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STORIE DI CINGARI ALLA FINE DEL CINQUECENTO
di Valeria Cocozza
Tutto prende inizio da un fatto di cronaca nella campagna veronese: la denuncia di furto, nella domenica del 5 luglio 1587, nei confronti di due zingare «indrappate da contadine». Il fascicolo processuale, rinvenuto nel fondo dell’Avogaria di comun dell’Archivio di Stato di Venezia, è al centro dello studio che Fassanelli dedica alla presenza dei “cingari” – espressione con cui gli zingari venivano identificati nelle fonti – nella terraferma veneta alla fine del Cinquecento (B. Fassanelli, Vite al bando. Storie di cingari nella terraferma veneta alla fine del Cinquecento, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2011). L’Autore, per altro, non è nuovo a questi argomenti, avendoli infatti trattati in altre sedi e contesti, come da lui stesso precisato (p. IX).
Da subito si entra nel vivo della storia con la narrazione, dal piglio quasi letterario, delle vicende che coinvolsero gli zingari della “compagnia di Zuane” – come erano chiamati i protagonisti della storia dal nome del componente più anziano – di passaggio nella campagna veronese e che, a seguito della denuncia, furono fermati e arrestati a Bonavigo. I verbali, redatti nel corso degli interrogatori, diventano un “tesoro” cui attingere per cogliere, tra le righe, le «descrizioni delle attività economiche e delle pratiche relazionali che caratterizzano un particolare modo di vivere al bando: in transito» (p. X). Tutte le informazioni raccolte sono finalizzate a tracciare l’identikit dello zingaro nell’età moderna, nelle sue forme di interazione o di esclusione nei diversi contesti sociali frequentati. Il punto di vista dell’Autore, condizionato certamente dalla tipologia delle fonti analizzate, sembra dar voce da un lato al pregiudizio dilagante nei confronti degli zingari, generato in primo luogo dalla politica anti-zingara assunta dalla Repubblica di Venezia tra XVI e XVII secolo e, dall’altro, alla percezione che gli zingari avevano della propria immagine pubblica. Le misure emanate dal Senato veneziano si inseriscono nelle più generali forme di repressione che hanno caratterizzato la presenza degli zingari nell’Europa Occidentale di Antico Regime; ma – come precisa l’Autore – «l’ostilità nutrita dalla maggioranza nei confronti della minoranza [...] non [ne] impedisce però la presenza che, come avviene per ogni minoranza culturale, implica necessariamente relazioni e quindi integrazione, ossia l’instaurazione di più o meno stabili rapporti, frequentazioni e scambi con altre persone non appartenenti alla minoranza» (p. IX).
È quanto, per altro, vanno confermando i diversi studi che si stanno susseguendo sulle popolazioni rom nell’Italia moderna. A questo proposito, ad esempio, citiamo il lavoro di Elisa Novi Chavarria sulle forme di “inclusione ed esclusione” degli zingari [cfr. E. Novi Chavarria, Gli zingari in età moderna, in Laura Barletta (a cura di), Integrazione ed emarginazione. Circuiti e modelli: Italia e Spagna nei secoli XV-XVIII, Napoli, Cuen, 2002 e, nello stesso volume, segnaliamo anche G. Galasso, Note su emarginazione e marginalità]. Facendo il punto sulle tendenze delle politiche anti-zingare negli antichi stati italiani, la Novi Chavarria precisa che i momenti di “emarginazione” degli zingari non furono mai totalizzanti, perché accanto alle forme di repressione si possono quasi sempre registrare forme di integrazione di singoli individui e nuclei familiari (la stessa Novi Chavarria dà prova di questo nel suo lavoro Sulle tracce degli zingari. Il popolo rom nel Regno di Napoli, Napoli, Guida, 2007).
A Venezia, tra il 1549 e il 1588, i lavori del Consiglio dei Dieci furono segnati da tre momenti normativi, volti a porre rimedio al peggioramento complessivo delle condizioni di vita che stava colpendo buona parte delle popolazioni rurali e al quale si accompagnava il dilagare di forme di turbamento dell’ordine pubblico, ricondotte principalmente alla presenza di «cingani erranti» nei territori della Serenissima. Da qui, si andò via via formulando e perfezionando la normativa in materia di zingari, che fu tra le più severe di tutte quelle emanate negli antichi stati italiani – come più volte sottolinea l’Autore –. Furono allora poste le basi per una regolamentazione che rimase in vigore oltre due secoli, tanto da essere riconfermata nel proclama del 1788. Oltre a dichiarare il bando dallo Stato veneziano di tutti gli zingari e, con esso, il divieto al rilascio di qualunque forma di privilegio, patente o licenza anche solo temporanea, la Serenissima fissava anche taglie in denaro per chiunque avesse catturato degli zingari, consentendone finanche l’uccisione. Gli stessi bandi, però, lasciavano, inspiegabilmente, un vuoto normativo a proposito del trattamento delle donne che non venivano minimamente menzionate. Tant’è vero che il furto da parte delle due zingare, evento scatenante dei fatti da cui prende le mosse il libro, scompare del tutto dalle indagini, restando come pretesto del tutto irrilevante e il processo si trasforma inevitabilmente in una condanna degli uomini della “compagnia” per il solo fatto di essere “cingari”.
La legislazione veneziana, a dire del Fassanelli, tracciava «il profilo criminale del cingaro» (p. 67), una criminalità di fatto, che non necessitava di flagranza di reato o di particolari prove schiaccianti, ma poteva basarsi sulla semplice identificazione dell’individuo in quanto “cingaro”, secondo i tipici tratti con cui si era soliti contraddistinguere uno zingaro, largamente documentati dalla letteratura e dalla trattatistica dell’epoca (per cui resta fondamentale L. Piasere, Buoni da ridere. Saggi di antropologia storicoletteraria, Roma, Cisu, 2006).
Per questo Fassanelli, dopo aver raccontato l’evolversi delle vicende – dal furto, all’arresto fino agli interrogatori – passa a indagare la giustizia punitiva veneziana, espressa dai tre bandi “anti-cingari” cinquecenteschi, nonché la loro applicazione. Ed è proprio la valutazione dei risvolti dell’attuazione dei bandi che mette in evidenza l’esistenza di gruppi conniventi, i quali garantivano protezione e ospitalità ai “malcapitati” zingari. Non è da escludere – sottolinea l’Autore – che si trattasse di patrizi veneziani, come tale Boldù probabilmente intenzionato a servirsi dell’esperienza degli zingari per formare una compagnia di bravi, una prassi documentata dagli studi già svolti in materia (sull’argomento per altro lo stesso Autore aveva già raccolto delle preliminari considerazioni in “In casa di Boldù siamo stati una sera”. Pratiche relazionali di una compagnia di “cingani in viazo” nella terraferma veneta di fine Cinquecento, in «Quaderni storici», 3/129; ma altri esempi si possono trarre in E. Novi Chavarria, Sulle tracce degli zingari, cit., pp. 31 e ss. e nel recente contributo di O. Niccoli, Zingari criminali, zingari birri, zingari contadini. Note sulla presenza zingara nel contado bolognese tra Cinque e Seicento, in Studi storici dedicati a Orazio Cancila, a cura di A. Giuffrida, F. d’Avenia, D. Palermo, Palermo 2001, vol. II). È storia di integrazione, per esempio, quella raccontata nel libro, dello zingaro Rinaldo di Paulin, fermato nell’agosto del 1583 a Montagnola, dal cui interrogatorio si evince come si fosse integrato e stabilito definitivamente nel tessuto sociale del luogo con tutta la sua famiglia. Rinaldo, pur dichiarandosi zingaro, diceva di «non andar con cingani», di lavorare la campagna, di vivere cristianamente, avendo anche ricevuto il sacramento del battessimo e chiamando a testimoniare in suo nome conoscenti, non zingari, del posto (pp. 81 e ss.).
Gli zingari della Terraferma erano, chiaramente, segnati dall’etichetta di “criminali”, che provavano ripetutamente a scrollarsi di dosso, come capitò a uno degli arrestati chiamato a specificare la provenienza delle “robbe” sequestrate alla compagnia di Zuane, il quale, spontaneamente, precisò che derivavano dalle loro fatiche e non erano affatto state rubate, come di certo era convinto la pensasse il giudice fazioso. Proprio sulla scia di queste considerazioni, riteniamo che, il volume di Fassanelli, grazie alla preziosa fonte a cui attinge, esprima la molteplicità dei punti di vista emergenti nel corso delle vicende, vale a dire prima di tutto la componente pregiudizievole della giustizia veneta alla quale si affiancano, o si contrappongono, le reazioni da essa scaturita prima di tutto nei “cingari”, ma al contempo la diversità degli atteggiamenti dei non-zingari, da un lato sospettosi e che, quindi, li denunciano, ma che, dall’altro lato, più volte interagivano anche con loro, ospitandoli, difendendoli e testimoniando sulla loro buona condotta.
Lasciando lo sfondo politico e giudiziario delle vicende e dei bandi veneziani, nel terzo capitolo, a partire da quanto in falsariga era implicitamente o esplicitamente contenuto negli interrogatori, l’Autore passa ad analizzare e decodificare i caratteri della presenza zingara nel Veneto, studiandone composizione, modelli, stili di vita e attività lavorative. Nulla di nuovo e di diverso da quanto già era noto per gli zingari attraverso gli studi che abbiamo citato e gli altri che avremo modo di segnalare in seguito. Muovendosi perlopiù in zone di confine, probabilmente per poter presto “sconfinare” e sfuggire all’occorrenza ai bandi, anche gli zingari della Terraferma veneta si muovevano in piccoli gruppi, svolgendo l’arte della chiromanzia le donne e il gioco della correzuola gli uomini, i quali si dedicavano altresì al commercio di cavalli e alla vendita di ferraglie (diversi sono i lavori dedicati alle attività degli zingari per altre realtà italiane, segnaliamo ancora una volta O. Niccoli, Zingari criminali, zingari birri, zingari contadini, cit., oltre al contributo di E. Novi Chavarria, Mobilità e lavoro: zingari ferrari a Napoli e nel Regno (sec. XVII-XVIII), in Alle radici dell’Europa. Mori, giudei e zingari nei paesi del Mediterraneo occidentale, II (secoli XVII-XIX), Felice Gambin (a cura di), Firenze 2009, ma anche le note di chi scrive su Commercianti di bestiame e agricoltori: note sugli zingari in Molise tra Sette e Ottocento, in «Glocale. Rivista molisana di storia e scienze sociali», 2-3/2011). Vengono, così, passati in rassegna tutti gli “stereotipi” sugli zingari, la cui figura fu da subito utilizzata come prototipo e termine di confronto per spiegare attività e caratteri tipici dell’illegalità, della furbizia, della cattiva condotta come fa, per esempio, Tommaso Garzoni ne La piazza universale di tutte le professioni del mondo, in cui si serve della tipica figura dello zingaro per spiegare le attitudini di chi praticava il mestiere dello “stracciolo”, arrivando a dipingerlo addirittura come «untore» di malattie (pp. 83 e ss.). D’altronde, lo stesso può dirsi anche per la costruzione semantica del termine “zingaro”, cui fu assegnato una definizione precisa solo nella quarta edizione del vocabolario dell’Accademia della Crusca, nel XVIII secolo. Prima di allora la parola “zingano” rinviava solamente alla voce “barattiere”, definito come «baro, giuntatore, busbo. E tali sono gli Ussi, o ver Zingani: che dicono discendere ab antico dell’Egitto» (Vocabolario degli Accademici della Crusca, Venezia, 1623, p. 949).
Frutto di quello che Leonardo Piasere definisce «processo di visibilizzazione», nel corso della seconda metà del Cinquecento la presenza zingara si fece sempre più evidente e assidua nell’immaginario collettivo e culturale (cfr. L. Piasere, Che cos’è un campo nomadi?, «Achab», n. 8, 2006, pp. 8-16). Per questo, nel ricercare gli stereotipi dello zingaro Fassanelli volge lo sguardo anche alla produzione teatrale e letteraria cinque e seicentesca, oltre che alla trattatistica, per individuare ancora una volta le dinamiche e le relazioni tra realtà e immaginario nella costruzione degli «zingari tipici», percepiti dal senso comune come risultato della stratificazione di esperienze reali (p. 170). Un paragrafo del volume, infatti, è dedicato a «Travestimenti e inganni: maschere cingare nel teatro», in cui si analizza, per esempio, l’emblematica opera La zingana del veneziano Gigio Artemio Giancarli, scritta nel 1544 in concomitanza con l’emissione dei primi bandi veneziani di espulsione. Spostandosi, infine, in una dimensione squisitamente antropologica, guidato dai numerosi studi di Leonardo Piasere, Claudio Povolo e Ugo Fabietti, l’Autore sceglie di chiudere il suo volume provando a rispondere alla domanda «chi è il cingaro?» (p. 212). Al di là delle possibili risposte che ciascuno di noi può fornire oggi o che si possono rintracciare per il passato – nella trattatistica, nel pensiero politico, nei bandi, nella letteratura in senso lato – come sostiene Fassanelli «nel “fare la storia degli zingari” ...il tradizionale (mestieri, abiti e abitudini) è osservabile prevalentemente attraverso le descrizioni tramandate dall’esterno, dai non-cingari, e ciò in maniera più marcata quanto più si procede a ritroso nel tempo. Anche la storia – intesa come disciplina del sapere – sembra subire la relazione di bando» (p. 215). Se è vero che le tracce degli zingari, nel passato e nel presente, sono sempre state prodotte e ricondotte ai non-zingari è anche vero che la vita prevalentemente “in transito” degli zingari, ha reso sempre più labile – ma non impossibile – la produzione di testimonianze concrete della loro presenza, lasciando segni della geografia degli spostamenti nella toponomastica dei luoghi da essi frequentati, ad esempio, o nell’onomastica, come nel caso della famiglia Zingaro, appellativo divenuto cognome nel Molise di età moderna, come ha dimostrato Elisa Novi Chavarria (si veda per questo I cognomi del popolo rom, di prossima pubblicazione negli atti del convegno I cognomi italiani nell’ambito dell’antroponimia dell’Europa mediterranea e, in generale, per l’onomastica degli zingari cfr. E. Novi Chavarria, Sulle tracce degli zingari, cit., pp. 98-106; Francois de Vaux de Foletier, Mille anni di storia degli zingari, Milano, 2010, pp. 216-224). In tal senso, riteniamo che il lavoro di Fassanelli offra una testimonianza dell’essere “cingaro” nel Veneto del Cinquecento, dando la parola proprio agli zingari che, nel corso degli interrogatori cui furono sottoposti dai giudici veneziani, raccontano e descrivono la propria realtà del tempo. Ma, soprattutto, riteniamo che, ancora una volta, la presenza zingara nell’Europa moderna possa essere letta anche nelle molteplici e persistenti forme di integrazione tra minoranze e maggioranza. Se è evidente che nel corso dell’età moderna si andò concretizzando il profilo generico e diffuso del «cingano barattiero, baro o vagabondo, o [del]la cingana chiromante, ladra o falsa chiromante», così com’è altrettanto certo che qualcuno di loro fu davvero «baro», non si può di certo negare che gli zingari abbiano per lungo tempo offerto «le proprie abilità tecniche e i propri sapere» (p. 220) nel continuo e inevitabile confronto di culture, che non ci sarebbe stato senza l’inclusione nelle società e nei luoghi da loro frequentati, superando i “margini” che li separavano dalla “maggioranza” (per questo si veda G. Galasso Note su emarginazione e marginalità, cit.).
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