l’unico terreno sul quale è possibile “la rigenerazione” della nostra democrazia.
Sono necessarie correzioni di fondo nell’uno e nell’altro schieramento.
Il centro-destra deve rinunciare alla propensione al rifiuto in toto di quello che i francesi chiamano acquis costitutionel della nostra Repubblica e accettare una organizzazione dei pubblici poteri che non confligga con la prima parte della Costituzione; il centro-sinistra deve avere maggiore capacità di ascolto e chiarire meglio i cambiamenti che vorrebbe all’ordinamento. Questa è la via per fare dell’Italia una democrazia normale.
Ma la premessa – lo ripetiamo – è che la volontà popolare elimini la pessima riforma approvata nella scorsa legislatura dall’orizzonte politico del Paese. Essa non è solo tecnicamente errata e aberrante, ma è l’emblema di un tentativo eversivo di politica istituzionale che rende impossibile l’unificazione del paese.
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