Rubbettino Editore
Rubbettino
Torna alla Pagina Principale  
Redazione: Fausto Cozzetto, Piero Craveri, Emma Giammattei, Massimo Lo Cicero, Luigi Mascilli Migliorini, Maurizio Torrini
Vai
Guida al sito
Chi siamo
Blog
Storia e dintorni
a cura di Aurelio Musi
Lettere
a cura di Emma Giammattei
Periscopio occidentale
a cura di Eugenio Capozzi
Micro e macro
a cura di Massimo Lo Cicero
Indici
Archivio
Norme Editoriali
Vendite e
abbonamenti
Informazioni e
corrispondenza
Commenti, Osservazioni e Richieste
L'Acropoli
rivista bimestrale


Direttore:
Giuseppe Galasso

Responsabile:
Fulvio Mazza

Redazione:
Fausto Cozzetto
Piero Craveri
Emma Giammattei
Massimo Lo Cicero
Luigi Mascilli Migliorini
Maurizio Torrini

Progetto grafico
del sito:
Fulvio Mazza

Collaboratrice per l'edizione online:
Rosa Ciacco


Registrazione del
Tribunale di Cosenza
n.645 del
22 febbraio 2000

Copyright:
Giuseppe Galasso
 
Cookie Policy
  Sei in Homepage > Anno VII - n. 4 > Documenti > Pag. 463
 
 
Volpe: genesi e senso di Italia Moderna
di Giuseppe Galasso
Non possediamo ancora una documentazione che ci consenta di seguire nel dettaglio la genesi e la realizzazione di Italia moderna nel pensiero e nell’attività di Gioacchino Volpe1. Possiamo dire solo che l’opera pubblicata tra il 1943 e il 1952 ebbe una lunga preparazione, poiché è sicuramente da ritenere che essa sia nata dal bisogno e dal proposito di riprendere in mano Italia in cammino, dopo la sua apparizione nel 1927, e dopo il confronto e la polemica con la Storia d’Italia dal 1871 al 1915 del Croce, apparsa l’anno successivo.
Ce lo dice, senza possibilità di dubbio, il Volpe stesso nella ben nota prefazione alla III edizione di Italia in cammino: ossia in un documento di data, il 1928, insospettabile di posteriore rielaborazione di intenti. «Avrei voluto – egli scriveva allora – che la terza edizione di questa Italia in cammino segnasse anche un suo miglioramento: fra l’altro, maggiore sviluppo del primo capitolo, quasi introduttivo; il secondo, rielaborato tutto, arricchito di fatti e meglio motivato nei suoi giudizi; un altro capitolo sulla guerra e, perché no?, sul dopoguerra»2. Un programma, dunque, che, dal punto di vista cronologico, andava anche oltre il termine ad quem che l’autore finì (ma dovremo dire ancora qualcosa al riguardo) col mantenere in Italia moderna. Né si stenta a capire il perché: sarebbe stato difficile per Volpe, atteso il corso degli eventi, parlare dopo il 1945 del ventennio precedente con una credibile rivendicazione di animus soltanto storiografico.
Nella prefazione alla prima edizione di Italia moderna (come vedremo, tra il 1943 e il 1945) l’indicazione è ripetuta, ma modificata proprio per quanto riguarda questo proposito di estendere l’opera al di là della «vigilia della guerra mondiale», ossia al di là del termine cronologico al quale anche la nuova opera si arresta. «Quando – vi si dice – mi posi al lavoro, volevo solo preparare una nuova edizione della mia Italia in cammino, apparsa nel 1927; aggiungere o togliere o modificare qualche virgola, qualche frase, qualche giudizio. E per alcune pagine la mia fatica non andò oltre questi limiti. Ma ben presto i lievi ritocchi si moltiplicarono e crebbero di mole. Divennero restauri. E i restauri rifacimenti. Fino a che tutta la linea dell’edificio cambiò; anzi, crollato il vecchio edificio, ne apparve uno nuovo»3.
Dunque, però, un esplicito proposito non solo di non toccare la cronologia dell’opera, ma anche di procedere solo a «lievi ritocchi», anziché alle più sostanziose revisioni enunciate nel 1928; e qui una qualche posteriore rielaborazione di intenti si può supporre senza fare, con ciò, torto all’autore. Nel 1928 aveva, inoltre, dichiarato che, nonostante il desiderio nutrito dall’autore di una sua revisione, il libro ricompariva, dopo un anno, «quasi intatto, senza mutamenti e aggiunte», anche perché «metterci le mani avrebbe voluto dire […] rifarlo»4. Una esatta previsione, quindi, di quel che poi accadde, e una previsione che fa intendere molto bene come dei caratteri e dei limiti, nonché delle possibilità di sviluppo, della sua opera l’autore avesse una consapevolezza assai maggiore di quel che sembrerebbe trasparire dai propositi di revisione di Italia in cammino enunciati nella prefazione a Italia moderna. Il legame fra le due opere restò, comunque, assai saldo, fino addirittura nel titolo. «Troppi elementi mancano a questo libro perché io presuma considerarlo una storia dell’Italia modernissima» è, scritto, infatti, nella prefazione alla prima edizione di Italia in cammino5. «Italia modernissima» voleva dire qui l’Italia dell’ultimo cinquantennio, come era senz’altro esplicitato nel sottotitolo del libro del 1927.
Il nuovo titolo, Italia moderna, non era, dunque, solo dovuto al fatto che, come scriveva nella prefazione del 1945, gli eventi della guerra recente avevano «trasfigurato ai nostri occhi l’Italia di ieri. La vedevo in cammino. Ora la vedo fermata e ricacciata indietro, costretta a ricominciare dai muri maestri»6. Questo era certo il pensiero e, ancor più, il sentimento dell’autore nel 1945; non se ne può dubitare in alcun modo. Ma certamente nell’adottare il nuovo titolo agì, al di là di questo importante dato biografico e politico, una meditata convinzione storiografica, presente già nel 1927 e attiva in tutta l’opera di Volpe, almeno dalla prima guerra mondiale in poi: la convinzione, cioè, che la storia del Risorgimento e dell’unità italiana costituisse la storia moderna d’Italia, e quella dell’unità, in particolare, la sua storia modernissima.
Non si può mancare di riferirsi, a questo riguardo, a quel Piano per una Storia d’Italia in collaborazione, poi non realizzata, apparso tra il 1921 e il 19227, che è un documento da definire fondamentale del pensiero storico dell’autore in materia all’indomani, appunto, della prima guerra mondiale. Di quella progettata Storia il sesto volume recava il titolo Le origini dell’Italia moderna ed era dedicato all’Italia del secolo XVIII fino al 1815. Esso avrebbe ripreso il filo del volume precedente dedicato ai secoli XVI e XVII, che avrebbe dovuto porre in luce gli «attivi oltre che i passivi» di quei due secoli di storia italiana, e anche «considerar certi passivi come condizione e momenti di progresso»8.
Erano, evidentemente, questi «attivi» a costituire il filo moderno enunciato nel titolo del sesto volume. Tra essi – enunciati già nelle indicazioni date per il quinto volume, dedicato a Le lotta europea per la conquista dell’Italia e due secoli di dominio straniero nella penisola, XVI-XVII – era «una più energica e larga circolazione di idee fra l’Italia e l’Europa», anzi l’Italia che «vive nell’Europa più che non avesse mai vissuto»; una certa ripresa economica; il «sentimento nazionale scosso ed eccitato»; qualche guadagno «in omogeneità sociale e in unità territoriale», nonché nel «senso dello Stato»; l’acquisto, col Piemonte, di «una forza propulsiva e direttiva che aspetterà solo un più opportuno momento per farsi valere nazionalmente»9.
Su questi binari doveva procedere, anche nel volume sesto, l’esame delle «origini dell’Italia moderna». Esso avrebbe distinto la fase riformatrice e la fase, in ultimo, rivoluzionaria di questo periodo, di cui il Risorgimento, «visto nel suo complesso e nei risultati», sarebbe stato una «sintesi». Soprattutto, avrebbe ricercato come l’Italia impostasse in questo periodo «con crescente senso realistico e coscienza di se stessa i problemi che poi il [secolo] XIX affronterà di proposito e con le sole forze nazionali»10. Il Risorgimento rappresentava così la nascita dell’Italia moderna, della quale il secolo XVIII aveva rappresentato le origini.
In realtà, su questo profilo del Risorgimento come prima pagina dell’Italia moderna il Volpe tornò più e più volte. Egli stesso notava nel 1932 che la storia del Risorgimento aveva cominciato ben presto «quasi, direi, a dilatarsi», finché «sempre più fu guardato il Risorgimento come complessiva vita d’Italia», da studiare «entro un quadro più vasto, non italiano solo ma europeo», mentre dal 1815 si procedeva all’indietro e il XVIII secolo veniva assunto «come necessario punto di partenza del XIX secolo». In tal modo quella storia veniva «quasi dissolta nel quadro di quella vita, presa tutta in un processo di trasformazione, coordinazione, unificazione, ideali e vita pratica, cultura e politica, interessi privati e pubblici». E Volpe vedeva in ciò un modo, per il Risorgimento, «di alleggerirlo dalla ideale servitù della Rivoluzione Francese, considerata ancora da molti come il fiat lux della nuova coscienza italiana nel XIX secolo»11.
All’interesse e all’importanza di quest’ultimo accenno come indizio degli orientamenti storici e politici dell’autore è superfluo accennare, tanto sono evidenti. Si deve, invece, notare che il rischio era che, nel retroflettere e ampliare in tal modo, la materia risorgimentale, si venisse a coinvolgere tanta parte della storia italiana da rendere problematica l’individuazione degli elementi periodizzanti del Risorgimento e, quindi, per quel che si è detto, dell’Italia moderna.
Volpe era poi particolarmente predisposto a una simile conversione di una storia del Risorgimento nel primo capitolo di una storia dell’Italia, secondo la sua definizione, moderna. Il medievista che originariamente egli era stato aveva sempre avuto una preoccupazione dominante: studiare e intendere, cioè, la storia del Medioevo italiano come storia dell’Italia che nasce, ossia dell’Italia – spiegava nel 1968, riunendo per Vallecchi, sotto questo titolo, insieme con altri, una parte degli scritti già apparsi nel 1925 in Momenti di storia italiana – «che comincia visibilmente ad emergere dopo il Mille nella penisola dal caos delle invasioni e dominazioni germaniche, arabe, bizantine, con certa sua omogeneità etnica e di coltura e spirituale unità, rappresentata da una comune lingua letteraria che annulla o attenua le differenze dialettali, del diritto privato, da opere di poeti e scrittori di alta e altissima statura, da un ravvivato sentimento e conoscenza ed amore di Roma, quasi madre comune degli Italiani, riapparsa e quasi direi ricreata nella sua genuinità nel nuovo vivere civile e politico»12.
Era per una tale visione del Medio Evo italiano che a suo tempo – nella giustamente famosa recensione scritta per «La Critica» nel 1904 all’articolo del Neumann su Bizantinische Kultur und Renaissancekultur, apparso nella «Historische Zeitschrift» del 1903 – aveva esortato a «studiare inanzitutto il Medio Evo di per se stesso» e a parlare «meno di Latini e meno di Longobardi»13. E, dicendo «di per se stesso», voleva dire per il nuovo che nel Medio Evo era nato e che aveva creativamente, originalmente agito come nuovo: gli Italiani, appunto. Aveva ragione l’Ottokar rilevando che fra Salvemini e Volpe, «nello studiare il Comune», il primo «si interessava soprattutto al contrasto e alla lotta sociale come tali», mentre il secondo «cercava nel Comune prima di tutto la storia d’Italia nel Medioevo»14. Volpe lo riconosceva, nel 1963, egli stesso15. E che questa stessa visione del Medio Evo, espressa o implicita, sorreggesse fino in ultimo l’intera visione storica di Volpe avremo modo di vedere al termine di queste osservazioni.
Tutto questo non è una indebita illazione di chi studia Volpe. In un corso di Storia del Risorgimento presso l’Accademia Scientifico-letteraria di Milano, dove egli insegnò dal 1905 al 1924, egli predispose per l’autunno 1919-1920 una serie di lezioni molto bene edite nel 1998. Il piano di queste lezioni dimostra appieno quel che si è detto. La prima e la seconda lezione operano già, intanto, l’allargamento cronologico del Risorgimento al XVIII secolo, ma aggiungono che lo stesso secolo è, sì, il punto di partenza del Risorgimento, ma è insieme, a sua volta, «il risultato di un precedente processo storico». E, subito, almeno una diecina delle lezioni seguenti, di cui conserviamo il piano (in tutto, 26), sono dedicate alla storia d’Italia dal Mille in poi, ossia da quello che il Volpe da sempre considerava (abbiamo notato, al riguardo, le parole del 1968) come «punto di partenza dell’Italia che noi conosciamo» e che egli riteneva potesse «difficilmente […] esser posto avanti l’era dei Comuni, alla fine del Medio Evo»16.
Questo cenno al Mille, più o meno enunciato qui come «fine del Medio Evo», sollecita, e richiederebbe, invero, pur esso, qualche commento e chiarimento. A parte, però, tale particolare e diversa questione, fatto sta che quelle lezioni milanesi a stento giungono alle soglie del XIX secolo, con continui rinvii ai secoli precedenti anche dalla lezione XII in poi, quando comincia la più specifica trattazione del secolo XVIII.
Ciò sembra ampiamente confermare l’accenno che abbiamo premesso al fatto che il bisogno di definire in termini cronologici e problematici la dimensione moderna della storia d’Italia urgeva nello spirito del Volpe già dall’indomani della «grande guerra», e non si fa fatica a ritenere che urgesse anche e proprio in conseguenza della guerra stessa. A leggere, anzi, ciò che egli scrisse nel 1963 per la prefazione a Toscana medievale, la sua «passione medievalistica» aveva cominciato «ad illanguidirsi già un po’ prima della guerra»; e non sapeva dire se per «desiderio di un mondo un po’ diverso e più largo». Nella stessa occasione del 1963 sosteneva addirittura che già «tra il ’13 e il ’14», insieme con «un amico» non meglio precisato (ma era certamente Antonio Anzilotti), aveva delineato «il piano di una Storia d’Italia in collaborazione», per la quale vi erano stati «consensi, sollecitazioni, offerte editoriali, come quella di Prezzolini direttore della “Voce”, vòlto allora ad una sua attività di editore messa a servizio di un rinfrescamento della cultura». La guerra avrebbe poi interrotto «ogni lavoro preparatorio»17.
Quale valore attribuire a questa cospicua anticipazione del piano preparato per l’editore Zanichelli tra il 1921 e il 1922? Non sapremmo dire, tanto più che nella prefazione del 1964 Volpe parlava anche di «un ritorno di fiamma» della sua «passione medievalistica» durante la guerra18; e neppure saprei dire se sia vero che la recensione del 1921 alla Storia del Risorgimento politico d’Italia del Raulich ne «La Critica» del Croce sia stata scritta «con chiaro riferimento alla sua attuazione»19. Certo è che le cose dette nelle lezioni milanesi non solo corrispondevano appieno a quel che egli scrisse per «La Critica» nel 1921 recensendo il Raulich, ma confermano eloquentemente il nesso tra l’esperienza della guerra e il problema storico dell’Italia moderna che allora appare delinearsi davvero e pienamente nello spirito e nell’attività di Volpe. «La guerra, le sue alterne vicende, i suoi variamente apprezzabili risultati hanno particolarmente acuito – scriveva – il desiderio» di intendere cosa fosse e come si fosse formata e avesse vissuto, pensato, agito l’Italia protagonista di quella guerra e della vittoria, che poteva, fra altre conseguenze storiografiche, aver ricondotto «molti, magari per breve tempo, ad una visione ottimistica» della storia nazionale20.
Non si trattava solo di un’esigenza etico-politica, in qualche modo anche pratica, né solo di una comprensibile dimensione psicologica indotta (come accadde allora in molti) dalla travagliata vicenda della guerra. Si trattava, nel caso di Volpe, di un’immediata applicazione della sua riflessione di studioso al problema di una visione generale della storia d’Italia. Ne sono documenti evidenti ed eloquenti, oltre al citato piano per una storia d’Italia da pubblicarsi con l’editore Zanichelli, i due scritti, in ogni senso notevoli, su L’ultimo cinquantennio di storia italiana, del 192321, e su Albori della nazione italiana, del 192422. Interessante è anche notare la sede in cui apparvero questi due studi, ossia «La nuova politica liberale», il primo, e «Politica», il secondo: due riviste, dunque, di chiara connotazione politica, conferma ulteriore e ancor più preziosa della matrice di vita vissuta – vita intellettuale e morale e vita pratica e politica – dalla quale quei due scritti traevano origine (e, del resto, se mai dubbio vi fosse al riguardo, dovrebbe pur contare molto la immediata ripubblicazione de L’ultimo cinquantennio, nel 1924, in un volume dal titolo più che significativo, cioè Fra storia e politica).
Tutto ciò non permette di considerare, secondo il punto di vista del Cervelli, quella che in ultimo fu l’Italia moderna quale «autobiografia» dell’autore23. Quanto si è detto sembra comprovare ampiamente che la germinazione – non con lo scritto del 1923, ma ben prima, come si è visto, dal seno stesso della guerra, se non addirittura ancora prima, e già in forma riflessa nelle lezioni milanesi del 1919-1920 – degli interessi di storia contemporanea non ebbe a procedere nel Volpe da uno specifico problema autobiografico, né da un problema comunque individuale postosi singolarmente allo storico fino ad allora dedito a studi di storia medievale.
Quegli interessi appaiono nati, invece, da una temperie politica e culturale molto più generale e condivisa di quanto una qualsiasi idea di autobiografismo possa far pensare. Appaiono nati da una stagione di grande petizione e riflessione autobiografica, sì, ma della nazione italiana all’indomani di anni che avevano profondamente inciso nello spirito del paese. Nati, cioè, all’indomani di una guerra che, insieme con l’esaltazione della grande prova sostenuta e della vittoria finale, aveva posto al paese il problema di Caporetto, del ruolo e del livello dell’Italia fra gli alleati vincitori, dell’agitazione anti-bellica prima e dopo la guerra, del mutamento profondo del suo regime politico nel giro di pochissimi anni dalla fine della guerra: qualcosa di analogo, insomma, a quel che, in maniera e misura di gran lunga maggiori, accadde all’indomani della seconda guerra mondiale, un quarto di secolo dopo, quando alla storia italiana si posero domande ancor più radicali e si svolse una riflessione politico-storiografica ancor più generale24.
Altra cosa, naturalmente, sarebbe negare che nulla contasse l’aver vissuto, formandosi e operando, in quell’Italia degli ultimi cinquant’anni. Ad essa si cercava di volgersi ora, dopo la guerra, con occhio storico, alla ricerca di una prospettiva che desse profondità storica a vicende che rischiavano, altrimenti, di appiattirsi nella immediatezza disorientante del dibattito e delle lotte politiche di prima e di dopo della guerra. E si tentava di farlo e lo si faceva anche per il fascismo, del quale – scriveva Volpe nel 1928 – che era «mirabile e sorprendente la rapidità con cui è sorto e si è affermato», ma che neppur esso «è sorto dal nulla»25. Più che mai altra cosa sarebbe, poi, negare l’influenza (a dir poco, e come vedremo) delle vicende dell’autore nella redazione di Italia moderna durante gli anni e all’immediato indomani della seconda guerra mondiale. E, ciò, a non voler considerare l’ovvia, ma non per ciò banale o trascurabile, osservazione che autobiografica è sempre l’opera storiografica; è sempre, anzi, ogni momento è opera dell’uomo, e, a maggior ragione, dell’»intellettuale» o «chierico»; è sempre, comunque, in particolare, la storiografia. Lo stesso si può dire, del resto, della Storia d’Italia del Croce, al cui nesso con la parallela riflessione storica del Volpe abbiamo accennato (e vi ritorneremo) e la cui dimensione, nel senso or ora delineato, autobiografica è addirittura maggiore, con qualche inflessione perfino memorialistica, che ne accresce, peraltro, non ne riduce e non ne condiziona negativamente la valenza storiografica26: il che è, comunque, da dire anche per il Volpe.
Il titolo proprio de L’ultimo cinquantennio era L’Italia che si fa. Volpe ricordava nel 1965 come «nel 1922 o 1923 Luigi Einaudi, che veniva preparando una Storia economica dell’Italia durante la guerra, in più volumi, affidati ad altrettanti collaboratori, destinata a far parte di una più grande Storia di tutti i paesi già belligeranti», gli avesse chiesto di collaborarvi «con un capitolo introduttivo che presentasse ai futuri lettori di quella Storia economica dell’Italia in guerra l’Italia prebellica nel suo insieme». Volpe aveva trovato «il compito […] un po’ vago», ma aveva accettato. Aveva già pubblicato nel 1923 (l’invito di Einaudi era, dunque, del 1923) sulla «nuova rivista fondata proprio allora da Giovanni Gentile, di intonazione liberale-nazionale», cioè appunto «Nuova Politica Liberale», L’Italia che si fa, «un lungo articolo», come lo definisce, che trattava, «presso a poco, l’epoca e la materia stessa» che, «debitamente rielaborata e arricchita e adeguata al nuovo scopo», avrebbe dovuto trattare per Einaudi.
Lavorò, pertanto, a tale scopo quell’estate sulle Alpi, sotto il Monte Rosa, nella valle del carducciano Lys, ma non se ne fece niente, perché Einaudi «fece poi alquanto fredda accoglienza», sia a lui, sia al suo dattiloscritto. «Trovò – si chiedeva Volpe nel 1965 – che per una introduzione era troppo lungo (oltre 200 pagine)? Lo giudicò manchevole in assoluto? Gli parve che esso, nella sua genericità storiografica, male preparasse il lettore ad intendere l’Italia economica degli anni di guerra?». Volpe non scartava in quel 1965 neppure l’«ipotesi» che Einaudi vedesse in lui «il “fascista”, anzi il deputato fascista andato a Montecitorio proprio quell’anno», ossia nelle elezioni del maggio 1924, prima delle quali aveva «conchiuso il patto di collaborazione con Einaudi» e dopo delle quali, dunque, Einaudi gli dové fare quella «alquanto fredda accoglienza». Vero è che Volpe dichiarava pure, sempre nel 1965, di non ricordare «tutti i particolari del [suo] incontro-scontro» con il grande economista. Fatto è che «il volume [come ormai senz’altro l’autore definisce quel suo lavoro], accresciuto un po’ di mole, si fece avanti, dopo qualche anno, solo soletto, con un suo proprio editore», ossia col Treves, a Milano, nel 1927, «e con un titolo – prosegue l’autore – che arieggiava un po’ quello da cui aveva preso le mosse», ossia Italia in cammino (un titolo, per la verità, che era un sinonimo, assai più che un arieggiare. del precedente)27.
Della successiva trasformazione di Italia in cammino in Italia moderna, dalla quale abbiamo qui preso le mosse, si deve, dunque, concludere – da tutto quanto finora si è detto – che il pensiero si affacciasse nell’autore già all’indomani della pubblicazione del primo libro sub specie di un rifacimento o ritocco di quest’ultimo e che poi abbia preso la forma di Italia moderna quando egli si mise seriamente al lavoro. Ma, appunto: quando ciò avvenne? Non crediamo di andare lontani dal vero supponendo che il proposito di scrivere una storia dell’Italia moderna quale egli la intendeva si sia definito in rapporto a quel Piano della storia politico-diplomatica dell’Italia moderna che Volpe ricordava come messo in cantiere dall’ISPI «alla vigilia dell’ultima guerra»28.
Tutto quadra con la cronologia che conosciamo: primo volume già stampato nel luglio 1943; il secondo e il terzo volume «scritti a pezzi e a bocconi, in luoghi diversi, a volte con mezzi di fortuna, in circostanze che certi mesi seppero di romantica avventura»; il secondo volume, «nell’estate del ’43» già «vicino al termine» e apparso poi con Sansoni nel febbraio 1949; il terzo volume scritto sostanzialmente dopo il 1945 e apparso, sempre con Sansoni, nel gennaio 1952, quando l’autore, «ricevendo le prime copie», ebbe il senso di essersi sgravato di un grosso e grave peso: «finalmente – scriveva – anche questa è fatta! bene o male, ma fatta […] Finalmente non ci si pensa più»29.
In questa ultima occasione Volpe si chiedeva pure, peraltro, se fosse vero che poi non vi avrebbe più pensato; se il terzo volume, che aveva appena ricevuto, fosse davvero «proprio l’ultimo» della sua opera; «e – si chiedeva – quelle due o trecento pagine dattiloscritte di un quarto volume che dormono da anni in uno scaffale?»30.
Da anni? ci chiediamo noi, a nostra volta. L’accenno è, infatti, importante. La nota in cui esso ricorre non porta data, ma il riferimento al ricevimento delle prime copie del terzo volume induce a credere che sia dei primi mesi del 195231. Ciò dovrebbe significare che Volpe aveva in un primo momento condotto la narrazione oltre il limite del 1914, intendendo probabilmente trattare anche della «grande guerra» e, come aveva detto nel 1928 per Italia in cammino, di quel dopoguerra. Certo, viene separata così la redazione de Il popolo italiano fra la pace e la guerra, l’opera che sull’Italia del 1914-1915 Volpe pubblicò nel 1940, attribuendone la composizione al 1923-192432, sia dallo sviluppo assunto subito dall’Italia in cammino33 che, a fortiori, dalla genesi dell’Italia moderna. Viene, invece, a essere collegata la redazione delle pagine del 1923-1924 a quelle, Il popolo italiano nella Grande Guerra, che ne continuavano la narrazione dal 1914-1915 al 1915-1916, e che Volpe, invece, non pubblicò mai34. E, dunque, le due o trecento pagine pronte da «anni» per un «quarto volume» dell’Italia moderna non dovrebbero affatto coincidere con quelle in parte già pubblicate relative a Il popolo italiano dal 1914 al 1916. Ma, comunque sia di ciò, non pare verisimile che in quell’eventuale quarto e mai nato volume la narrazione si sarebbe spinta a trattare anche del periodo fascista. La situazione dell’Italia così mutata, dopo il 1945, gli aveva tolto la spinta a proseguire un lavoro nato in tutt’altra temperie etico-politica. «E allora – ricorda egli stesso – “cadde la stanca man”, come dice il poeta, anche se seguitò per qualche anno a muoversi su la carta»35.
Per qualche anno: cioè fino al 1947, quando l’opera fu rilevata da Sansoni, furono recuperate le copie del primo volume che la casa editrice «aveva salvato dal sequestro» dopo la pubblicazione ai primi di luglio del 1943 (sequestro deciso prima dal governo di Salò, a causa delle parole dedicata al Re e a Casa Savoia nella prefazione scritta nel maggio dello stesso 1943, e poi dal governo dell’Italia post-bellica); e questo primo volume, al quale fu annunciato che ne sarebbe seguito «presto» un secondo, circolò in tale, nuova prima edizione nella veste già approntata dall’ISPI, con la caratteristica copertina in cartone telato di colore grigio e con scritte in blu, sulla quale una striscetta dello stesso colore recava il nome del nuovo editore, con una sovracoperta sansoniana stampata ad hoc, con la prefazione che in parte riproduceva e in parte proseguiva quella del 1943 e che venne stampata in un sedicesimo, ora composto tipograficamente per la Sansoni e con la sua ragione sociale nel frontespizio, numerato romano e premesso al volume con evidente diversità di carta e di caratteri, nonché col colophon originale, recante ancora il «finito di stampare nel mese di luglio 1943-XXI nelle Industrie Grafiche A. Nicola e C. Milano-Varese».
Non era stato neppure del tutto facile il rapporto col nuovo editore. Le tracce che ce ne restano mostrano un Volpe un po’ impaziente di vedere apparire dopo tante peripezie la sua fatica, un po’ triste per l’isolamento nel quale si sentiva piombato, un po’ timoroso che gli venisse preclusa la possibilità di riacquistare fuori dell’Università e delle accademie e istituti scientifici una presenza e autorevolezza di studioso che valesse, fra l’altro, anche a prevenirne una damnatio memoriae come uomo e mercenario (non mancò questo accenno nelle polemiche di allora) del fascismo. E questo può essere servito da goccia che fece traboccare il vaso e fermò la corsa che la stanca man aveva continuato sulla carta per forza d’inerzia anche dopo il 1945, lasciando l’autore con quelle 200 o 300 pagine di un quarto volume a cui non avrebbe più ripreso ad attendere.
Così si concludeva nel 1952 una vicenda intellettuale ed editoriale durata una quindicina di anni. Volpe se ne professava in parte contento, in parte no, o, meglio, non del tutto. Ma la sua immedesimazione col libro appare profonda. Era un po’ l’opera della sua vita. Sanciva che la sua svolta di studioso da medievista a modernista dopo il 1918 aveva avuto ancora più senso di quanto egli stesso non avesse pensato. Vi si rifletteva né più né meno che il corso della storia italiana del suo tempo, filtrato dapprima nella sua partecipazione alla lotta politica e poi nella sua riflessione sul fallimento del regime a cui aveva dato il suo consenso e la sua adesione. Il regime – avrebbe scritto nel 1949 – verso il quale egli si sentiva ora nella condizione di quegli «spiriti indipendenti, che ci furono, e neppure troppo pochi, anche allora, che lo accettarono, lo vissero in modo proprio, lo sentirono non come partito, ma come governo e azione collettiva dell’Italia»36.
Da questo corre molto, anzi moltissimo a postulare che «nei volumi dell’Italia moderna assai più che nell’Italia in cammino» la storiografia di Volpe si risolva essenzialmente in una parafrasi autobiografica del suo svolgimento intellettuale da Adua in poi, a conferma di un certo schema interpretativo della sua biografia intellettuale; biografia che si sarebbe sviluppata «dalla iniziale compresenza di un’esaltazione in chiave nazionalistica [….] e di un’inclinazione socialisteggiante»; e di qui l’esigenza di una «sintesi da realizzare, su queste premesse e a livello ideologico e storiografico, fra l’elemento sociale e quello nazionale insiti nella vita politica e nel divenire storico»; e, per giunta, una sintesi che «solo un credo nazionalista e virtualmente fascista poteva consentire, subordinando prima e dissolvendo poi la società nella nazione e nello Stato»37.
Lasciamo da parte la virtualità fascista, che è la controprova di una determinante interferenza ideologica in questo giudizio: il fascismo non era scritto nel destino di nessuno, e in particolare non era scritto nel destino degli uomini della generazione di Volpe, già del tutto formata e matura prima che esso si delineasse, tra il 1919 e il 1920, sull’orizzonte italiano. Più grave appare il profondo fraintendimento dei moduli storiografici di Volpe quali si dispiegarono con sostanziale costanza dall’inizio alla fine della sua attività di storico (e, in effetti, anche nella sua riflessione politica). Società subordinata alla nazione e allo Stato? Al contrario, se c’è tratto caratterizzante della storiografia da lui praticata, questo sta proprio nell’assoluto primato della plasticità con cui la società, la vita sociale, il movimento della società, i livelli e le figure della società sono rappresentati e vengono a costituire il succo – e, insieme, l’apporto maggiore – del lavoro storiografico di Volpe.
Lo rilevava ne «La Voce» Gustavo Boine, ossia una personalità certamente non vicina a lui per i suoi interessi etico-religiosi e filosofici, in un resoconto del 1912 che merita di essere considerato tra i più felici mai dati del modo di scrivere di storia proprio di Volpe. «La storia come la insegna Gioacchino Volpe – vi si legge – è storia complessa di molti fattori e di molte correnti intrecciate; storia in cui il fatto (gli uomini, l’avvenimento) scompare in una area piena di vita (economica, religiosa, civile), che sale, che converge, che cresce: storia senza scatti, senza bagliori. È un pullulare, un gorgogliare vasto di cose che non sono cose astratte, dove niente soverchia e niente è soverchiato. La vita, la storia vogliono essere abbracciate in tutta l’ampiezza loro, nella loro complessità, nella loro estensione. Non vedi la data, non vedi l’intreccio del particolare, non vedi nemmeno il racconto. Ti si fa vivo innanzi tutto il generale carattere d’un tempo e d’un paese. Pare veramente che ti cresca davanti tutto il torbido muoversi di una epoca nella sua vastità, tutto il torbido e tuttavia diritto e sicuro tendere, convergere della vita in una epoca data. È una storia dove hai pieno il senso del molto di confuso, del molto d’imprecisabile che si agita nella vita, dove non si procede con nette definizioni, per tracciati geometrici […] una storia che par gonfiare, crescere dal profondo, dal mondo crepuscolare dei bisogni elementari, dalle oscurità del sentimento e delle cieche necessità»38.
In questa storiografia la nazione è una realtà sociale e lo Stato è un’istanza sempre sospesa fra realizzazione e dover essere. Il noto giudizio crociano sulla sostanziale carenza di umanità delle storie scritte da Volpe (l’Italia che cammina, ma, come il precedente Medioevo, «non sente, non crede, non sogna; insomma – commentava Volpe – un robot»)39 aveva, nel suo stesso eccesso o pregiudizio40, il proprio motivo di validità, se non altro, nel carattere, appunto, estremamente aperto della ricostruzione e rappresentazione storica di Volpe, in cui sta anche il suo fascino, la sua forza storiografica, la sua capacità di individuare protagonisti impreveduti e forze latenti del movimento storico.
Altro discorso è poi, naturalmente, che ciò metta capo a una storiografia effettivamente complessa nella sua apparente naturalezza e scorrevolezza di procedimenti analitici ed espositivi e particolarmente costante nei suoi toni e moduli critici ed espressivi, pur nel progressivo arricchirsi delle sue rappresentazioni; a una storiografia che costruisca e trasmetta un senso più fluido che dinamico dei processi storici, fatta di chiaroscuri e di sfumature più che di dialettica: una storia di ampiezza indefinita più che storia globale o à part entière, racconto polifonico più che visione strutturata di questo o quel mondo o momento storico, più suggestiva ma anche meno incisiva di una delimitazione tematica e rappresentativa accentrata intorno a un motivo dominante che si imponga con la forza della sua evidenza.
Non avrebbe alcun senso opporre a una demonizzazione pregiudiziale una glorificazione incondizionata. La positività e la ricchezza di motivi dello storico Volpe ne soffrirebbero egualmente e sarebbero esposte a un opposto ma equivalente fraintendimento o disconoscimento. Come tanto spesso accade proprio nel caso di figure molto rappresentative e importanti, le ragioni dei loro limiti stanno anche nei motivi e nel senso della loro importanza e rappresentatività. Volpe non sfugge alla regola.
Altro discorso è anche, inoltre, che l’autobiografismo del libro venga inteso come un segno della intensa partecipazione del giovane Volpe al movimento e al dibattito culturale del suo tempo, a smentita di un certo orientamento a vederlo piuttosto alieno dai travagli di una formazione intellettualmente complessa, tutto compenetrato, piuttosto, di un certo nativo e corposo intuito e senso della realtà storica e politica, tutto prassi e consuetudine del mestiere di storico. Mente e gusto filosofico egli certo non dimostra in misura apprezzabile in nessuna delle sue pagine; ma senso dei grandi problemi – anche di metodo – della sua disciplina, attenzione ad almeno alcune delle grandi alternative intellettuali del suo tempo, particolare sensibilità (anche se non molto larga informazione) rispetto agli sviluppi del pensiero e della sociologia politica del suo tempo e rispetto alle articolazioni ideologiche di alcune delle principali idee-forza del suo tempo (nazione, capitalismo, proletariato, borghesia, classe media, classe dirigente, lotta di classe, colonialismo e imperialismo, Realpolitik, rapporto tra politica e morale o tra politica e cultura, e così via), questo sicuramente sì, e sicuramente in misura alquanto superiore a quanto di solito non sembri credersi.
Su questi versanti – egli ricordava – gli erano stati mediatori, negli anni giovanili di Pisa e alla svolta del secolo, Croce e Gentile. «Quando incominciai a fare lo storico e a cercare un orientamento ideale, al di fuori di quello che poteva darmi la personale esperienza della vita e la lettura di qualche pagina di Marx, lo trovai in scritti di Croce e di Gentile, critici di Marx e del suo materialismo storico», dice Volpe in certi suoi ricordi del 1968; e conclude: «aiutato da queste letture, io mi fermai ad una lettura non materialistica ma realistica della Storia»41. Si tratta – è evidente – di una versione alquanto semplificata della sua formazione più impegnatamente teorica e ideologica. Noi sappiamo che tra i suoi autori furono Pareto e Mosca, Sorel e Oriani, Labriola e Sombart, nonché una certa spinta del maggiore meridionalismo (Villari, Fortunato, Nitti, Salvemini) e una certa suggestione dei fermenti del mondo cattolico (Modernismo, Democrazia cristiana), e soprattutto il vario panorama intellettuale del primo Novecento italiano, specialmente, direi, Prezzolini e la «Voce», e non esclusi i possibili richiami dell’irrazionalismo, dell’attivismo, del dannunzianesimo e del futurismo di quegli anni 42.
È innegabile che tutto ciò non si sia mai composto in una ben definita, se non solida, architettura di pensiero. Col tempo il Volpe sarebbe stato, anzi, portato ad attenuare questa componente variamente teorica e concettuale del suo pensiero e della sua storiografia, fino a dichiarare – ad esempio, nella polemica con Omodeo del 193043 – una sua consapevole e volontaria opzione antifilosofica, dichiarazione che, per la verità, non aveva molto senso critico, anche se operata in nome di un certo spirito critico che si pretendeva attento ai «problemi pratici» di cui lo storico si deve far carico. Si può affermare, da questo punto di vista, che i primi anni dopo la «grande guerra» siano stati gli ultimi in cui l’attività e la riflessione storica di Volpe abbiano fatto ancora largamente tesoro del dibattito culturale contemporaneo, prima di chiudersi in una quasi esclusiva permanenza nei punti di vista e nei criteri che fino ad allora gli erano diventati familiari. Nei suoi lavori dalla fine degli anni ’20 in poi questo si avverte chiaramente, e sembra produrre un certo procedere di Volpe alla maniera di Volpe, un certo, se così si può dire, automanierismo piuttosto prevedibile nelle sue movenze critiche ed espositive.
Anche su questo piano il contraccolpo della seconda guerra mondiale non poteva mancare, e Italia moderna se ne è ampiamente giovato. Già il primo volume rivela una cura di ordine e di chiarezza nella organizzazione della materia e dei giudizi che colpisce chi ricorda il più elastico procedere a cui Volpe aveva assuefatto i suoi lettori. Il confronto con l’esposizione della corrispondente materia in Italia in cammino lo dimostra immediatamente. Il secondo e terzo volume si muovono nell’ordine e nello stile espositivo di Italia in cammino e mostrano nella prosa di Volpe un ritorno alle più felici movenze degli anni migliori. Con l’aggiunta, tuttavia, se non ci inganniamo, di una trepidazione connessa al grande dramma vissuto negli anni della composizione dell’opera, che toglie, per lo più, a quelle movenze, qualcosa di quanto in esse poteva apparire, ed era, di eccessivamente fluido o manierato.
Non è, questa, l’ultima ragione per cui sembra di poter affermare che Italia moderna è il capolavoro di Volpe. Quel libro risolveva, intanto, il «caso Volpe», ossia l’aspettativa, espressa nei suoi confronti durante la seconda metà degli anni ’20, che egli, dopo tanta produzione di monografie, studi particolari su singoli luoghi e istituti o momenti e problemi, «sesquipedali recensioni di libri altrui, volumi imbottiti di documenti d’archivio e di note erudite», desse luogo a una storia generale del Medio Evo o una storia d’Italia «o l’una dopo l’altra»44. Al Medio Evo aveva, in effetti, provveduto col volume del 1927; alla storia d’Italia con l’ampia, per quanto allora un po’ tagliata, voce dell’Enciclopedia Italiana. Non erano, però, la stessa cosa che l’Italia moderna: un ampio e organico lavoro di ricerca su un secolo di vita nazionale, delle cui ambizioni di riuscire opera di ampio respiro l’autore poteva dirsi, a ragione, soddisfatto.
Qual era, comunque, l’immagine storica che egli costruiva dell’«Italia moderna», ossia, come ormai sappiamo, dell’Italia unita? È proprio vero che, come l’autore dichiarava nel 1964, si trattava dell’opera diventata, «senza grandi mutamenti intrinseci, la più complessa e diffusa Italia moderna»45? O è vero, piuttosto, che la maggiore complessità e diffusione della seconda opera non è solo un dato di differenza materiale, ma è anche, e ben più, il segno di una riflessione storica molto più approfondita e complessa e, insieme, innovativa o divergente o modificatrice rispetto alla prima?
La risposta a questi interrogativi comporterebbe un esame testuale particolareggiato delle due opere. Qui basterà dire che, nell’insieme, la tela delle due opere è, effettivamente, la stessa e che, nell’insieme, concordano anche i giudizi su uomini, idee, movimenti etc. che formano l’oggetto del racconto storico di Volpe. E, tuttavia, si sente che è mutato l’animo; che non è più la stessa la prospettiva di tutto quel gran pullulare e germinare della vita italiana, soprattutto nel primo quindicennio del nuovo secolo XX, che lo storico rievoca. Ma paradossalmente, dal mutare (per Volpe, in peggio) della prospettiva l’opera guadagna, non perde. Quella che nel 1927 poteva essere considerata come un’opera di storiografia militante e di parte, troppo legata, nella sua stessa stringatezza, al dibattito storico-politico del momento, diventa ora un ampio affresco che espone, con notevole profondità di analisi e capacità di rappresentazione, su una tela di gran lunga più robusta e più distesa, una visione generale delle storia italiana del primo cinquantennio unitario non già secondo una dimensione autobiografica individuale, bensì secondo quello che era allora e fu poi il modo di vedere e giudicare le cose italiane di una parte importante dell’opinione e della cultura nazionale: e, quindi, già solo per questo, un’opera documentariamente importante, oltre che storiograficamente significativa e istruttiva, come è di tutte le opere storiche di respiro e di rilievo fuori del comune.
Neppure ora poteva dirsi risolta in maniera del tutto soddisfacente quella che l’Omodeo definiva «preoccupazione vivacissima […] della storia piena, totale, che non lasci sfuggire nulla»; della «storia di vasta tela, in cui ogni singolo elemento abbia la sua luce e il suo significato in riferimento e nel nesso con molti altri». Anche ora si poteva rilevare, volendo, che il Volpe offriva al suo lettore piuttosto un «fascio di fattori storici» che una loro sintesi unitaria effettivamente realizzata46. E si potrebbe altrettanto osservare che scarso appare sempre il polso della dialettica e del dinamismo storico rispetto a quello, che batte assai forte, del racconto polifonico, come lo abbiamo prima definito.
Si può, inoltre, aggiungere che nel merito dei giudizi (che sono anche dimensioni interpretative e rappresentative) del suo racconto persuada poco l’insistenza mantenuta, e perfino accentuata, dal Volpe sul ruolo del movimento nazionalistico quale (notava a ragione Romeo) «avviamento a un più pieno e integrale rapporto tra lo Stato e il paese e a una più intima fusione dei ceti o gruppi sociali e culturali componenti la nazione: interpretazione questa – proseguiva altrettanto a ragione Romeo – che non sembra confermata dalla storia successiva, e neanche rispondente al carattere di “risposta” borghese e antisocialista che il Volpe riconosce in quel movimento di contro al socialismo e al proletariato»47. A questo privilegiamento del nazionalismo si aggiunga quello della politica estera come prima e massima espressione e risoluzione della vita e delle forze di un popolo e di un paese; e si aggiunga che da questo doppio privilegiamento sono, in effetti, condizionati e conformati un po’ tutti i giudizi e la ricostruzione di Italia moderna (basti pensare a Giolitti, a molti aspetti del movimento operaio e del socialismo italiano).
Qui, però, più che in qualsiasi altra opera di Volpe riesce vero che «solo una personalità eccezionale di storico poteva sorreggere in una struttura saldamente unitaria un processo così vario e diverso»48, come egli in effetti ha sorretto la trama amplissima che aveva assegnato al suo amplissimo racconto. Riesce vero che specialmente nel richiamo alla presenza e allo sforzo collettivo degli italiani impegnati nella costruzione della nuova economia del paese o in grandi processi come quello della emigrazione «il Volpe ha scritto pagine dove la storia parla non solo alla ragione indagatrice, ma anche all’immaginazione e al sentimento morale»49. Lo rilevava anche Maturi, osservando a proposito della Storia d’Italia del Mack Smith, che, quanto alla «storia dell’operosità civile del popolo italiano, la storia che piaceva tanto al Cattaneo, non c’è alcuna traccia» nello storico inglese e che «per quell’aspetto della storia d’Italia bisogna sempre ricorrere all’Italia moderna di Gioacchino Volpe»50.
Si può però dire anche di più. Un critico non pregiudizialmente ben disposto, come Leo Valiani, non sottovalutava, naturalmente, né gli orientamenti politici di Volpe, né la loro ripercussione sull’opera dello storico e il carattere pragmatico di varii suoi atteggiamenti; ed era difficile sottovalutare questi elementi macroscopici, visto che Volpe stesso non se li nascondeva.
Questi, infatti, nella fondamentale e molto meditata prefazione a Toscana medievale, che abbiamo più volte citato, chiedendosi il perché delle sue riflessioni sul proprio passato di studioso, aveva scritto che a muoverlo a tali riflessioni aveva fra gli altri agito un «più vero perché. Ho voluto – diceva – mostrare che la mia vita di studioso, come del resto, di altri miei pari, non è stata la vita del “professore”, chiuso fra la cattedra e la biblioteca. Mi sono molto affacciato alla finestra; molto mescolato alla gente; molto, anche, partecipato, sia pure da personaggio secondarissimo, ma un po’ più che da spettatore, ai fatti del mio tempo e del mio paese»51.
Era una visione alquanto edulcorata del suo impegno politico, anche perché non si era trattato solo di affacciarsi alla finestra, né egli era stato tanto secondario quanto con troppo voluta modestia si professava. In compenso, non gli sfuggiva affatto che quell’«affacciarsi» aveva in qualche modo condizionato lo storico. Ma come e quanto? «Può essermene venuto danno: una certa discontinuità e frammentarietà di lavoro: piani disegnati, ma non attuati; forse qua e là qualche inconsapevole, non voluta contaminatio di storia e politica»52. E anche qui c’era un poco accettabile sminuire elementi fin troppo noti della sua vicenda.
Era verissimo, in effetti, che negli anni ’20 e ’30 egli aveva molto peccato in fatto di lavoro discontinuo e frammentario, ma soprattutto le contaminationes, di cui avvertiva la presenza nei suoi scritti di allora, erano state tutt’altro che un elemento marginale com’egli lo presentava. L’attacco che gli mosse Aldo Garosci per la Storia del movimento fascista, pubblicata per l’ISPI nel 193953, era certamente prevenuto, ma era tutt’altro che poco argomentato. Ma già Omodeo, nella citata recensione a Ottobre 1917, aveva puntualizzato bene l’essenziale di ciò che a questo riguardo si possono osservare. È anzi il caso di notare, sia pure per inciso, che il suo posto nel ventennio fascista non può mai cessare di apparire quello di uno della folta schiera dei grandi intellettuali che sostennero il regime; e che – quali che fossero i suoi motivi di riserva e di perplessità dinanzi al concreto svolgersi del regime, le sue convinzioni più da nazionalista e da monarchico che da fascista, le sue espressioni e manifestazioni insoddisfacenti per i più rigorosi fautori dello stesso regime, e quali che, a loro volta, fossero nei suoi riguardi le avversioni o i dubbi e gli atti ostili di tali fautori, a cominciare dallo stesso Mussolini – l’etichetta di fascista che di, conseguenza, gli rimase attaccata dopo il 1943-1945 può essere riveduta e corretta, a non può essere né radicalmente alterata, né, tanto meno, soppressa da nessun revisionismo storico54.
Tuttavia, forse anche da quell’affacciarsi, come lo definiva, sul proprio tempo, senza far vita solo da “professore”, «può esserne venuto – aggiungeva Volpe – a me ed ai miei pari qualche beneficio d’ordine storiografico: ricostruzioni storiche più vive, senso più concreto della storia, ogni fatto del passato materia di riflessione per il presente e viceversa, cioè un maggior ricollegamento storia-vita, anche quando si tratti di lontani eventi»55. E si poteva a buona ragione dire anche questo, ma in quel «maggior ricollegamento storia-vita» troppo spesso era stata la vita a prevalere sulla storia, non il contrario.
Valiani ben lo sapeva, e puntualizzava efficacemente la questione anche da un punto di vista generale. «La storiografia – scriveva – si distingue dalla polemica politica non necessariamente per l’impulso contingente di chi la coltiva, ma per la sua capacità di sollevarsi poi al di sopra di esso e di render giustizia anche a coloro che, nell’epoca da lui trattata, ebbero idee che l’autore non condivide». Ma proprio per questo Valiani riteneva che quella capacità di superiore giudizio, assente nel Volpe della Storia del movimento fascista, si ritrovasse «innegabilmente presente nell’Italia moderna, nella quale alcune delle doti che ne avevano fatto a suo tempo un grande storico, sono evidenti»56. E di ciò Valiani vedeva il segno nella considerazione che Volpe fa sia della democrazia liberale che del movimento socialista in Italia.
Per l’Italia pre-fascista, indubbio, naturalmente, è per Valiani che l’»esperienza e la […] fede politica» portavano Volpe soprattutto «a percepire le deficienze, effettivamente esistenti, del regime liberale», ma questo non che accrescere in Volpe «l’acutezza della sua analisi» di quel regime e rende la valutazione che egli ne fa «meno ispirata, meno alta di quella di croce», ma rende anche «più penetrante il suo occhio per il rovescio della medaglia»: ossia, «le contraddizioni dell’accentramento statale e del parlamentarismo, la gravità del problema del Mezzogiorno, il gretto egoismo dei ceti ricchi, il fatto che gli operai e i contadini avevano ricavato scarsi beneficii, o addirittura oneri soltanto nell’immediato, dai mutamenti economici e sociali recati dal Risorgimento, il peso dell’assenteismo e dell’opposizione dei cattolici, l’esistenza insomma di un grosso distacco fra lo Stato e la maggioranza del popolo». E la stessa illuminante penetrazione Valiani scorge nella valutazione di Giolitti e del giolittismo, anche se su questo punto egli ritiene di circoscrivere nettamente le critiche di Volpe (per le quali ricorda anche Salvemini). Meno persuasiva è per Valiani l’accento posto da Volpe sulla «espansione di potenza militare e coloniale in primo luogo» e sulla «esaltazione del sentimento nazionale o, per adoperare il termine esatto, dal quale Volpe non rifugge, nazionalistico»: una componente primaria di Italia moderna, della quale Valiani vede nella storiografia posteriore una scarsissima traccia, al contrario che per l’esame critico della vita politica e delle questioni interne dell’Italia liberale57.
Vero è che Valiani riteneva, peraltro, che Rosario Romeo avesse dato di Volpe «un giudizio troppo elogiativo»58. In realtà, neppure Romeo si asteneva da forti rilievi critici per lo storico di Italia moderna, e non solo perché vi vedeva «caduche certe visioni della politica estera» («anche se per intenderle si debba ricordare che espansionismo e colonialismo, oggi così discreditati, sono invece componenti essenziali della politica europea e mondiale fino alla prima guerra mondiale») e «difficile condividere la funzione che il Volpe attribuisce al nazionalismo prebellico» («avviamento a un più pieno e integrale rapporto tra lo Stato e il paese e a una più intima fusione dei ceti o gruppi sociali componenti la nazione»)59. Ma la comune valutazione di Italia moderna come grande opera storica è, certamente, un elemento probante della forza di penetrazione, di analisi, di rappresentazione dell’ultimo grande lavoro di Volpe.
Tutte le qualità riconosciute da Valiani a questo lavoro facevano sì che egli riconoscesse alla «molto più vasta e robusta Italia moderna» una qualità storiografica che contestava a Italia in cammino60. Ma soprattutto l’opera posteriore diede allo stesso Volpe una consapevolezza critica del proprio lavoro e un respiro di riflessione metodologica maggiori di quanto mai gli fosse accaduto prima. Nel 1964 si sarebbe chiesto se la distinzione del Croce tra una storiografia economico-giuridica e storiografia etico-politica non solo valesse al caso suo, ma fosse in se stessa sostenibile61. E non era solo una più forte consapevolezza critica del proprio lavoro e della sua disciplina che Volpe così raggiungeva nell’ultima e ancora operosa parte della sua lunga vita. Egli attingeva anche un livello di riflessione che dava un profondo senso unitario a tutto il suo lavoro sull’intero arco della storia italiana. «Come storico – avrebbe detto in alcune parole per il suo novantacinquesimo compleanno – ho tenuto gli occhi e l’animo fissi soprattutto su l’Italia mia patria, cercando di ripercorrerne la lunga e travagliata e complessa vicenda da Roma al Risorgimento, al Fascismo, a re Vittorio Emanuele III, di trovare l’unità e la continuità nella varietà, seguire il processo creativo, il processo di formazione della nazione e, in ultimo, dello Stato italiano»62.
Non avrebbe potuto compendiare meglio la direzione e il senso della sua attività storiografica, che in Italia moderna ebbe il suo momento climaterico per maturità e complessità di vedute, quale che poi sia il giudizio che si debba o si voglia dare del contesto in cui egli si pose con quella attività e del frutto storiografico che ne derivò, negli intenti e nell’opinione dell’autore e, ovviamente, sia negli studi storici che nella vita civile del paese.









NOTE
1 Si pubblica qui il testo inedito della relazione tenuta dall’Autore al Seminario di studi Gioacchino Volpe e la storiografia del Novecento, Milano 11-12 febbraio e Roma 3-4 marzo 2000 per la Fondazione Ugo Spirito.^
1 Si veda, comunque, l’Introduzione di F. Perfetti alla sua riedizione in ristampa anastatica di G. Volpe, Italia moderna, Firenze, Sansoni, 1958, per Le Lettere, Firenze 2002, vol. I, pp. V-XLVIII; e, inoltre, E. Di Rienzo, Un dopoguerra storiografico. Storici italiani fra guerra civile e Repubblica, Firenze, Le Lettere, 2004, in particolare pp. 33-75 e 244-296. A entrambi si rinvia anche per la bibliografia più recente, così come si rinvia ai due saggi su Volpe pubblicati in questo stesso fascicolo de «L’Acropoli» (tra l’altro, per l’orientamento politico del Volpe nell’ambito dei liberali nazionali prima e dopo della guerra del 1915).^
2 Cfr. G. Volpe, Italia in cammino, a cura di G. Belardelli, Roma-Bari, Laterza, 1991, p. 5.^
3 Volpe, Italia moderna, cit., vol. I, p. LI.^
4 Volpe, Italia in cammino, cit., p. 6.^
5 Ivi, p. 3.^
6 Volpe, Italia moderna, cit., vol. I, p. LIV.^
7 Vedilo in G. Volpe, Nel Regno di Clio (Nuovi “Storici e Maestri”), Roma, Giovanni Volpe, 1977, vol. I (unico pubblicato), pp. 123-140. Come informa una nota editoriale, ivi, p. 123, il Programma – tale la dizione originaria – fu scritto per l’editore Zanichelli, e ad esso, a suo tempo «largamente riveduto e rimaneggiato, con aggiunte e variazioni di stile, segue una Nota del 1967, ulteriormente esplicativa, la quale contiene degli avvertimenti assai utili e delle osservazioni di grande attualità che possono contribuire alla migliore comprensione dei problemi affrontati successivamente da quanti hanno portato a termine lavori collettanei dello stesso tipo».^
8 Ivi, pp. 133-134.^
9 Ivi, pp. 132-133.^
10 Ivi, p. 134.^
11 Da Storici del Risorgimento a congresso. Roma 1932, resoconto apparso in «Educazione fascista», luglio 1932, in G. Volpe, Storici e maestri, Firenze, Sansoni, 1967 (la prima edizione era del 1925), pp. 403-413: qui pp. 403-405.^
12 Cfr. G. Volpe, L’Italia che nasce, Firenze, Vallecchi, 1969, p. 5 (dalla letterina agli Amici lettori, datata novembre 1968; presso lo stesso editore era stato pubblicato a suo tempo Momenti di storia italiana).^

13 Così, per l’appunto si conclude la recensione, già in Momenti di storia italiana, pp. 137-165, e poi in L’Italia che nasce, pp. 161-187.^
14 Si vedono le lettere di Ottokar a Volpe del 10 agosto 1927, 18 agosto 1930 e di «qualche settimana dopo» in G. Volpe, Prefazione, in Idem, Toscana medievale. Massa Marittima, Volterra, Sarzana, Firenze, Sansoni, 1964, pp. XXVII-XXX: qui p. XXX.^
15 Nella citata Prefazione, che non è datata, ma fu scritta (cfr. ivi, p. VII) nel 1963, ed è di particolare importanza anche per la storia degli studi medievali in Italia.^
16 Cfr. G. Volpe, Lezioni milanesi di storia del Risorgimento, a cura di B. Bianco, Milano, Cisalpino, 1998, pp. 59 e 61.^
17 Volpe, Prefazione, in Idem, Toscana medievale, cit., p. XVIII.^
18 Ibidem.^
19 Così nella già cit. nota dell’editore in Volpe, Piano etc., in Idem, Nel regno di Clio, cit., p. 123.^
20 Volpe, Una “Storia del Risorgimento”, in Idem, Momenti di storia italiana, cit., pp. 331-332.^
21 Apparso ne «La Nuova Politica Liberale» 1 (1923), fasc. I, gennaio, pp. 30-40 e fasc. II, marzo, pp. 113-140, lo scritto fu poi compreso – arricchito di qualche pagina» – in G. Volpe, Fra storia e politica, Roma, De Alberti, 1924, pp. 7-78.^
22 Pubblicato in «Politica», Gli Albori furono poi compresi in Volpe, Momenti di storia italiana, cit., ad apertura, pp. 5-61, e poi, col titolo Alle sorgenti della Nazione italiana, in Idem, L’Italia che nasce, cit., ugualmente ad apertura, pp. 7-60.^
23 È la tesi svolta in I. Cervelli, Gioacchino Volpe, Napoli, Guida, 1977.^
24 Mi riferisco, naturalmente, in particolare, alle note opere di F. Cusin, S. Guarnieri, G. Colamarino etc., che redassero allora bilanci disastrosi dell’esperienza nazionale e, ancor più, dello Stato nazionale degli Italiani. Su questo momento politicostoriografico si desidera ancora un esame dettagliato e persuasivo, che sarebbe di grande interesse per la storia culturale e politica del paese, oltre che per lo sfondo europeo su cui la vicenda italiana si configurò.^
25 Cfr. G. Volpe, Lo sviluppo storico del fascismo, Palermo, Sandron, 1928, pp. 3-4 (notiamo che Lo sviluppo etc. era il primo dei «Quaderni dell’Istituto nazionale Fascista di Cultura», del cui Consiglio Volpe faceva parte).^
26 Cfr. G. Galasso, Croce e lo spirito del suo tempo, Roma-Bari, Laterza, 20022, pp. 380-385.^
27 Abbiamo citato dalla Nota del 1965 riprodotta con la prefazione del dicembre 1945 al I volume di Italia moderna e con il commento all’apparizione del III volume (commento non datato, ma presumibilmente del 1952, quando quel volume apparve), in G. Volpe, Storici e Maestri, cit., pp. 292-293. G. Belardelli, Introduzione, in G. Volpe, Italia in cammino, cit.,. p. VI n. 4, ricorda anche l’accenno in G.Volpe, Il popolo italiano fra la pace e la guerra (1914-1915), Milano, ISPI, 1940, p. 7, e nota giustamente che le due versioni del 1940 e del 1965 sono «un po’ discordanti, poiché si sostiene anche che l’Italia in cammino avrebbe dovuto costituire introduzione a tutta la serie progettata» dall’Einaudi: il che «non risulta dal programma [di quella serie] riportato in Per la storia economica e sociale della Guerra mondiale, in «Nuova Rivista Storica», maggio-giugno 1923, pp. 320-321». Ma bisogna pure ricordare che nella citata Nota del 1965 Volpe scriveva: «non ricordo tutti i particolari del mio incontro-scontro con il grande economista». Per la vicenda dell’impegno con l’Einaudi si veda, inoltre, A. Pasquale, Introduzione, in G. Volpe, Il popolo italiano nella Grande Guerra, con pref. di G. Belardelli, a cura della stessa A. Pasquale, Milano-Trento, Luni, 1998, pp. 11-19.^
28 Cfr. G. Volpe, Nota del 1964, apposta a Una scuola di storia moderna e contemporanea. Roma 1927-1943, pagine apparse nel «Corriere della Sera», in Idem, Storici e Maestri, cit., pp. 474-479.^
29 Dal già citato commento all’apparizione del III volume di Italia moderna, in Storici e Maestri, cit., pp. 285-288.^
30 Ivi, p. 286.^
31 Lo abbiamo già notato nella precedente nota 27.^
32 Volpe, Il popolo italiano tra la pace e la guerra, cit., p. 7 (si veda, inoltre, l’introduzione di F. Perfetti alla sua riedizione dell’opera, Roma, Bonacci, 1992).^
33 Italia in cammino sarebbe stato il primo capitolo dell’opera cominciata a scrivere per la serie progettata dall’Einaudi per la storia della guerra: capitolo che, «stanco di aspettare un domani che nn veniva mai, cioè la fine, prese il volo e se ne andò per conto suo, e fu l’Italia in cammino»: Volpe, Il popolo italiano tra la pace e la guerra, cit., p. 7.^
34 Formano il volume Il popolo italiano nella Grande Guerra, cit. alla precedente nota 27.^
35 Volpe, Storici e Maestri, cit., p. 290.^
36 Così in uno scritto del 1949, Dopo il fascismo. Bilancio, poi raccolto in G. Volpe, L’Italia che fu. Come un italiano la vide, sentì, amò, a cura di P. Operti, Milano, Edizioni del Borghese, 1961, pp. 213-225: qui p. 222.^
37 Cervelli, Gioacchino Volpe, cit., p. 258.^
38 Il brano del Boine è riportato in Volpe, Storici e Maestri, cit., pp. 257-258.^
39 Ivi, p. 265.^
40 Rientra nel pregiudizio, in qualche modo, rappresentazione dell’itinerario storiografico di Volpe come chiuso pur sempre nell’orizzonte del materialismo storico pur dopo il passaggio, che il Croce in lui denuncia, dall’interesse per la società e la storia sociale a quello per lo Stato e la storia politica: passaggio che viene qualificato come un «trapasso speculativo […] dall’estrema sinistra all’estrema destra hegeliana e, più determinatamente, dalla sezione della Philosophie des Rechts concernente la bürgerliche Gesellschaft, alla quale si abbracciava il Marx per isvolgerne la sua concezione materialistica della storia, alla sezione dello Staat, a cui si attaccarono i conservatori prussiani per isvolgerne la loro teoria dello Stato etico o prussiano». Peraltro, il Croce stesso dice qui, a proposito del «concetto nazionalistico», nel quale è il segno del politicismo di Volpe, questi «lo prende all’incirca e con temperamenti, e non con l’assolutezza del sistema o della passione». L’eccesso si può ravvisare nell’affermazione crociana che lo stile stesso di Volpe, «che è come spinto e affannato dall’onda incalzante dei fatti travolgenti, non tanto esprime la concretezza storica quanto l’agitarsi di una cieca forza, ed è senza riposi, perché quei fatti non sono spiritualità resasi trasparente alla spiritualità, e non trovano il riposo nell’intelligenza che appieno li domini». Cfr. B. Croce, Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono, Bari, Laterza, 1964, vol. II, pp. 232-239.^
41 Cfr. G. Volpe, Ricordi di scuola, di studi, di amici, in Idem, Nel regno di Clio, vol. I, cit., p. 285.^
42 Sulla formazione di Volpe manca un lavoro specifico e soddisfacente.^
43 La polemica nacque dalla recensione dell’Omodeo (in «La Nuova Italia», luglio 1930) a G. Volpe, Ottobre 1917. Dall’Isonzo al Piave (Roma, Libreria del Littorio, 1929; poi, in seconda edizione, nel 1930). Alla recensione il Volpe reagì con una Lettera al recensore, sul numero successivo della stessa rivista, e a lui replicarono il direttore della riivsta, Luigi Russo, e lo stesso Omodeo. La recensione di quest’ultimo, la sua replica e quella del Russo si possono vedere in A. Omodeo, Libertà e storia. Scritti e discorsi politici, Introduzione di A. Galante Garrone, Torino, Einaudi, 1960, pp. 48-60.^
44 Volpe, Toscana medievale, cit., Prefazione, p. XIX.^
45 Ivi, p. XXIII.^
46 Omodeo, nella recensione a Ottobre 1917, in Idem, Libertà e storia, cit., p. 51.^
47 Cfr. R. Romeo, Italia moderna, già in «Il Resto del Carlino», 25 marzo 1960, quindi in Idem, Scritti storici (1951-1987), Introduzione di G. Spadolini, Milano, Il Saggiatore, 1990, p. 31.^
48 Ibidem.^
49 Ibidem.^
50 Cfr. W. Maturi, Interpretazioni del Risorgimento. Lezioni di storia della storiografia, Prefazione di E. Sestan, Torino, Einaudi, 1962, p. 691.^
51 Volpe, Toscana medievale, cit., p. XX.^
52 Ibidem.^
53 Vedi ora la recensione in A. Garosci, Pensiero politico e storiografia moderna. Saggi di storia contemporanea, vol. I [unico pubblicato], Pisa, Nistri-Lischi, 1954, pp. 117-123.^
54 Ciò non significa che si possa ritenere di risolvere il “problema Volpe” parlando del “fascista Volpe”, Si vedano le osservazioni di R. Romeo, Per Volpe (in Idem, Scritti storici, cit., pp. 322-323), sul Gioacchino Volpe di Innocenzo Cervelli, sopra citato.^
55 Volpe, Toscana medievale, cit., p. XX.^
56 Cfr. L. Valiani, La storiografia italiana sul periodo 1870-1915, già negli atti del I Congresso nazionale di Scienze storiche, organizzato dalla Società degli Storici Italiani, Perugia 9-13 ottobre 1967 (La storiografia italiana delgi ultimi vent’anni, Milano, Marzorati, 1970, vol. II, pp. 675-771), poi in Idem, Questioni di storia del socialismo, Torino, Einaudi, 19752, pp. 280 segg.: qui p. 293.^
57 Ivi, pp. 293-296.^
58 Ivi, p. 294.^
59 Romeo, Italia moderna, in Idem, Scritti storici, cit., pp. 31-32.^
60 Valiani, La storiografia etc., in Idem, Questioni di storia del socialismo, cit., p. 280.^
61 Si veda la prefazione a Toscana medievale, cit., XXI-XXVI.^
62 Volpe, Nel regno di Clio, cit., pp. 291-292.^
  Cosa ne pensi? Invia il tuo commento
 
Realizzazione a cura di: VinSoft di Coopyleft