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POLITICA MODERNA, IDEE E STRUMENTI DI RICERCA CONTEMPORANEI
di Saverio di Franco
1.Il dibattito storiografico su alcune delle tematiche più rilevanti della politica di età moderna continua a produrre dei risultati di non poco interesse. Le ricerche sullo “stato moderno”, i suoi protagonisti, la nobiltà, i parlamenti, i rituali, l’uso e la reinvenzione dell’antico, solo per citarne alcune, confermano, ampliano e talvolta correggono le conoscenze acquisite. I nuovi strumenti di indagine elaborati nel secolo scorso dalle scienze sociali, dall’antropologia, dallo strutturalismo, dalla storia di genere, dalla linguistica hanno sviluppato dei punti metodologici e critici dell’analisi storica e hanno offerto agli studiosi criteri e tecniche di ricerca importanti e significativi, come è dimostrato anche nel recente lavoro di Francesco Benigno
Favoriti e ribelli. Stili della politica barocca1. Il libro si compone di tre sezioni, all’interno delle quali l’autore ripropone una serie di articoli pubblicati dal 1999 su riviste e in atti di convegno. Il volume risulta sapientemente organizzato intorno ai due termini che compongono il titolo. L’Europa del Seicento fu interamente condizionata dalla politica dei favoriti o validos delle principali monarchie e dalle politiche di resistenza, talvolta di ribellione, che i gruppi sociali opposero allo strapotere e alla tirannide di quei ministri, sentiti sempre più come usurpatori del potere regio. Queste due tematiche occupano le prime due parti del testo: il ministro favorito in Spagna, Francia, Inghilterra e nello stato pontificio; la nobiltà e la sua rappresentazione politica, i parlamenti, nei domini asburgici italiani. La terza sezione è dedicata agli stili di rivolta ed è destinata allo studio delle rivolte siciliane di Palermo e di Messina.

2. Il tema della delega del potere decisionale costituisce l’asse attorno a cui ruota tutta l’indagine dell’autore, il quale compie un deciso slancio in avanti nelle sue ricerche sul favorito, già studiato accuratamente per la storia di Spagna nel Seicento, rintracciando ora la «dimensione transnazionale» dei ministri-favoriti, considerati «i veri padroni della pace e della guerra»2 nell’Europa del Seicento, usurpatori del potere legittimo e veri e propri tiranni, che catalizzarono critiche e resistenze.
Il caso del duca di Buckingham sembra, tuttavia, porre delle difficoltà quando viene utilizzato in chiave analogica con la situazione spagnola e per comprendere tutta la storia inglese del Seicento. È importante osservare, sulla scia degli studi di Elliot, che il governo spagnolo «servía como modelo (y algunas veces como advertencia) a los otros estados europeos»3. L’analogia tra l’ascesa del principe d’Eboli Ruy Gómez de Silva e quella di Georges Villiers duca di Buckingam è certo di non poco interesse per individuare l’influenza politica spagnola in Europa. Appare anche opportuno, però, tener conto di una molteplicità di fattori importanti: il favorito di Filippo II operò circa cinquant’anni prima del favorito di Giacomo I e di Carlo I Stuart; la capacità di Villiers di gestire il patronage fu tipica della politica degli Olivares e Richelieu, ma non di Ruy Gómez de Silva; la figura di Villiers sarebbe stata impensabile nella Spagna del Seicento, considerato che il valido era diventato un ufficio «por miembros de las grandes casas de España». Più in generale il valimiento cominciò a «institucionalizarse durante las primeras décadas del siglo, especialmente en España», a causa di diversi fattori, tra i quali l’alto grado di «burocratización y de complejidad sin par en los otros estados europeos»; l’essere l’amministrazione centrale spagnola «más formalizada y más profundamente arraigada dentro del sistema social que la de cualquier otro país occidental»4.
Inoltre la privanza di Villiers copre gli anni dal 1616 al 1628, un periodo che non sembra sufficiente a spiegare le due rivoluzioni del 1640 e del 1688 e, quindi, ben sessant’anni di storia inglese come eventi determinati principalmente dall’«influenza decisiva» della politica del duca di Buckingham e dalla ripulsa al potere del favorito, ridimensionando o escludendo la storica dialettica tra re e Parlamento, radicata nella più complessa stratificazione della società e della politica inglesi.
Per la Francia, in particolare per gli anni della Fronda, la procedura analogica cambia il suo osservatorio, spostandosi dai caratteri del ministro favorito alle opinioni circolanti sulla sua politica negli ambienti colpiti e danneggiati da Mazzarino. Benigno legge la sterminata letteratura dei pamphlets frondisti (Mazarinades) a prescindere dalla loro «intenzione originaria», dalla loro «committenza», dal loro «ordine argomentativo», dalla loro «appartenenza ideologica», trattandoli come «slogan», «schemi retorici in movimento» e «opinioni circolanti» durante la rivolta. Ma questo procedimento se da un lato non sembra apportare novità riguardo ai limiti già noti del potere regio in Francia – Mousnier aveva sostenuto addirittura che il parlamento «spingeva per una monarchia temperata, spianando persino la strada alla repubblica»5 – dall’altro esclude la dialettica che oppose il consiglio del re ai parlamenti e priva quei pamphlets del loro contesto, li rende potenzialmente liberi di assumere qualsiasi significato.
L’analogia, dunque, va usata con molta prudenza, cercando di equilibrare comparazione e contestualizzazione, per non cancellare le specificità e le differenze sociali, economiche, culturali e politiche tra i moderni stati europei, ciascuno dei quali costituisce un unicum che non ha rappresentato un modello per gli altri paesi66. Inoltre proprio dalle possibilità offerte dall’analogia sembra che derivino l’opportunità e l’utilità di leggere il fenomeno del valimiento non come indebolimento, bensì come sviluppo dello “stato moderno”: «una de las ironias de la figura del valido es que […] vista en perspectiva el valido realmente contribuyó al reforzamiento del poder regio»7.

3. Il tema della nobiltà nel Seicento è strettamente connesso a quello del valimiento, anzi, le rivolte e le rivoluzioni di quel secolo andrebbero interpretate come «la resistenza aristocratica ai mutamenti indotti dall’insieme di queste trasformazioni»8 economiche, politiche e sociali che si realizzarono nell’Europa dei ministri-favoriti.
L’analisi dei «microgruppi di tendenza » nobiliari (patriziato, aristocrazia feudale, aristocrazia titolata) prova che il potere non è solo quello formale delle leggi, ma soprattutto quello compreso nella pratica della giustizia, nel prelievo fiscale, nell’amministrazione. Il risultato finale è la constatazione che il potere regio «lungi dall’essere solutus appare vincolato e obbligato a un attento bilanciamento delle forze degli schieramenti politici».
La storiografia italiana, non prestando attenzione a tali problematiche, avrebbe letto la storia della nobiltà nell’ottica della “sottomissione”, dell’”addomesticamento” e del “declino” connesso alla fine della libertà politica della Penisola, cominciata alla fine del Quattrocento e consolidatasi con il dominio spagnolo. Croce e poi Galasso avrebbero interpretato in chiave idealistica la funzione delle aristocrazie italiane, evidenziando da un lato il patto Monarchia-nobiltà, dall’altro l’abbandono della “borghesia” dall’«attivismo commerciale» per rifugiarsi nell’acquisto delle terre e nella sicurezza della rendita finalizzati alla nobilitazione. In generale gli storici avrebbero letto i secoli della dominazione come un’età «senza vera politica, […] di rassegnazione economica, intellettuale, ma soprattutto morale»9.
In realtà Galasso già nel 1965 aveva analizzato la stratificazione del ceto nobiliare e criticava il giudizio di Croce sia sulla «crescente dissoluzione» della nobiltà durante il dominio spagnolo, sia sulla conversione della feudalità «in semplice classe di proprietari terrieri, decorati di pomposi e vani titoli»10. Lo storico napoletano è dell’idea che la stratificazione e lo strapotere sociale della nobiltà coesistevano con l’assenza di una «interna coerenza» del ceto, con «la mancanza di ogni fondamento etico o etico-politico» e, soprattutto, «cospirarono a impedire anche il formarsi di una solida coscienza di classe». Nel corso del Seicento, pertanto, il baronaggio continuava «a prevalere e veniva cambiando, tuttavia, natura e significato, proseguendo un’evoluzione già in corso da tempo»11.
I modi e le forme del cambiamento furono diversi (estinzione di vecchie famiglie, ingresso di mercanti e capitalisti, professionisti e titolari di uffici) e innescarono un «processo di accesa mobilità sociale» e «forte ascesa dei gruppi di estrazione non nobiliare», che acquistarono beni feudali con la relativa nobilitazione12. Questa nobiltà così articolata risultava ancor più stratificata quando si analizzava il tessuto sociale della prima città del Regno. Il governo municipale di Napoli era gestito dai Seggi nobili e da quello popolare in una dialettica instancabile per l’amministrazione del potere, ai quali si aggiungeva la “nobiltà fuori Piazza” non meno dignitosa di quelli, ma esclusa dalla direzione della cosa pubblica. La contesa rivelava una nobiltà di Seggio dall’«identità problematica», coinvolse giuristi e storici inseriti nei processi politici municipali e durò ben oltre la conclusione del conflitto, sancita dall’intervento di Filippo II, che avocò a sé la facoltà di concedere il placet alle “aggregazioni”. L’argomento, come dichiarava già nel 1998 Maria Antonietta Visceglia, era di non poco interesse per la comprensione dell’identità nobiliare, in quanto consentiva di osservare «i mutamenti della stratificazione sociale urbana»13 in atto durante gli anni della politica centripeta di don Pedro de Toledo e costituiva, inoltre, una manifestazione delle difficoltà di un gruppo in crisi dopo la fine dell’indipendenza del Regno, da studiare contestualmente alla composizione delle strutture familiari e dell’organizzazione dello spazio sacro, considerati i luoghi privilegiati dell’autorappresentazione nobiliare.
Sarebbe stato, dunque, di non poca utilità partire dai risultati già noti di quelle ricerche sulla nobiltà italiana, avvalendosi e confrontandosi con essi per migliorare le conoscenze in materia. È possibile che la scelta di Benigno di escludere quegli studi sia da ricondurre, stando alle sue stesse parole, alla matrice idealistica di una certa storiografia che, esaltando lo “stato assoluto”, avrebbe inficiato quell’indagine. Una traccia di questa valutazione si può individuare nella sua proposta di bandire tout court la contrapposizione tra il Nord con le sue città patrizie, e il Sud dominato dall’aristocrazia feudale, sostituendola con l’analisi dei fattori comuni alle nobiltà. La storiografia dal Settecento ad oggi ha condannato la feudalità come una forza conservatrice opposta alla modernità trionfante, rappresentata dallo “stato accentrato”. In altri termini parlare della feudalità del Mezzogiorno avrebbe significato per l’autore riproporre e accogliere implicitamente l’antitesi da lui contestata modernità-arretratezza. L’esclusione della componente feudale dalla disamina delle nobiltà italiane rischia, però, di far perdere alcuni caratteri importanti della società del Mezzogiorno e di compromettere la comprensione degli eventi più clamorosi della metà del Seicento. Non si capisce perché gli spagnoli a Milano riuscirono a creare «consenso» tra i vecchi e i nuovi gruppi di potere, responsabilizzando i ceti dirigenti «nella gestione dei flussi finanziari», mentre a Napoli e in Sicilia fallirono, se si esclude l’importanza del potere giurisdizionale delegato dalla Monarchia alla feudalità del Regno.
La funzione e il potere della feudalità in Europa sono stati affrontati sistematicamente pochi anni fa da Aurelio Musi, che ha indagato lo sviluppo storico del feudalesimo in età moderna fino alla sua lenta eversione, individuando le differenze geografiche del regime feudale e i suo caratteri distintivi in:
«un regime delle terre e degli uomini […]; un complesso di funzioni delegate […]; un’economia fondata prevalentemente sulla rendita da giurisdizione e sulla patrimonializzazione dei diritti signorili, ma assai differenziata; un insieme di rapporti sociali condizionanti; un rapporto di scambio con la sovranità e il potere politico, capace di condizionare […] le forme e l’evoluzione dello stato moderno»14.

La modernità non si configurò come un processo di contrapposizione tra due forze, lo “stato” a sovranità unica e indivisibile emergente e vincente contro il sistema feudale anacronistico, reazionario e antiprogressista. Andrebbe letta come un processo di competizione e collaborazione tra la concentrazione del potere e la pluralità delle diverse forze presenti sul territorio. “Stato moderno” e feudalesimo coesistettero; il passaggio da vassalli a sudditi non fu lineare, poiché quel rapporto si risolse in un intreccio complesso di collusione e collisione tra le due forze. La diversità dell’Italia feudale può favorire, se si escludono aprioristiche posizioni ideologiche, la comprensione delle nobiltà della penisola.

4. Anche per il rapporto tra i parlamenti italiani e la monarchia degli Asburgo si possono svolgere considerazioni analoghe a quelle espresse sulla nobiltà. La proposta di Benigno, corroborata dalla lettura di Geoffry Elton per la storia del parlamento inglese, è di indagare il parlamento in una prospettiva di «governo attraverso il consenso»: esso limitava l’assolutismo, collaborava alla stabilità del paese, «cooperava col governo e contribuiva alla sua legittimazione»15. In tal modo l’autore riconsidera sia il giudizio che la storiografia del ’900 avrebbe formulato sul parlamento del regno di Napoli, reputandolo un istituto «debole, inutile e perciò presto abrogato», sia lo schema interpretativo che lo avrebbe sostenuto, fondato sull’idea del potere assoluto della monarchia spagnola. Indubbiamente i poco numerosi lavori sul tema non hanno affrontato – fa notare l’autore – le contrapposizioni fazionali e i contrasti sociali che nascevano sul terreno degli interessi personali, degli affari economici e delle questioni giuridiche, e che potrebbero aiutarci a comprendere di più e meglio i valori, gli obiettivi e i conflitti per il potere dei protagonisti di quegli eventi. Tuttavia la tesi di Benigno sembra scontrarsi con le analisi elaborate dalle fonti seicentesche e non si confronta con la letteratura più recente in merito, soprattutto, ad uno dei canoni del governo spagnolo nel Regno, il «rispetto del particolarismo tradizionale», per cui la Corona escluse il baronaggio dalla vita politica e dalle relazioni diplomatiche del Regno, riconoscendo però come «pertinenti ad esso» alcune «sfere della vita sociale e amministrativa»16 del Mezzogiorno, come si è indicato precedentemente.
L’istituto rappresentativo di tutto il Regno, che dal 1566 si riunì con cadenza biennale per deliberare il “donativo” e chiedere le “grazie” al re, era – secondo alcuni storici – «troppo debole» per resistere alla pressione fiscale spagnola, alla quale pure riuscì in qualche circostanza eccezionale ad opporsi (1536); ma già dalla metà del Cinquecento «aveva perso ormai il suo mordente»17. Il re poteva approvare o respingere i suoi capitoli come riteneva opportuno; i viceré controllavano la composizione della Deputazione delle Grazie e i voti dei procuratori. Il parlamento del 1508 già sembrava confermare questi dati in maniera definitiva e diventava una
«istanza rappresentativa del Regno, alla quale si dava formale soddisfazione con la discussione e la formulazione di un complesso di norme di varia natura, rispondendo così all’esigenza di dare una figura più o meno largamente pattizia al governo del paese, ma l’approvazione e l’esecuzione di quelle norme era totalmente rimessa al potere regio e rimaneva sostanzialmente aleatoria. Il Parlamento dava luogo così a una routine formale»18.

Per Capecelatro i parlamenti erano stati ridotti alla volontà regia attraverso la prassi delle procure conferite «per lo più a chi vuole il viceré, che per ordinario sono ministri di toga»19, i quali abusavano del loro mandato di procuratori, senza che il sindaco (eletto a rotazione tra i Seggi nobili di Napoli) potesse esercitare la sua funzione di controllo fra il mandato e il voto dei procuratori. Con questo sistema il parlamento del 1636 donò al re una somma superiore ai due milioni di ducati. Anche il parlamento del 1639 si concluse dopo appena qualche giorno secondo la volontà del viceré e il baronaggio votò a favore del nuovo e più oneroso donativo, seppur con qualche riluttanza, non perché contestasse il regime, ma perché era preoccupato di difendere i propri interessi, come dichiarò l’agente toscano: «Non si è fatto mai Parlamento più contrario alla povertà del Regno di questo, non avendo i baroni voluto concorrere a dar niente del loro».
Il parlamento del 1642, riunitosi a un anno di distanza dalla convocazione, stanziò ben 11 milioni di ducati di donativo per il re. Il motivo della dilazione dell’apertura dei lavori non era rappresentato dalla mancanza dei numeri necessari a far passare il provvedimento: il viceré poteva contare su 240 procure che da sole costituivano già la maggioranza dei voti validi. I dati, le testimonianze, i resoconti dei contemporanei, gli studi più attenti non sembrano suggerire che gli Asburgo avessero bisogno di contrattare col parlamento del Regno per governare con il suo consenso, né soprattutto che la causa della sostituzione dell’istituto parlamentare regnicolo con i Seggi della capitale fosse da attribuire agli «esiti pericolosamente incerti»20 delle sue risoluzioni.
In definitiva i due criteri esposti nella prefazione che hanno guidato Benigno nelle ricerche sulla storia politica moderna non sembrano negare l’utilità delle annotazioni fin qui svolte. La fine delle ideologie – si legge – avrebbe inciso sulle tendenze storiografiche, mettendo «in discussione la visione di uno stato moderno a vocazione riformatrice […] contrapposto a una società […] conservatrice»21, nata dall’assioma idealistico modernità-libertà. Al tema dell’evoluzione statale, sentita «ora come anacronistica», si sarebbe sostituito quello dello stato-corte dei principi e dei gentiluomini, capace di produrre modelli culturali dal forte impatto sociale «ma anche permeabile da una società avvertita adesso come più complessa, influente e articolata».
Anche se la modernità fosse un costrutto idealistico, ma non lo crediamo, occorrerebbe a maggior ragione vigilare sul rischio possibile di squalificare automaticamente i risultati storici conseguiti con rigore scientifico e confronto dialettico solo perché conseguiti durante un’epoca segnata da forti conflitti ideologici. In caso contrario un tale convincimento renderebbe lecita la semplice sostituzione senza confronto di una tendenza storiografica vecchia con una nuova, con la conseguenza di rifiutare e azzerare le conoscenze acquisite per gradi attraverso un processo di costruzione ordinata e parziale della realtà.
Quel rischio possibile diventa probabile quando Benigno dichiara di avvalersi per le sue ricerche di una categoria contemporanea prodotta dalle discipline storico-sociali: «se la nostra è la società della distinzione plurima – distinzione dei gusti, degli stili di vita, delle scelte di acquisto – allora la suggestione dei microgruppi di tendenza con cui le scienze sociali contemporanee cercano di orientarsi in un mondo fattosi oscuro, non è detto sia, per lo studio dell’Antico regime, del tutto ostica e improduttiva»22. Quei concetti sociologici si rivelano funzionali all’analisi dei conflitti nelle società della prima età moderna, ma si svelano anacronistici quando vengono utilizzati per interpretare una società di ordini, in cui né la capacità produttiva né il merito del singolo o dei gruppi costituiscono i criteri per la distribuzione del potere, bensì la stima, l’onore e la dignità che la comunità collega ad alcune funzioni sociali.



NOTE


1 Roma, Bulzoni, 2011.^
2 Ivi, p. 21.^
3 J.H. Elliot, Unas reflexiones acerca de la privanza española en el contexto europeo, in «Anuario de la Historia del Derecho Español», Madrid, Istituto Nacional de Estudios Jurídicos, 67, 2 (1997), pp. 885-899, cit. p. 891.^
4 Ivi, pp. 892-893.^
5 R. Mousnier, La Costituzione nello Stato assoluto. Diritto, società, istituzioni in Francia dal Cinquecento al Settecento, con un saggio introduttivo e cura di Francesco Di Donato, Napoli, ESI, 2002, p. 249.^
6 Cfr. A. Musi, Impero e imperi, in «Nuova Rivista Storica», XCII, III (2008), pp. 611-624, in cui l’autore analizza il criterio dell’analogia usato dagli storici del nostro secolo per comparare gli USA agli imperi del passato. Id., La rivoluzione, in «L’Acropoli», 1 (2000), pp. 101-105.^
7 J.H. Elliot, Unas reflexiones cit., p. 896.^
8 F. Benigno, Favoriti e ribelli cit., p. 13.^
9 Ivi, p. 106.^
10 G. Galasso, Alla periferia dell’impero Il Regno di Napoli nel periodo spagnolo (secoli XVI-XVII), Torino, Einaudi, 1994, pp. 112-113 e p. 104.^
11 Id., Economia e società nella Calabria del Cinquecento, Napoli, Guida, 19923, p. 85.^
12 Cfr. G. Muto, I trattati napoletani cinquecenteschi in tema di nobiltà, in A. De Benedictis (a cura di), Sapere e/è potere. Discipline, dispute e professioni nell’Università medievale e moderna, vol. III, Dalle discipline ai ruoli sociali, Bologna, Comune di Bologna. Istituto per la storia di Bologna, 1990, pp. 321-343.^
13 M.A. Visceglia, Identità sociali: la nobiltà napoletana nella prima età moderna, Milano, Unicopli, 1998, p. 31.^
14 A. Musi, Il feudalesimo nell’Europa moderna, Bologna, il Mulino, 2007, pp. 42-43.^
15 F. Benigno, Favoriti e ribelli cit., p. 148.^
16 Cfr. G. Galasso, Alla periferia dell’impero cit., p. 115.^
17 G. Koenigsberger, Parlamenti e istituzioni rappresentative negli antichi Stati italiani, in Storia d’Italia, Annali I, Dal feudalesimo al capitalismo, Torino, Einaudi, 1978, pp. 575-613, cit. p. 596.^
18 G. Galasso, Storia d’Italia, XV**. Il Regno di Napoli. Il Mezzogiorno angioino e aragonese (1494-1622), Torino, UTET, 2005, p. 264.^
19 F. Capecelatro, Degli annali della città di Napoli di don Francesco Capecelatro, Parti due, 1631-1640, Napoli 1849, pp. 38-39; cfr. G. Galasso, Storia del Regno di Napoli, 3. Il Mezzogiorno spagnolo e austriaco (1622-1734), Torino, UTET, 2006.^
20 F. Benigno, Favoriti e ribelli cit., p. 163.^
21 Ivi, p. 9.^
22 Ivi, p. 12.^
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