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PER LA DIALETTICA E L’INSEGNAMENTO DELLA STORIA
di Giuseppina D'Antuono
La presenza del recente volume Per la didattica della storia nella collana “Prima pagina”, diretta da Giuseppe Galasso per l’editore Guida, è il risultato di una sinergia intellettuale tra gli autori Giovanni Carosotti, Fabrizio Bacciola e Valeria Sgambati i quali hanno condiviso il complementare obiettivo di sottrarre la didattica della storia al campo esclusivo delle metodologie laboratoriali e di restituirla alla disciplina storica, suo naturale settore di appartenenza.
Fin dalle prime pagine introduttive il lettore è coinvolto dagli autori in una riflessione in merito alle ripercussioni deleterie della “crisi della storia” sulla storiografia e la didattica1, che vuole essere anche l’incipit di un dibattito sull’insegnamento della storia. Gli autori, infatti, piuttosto che fornire un mero strumento didattico, hanno inteso affrontare una spinosa questione «preliminare a qualsiasi pratica d’insegnamento», che coinvolge il futuro della scienza storica nella formazione di studenti e docenti in Italia. E difatti termine a quo della trattazione è proprio la duplice domanda: qual è la direzione assunta dalla scuola secondaria degli ultimi anni? Qual è la reale natura riformatrice di tali provvedimenti? È dunque la natura degli obiettivi che consente di distinguere questo volume all’interno del contesto generale delle ultime pubblicazioni di didattica della storia. Non vi è dubbio, infatti, che fino a qualche anno fa l’attenzione di parte degli storici, dediti al problema dell’insegnamento, è stata catturata da questioni di ordine normativo e pratico (risultati deludenti dell’insegnamento; scarso interesse per la preparazione dei docenti; solitudine dei docenti di scuola, schiacciati tra prescrittività dei programmi ministeriali, disinteresse degli studenti e scarso numero di ore a disposizione)2. Invece in questo caso il messaggio per nulla sibillino degli autori, pur salvaguardando le specificità dei dibattiti sull’insegnamento della storia e sulle attuali strategie didattico-pedagogiche, mette in evidenza il ruolo della disciplina storica con i suoi nodi teorici e il fondamentale peso della generale storia italiana in ogni riforma della scuola.
Così nel primo capitolo, La filosofia della storia e la didattica, Carosotti presenta alcune reali alternative alla “crisi della storia” e al “pessimismo sconsolato” con l’intento di superare ogni sistema di pensiero che, subordinando l’impostazione metodologica «alla formazione politica e all’educazione morale del cittadino», costituisca un’occasione perduta per la didattica della storia. Al riguardo, si chiede l’autore, quando è stato affrontato il problema della comunicazione storica rispetto al “sostanzialismo”3? Diversi gli auspici, poche le concrete soluzioni. Sembra, infatti, che a tutt’oggi il rifiuto del passato non solo persista, ma che abbia come conseguenza il rifiuto della dimensione storica tout court. Ed è in tale misconoscimento della disciplina da parte di chi riforma la didattica della storia su queste basi gnoseologiche che Carosotti legge l’effetto d’impoverimento del ruolo della storia nella scuola. Per la didattica della storia si propone allora l’obiettivo di destrutturare le critiche alla filosofia della storia, le cui ripercussioni hanno condotto anche alle note pratiche didattiche di uno studente potenziale “storico”. Infatti, secondo l’autore, come la sintesi anche la parzialità e la settorialità sono aspetti complementari di un’unica Weltanschauung che ha elevato l’aspetto metodologico del “saper fare” al tutto e ha rifiutato l’autonomia epistemologica della disciplina storica4. E nel porsi nella prospettiva del superamento di tali atteggiamenti dogmatici Carosotti ricorre al pensiero di Galasso, nel quale lo storicismo si materializza come auspicio criticometodologico e come dimensione in toto legata al recupero della tradizione degli antichi.
A tal punto in questa sede sembra possibile tracciare alcune coordinate utili per una discussione sulla didattica della storia: definire le ragioni autentiche della disciplina; recuperare l’equilibrio tra i processi dinamici; definire il senso della storia come costruzione di soggetti attivi; discutere la categoria di futuro in rapporto al passato. La storia si ri-delinea come progresso e ricerca di equilibrio nella rivendicazione dell’indipendenza del “fare storia” in questo lavoro che suggerisce non solo una difesa dell’autonomia della disciplina5, ma al contempo rifiuta la pretesa compatibilità tra passato, presente e futuro. Inoltre nella ridefinizione delle posizioni critiche occorre eludere ogni sistema interpretativo “chiuso”, così come non schiacciare il tutto sull’ansia formalizzatrice che vanta il “merito” di aver ridotto la complessità, incidendo solo sulla quantità. Se s’intende dunque evitare il dogmatismo, responsabile di aver disseminato il campo della didattica di nozionismo, occorre offrire un ventaglio di posizioni critiche e di alternative metodologiche insegnando la storia della storiografia. Tale percorso realizzato nel secondo capitolo rappresenta l’indizio sicuro che l’orizzonte d’attesa degli autori non è rappresentato solo dagli storici di mestiere, quanto dai futuri docenti che necessitano della conoscenza dei metodi delle ricerche degli storici antichi prima che dei moderni.
In questa prospettiva s’inserisce a cura di Valeria Sgambati la lunga e complessa filiera storiografica che ha come terminus a quo le radici classiche del racconto storico, che costituiscono nella tradizione occidentale un contributo fondamentale nella formazione dell’uomo contemporaneo. Ciò che sembra più interessante è proprio la trama della storia dell’Europa occidentale che fitta coinvolge il lettore in un iter, che va dalla scoperta della storiografia al progresso, fino alla svolta segnata da Sant’Agostino. Si delinea così una vera e propria storia della cultura europea segnata dallo sviluppo del processo di secolarizzazione nel Rinascimento, allorché Croce e Fueter ritenevano che avesse fine la minuziosità di una storia voluptas a vantaggio di una storia utilitas e suggerivano di legare in una trattazione storica i contesti al singolo, dando prova della concretezza del modello nella convergenza tra individuo e collettività. E difatti è dell’applicazione di questo metodo in Fueter, Giarrizzo e Croce che si può cogliere lo “spirito storiografico”.
Al riguardo in merito alle categorie di contesto, tradizione e rinnovamento Carosotti ancora nel secondo capitolo mostra la fruttuosità del metodo comparativo, della circolarità di idee e della nascita delle tradizioni nazionali, includendo i momenti di crisi preambolo del superamento delle crisi stesse. Facendo leva su tali suggerimenti egli dà prova dell’applicazione del metodo dialettico e del proficuo rapporto innovazione/tradizione, mostrando un modello di “vita maestra di storia”, in accordo con Galasso e Gaetano De Sanctis nel rifiutare la tipologia dello storico terapeuta dei mali del presente. Un modello insomma positivo che emerge dalla sintesi di una lunga disamina di storici del Novecento europeo è quello di una storia totalitaire à part entière: una storia globale attenta alle permanenze e al sociale, che non lavora per l’eclissi dello storico6, di una storia risolutrice di quel contrasto di meineckiana memoria tra etos e kratos, e pertanto sempre contemporanea in quanto nata dalle esigenze del presente. Trovano spazio in tale analisi su un ’900 chiusosi paradossalmente «con una profonda stanchezza», anche le prime manifestazioni del revisionismo di Nolte, Furet, De Felice, che a parere della Sgambati, hanno avuto il «merito di allargare la prospettiva storica», storicizzando «meglio eventi e fenomeni».
Gli autori riconoscono alla storia un movimento doppio sul binario etico e conoscitivo, nonché una duplice funzione gnoseologica e pedagogica. Nella consapevolezza della validità di un’ampia discussione nel testo si snoda la filiera della storiografia nelle più alte espressioni dello storicismo europeo, financo nelle sue propaggini post-positivistiche, quale risposta del costruttivismo storicistico tanto agli effetti del sostanzialismo, che ha inciso su generazioni di storici e docenti e su manuali, quanto in risposta alle correnti postmoderniste. Dunque occorre tornare ai cardini del pensiero antico, tenendo in considerazione anche le teorie emancipatesi dalla filosofia della storia in un progetto di trasmissione dei saperi mai sganciati dalle competenze metodologiche.

2. L’ultima pagina del secondo capitolo si profila come la giusta introduzione alla materia, oggetto di trattazione del terzo e del quarto capitolo che appaiono così come un unicum. L’insegnamento della storia in Italia dall’unità fino agli anni ’50-’60 di Carosotti e La scuola italiana e l’insegnamento dagli anni ’60 ad oggi a cura di Bacciola sono da inquadrarsi, come già detto, tanto come un unicum, che come parte seconda del volume dialogante per temi e per contesti cronologici con la prima. Ben oltre la retorica dell’innovazione – al meglio rappresentata dalla dizione “logica iconoclasta” – che distingue le ultime metodologie pedagogiche d’insegnamento, occorre piuttosto stabilire quanto esse rischino di pregiudicare la disciplina storica, allorché negano l’utilità delle ricostruzioni storico-critiche dell’intero dibattito sull’istruzione italiana a partire dal 1860 ad oggi. A fronte di tale svalutazione si è voluto mettere a fuoco i termini dello sviluppo politico-culturale italiano, assumendo quale osservatorio privilegiato l’insegnamento della storia dall’Unità, per meglio articolare, se non correggere, «il giudizio storico, spesso prevalso, su periodi o fasi della storia italiana».
Se è vero che «la storia trae una spinta dal presente» e che «nel presente si muove l’interesse alla storia», e se è vero pure che «la storiografia segue il cammino inverso dal presente al passato», si può senza dubbio stabilire che anche in questa seconda parte la natura del testo è tanto storica che storiografica. È una posizione condivisa dagli autori, alieni da atteggiamenti antidialettici, oggi à la mode, praticati da chi misconosce i debiti delle proprie posizioni da quelle del passato. Occorre allora lavorare sulle proposte attuali e su quelle simili precedenti, per distinguere solo in un secondo momento «le esigenze prettamente ideologiche da preoccupazioni di ordine specificatamente didattico», per poter «smascherare le reali intenzioni di molte delle proposte pedagogistiche».
L’iter storico della scuola italiana prende le mosse dall’azione del ministro Lanza e dalla legge Casati e, dopo aver stabilito l’importanza della legge Coppino, privilegia come prima tappa la cultura italiana nell’età della “sinistra storica” che ebbe, infatti, come già Ricuperati affermava, il merito di inaugurare un fecondo dibattito sulla didattica della storia, sebbene aprisse ad un nozionismo che separava la storia dalla storiografia. In quel contesto s’inseriva Antonio Labriola, il quale sostenitore di innovazioni didattiche non rifiutava in maniera pregiudiziale il dogmatismo positivistico, insistendo piuttosto sull’importanza d’incidere sulla formazione. Per quanto fondamentale l’insegnamento della disciplina in difesa della libertà del docente e nel rispetto del metodo della didattica razionale, Labriola nel 1876 sferrò una dura critica ai pedagogisti, convinto che la pedagogia come «disciplina scientifica» fosse estranea alle discussioni pratiche.
È su questo punto che ci si può soffermare per riflettere su un paradosso emerso nel volume. A fronte delle innovazioni legittimate in nome del “saper fare” nei laboratori, di cui sono infarcite le indicazioni ministeriali degli ultimi anni, occorre chiedersi com’è spendibile oggi in un dibattito sulla didattica della storia la posizione di chi, come Labriola, difendeva l’epistemologia della disciplina e la sua funzione educativa rivendicando da storico-filosofo l’appartenenza al mondo della pratica, rispetto a quella di coloro che come i pedagogisti si definivano i soli detentori della primarietà della pratica sulla teoria7? È plausibile dalla critica labrioliana trarre spunti di riflessione in vista di un confronto tra storici e pedagogisti? In altri termini è questa una questione attuale o superata? Secondo Labriola, infatti, nessuna “operazione” didattica per quanto valida doveva eludere il senso critico dello studente. In quale modo allora stimolare l’interesse degli studenti? Offrendo interconnessione, interdisciplinarità, conservando altresì quel senso critico per il futuro. E d’altronde era proprio questo l’aspetto sul quale anche Salvemini innestò la difesa dell’autonomia dello studente.
La vera svolta nella didattica, a parere di Carosotti, si ebbe a partire dall’età giolittiana durante la quale, se è vero che si accentuò il carattere ideologico dei programmi, tuttavia un più stratificato dibattito si sviluppò grazie alla Federazione Nazionale degli Insegnanti della Scuola media. Quel trend, sebbene confortante e in ascesa, non avrebbe impedito un arretramento italiano nella politica scolastica. Insomma sembra chiaro che ancora una volta l’humus della riflessione storiografica e il contesto del dibattito sulle riforme non potevano non riflettere la dimensione socio-politica ed economica del paese. La storia, che come ha notato Gianni Di Pietro, doveva «coltivare, rafforzare il sentimento di solidarietà nazionale» si liberava lentamente dal nozionismo e dalla pretesa assurda di eliminare ogni tentativo di interpretazione. Si ritenne opportuno stimolare lo studente alla ricerca, all’analisi, all’interpretazione dei documenti, facendo altresì fronte alla generale situazione di impreparazione dei docenti. In questo orizzonte Gentile sottolineò la continuità con Salvemini, privilegiando l’iter formativo della scuola classica. «Lo studio della storia» – scrivevano Salvemini e Galletti – «doveva educare gli alunni all’osservazione dei fatti politici e sociali, e dare a essi la coscienza sicura della continuità e complessità e causalità del processo storico»8. È al ministero di Croce che va riconosciuta però la sintesi di diverse esigenze didattiche con una maggiore propulsione all’insegnamento finalizzato alla formazione di una personalità morale. Ed è questa un’ulteriore prospettiva che potrebbe, accanto a quella labrioliana, fornire altri spunti di riflessione e non pochi elementi utili all’interno di un dibattito aperto, che ridefinisca i cardini della didattica all’interno della disciplina storica. Se Croce ribadiva da un lato la priorità degli studi classici, dall’altro difendeva la razionalità metodologica; inoltre, pur ammettendo scarse competenze pedagogiche, guardava alle capacità cognitive degli studenti. A suo parere l’insegnamento della storia doveva contenere tre momenti: la sequenza cronologica lineare, la narrazione e la critica senza esulare dai contesti geografici, tenendo fede alla funzione civica di un’istruzione competente ed oggettiva. Questa tendenza pedagogica seppur didatticamente più efficace non prevalse.
A fronte del rifiuto gentiliano di una filosofia della storia, Carosotti, propone un quesito che apre a qualche spunto di riflessione. Egli si chiede, in linea con il Mondolfo, se il carattere estremistico dei programmi di storia del 1923 abbia avuto un esito didattico involontario, che oltre a vanificare i tentativi di correzione della pedagogia positivistica, abbia di fatto rafforzato il nozionismo. Appare chiaro quanto la complessità dell’argomento non si esaurisca in un capitolo; infatti, non a caso l’autore dedica spazio al dibattito che si aprì sulla «Nuova Rivista Storica», indizio dell’avversione all’abbinamento della storia alla filosofia, alla pratica della sintesi causa di nozionismo e formalismo.

3. Fu solo durante il secondo dopoguerra che a parere di Carosotti – come aveva notato già Cantimori – quel dibattito storiografico fecondo fu il preludio alla vera innovazione anche nella didattica della storia che si ebbe nei primi quindici anni di storia repubblicana.
Alla storia e alla scuola si attribuiva la funzione di costruzione dell’identità del popolo italiano e, lavorando alla rifondazione dei programmi, nei temi si riprendevano questioni affrontate da Labriola anche se con presupposti metodologici ancora elitari. L’autore, pur incontrando la stessa difficoltà messa a fuoco da Ricuperati nel descrivere il passaggio della scuola italiana dalla dittatura fascista alla democrazia, tenta di superare l’ostacolo, soffermandosi sulla sostituzione dei manuali e sui programmi.
La vera trasformazione del sistema scolastico sarebbe avvenuta solo negli anni sessanta del ’900, quando si sentì l’esigenza di rinnovare l’offerta formativa del sistema scolastico dello Stato adeguandola alle istanze della società fordista. La politica italiana rispose sviluppando il livello d’istruzione tecnico-professionale, liberalizzando l’accesso all’Università. Ma alla crisi di questo modello socio-economico, scrive Bacciola curatore del quarto ed ultimo capitolo, si reagì con delle micro riforme e si forgiarono i modelli dell’autonomia scolastica con la legge Bassanini che proponeva alla sua base un modello deleterio di studente-consumatore.
L’autore scettico nei confronti di tale modello mostra l’importanza di capire la genealogia della crisi identitaria della disciplina storica all’interno delle riforme, suggerendo indagini che partendo dalle acquisizioni di Ricuperati possano illustrare le modalità con le quali differenti ideologie dagli anni Sessanta hanno minato le basi dell’epistemologia storica e di conseguenza scosso i pilastri dell’insegnamento. Per comprendere quanto affermato sinora, si può riflettere sul fatto che Bacciola scelga come annus mirabilis di approdo ad un presunto stato d’inutilità della storia il 1997 quando, oltre all’entrata in vigore della legge Bassanini, furono pubblicati Sull’utilità della storia: per l’avvenire delle nostre scuole di Piero Bevilacqua e Se la storia ha un senso di Remo Bodei. Si tratta di tre effetti di una svalutazione della dimensione storica, prodotta rispettivamente dalle costruzioni ideologiche prima löwithiane e poi lyotardiane, causa di un “suicidio disciplinare”. In tale prospettiva si collocano i fitti richiami intertestuali che intessono la trama della prima e della seconda parte del volume.
Questo lungo iter è scandito nelle sue fondamentali tappe da Bacciola sin dalle operazioni sessantottine di decostruzionismo dell’istituzione scuola di matrice althusseriana, passando per l’importanza sociale e disciplinare dei programmi Brocca, fino ai provvedimenti scolastici del nuovo riformismo del centro-sinistra guidato da Prodi. Insomma mentre si stendevano i programmi a cura di Ivo Mattozzi e Piero Bevilacqua delineava il profilo di una storia “obsoleta”, si scrivevano le pagine che segnavano l’addio alla storia. Eppure contemporaneamente Remo Bodei s’interrogava già sulla genealogia di tali forme del relativismo e del no future che producevano un forte disorientamento ideologico. Ebbene tale ideologia, partorita dalla crisi dell’idea di progresso, prodotta dallo schiacciamento sul presente e dal cocente dubbio che la storia non volgesse al meglio, aveva una via d’uscita nella diacronia, illustrata da Topolski, rivalutata da Bodei e da Bacciola, il quale non a caso ha rivolto lo sguardo alle proposte giunte dai Subalternes studies in difesa della pluralità dei soggetti storici.
Se si riflette sulla necessità della rivalutazione della soggettività e sul fatto che nel 1979 Lyotard sosteneva che tra gli elementi fondanti la crisi della storia comparisse il filone dei grandi racconti costitutivi del vero nodo storico, si possono ancor meglio indicare i motivi della fortuna di White il quale, proponendo di tornare alla storia come racconto, si rendeva complementare alla posizione lyotardiana9. In effetti Bacciola, come già Carosotti e Sgambati, convergenti in una non nuova operazione di “apologia di un mestiere difficile”10 denunciano l’assenza di un progetto culturale complessivo, tanto più essenziale se s’intende formare docenti competenti e criticamente preparati. In virtù di ciò, scettici si mostrano ritrosi nell’uso del termine di riforma. Le grandi trasformazioni nella scuola derivano da criteri estranei alla didattica, che snaturano il carattere peculiare di un indirizzo di studi, in particolare per gli istituti tecnici e professionali come per il Liceo linguistico. E collegata a tutto ciò c’è la maggiore propensione per le valutazioni formalizzanti (Invalsi), che rinviano alla minore predisposizione critica e rielaborativa. La metodologia pedagogistica e il criterio delle competenze sono il punto di riferimento nelle riforme con ricadute didattiche di rilievo11. E dunque ben si può comprendere perché a fronte di tale generale constatazione gli autori abbiano deciso di illustrare la genesi della degenerazione del metodo che rinvia ad un contesto di totale crisi del sapere, della storia e della storicità fino ad una crisi generale che ha investito l’Europa occidentale in particolare dagli anni ’60-’70 del ’900. In questa sorta di gioco di specchi tra la realtà e la storiografia, la società offre inconsapevolmente le ragioni d’esistere e la linfa vitale alla narrazione storica.
Se un obiettivo della ricerca e dell’insegnamento è fissare il metodo, si è risposto ripostulando le costitutive basi dell’esegesi storica, mettendo al centro della prospettiva storiografica i problemi come vero nucleo organico di legame con la realtà. Il che se mostra tutta la veridicità dell’autonomia della disciplina al contempo nega la possibilità di farne il prodotto preordinato di una qualunque filosofia della storia.
A fronte di una fase odierna di negazione dello storicismo si auspica in questo volume la necessità di superare una lunga crisi, riaffermando criteri e aspetti dello storicismo che non rinnegando la tradizione offrano una modalità di riconciliazione con la storia12. Negare il passato è una conseguenza dell’annichilimento ideologico che ha segnato buona parte delle ideologie postmoderniste e decostruzioniste. E il superamento di ciò può risiedere oggi nel recupero della storicità. Se grossa parte del lavoro è insita nella volontà del soggetto, allora, il titolo Per la didattica della storia rinvia alla costruttiva posizione degli autori, che hanno inteso smontare un impianto ideologico-pedagogico à la mode non opponendo rivincite ideologiche, non proponendo una sostituzione nei primati paradigmatici, offrendo piuttosto una riflessione più generale in un appassionato elogio della storia che in crisi di identità, tuttavia, lo è né più e né meno di altre scienze.
L’attuale crisi della storia insomma non equivale alla «fine della storia». L’addio alla storia benché sia stato scritto, non è stato però concretizzato, se non nelle più svariate forme di “suicidio disciplinare”. La storia allora che è ancora lotta, scontro e passione è nelle sue divergenti connotazioni presentata in Per la didattica della storia, che intende richiamare il lettore ai percorsi dello storicismo facendo leva su solide e fondate radici della storicità. Non vi è dubbio che si tratti di un’operazione culturale apertamente schierata, che Giuseppe Galasso conduce da tempo contro ogni logica iconoclasta e qualsiasi forma di atteggiamento antidialettico e che di recente non poteva non trovare concordi in una concreta congiunzione docenti universitari e di istituti superiori nel comune progetto di delineare la didattica della storia quale insegnamento che si avvalga di ogni acquisizione metodologica come elemento costitutivo della disciplina storica.



NOTE


1 J. Topolski, Narrare la storia. Nuovi principi di metodologia storica, Milano, Bruno Mondadori, 1997, p. 9.^
2 G. Vitolo, Non è di nuovo la solita storia, in «Società e storia», 25 (2003), pp. 815-822.^
3 «Atteggiamento di comprensione dogmatica della storia che subordina il libero corso degli eventi a un presupposto logico e aprioristico». Cfr. F. Bacciola, G. Carosotti, V. Sgambati, Per la didattica della storia, Napoli, Guida, 2011, p. 13.^
4 D. Antiseri, Epistemologia contemporanea e didattica della storia, Roma, Armando, 1971.^
5 H. White, Retorica e storia, trad. it. di P. Vitulano, Napoli, Guida, 1978. Fino a pochi anni fa un sentimento di netta critica esisteva tra storici italiani. Cfr., A. Momigliano, La retorica della storia e la storia della retorica: sui tropi di Hayden White 1981 in Sui fondamenti della storia antica, Torino, Einaudi, 1984, p. 470; C. Ginzburg, Rapporti di forza. Storia, retorica, prova, Milano, Feltrinelli, 2001, pp. 64-66; Il filo, le tracce: vero, falso, finto, Milano Feltrinelli, 2006, pp. 220-221. Di recente con (Forme di storia. Dalla realtà alla narrazione, a cura di E. Tortarolo, Roma, Carocci, 2006) sono stati rintracciati i vantaggi di quel metodo. Cfr. F. Benigno, G. Calvi, L. Baldissara, L. Passerini, Forme di storia di Hayden White. Dell’utilità e del danno di Hayden White per la storia, in «Contemporanea», XI (2008), 5, pp. 515-538.^
6 Nella prospettiva di storia à part entière si legga quanto segue: «Può apparire un paradosso che un sapere, la cui unità genetica, strutturale e formale è tanto sicura, tenda, invece, a scindersi in discipline di sempre più ridotto ambito e in progressiva difficoltà di comunicazione fra loro proprio, mentre il progresso tecnico e scientifico raggiunge vertici inimmaginabili anche soltanto alla vigilia della “rivoluzione industriale” nel secolo XVIII, per non parlare di tempi anche meno recenti. Rispetto a questa divaricazione disciplinare, che sempre più è anche una divaricazione di saperi, il discorso sui principii può apparire, e magari anche riuscire, astratto. Lo spessore della specializzazione ha, infatti, raggiunto un tale spessore e una tale complessità di forme, di prassi e delle relative motivazioni da richiedere al riguardo discorsi fortemente incisivi. E, tuttavia, il discorso sull’unità del sapere non ha, con ciò, perduto alcunché della sua fondatezza e delle esigenze che lo richiedono, e, anzi, lo impongono». G. Galasso, L’Unità del sapere, in «L’Acropoli», 10 (2009), pp. 324-341. Sulla presenza dello storico nel récit, cfr. J. Topolski, Narrare la storia, cit., pp. 195-228.^
7 A. Labriola, Dell’insegnamento della storia: studio pedagogico, Torino-Roma-Firenze, Ermanno Loescher, 1876, p. 12; ora in Id., Scritti pedagogici, a cura di N. Siciliani de Cumis, Torino, UTET, 1981.^
8 G. Salvemini, A. Galletti, La riforma della scuola media, Milano, Sandron, 1908, p. 533.^
9 Sull’allontanamento dal livello logicoinformativo della storiografia tradizionale dei decostruzionisti, cfr., J. Topolski, Narrare la storia cit., pp. 59-90. Il progetto “postmodernista” e “post-post-modernista” può aiutare a migliorare il racconto storico (ivi, p. 13). La prospettiva costruttivista è stata all’origine del Convegno svoltosi nell’Università Suor Orsola Benincasa nel dicembre 2007 durante il quale ci si è interrogati sulla necessità di altre forme comunicative che rinsaldassero «il rigore della ricerca al fascino della narrazione». Cfr., V. Fiorelli (a cura di), Per conoscere la storia, Roma, Desk, 2011. Sulla “riscoperta” del racconto cfr., G. Galasso, Storia, racconto e comunicazione, in ivi, pp. 18-22.^
10 G. Ricuperati, Apologia di un mestiere difficile. Problemi, insegnamenti e responsabilità della storia, Roma-Bari, Laterza, 2005.^
11 G. Carosotti, La didattica delle competenze, in «L’Acropoli», 11 (2010), pp. 631-678.^
12 G. Galasso, Storia e storiografia. Una microriflessione estemporanea, in «L’Acropoli», 12 (2011). Inoltre cfr., Id., Nient’altro che storia, Bologna, Il Mulino, 2000.^
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