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Le minoranze etniche dell'Italia unita*
di Giuseppe Galasso
“Minoranza etnica” è una indicazione che non esprime appieno la realtà a cui si riferisce. Ogni minoranza etnica dovrebbe sempre essere, infatti, anche una minoranza culturale, e la diversità che così viene indicata è, perciò, sempre più complessa di quanto il semplice riferimento all’etnos faccia supporre. Di conseguenza, inoltre, benché le compatibilità, le convivenze, le convergenze, i compromessi e quant’altro si può pensare di positivo o in positivo dei rapporti fra etnie diverse è anch’esso molto complesso; e a riscontro, naturalmente, i conflitti, le incompatibilità, i dissensi etnici sono più aspri, più crudi, e sembrano, effettivamente, dare al termine etnos quelle implicazioni alle quali di fatto si pensa quando si parla di etnie e di rapporti fra etnie.
Negli antichi Stati italiani pre-unitari minoranze etniche non mancavano. Non si può dire, però, che esse abbiano costituito un problema particolare di governo o una questione politica specifica. Nel Mezzogiorno si trattava soprattutto di albanesi spesso indicati anche come greci; ma, invero, anche comunità greche si ritrovavano nel paese, e a lungo si discusse in passato se si trattasse di sopravvivenze dell’antica presenza ellenica nell’Italia meridionale o, come in effetti è stato, di immigrazioni posteriori di epoca bizantina o di provenienze, ancora più recenti, dai dominii ottomani. Nei territori veneziani di Friuli, Istria e Dalmazia o, meglio, nelle città veneziane di quei luoghi si trattava essenzialmente di slavi. Volendo, si potrebbe, inoltre, considerare il caso, piuttosto diffuso, di colonie italiane in altre parti d’Italia ma al di fuori dello Stato di origine. È chiaro, però, che in questo caso il problema etnico-culturale si poneva – e si pone tuttora come problema storiografico – su un piano del tutto diverso. E ancora diverso, infine, era il caso degli ebrei, assenti nel Mezzogiorno, ma presenti solo in qualche caso in misura davvero notevole altrove, in alcuni Stati italiani, fra i quali lo Stato Pontificio.
Durante il periodo risorgimentale la presenza di queste minoranze nel moto nazionale fu per molti aspetti notevole. Ebrei e albanesi parteciparono, in particolare, con molto slancio, non meno che i protestanti italiani, alla rivendicazione nazionale, che, come si sa, era congiunta alle rivendicazioni liberali; e, quando la questione nazionale si pose in termini unitari, anche l’unità rientrò nell’orizzonte politico di quelle comunità. Più complesso fu il caso degli slavi, e ancora diverso. Non si può, in sostanza, parlare per essi di partecipazione etnicamente qualificabile. Bisogna parlare, piuttosto, di partecipazioni individuali, anche se non tanto infrequenti quanto si potrebbe pensare.
Certo, anche per queste eredità risorgimentali il problema delle minoranze non ebbe nell’Italia unita un rilievo particolare. Non che non lo si avvertisse o non se ne parlasse, ma indubbiamente non lo si avvertì, né se ne parlò nei termini di un problema politico particolare. L’emancipazione degli ebrei dalle loro storiche servitù era stata implicita o senz’altro esplicitata fin dall’inizio nelle rivendicazioni liberali del Risorgimento, e Cattaneo ne aveva fatto oggetto, come si sa, di un saggio fra i suoi più noti e rilevanti, Le interdizioni israelitiche. Fra gli albanesi, il loro collegio di Sant’Adriano, a San Demetrio Corone, in provincia di Cosenza, era stato un epicentro e un riferimento notorio del movimento italiano; e questo sentimento restò sempre largamente prevalente fra loro, e in particolare nelle loro élites culturali e sociali. Quanto ai protestanti, una minoranza religiosa esigua, ma di grande significato storico e civile, già l’opera, tuttora validissima, di Giorgio Spini, ne chiarì le notevoli dimensioni.
Un vero e proprio problema di minoranze sorse, invece, nell’Italia unita dopo la prima guerra mondiale. Quella guerra procurò allo Stato italiano un ingrandimento territoriale cospicuo, per cui la superficie ne passò da 286.000 a 310.000 chilometri quadrati, e cioè a circa il 9% in più. Dei territori inclusi allora nei confini italiani solo il Trentino e il territorio di Trieste e di buona parte delle città costiere istriane potevano dirsi pienamente italiani dal punto di vista etno-culturale e linguistico. Nelle campagne soprattutto, ma anche, in varia misura, nelle città predominavano, invece, elementi slavi: sloveni più a nord, croati più a sud, almeno in via alquanto generale. Nel territorio detto dagli italiani Alto Adige e in tedesco Sud-Tyrol era nettissima, a sua volta, la maggioranza etno-culturale e linguistica austro-germanica. L’iniziale tenore della pace con le vinte Austria e Ungheria venne poi modificato, come si sa, dai successivi accordi dell’Italia con la neonata Jugoslavia del 1921 e del 1924, grazie ai quali rimasero all’Italia anche le città di Fiume e di Zara con alcune isole dalmate come Cherso, Lussino e Lussinpiccolo.
I nuovi confini offrivano indubbiamente all’Italia non soltanto vantaggi di estensione territoriale, ma anche frontiere di molto migliori dal punto di vista della conformazione geografica del paese. Si raggiungeva, infatti, col Brennero, una delle più nette delimitazioni dirimenti fra Nord e Sud della catena alpina, e, col Golfo del Carnaro, una chiara delimitazione confinaria sia con il possesso della chiusura della stessa catena alpina, sia dal lato del mare sul quale la chiusura dell’arco alpino si affacciava, secondo un’indicazione geografica di antica data (si ricordi la netta affermazione di Dante sul Carnaro «che Italia chiude, e i suoi termini bagna»).
Ancora maggiore, poi, del miglioramento geografico era, poi, quello militare. Il Brennero assicurava un vantaggio strategico quale frontiera militarmente sicura, ritenuta praticamente insuperabile, che fu subito esaltato e messo in evidenza nella pubblicistica italiana e internazionale. A sua volta, il possesso completo dell’Istria e quello di alcune isole adriatiche, se non equivaleva in valore strategico a quello del Brennero, rendeva certamente di gran lunga più sicuro che non il confine pre-bellico sull’Isonzo il controllo italiano sull’Adriatico, sul quale ormai non si affacciava più nessuna grande potenza, quale, fino al 1918, era stata l’Austria-Ungheria e fino a non molto tempo prima l’impero ottomano.
Non si era ottenuto – è vero – il possesso pieno della Dalmazia o di gran parte di essa, che il Patto di Londra per l’entrata in guerra dell’Italia al fianco delle potenze occidentali aveva previsto. Il rafforzamento strategico dell’Italia non ne avrebbe tratto, però, vantaggi decisivi o di molto maggiori di quelli conseguiti con Trieste e con l’Istria. In contrario vi sarebbe stata, invece, l’inclusione nei confini italiani di una minoranza slava, che sarebbe equivalsa, per il problema che così avrebbe creato, a quello della minoranza austro-germanica in Alto Adige, che fin dall’inizio fu tanto più rilevante di quanto fosse il problema slavo sui confini orientali del paese (e lo riconosceva da principio anche Mussolini stipulando l’accordo con la Jugoslavia del 1924, ritenendo non opportuno includere nei confini del paese tanti slavi).
Per quanto riguarda i confini nazionali il mito della «vittoria mutilata» non aveva, perciò, molto senso. In effetti, sia a Nord che ad Est i nuovi confini italiani andavano largamente al di là di quanto avrebbero comportato i 14 punti del presidente Wilson, che non per nulla, quindi, fu un deciso avversario delle richieste orientali dell’Italia alla conferenza della pace. Nella stessa opinione pubblica italiana il senso della guerra era stato riassunto, dall’inizio alla fine, nel binomio “Trieste e Trento”. Che potesse diventare un problema una città come Fiume lo si scoprì solo nel 1919-1920, e con D’Annunzio. La Dalmazia aveva certamente rappresentato un elemento dell’irredentismo italiano pre-bellico, ma certamente non della forza ideale e politico di quelli del Trentino e di Trieste. Per lunghissimo tempo la politica delle minoranze condotta dall’Austria-Ungheria aveva favorito la disitalianizzazione delle terre dalmate e giuliane, che rappresentavano una nobile eredità soprattutto veneziana, e la loro progressiva slavizzazione, conseguendo risultati che già allo scoppio della guerra del 1915 apparivano cospicui. Né era senza significato che prima di questa guerra l’irredentismo trentino potesse vantare studi e saggi come quelli di Cesare Battisti, mentre per gli altri irredentismi italiani prevalesse nettamente un fondamento storico-letterario assai più accentuato.
Il problema del trattamento delle minoranze nei nuovi confini italiani puntò fin da principio su una decisa italianizzazione dei territori acquisiti con la guerra. Criterio che, con l’avvento del fascismo al potere dopo appena qualche anno dalla fine della guerra, divenne non solo più consapevole ed esplicito, ma assunse un carattere di durezza intransigente che la politica austro-ungarica delle minoranze nelle forme, se non nella sostanza, non aveva avuto neppure essa. Che questo alimentasse un certo irredentismo slavo sui confini orientali del paese è indubbio, ma in nessun momento, fino agli ultimi anni della seconda guerra mondiale, questo fu davvero un problema per lo Stato italiano. Ben altro rilievo ebbe, invece, il problema alto-atesino. Verso di esso la linea del governo fascista fu, semmai, ancor più rigida che verso la minoranza slava. Non senza, tuttavia, una macroscopica contraddizione.
Uno dei maggiori vantaggi geo-politici apportati dalla guerra all’Italia era stato, come è noto, la fine della grande potenza austro-ungarica sui confini settentrionali. La piccola Austria post-bellica (per l’Ungheria era lo stesso) non poteva assolutamente equivalere all’Austria asburgica. La reazione italiana al primo accenno della nuova Germania nazista di un tentativo di annessione dell’Austria nel 1934 fu, perciò, del tutto comprensibile: la posizione di grande potenza europea dell’Italia post-bellica aveva tratto un impulso decisivo proprio dalla sparizione della Duplice Monarchia asburgica, sicché anche i commenti internazionali alla reazione italiana contro la annessione vagheggiata dalla Berlino nazista non solo furono largamente positivi in quanto si trattava di una opposizione al nascente espansionismo hitleriano, ma anche comprensivi nei riguardi di un interesse italiano esplicito e da tutti riconosciuto come legittimo.
Tanto più doveva, quindi, risultare incomprensibile l’assenza di reazione, se non il favore addirittura, di Roma quando l’annessione dell’Austria al Terzo Reich, effettivamente vi fu nel 1938. In tal modo sui confini settentrionali del paese veniva a gravare una potenza certamente alquanto maggiore della stessa Austria-Ungheria del 1915; e gli effetti se ne sarebbero visti negli ultimi anni della seconda guerra mondiale. Per il momento, poté sembrare una rassicurazione l’assoluta garanzia della frontiera del Brennero. Promessa che Hitler diede con grande enfasi come contropartita dell’atteggiamento non ostile tenuto dall’Italia nella questione dell’Anschluss del 1938; e promessa, inoltre, alla quale lo stesso Hitler era intenzionato a mantenersi fedele, come si mantenne fino a che le cose non presero la piega determinata dal crollo del fascismo nel 1943. Per di più fu contemplata, come si sa, fra Roma e Berlino una procedura germanica, per cui il cittadino altoatesino poteva optare per la nazionalità tedesca ed emigrare nella Germania che ora giungeva fino al Brennero. L’opzione così consentita fu tanto largamente praticata da riguardare l’enorme maggioranza della popolazione altoatesina; e questo certamente fu il segno di una renitenza locale all’appartenenza all’Italia che non era soltanto, ormai, di carattere nazionale, ma implicava elementi ideologici di particolare natura. Furono, comunque, 185.000 su 267.000 quelli che optarono per il trasferimento nel Terzo Reich, con una percentuale (due terzi abbondanti) che, insieme con la natura di quella renitenza, avrebbe dovuto ricevere alla fine della guerra tutt’altra considerazione da quella che ebbe.
Del tutto artificiale e voluta, a differenza da quelle con gli slavi e con gli altoatesini, fu, invece, la questione ebraica sollevata nel 1938 dalla virata fascista in quella vera e propria Gleichschaltung che si era cominciata a praticare nei riguardi del regime nazista tedesco. Nell’Italia unita un problema ebraico non era mai esistito. La partecipazione degli ebrei alla vita dell’Italia unita era stata non meno cospicua e di qualità di quanto era stata la partecipazione al movimento risorgimentale; e fu spesso rappresentata da grandi personalità della cultura, dell’economia e della vita pubblica. Nello stesso movimento fascista la partecipazione ebraica non era stata trascurabile. Dal punto di vista demografico il problema era addirittura esiguo. Gli ebrei (e già questa definizione etno-cultural-religiosa era problematica, e lo si vide nella stessa legislazione fascista a loro riguardo) erano, nelle valutazioni più contenute, non più dell’1,5 per mille della popolazione italiana; nelle valutazioni più ampie, non più del 2,5 per mille, o, a eccedere ancora di più, il 3 per mille. Non era neppure un gruppo etnico caratterizzato da particolari profili economico-professionali, poiché vi si ritrovavano la stessa stratificazione sociale e patrimoniale o occupazionale, più o meno, della popolazione italiana. Il senso dell’italianità era indubbio in questo gruppo, dopo la fine delle “interdizioni israelitiche” nessuno ne aveva mai dubitato. Per di più, lo stesso Mussolini aveva a lungo deprecato le dottrine e le politiche razziste e antisemite, che in Italia suonarono, quando furono annunciate nella loro definitiva formulazione normativa, quasi, come un fulmine a ciel sereno.
Questo quadro dei problemi di minoranze etniche e culturali avrebbe certamente potuto essere di molto mutato dall’eventuale vittoria italiana nella seconda guerra mondiale. Nel corso già della guerra fu costituita con Lubiana una nuova provincia italiana, e già si sapeva che la Dalmazia o una gran parte di essa, con le isole adiacenti, avrebbe potuto essere annessa a vittoria conseguita. Al di là delle vecchie rivendicazioni nazional-fascistiche per la Corsica e per Nizza, sembra che a un certo punto Mussolini fantasticasse addirittura di portare la frontiera con la Francia al Varo. E tutto ciò senza contare che già prima della guerra la fascia costiera della Libia era stata proclamata territorio metropolitano e vi erano state istituite quattro province (Bengasi, Derna, Misurata e Tripoli), sicché ipso facto ci si trovava qui dinanzi a un altro, e ben più corposo e arduo, problema etno-cultural-religioso, costituito dalla esiguità della popolazione italiana di quelle nuove province rispetto alla locale popolazione libica e musulmana.
Il panorama post-bellico di un’Italia fascista vittoriosa si annunciava, così, senza confronti più complesso e diverso da quello dell’Italia pre-fascista anche per la consistenza e la gravità dei problemi di minoranze etno-culturali, e anche religiose, oltre che, ovviamente, nazionali, che vi si sarebbero determinati, nel caso di vittoria italiana, per le non ben definite, ma certo non ristrette mire espansionistiche della politica fascista. E tanto più lo si può dire con certezza in quanto, finita la guerra con la sconfitta italiana, questo genere di problemi, pur ristretti rispetto all’anteguerra, vi sollevò, tuttavia, difficoltà politiche non piccole.
Dopo la guerra, infatti, di problemi di minoranze davvero consistenti non rimase che quello altoatesino. Il territorio nazionale era diminuito di circa il 3% (da 310.000 a 301.000 chilometri quadrati), ma questa perdita si era avuta (tranne la minuscola modifica al confine francese per la cessione di Briga e di Tenda) tutta sul confine orientale con la perdita di Zara e dell’Istria, dalla quale si salvarono a stento Trieste e Gorizia. Di conseguenza, la minoranza slava si ridusse di molto nei nuovi confini, senza che si formasse un consistente problema di minoranze italiane oltre confine, data la fiera repressione subito messa in atto prima nella fase conclusiva della guerra partigiana guidata da Tito (di cui rimasero drammatica, sanguinosa e sanguinaria testimonianza le foibe) e poi dal governo della Jugoslavia post-bellica, e data, ancor più, la massiccia emigrazione degli italiani dai territori perduti.
La questione altoatesina fu regolata anche attraverso un accordo fra Italia e Austria. A quale titolo l’Austria potesse pretendere un tale accordo non fu mai chiaro nel 1946, quando l’accordo fu firmato fra il capo del governo italiano De Gasperi e il cancelliere austriaco Grüber; ed è poco chiaro anche oggi. L’Austria non aveva vinto una guerra, né c’era stata una guerra fra essa e l’Italia. Una rivendicazione austriaca sui territori perduti nel 1919 non aveva alcun senso di diritto pubblico internazionale. Ma l’Austria figurava tra le vittime del nazismo, benché l’annessione del 1938 non vi avesse incontrato – ad essere clementi – alcuna seria opposizione: anzi! La posizione dell’Italia era, invece, estremamente debole, sia in quanto paese sconfitto, sia in quanto paese del fascismo. Vienna seppe bene avvalersi di questa duplice circostanza favorevole, e non era nemmeno difficile farlo, malgrado che il 69% della popolazione altoatesina interessata avesse mostrato, ben più che un’accettazione forzata, una propensione molto netta verso il nazismo. Questo contò meno della debolezza diplomatica italiana. Soprattutto, si pagò, nelle circostanze difficilissime determinate dalla sconfitta italiana, anche il prezzo dell’autoritaria politica di nazionalizzazione, che il governo fascista aveva indubbiamente e duramente condotto in Alto Adige, e che aveva alimentato nella popolazione che ne era stata oggetto un ancor più forte risentimento antitaliano.
Sono noti gli svolgimenti successivi dell’accordo De Gasperi-Grüber. Nella Costituzione della Repubblica italiana del 1948 si trovò uno spazio per fare di quella di Bolzano una provincia autonoma in tale misura da vanificare l’inquadramento di tale provincia nella Regione Trentino-Alto Adige, prevista in base all’ordinamento costituzionale. La già larga autonomia statuita dagli accordi del 5 settembre 1946 a Parigi fu, tuttavia, ben presto giudicata insoddisfacente sia da parte di Vienna, sia da parte della ben presto pienamente ricostituita popolazione di lingua e cultura germanica dell’Alto Adige grazie al rientro, generosamente permesso, degli optanti per la Germania a seguito dell’accordo italo-tedesco del 23 giugno 1939. Si ebbe, così, verso il governo italiano, una duplice contestazione: verso il grado di autonomia riconosciuto alla provincia di Bolzano e verso la misura e i modi in cui si giudicavano attuali gli accordi del 1946; e, dall’altro lato, duplice perché mossa sia dall’esterno, ossia da Vienna, sia dall’interno, ossia da Bolzano.
La disponibilità italiana a trattare una tale incresciosa e, per qualche verso, paradossale materia non valse a frenare gli sviluppi irredentistici che presto si delinearono nell’Alto Adige di lingua cultura germanica, e che, in progresso di tempo, diedero luogo alla formazione di gruppi terroristici e a una certa loro attività. Il terrorismo irredentista non assunse mai una consistenza preoccupante. L’organizzazione politica di gran lunga dominante in Alto Adige, la Südtiroler Volkspartei, pur fra non poche ambiguità e incertezze, mantenne una linea legalitaria, che finì col prevalere, e che, insieme al prudente atteggiamento del governo italiano, valse a chiudere, dopo pochi anni, la parentesi autonomistica. La Südtiroler Volkspartei tenne, peraltro, nel Parlamento italiano una linea di costante appoggio alla Democrazia Cristiana e aiutò lo sforzo del partito cattolico italiano negli anni difficili del dopoguerra, della ricostruzione e del successivo sviluppo del paese.
È dubbio se l’interferenza austriaca consentita dagli accordi del 1946 sia stata determinante ai fini della progressiva risistemazione dell’autonomia altoatesina, che nel 1969 e nel 1988 diede luogo a un pacchetto di norme giudicato dalla Südtiroler Volkspartei «un compromesso accettabile», e riconosciuto nel 1992 dalla stessa Austria, nella sua attuazione, come rispondente agli accordi del 1969 e successivi. Sarebbe stato difficile, del resto, che tale non fosse il giudizio da darsi sull’ampiezza e sulla prassi dell’autonomia alto-atesina. Un’ampiezza e una prassi che muovono a porsi il problema se non ne derivi, certamente, una larga protezione e salvaguardia della popolazione di lingua e cultura germanica di quel territorio, ma anche un immobilismo e un conservatorismo sociale e culturale poco idoneo a sollecitarne un ulteriore sviluppo, come gli indicatori statici dell’ultimo quindicennio o ventennio sembrerebbero dimostrare.
La situazione etnica della provincia di Bolzano non è più quella degli anni precedenti la prima guerra mondiale, ossia un secolo fa, quando in essa vi erano 215.000 abitanti di lingua tedesca e solo 16.000 di lingua italiana. Attualmente, su una popolazione di oltre il doppio di quella d’allora (un po’ più di mezzo milione di abitanti nel 2010), il rapporto è all’incirca di due terzi a un terzo a favore dei primi: effetto, di certo, della politica di italianizzazione sviluppata dal governo italiano, piuttosto intensamente, negli anni del fascismo, ma effetto anche di movimenti spontanei che un’ottica strettamente etnica porta, molto a torto, a sottovalutare. Certo è che a parere di molti osservatori, non soltanto italiani, la minoranza italiana della provincia non sembra ricevere, in nome dei diritti della maggioranza, un trattamento del tutto paritario o, semplicemente, equo. Ne può essere un indizio la diminuzione percentuale degli italofoni, che nell’ultimo decennio del secolo XX sono passati dal 27,65 al 26,47%, con un corrispondente aumento dei tedescofoni dal 67.99 al 69,15% del totale: effetto certamente di varii fattori e di una minore spinta italiana, ma anche delle drastiche norme che regolano l’accesso agli impieghi pubblici e altre importanti aspetti della vita economica e sociale della provincia a favore dei tedescofoni. Il che non ha impedito, tuttavia, che la situazione della provincia appaia, agli inizi del XXI secolo, abbastanza stabilizzata, né che la questione etno-culturale non abbia più attraversato momenti di tensione e contrasto quali quelli sopra accennati.
Il problema altoatesino è, comunque, di gran lunga, vale la pena di ripeterlo, il maggiore, per la sua consistenza demografica, di quelli di minoranza dell’Italia contemporanea. Gli altri sono di entità nettamente minore e di natura storica e culturale diversa. Nello stesso Alto Adige sussiste una minoranza ladina, valutata a circa 30.000 unità, e insediata in alcune alte valli dolomitiche, che la Regione Trentino-Alto Adige meritoriamente protegge. A poco più di 50.000 unità è valutata, a sua volta, la minoranza slovena rimasta nei confini italiani dopo la guerra, ma che probabilmente è un po’ più numerosa, almeno a Trieste, di quanto non risulti dai dati ufficiali e di quanto gli sloveni non siano nelle valli del Natizone, di Resia e nel Goriziano, nelle quali i loro gruppi si ritrovano. Difficilissimo, poi, è davvero considerare minoranze etniche i friulani, anche se spesso si indulge a questo vezzo, o i parlanti di dialetti provenzali o franco-provenzali di alcune valli piemontesi i francofoni della Valle d’Aosta, benché lo Stato italiano riconosca l’uso ufficiale del tedesco e del ladino in Alto Adige, dello sloveno nelle province di Trieste e di Gorizia e del francese nella Valle d’Aosta. Delle minoranze greche e albanesi del Mezzogiorno (un 30.000 parlanti per le prime e un 100.000 per le seconde) è da dire soprattutto che negli ultimi decennii lingua, usi e costumi hanno fatto registrare un progressivo declino, che sembrano preludere a una ancora più piena integrazione, per via spontanea, nel circostante ambiente italiano. Le ancor più esigue presenze di ascendenza serbo-croata nel Molise (che risalgono al secolo XV, e in specie alla seconda metà di quel secolo, come la massima parte delle colonie greche e albanesi del Mezzogiorno) mostrano, a loro volta, uno stadio ancora più avanzato del processo di assimilazione italiana o, per meglio dire, regionale spontaneamente in corso da secoli. Il che è da dire anche per l’uso del catalano nel territorio di Alghero in Sardegna, anch’esso un caso che esula completamente dal problema delle minoranze etniche come problema di attualità e di prospettiva politica. E, anzi, quanto a problemi di minoranze linguistiche, è vero che, come si fa spesso presente, in Italia sono parlate, accanto all’italiano una dozzina di lingue minori e una dozzina di dialetti; che un 60% degli italiani parla un dialetto e il 13% solo un dialetto; che molti, o almeno alcuni, dei dialetti italiani hanno tradizioni letterarie e socio-culturali di qualità e spessore rilevanti. Ma identificare i problemi di quelle che fin troppo spesso, con il solito disgustoso e ripetitivo conformismo delle frasi fatte e dei modi di dire di volta in volta correnti, sono definite “lingue tagliate”, con problemi di natura nazionale è del tutto incongruo e impertinente. A prescindere dal fatto che molti degli autori “dialettali” maggiori sono a uguale titolo autori fra i maggiori di lingua italiana (si pensi a un Goldoni o a un Di Giacomo, tanto per fare qualche esempio), e a prescindere anche dal fatto che in moltissimi fra i maggiori autori di lingua italiana il dialetto sono costitutivamente presenti aperte e perfettamente integrate inflessioni dialettali (Verga ne è un esempio dirimente), resta il fatto che nessuno può pensare che una grande cultura, come certamente è quella italiana, possa o debba esprimersi monoliticamente quanto a maniere, consuetudini, vie e strumenti retorici e a tutto ciò che attiene al regno dell’espressione. Nessuna delle presunte “lingue tagliate italiane” può essere vista e trattata come impone di essere considerato, per fare un esempio di primario rilievo, il catalano rispetto al castigliano in Spagna. Dopo tutto, ha un suo marginale, ma convergente significato, nel discorso che qui si accenna, il fatto che in Italia qualche bello spirito abbia potuto proporre, talora, che come inno nazionale si scegliesse una canzone dialettale (‘O sole mio): una conferma, ci sembra della grande varietà e ricchezza di modi, forme e atteggiamenti, da moltissimi punti di vista, della cultura italiana, non già di frazionamenti interni riduttivi della sua profonda unitarietà, ancorché tanto spesso (anche del tutto pretestuosamente) discussa e negata.
Quanto agli ebrei, la cui comunanza di vita con i loro concittadini italiani si è ancora meglio ristabilita all’indomani della seconda guerra mondiale, le vicende degli anni dal 1938 al 1945 hanno ancora di più ridotto le già esigue dimensioni dell’ebraismo italiano, verso il quale la politica dell’Italia post-bellica ha, comunque, mostrato tutta la dovuta considerazione, e dovuta anche perché all’esiguità numerica corrisponde, invece, una presenza ebraica tutt’altro che trascurabile e molto bene avvertita in varii campi della vita sociale e culturale.
Il complesso di questa sommaria, ma, si spera, non impertinente considerazione di problemi di minoranza etnica nell’Italia unita vuole tendere non a negare la sussistenza di un tale problema, bensì a individuare le loro effettive dimensioni e la loro più autentica natura storica e politica. Resta – ci sembra – indubbio che, in generale, veri e propri problemi di incompatibilità etnica si siano determinati in Italia, a livello del governo del paese, solo nel periodo fascista, quando di tali problemi si ebbe una gestione non solo autoritaria, ma anche apertamente e duramente repressiva nei confronti di tutto ciò che sembrasse minimamente attentare alla nozione squadrata e semplicistica che allora si aveva dell’italianità. Prima del fascismo ci si affidò soprattutto alla logica spontanea delle cose e del loro evolvere, nella storia italiana. Dopo del fascismo si è avuta spesso l’impressione che nel governo italiano siano prevalsi con eccessiva frequenza ingiustificati complessi di colpa e timidezze rispetto a proteste e rivendicazioni di minoranze non sempre culturalmente e storicamente giustificate, e che si sia, quindi, anche avuta una certa debolezza nel sostegno istituzionale dell’italianità del paese.
Si tratta, comunque, di problemi di uno spessore demografico complessivamente alquanto limitato, mentre ben altro discorso si richiede già, e, con certezza, ancora di più si richiederà in un futuro anche prossimo, per i problemi determinati dalla massiccia immigrazione europea ed extra-europea, che dagli anni ’70 del secolo XX si è riversata in Italia così come in altri paesi occidentali e che già pone, e via via porrà sempre più, non facili problemi di cultura, di lingua, di costume e di politica, per non parlare delle relative non trascurabili implicazioni anche sul piano religioso.








* Quello qui pubblicato è il testo di una relazione tenuta a un Convegno di studi a Milano nell’ottobre 2011, organizzato da Alceo Riosa, poi, purtroppo, scomparso e dedicato, perciò, anche alla sua memoria. Di questo testo si darà altrove una più ampia redazione.^
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