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Dall’impero alla “comunità lusotropicale”. La politica coloniale portoghese nei primi anni Cinquanta
di Angela Calia
Nel corso degli anni Cinquanta la presa di coscienza da parte del regime salazarista dei pericoli dell’ondata anticoloniale che si stava abbattendo sull’Asia e Africa e le pressioni provenienti dall’ONU e dai paesi del Terzo Mondo emergente determinano un’evoluzione della politica coloniale portoghese. A differenza degli anni Sessanta, contraddistinti dalla lotta vera e propria con lo scoppio violento delle guerre nei tre fronti africani di Angola, Guinea e Mozambico, il decennio precedente è caratterizzato dal tentativo dell’Estado Novo di minimizzare la propria impotenza di fronte al processo irreversibile della decolonizzazione: la dittatura, per poter sopravvivere politicamente, deve necessariamente salvaguardare il proprio impero.
Il governo di Lisbona, anche se rifiuta categoricamente qualsiasi possibilità di concedere ai propri territori l’indipendenza, per certi versi condivide con altre potenze come la Francia e la Gran Bretagna alcune tendenze riformatrici nel dominio coloniale, frutto di diverse trasformazioni a livello internazionale. Le rivendicazioni indiane su Goa, la conferenza di Bandung, la nascita del nazionalismo africano ed arabo, la crisi di Suez e la creazione di nuovi Stati indipendenti nei territori africani avranno un forte impatto nella politica lusitana, imponendo un ripensamento nella condotta coloniale.
Per far fronte alle crescenti minacce, il regime salazarista si muoverà simultaneamente su diversi fronti partendo da alcune modifiche costituzionali, affiancate da una nuova legislazione coloniale, fino ad un’amplissima campagna di propaganda capace di ridisegnare sotto una luce positiva la propria storia. Si avvia così una ristrutturazione, seppure solo di facciata, della vecchia politica coloniale portoghese, accompagnata dallo sforzo di presentare una versione dell’espansione imperiale compatibile con i principi espressi nella Carta delle Nazioni Unite.
L’Estado Novo, per la difesa della propria sovranità e per arginare il nascente nazionalismo in Africa, cercherà persino l’appoggio delle potenze europee e degli Stati Uniti. Non disponendo più di un «alleato totale» come lo era stato la Gran Bretagna fino alla prima guerra mondiale, la quale aveva garantito per secoli la tutela dei possedimenti coloniali portoghesi, il governo di Lisbona riconosce di non trovarsi in una posizione facile per il controllo dell’Ultramar. Per ciò che riguarda la difesa delle province, avverte ora la necessità di affidarsi ad «appoggi politici frammentari» da ricercare volta per volta, non potendo contare neanche su quell’«alleato ovvio» rappresentato dagli Stati Uniti. Gli USA, infatti, a detta dei dirigenti portoghesi, esprimono un orientamento poco favorevole agli interessi ultramarini di Lisbona, attuando una politica «lontana dal rivelarsi comprensiva»1. Ma a parte le critiche della dittatura nei confronti delle dichiarazioni anticolonialiste statunitensi, in realtà nel corso del decennio il Portogallo non si trova in una condizione di isolamento per ciò che riguarda la propria politica coloniale. Con le altre potenze europee dovrà affrontare i cambiamenti imposti dall’emergenza di movimenti anticolonialisti e dall’inizio della decolonizzazione.
Trovandosi di fronte a problemi simili a quelli della Gran Bretagna, del Belgio e della Francia, negli anni Cinquanta il governo salazarista mantiene dei solidi legami con quei paesi, accordandosi spesso su una condotta coloniale di solidarietà reciproca2. Nel corso del decennio, i quattro paesi con territori d’oltremare, seppure adottino delle politiche coloniali differenti, continueranno a riunirsi per discutere sui problemi sorti con la decolonizzazione in corso e presentati dalle Nazioni Unite. I «colloqui quadripartiti», così come gli incontri preparatori per le Assemblee Generali ONU, rivestiranno una particolare importanza per il Portogallo3. Attraverso i continui contatti con gli altri paesi europei, alleati anche all’interno della NATO, il governo di Lisbona sarà infatti in grado di assicurare un appoggio incondizionato alle proprie posizioni nelle Nazioni Unite. Le potenze coloniali europee, sebbene optino per una politica differente in relazione alla decolonizzazione, collaboreranno alla difesa portoghese contro gli attacchi del blocco afroasiatico, mantenendo ben saldo il principio di “solidarietà occidentale”.


1. La formazione dei movimenti anticolonialisti e la riorganizzazione della politica coloniale salazarista

Sebbene le lotte per l’indipendenza nelle colonie portoghesi inizino nel 1961, nel corso degli anni Cinquanta si hanno le prime avvisaglie di rottura della sovranità lusitana. In questo periodo si assiste alla formazione delle principali organizzazioni e gruppi politici per l’indipendenza dei territori africani4 . Nell’Ultramar portoghese, però, la fondazione e la crescente politicizzazione dei movimenti di liberazione non sembrano ancora determinanti per la destabilizzazione del potere centrale5. L’alto grado di isolamento delle popolazioni angolane e mozambicane, in gran parte escluse dall’istruzione e spesso costrette al lavoro forzato, e il rafforzamento dell’apparato repressivo e militare nelle colonie, accresciuto con l’istituzione della polizia politica, attenuano la diffusione di idee anticoloniali6.
La messa fuori legge di partiti e di associazioni politico-sindacali estranee a quelli istituiti dal regime fa sì che la resistenza dei movimenti nazionalisti, specialmente in Angola, si sviluppi inizialmente su diversi livelli. Svariate attività culturali, sportive e religiose diventano così i canali attraverso i quali diventa possibile la circolazione di idee e rivendicazioni, offrendo un importante contributo alla formazione di organizzazioni indipendentiste. Ai principi degli anni Cinquanta, infatti, la contestazione anticoloniale in Angola, Capo Verde e Mozambico ha ancora una connotazione letteraria più che prettamente politica. Attraverso varie iniziative editoriali e la pubblicazione di riviste, gli intellettuali dell’Africa portoghese celebrano la cultura d’appartenenza e le tradizioni locali7. Agostinho Neto, Viriato da Cruz, António Jacinto, Mário de Andrade, solo per citarne alcuni, prima di intraprendere la lotta armata all’interno di partiti clandestini, utilizzano la scrittura per promuovere una nuova unità nazionale e rivoluzionaria contrapposta alla sovranità portoghese.
Anche in Mozambico le manifestazioni letterarie e le associazioni studentesche, spesso sotto copertura come nel caso del Núcleo dos Estudantes Secundário de Moçambique (NESAM), lavorano per la crescita di una nuova coscienza nazionale8. Persino le organizzazioni ecclesiastiche costituiscono centri di diffusione di idee anticoloniali. I movimenti messianici, come quello guidato da Simão Toco, e le numerose missioni protestanti si presentano come un’importante alternativa al cattolicesimo e alla cultura portoghese9. Le loro funzioni vanno infatti al di là dell’ambito strettamente religioso e la denuncia delle pratiche coloniali e del lavoro forzato in Africa sarà determinante per la formazione di importanti personalità che saranno poi alla guida dei movimenti nazionalisti10.
Anche nel Portogallo continentale numerose associazioni e organizzazioni politiche clandestine, con il Partito comunista in testa, stabiliscono contatti tra i militanti dei nuovi movimenti11. L’assenza di università nelle colonie, poi, porta molti africani a trasferirsi in Europa per poter studiare. Soprattutto a Lisbona e Coimbra sorgeranno organizzazioni giovanili e studentesche di particolare importanza, come la Casa dos Estudantes do Império (CEI). Nata alla fine del ’44 con il fine di sostenere l’idea di unità nazionale promossa dal regime, la Casa incentrerà invece la sua attività sulla divulgazione della cultura africana12. I dibattiti e conferenze organizzati e promossi dagli studenti provenienti dalle colonie portoghesi, la pubblicazione di racconti, poesie e riviste come «Mensagem» confluiranno per la costruzione di una nuova coscienza politica.
Per tutto il decennio, il fermento culturale e politico degli intellettuali africani porta alla creazione o alla fusione di nuovi movimenti. In questi anni gli incontri clandestini e la formulazione delle rivendicazioni anticolonialiste si sommano per dare forma alla lotta contro le potenze coloniali. Dalla seconda metà degli anni Cinquanta, inoltre, le conferenze panafricane permetteranno ai nazionalisti africani di tessere relazioni importanti per il coordinamento di attività eversive e di preparazione alla guerriglia13.
Davanti alle crescenti rivendicazioni anticolonialiste il governo salazarista tenta, per tutto il decennio, di arginare qualsiasi spinta autonomista. Il regime formulerà, oltre a piani giuridico-ideologici per la difesa coloniale, anche progetti economici per le province africane, incentrati su nuovi investimenti per l’Ultramar e sull’incremento dell’immigrazione europea14. Scarsamente abitati, i territori africani saranno oggetto di una politica di popolamento da parte di coloni bianchi e di piani di sviluppo miranti a rendere più solido il legame con la madrepatria. Tuttavia, bisogna sottolineare che gli incentivi ai coloni provenienti dal Portogallo non sono iniziative esclusive della dittatura, quanto piuttosto un progetto risalente già al primo periodo della repubblica portoghese. Norton de Matos, infatti, Governatore Generale in Angola dal 1912 al ’15 e successivamente Alto Commissario dal 1921 al ’24, aveva presentato un importante programma di rinnovamento della politica coloniale. Affermando la necessità dell’autonomia amministrativa nelle “province”, del popolamento dei territori africani da parte dei portoghesi europei e dell’insegnamento della lingua portoghese agli abitanti neri, egli anticipa alcune scelte del governo salazarista negli anni Cinquanta15. Molte idee del vecchio governatore saranno riprese e, ad eccezione dell’autonomia per le regioni ultramarine, esse confluiranno nei piani di rafforzamento dell’“unità della Nazione”.


2. La revisione costituzionale del 1951 e la legislazione coloniale

Il carattere peggiorativo che il termine colonialismo va assumendo, contrapposto al rafforzamento dell’idea di autodeterminazione dei popoli, viene presto avvertito dai dirigenti dell’Estado Novo come una fonte di minacce capaci di innescare esiti catastrofici per i territori d’oltremare16. Mano a mano che all’interno delle Nazioni Unite aumenta il numero dei paesi africani e asiatici, sfuggire alle accuse di colonialismo diventa una priorità per il governo portoghese. Per la ristrutturazione della politica imperiale portoghese il regime sceglie di muoversi, sia sul piano ideologico che su quello giuridico, attuando un rinnovamento della legislazione coloniale e del vecchio impianto dottrinale risalente ai primi anni della dittatura militare. La decisione di procedere a una revisione costituzionale e legislativa è presa dallo stesso Salazar, il quale apporterà alcune modifiche all’Acto Colonial promulgato nel 193017.
In realtà, il problema della terminologia utilizzata nell’Acto Colonial era apparso fin dai tempi della seconda guerra mondiale, durante il II Congresso dell’União Nacional nel maggio del 1944. In quell’occasione José Ferreira Bossa, Ministro delle colonie dal ’35 al ’36, aveva messo in guardia il governo sui pericoli di essere accusati di imperialismo18. Nonostante queste critiche, il progetto di revisione costituzionale viene presentato da Salazar all’Assembleia Nacional solo il 18 gennaio del 1951, dopo aver convocato e consultato la Camera Corporativa19.
La via giuridica che il regime si propone di adottare ha come scopo principale evitare l’eventuale concessione di alcune forme di autonomia ai territori d’oltremare, arginando il più possibile la loro fuga dal controllo di Lisbona. Obiettivo di tali riforme è affermare il principio di unità nazionale e di assimilazione tra Metropoli e territori d’oltremare, attraverso l’integrazione del vecchio Atto Coloniale nella Costituzione, modificando la terminologia in esso contenuta. La sostituzione del sostantivo “colonie” con quello meno negativo di “province d’oltremare” e la relativa scomparsa dell’espressione “impero coloniale” a favore di un più neutro “oltremare portoghese” puntano esattamente a dimostrare tale volontà di assimilazione20. Dichiarando che il Portogallo non possiede territori coloniali, ma storicamente amministra solo province sparse nei diversi continenti, così come consacrando l’unità nazionale a livello giuridico, il regime cercherà anche di sfuggire alle disposizioni delle Nazioni Unite che impongono la trasmissione di informazioni sui «territori non-autonomi al Segretario Generale»21.
La revisione della costituzione, promulgata con la legge n° 2048 dell’11 giugno del 1951, integra al suo interno, nel Titolo VII Do Ultramar Português, l’Acto Colonial modificato. Questo nuovo quadro giuridico del governo portoghese apporta cambiamenti piuttosto marginali all’impianto coloniale, ma mira a generare un impatto favorevole al mantenimento, ed eventualmente al rafforzamento, dell’impero. L’idea che il regime si sforza di veicolare è quella della centralizzazione amministrativa di una nazione pluricontinental che tende, seguendo un percorso graduale, alla totale e perfetta unità territoriale. Per Sarmento Rodrigues, ministro dell’Ultramar dal 1950 al ’55, tra il Portogallo e l’Africa non vi sono differenze né di lingua né di bandiera, ma esiste «una amministrazione centrale per tutti, dal Minho alla Niassa, le stesse leggi, gli stessi costumi. Le nostre province d’oltremare», continua, «non sono nuove nazioni né verso ciò si incamminano, ma sono sì parte di un’unica e grande Nazione; nessuna autonomia, ma un’integrazione sempre maggiore. Anche questo è assimilazione»22.
Negli anni successivi, il governo di Lisbona promulga inoltre alcune leggi per l’organizzazione delle colonie. Nel 1953, la Lei Orgânica do Ultramar mirava a sostituire la Carta Orgânica do Imperio Colonial Português istituita esattamente venti anni prima23. Anche questa nuova legge, in realtà, altera solo in minima parte l’amministrazione coloniale. Per quanto in teoria venga garantita la decentralizzazione amministrativa e l’autonomia finanziaria, nella pratica le province restano fortemente subordinate alle direttive promosse da Lisbona. La stessa scelta dei Governatori Generali previsti per l’Estado Português da Índia, l’Angola e il Mozambico, e dei Governatori per Capo Verde, São Tomé e Principe, Macao e Timor, è effettuata non attraverso l’elezione diretta da parte delle popolazioni interessate, ma su decisione del consiglio dei ministri del governo centrale. Anche il fine della Lei Orgânica è quello di ribadire solennemente l’indissolubilità della nazione portoghese, dichiarando che «Le Province Ultramarine, come parte integrante dello Stato Portoghese, sono solidali tra loro e con la Metropoli»24.
Un altro elemento importante presente in questa legge è la dichiarazione sulla difesa degli indigeni delle province ultramarine. Affermando che «lo Stato garantisce con misure speciali, come regime di transizione, la protezione e la difesa degli indigeni nelle Province di Angola, Mozambico e Guinea» e che «le autorità e i tribunali impediranno e puniranno, nei termini della legge, tutti gli abusi contro la persona e i beni indigeni», la dittatura si propone di concedere un trattamento giuridico differenziato alle popolazioni autoctone dei territori d’oltremare25.
Ma una descrizione più dettagliata delle condizioni previste per gli indigeni è contenuta nel nuovo Estatuto dos Indígenas delle province di Guinea, Angola e Mozambico, promulgato nel maggio del 1954. Tale statuto, oltre a definire indigeni «[…] gli individui di razza negra o suoi discendenti, che essendo nati o vivendo abitualmente» in Guinea, Angola o Mozambico, «ancora non possiedono l’istruzione e i costumi individuali e sociali presupposti per l’integrale applicazione del diritto pubblico e privato dei cittadini portoghesi», traccia un’importante distinzione tra indígenas e assimilados, attribuendo loro diversi ordinamenti giuridici26. Quella differenza è presentata dal regime come il frutto del diritto interno portoghese, rispondente non all’idea astratta di uguaglianza degli uomini di fronte alla legge, ma piuttosto ad una reale protezione dei valori umani. La formulazione di una politica specifica per gli indigeni viene giustificata dall’Estado Novo affermando che essa mira esclusivamente alla tutela dei loro usi e costumi. Lo Statuto, dichiara Marcelo Caetano, «protegge i nativi ancora legati alle loro concezioni tradizionali dagli inconvenienti dell’applicazione di un Diritto di tipo europeo» che essi ancora non sono in grado di capire27. Solo «nel momento in cui l’indigeno acquisisce la mentalità e i costumi europei, diventa cittadino e partecipa alla vita civile della Nazione Portoghese», ma attraverso l’educazione e non per imposizione28.
Secondo il regime, la distinzione tra popolazioni native e assimilados si fonda su un carattere culturale e non etnico. Gli statuti speciali e i regimi giuridici differenti rispondono al principio di rispetto dei portoghesi nei confronti delle tradizioni culturali dei nativi, benché essi vengano limitati, secondo l’articolo 3, dalla morale, dai principi di umanità e dagli interessi della sovranità portoghese29. In pratica, però, l’articolo 2 dello statuto non lascia margine a nessun tipo di interpretazione. La separazione si basa evidentemente su un criterio razziale, poiché indica come nativo esclusivamente la persona di razza nera e i suoi discendenti. L’idea implicita di gerarchia razziale è inoltre riscontrabile nella definizione di missione storica del Portogallo, la quale coincide, nella propaganda salazarista, con la trasmissione dei valori della civiltà cristiana ai popoli arretrati. Secondo il discorso ufficiale la nobile politica d’oltremare, guidata dallo spirito di fratellanza cristiana, non solo ha permesso di raggiungere un alto grado di assimilazione tra popoli nativi e cittadini portoghesi, ma ha portato al miglioramento delle condizioni di vita di quelle popolazioni30.
Inoltre, soltanto in teoria l’Estatuto si propone di favorire una graduale assimilazione delle popolazioni native appellandosi a una politica di integrazione e di rispetto, dipingendo il Portogallo come una nazione totalmente estranea al concetto di razzismo. In realtà, la divisione da esso tracciata crea di fatto una segregazione razziale. Le condizioni delle popolazioni autoctone nei territori d’oltremare sono ben diverse da quelle descritte dal governo centrale. Gli indígenas, spesso costretti al lavoro forzato o a rifugiarsi nei territori vicini per sfuggire al sistema di lavoro coercitivo, non hanno un facile accesso alla piena cittadinanza portoghese: acquisire lo status di civilizados richiede infatti dei requisiti difficilmente raggiungibili dalla maggioranza dei nativi, come un certo grado di istruzione e di benessere economico.


3. La nuova ideologia coloniale del regime

Nella misura in cui si accrescono le minacce al mantenimento delle colonie, il Portogallo salazarista procede a una vasta rilettura della storia finalizzata a presentare la nazione portoghese come l’unica eccezione positiva tra le altre potenze coloniali. A tale scopo, il regime si sforza di moltiplicare le pubblicazioni e gli studi in materia coloniale, avvalendosi anche dell’aiuto di personalità estranee alla dittatura, come ad esempio il sociologo brasiliano Gilberto Freyre.
Freyre, nato a Recife nel 1900 e formatosi negli Stati Uniti, formula una teoria chiamata lusotropicalismo. Elevata ad opera di carattere scientifico, essa si propone di presentare la fusione etnica e sociale attuata dai portoghesi in Brasile come un prodotto unico che ha superato ogni preconcetto razziale.
Adottate in maniera strumentale dal regime per sostituire quella tradizionale di superiorità e usate come arma di difesa contro gli attacchi rivolti al proprio colonialismo, le teorie di Freyre saranno ampiamente utilizzate dal Portogallo per cercare di confermare la propria idea di eccezione rispetto alle altre potenze coloniali. Il lusotropicalismo, infatti, è frutto di uno studioso brasiliano che respinge le accuse di razzismo rivolte al comportamento portoghese nei territori d’oltremare, lodando, al contrario, un’azione condotta nel segno dell’assimilazione, di un «convivio del lusitano con i tropici»31 e un’opera di civilizzazione, risalente al XV secolo, compiuta senza il ricorso alla violenza. Secondo Freyre, l’integrazione dei portoghesi con le popolazioni e le culture incontrate durante le scoperte ha infatti dato luogo, in Brasile, nell’India portoghese e nei territori africani, a una nuova forma di civiltà che costituisce un complesso sociale e culturale «nato dall’amore portoghese nei confronti del tropico»32.
Le teorie del sociologo brasiliano in realtà erano state formulate e pubblicate alla fine degli anni Trenta, ma l’attenzione del regime nei confronti del lusotropicalismo si manifesterà solo a partire dagli anni Cinquanta. O Mundo que o Português criou raccoglie infatti alcune conferenze tenute da Freyre a Londra già nel 1937, poi riproposte anche a Lisbona, Porto e Coimbra. Le sue considerazioni riguardo l’unità culturale luso-afro-brasiliana e le virtù della fusione tra razze e culture vengono presentate per la prima volta in Portogallo in occasione del I Congresso della Storia dell’Espansione Portoghese tenutosi a Lisbona nel 1937. È però indicativo che la prima pubblicazione in Portogallo delle opere di Freyre si ha solo nel 1951, undici anni dopo quella brasiliana, in un periodo storico totalmente differente. Il lusotropicalismo, infatti, non poteva essere accettato prima, per il rischio che esso collidesse fortemente con la retorica nazionalista e imperiale formulata dal regime portoghese nel corso degli anni Trenta. In quell’epoca, durante la quale l’influenza del fascismo italiano era particolarmente forte, la mistica imperiale dell’Estado Novo puntava all’esaltazione del genio e della superiorità della civiltà portoghese, piuttosto che a quella di assimilazione tra lusitani e popoli tropicali. Impiegato invece come giustificazione del colonialismo portoghese, negli anni Cinquanta, il mito lusotropicale risponde perfettamente alle esigenze del regime e alla volontà di divulgare l’idea di una nazione unica ed esemplare che dal territorio continentale si irradia nell’oltremare33.
A cavallo tra il 1951 e il ’52, Freyre viene invitato dal Ministro dell’Ultramar Sarmento Rodrigues a svolgere un viaggio ufficiale di studio nelle province portoghesi e, in seguito, ospitato in Portogallo per esporre le proprie teorie. In occasione di una Conferenza conferita all’Università di Coimbra nel 1952, presto stampata e pubblicata in Portogallo col titolo Em torno de um novo conceito de Tropicalismo, egli descrive in termini positivi l’espansione portoghese. Quest’ultima, privilegiando le zone calde e tropicali dell’America, Asia e Africa, è qui definita «pioniera delle moderne civiltà tropicali», cioè di quelle dove «al valore e sangue tropicale si uniscono, in nuove combinazioni, valori e sangue europeo34». Il viaggio di Freyre, e soprattutto le pubblicazioni che ne seguiranno, costituiscono il punto di partenza per l’appropriazione delle teorie el brasiliano da parte del salazarismo35. Il regime troverà in esse una nuova dottrina coloniale, ampiamente divulgata ed elevata a quasi ufficialità, capace di offrire la chiave per sfuggire alle accuse di colonialismo e razzismo.
Oltre al mito lusotropicale, un altro tema ricorrente utilizzato dalla propaganda lusitana per prendere le distanze dalle altre forme di colonialismo è la specificità del proprio sistema coloniale. Il regime insiste nel dichiarare che, vecchia di cinque secoli, l’espansione portoghese, guidata dall’etica cristiana e da una totale estraneità ai preconcetti razziali, costituisce un esempio unico tra le altre forme di colonizzazione europee della fine dell’Ottocento. J.M. da Silva Cunha, professore nell’Instituto de Estudos Ultramarinos e nella Facoltà di Diritto di Lisbona, nei suoi scritti sottolinea che «l’espansione portoghese fin dall’inizio è stata animata da un alto ideale di fratellanza cristiana che conferiva un carattere molto speciale alle relazioni con i popoli nativi». Questo spirito evangelizzatore, infatti, secondo la propaganda di regime rappresenta una costante di tutta la colonizzazione portoghese.
Anche la pratica schiavista viene minimizzata e giustificata. Soprattutto inizialmente, infatti, ancora secondo Cunha, lo schiavismo «non aveva un carattere di operazione meramente economica. Era ancora considerata un mezzo per portare la fede di Cristo36». Fin dal XV secolo, egli continua, la pratica portoghese è quella di «un’assimilazione spirituale»: la cristianizzazione dei popoli delle terre scoperte mirava all’integrazione degli indigeni nella comunità cristiana lusitana. L’espansione coloniale portoghese inizia con «l’idea che la colonizzazione era una missione: la missione di evangelizzare, la missione di cristianizzare, che è come dire missione di civilizzare […]. E questo carattere della colonizzazione portoghese si è mantenuto37».
Sebbene per il regime i principi basici della colonizzazione portoghese derivino quasi unicamente dalla religione, si riconosce che non sempre, nel corso dei secoli, essa sia stata guidata in maniera esclusiva dall’ideale di crociata. Si arriva ad ammettere che vi fosse stato, nei secoli XVII e XVIII, un parziale abbandono degli ideali evangelici, ma «in una maniera generale e abbastanza costante, in una forma che si può fissare come regola, il Portoghese, fin dall’immortale Afonso de Abuquerque, considera gli altri uomini con evidente rispetto per la loro condizione umana, conformemente all’insegnamento della Religione, basato sul principio di fratellanza universale, conquista solo nei casi assolutamente necessari38».
La rinnovata ideologia coloniale del regime viene ribadita infinite volte: secondo la sua vulgata i territori portoghesi d’oltremare, sparsi nei cinque continenti e lontani dalla Metropoli, non hanno mai costituito, né giuridicamente né socialmente, la dominazione di una minoranza straniera etnicamente e culturalmente differente che agisce nel nome di una superiorità razziale. I colonizzatori portoghesi non hanno imposto il loro dominio con la forza, ma si sono legati alle popolazioni autoctone senza ricorrere alla violenza e dando luogo a nuove società multirazziali. La creazione del meticcio «è, così, la più grande ed evidente prova della mancanza del preconcetto razziale del portoghese, della sua cordialità caratteristica, della sua vocazione per l’incrocio, e, ancora, della sua capacità di stabilirsi nei tropici, più per amore e predisposizione che per convenienza»39
Il tentativo portoghese di arrestare il corso della decolonizzazione sul piano dottrinale è pienamente espresso da Adriano Moreira, uno dei maggiori ideologi coloniali del regime e divulgatore del lusotropicalismo. Esperto di relazioni internazionali oltre che membro della delegazione portoghese alle Nazioni Unite, nel corso degli anni Cinquanta pubblicherà diversi studi e inchieste sulle province d’oltremare, difendendo strenuamente, dagli attacchi dell’ONU e delle nuove potenze asiatiche e africane, le posizioni del regime in materia coloniale. Piuttosto che arrendersi alle politiche anticolonialiste attuate dalle Nazioni Unite, il Portogallo esprime la volontà di procedere alla riabilitazione del colonialismo.
Secondo Moreira il primo passo urgente da compiere in tal senso è quello di una «mobilitazione ideologica a favore di un colonialismo missionario40». Egli accusa infatti le potenze occidentali di aver adottato uno «stato di spirito puramente ginevrino in relazione al problema della colonizzazione, il che implica uno spirito di ritirata generale dagli obblighi imposti dalla missione storica dell’Europa41». Questa debolezza europea, prosegue Moreira, sommandosi alla politica perseguita dall’ONU mirante all’indipendenza dei popoli colonizzati, ha avuto l’effetto disastroso della nascita di un movimento violento contro l’Occidente e la razza bianca, espresso alla Conferenza di Bandung nel 195542.
Bandung, con la questione di Goa e le spinte anticolonialiste in seno all’ONU, rappresenta sicuramente uno dei maggiori campanelli d’allarme che scuotono il regime portoghese per ciò che riguarda i territori d’oltremare. Secondo la tesi di Moreira, la controffensiva per arginare quello che definisce il «movimento razzista» comparso con la conferenza dei paesi afro-asiatici può partire ed essere guidata esclusivamente dal Portogallo, nazione che possiede l’esperienza unica di un colonialismo missionario. Solo il Portogallo infatti potrà condurre la «lotta contro il pericolosissimo campo del razzismo» e dare il via al «movimento di riabilitazione del colonialismo»43. Il Portogallo, prima nazione europea ad intraprendere le grandi scoperte, non può accettare gli attacchi provenienti da Bandung o dal blocco sovietico e, come afferma la stessa Costituzione, deve portare avanti la sua funzione civilizzatrice44.
La serena presenza portoghese nel mondo, secondo la propaganda di regime, è posta in causa solo nell’Estado Português da Índia, e non per opera di un movimento originato all’interno e dalla popolazione della Provincia, ma perché fomentato da gruppi appartenenti a uno stato straniero, l’Unione Indiana, che ha palesemente violato il diritto internazionale attaccando uno stato sovrano45.
Una grande responsabilità in tal senso viene attribuita dal regime agli errori di valutazione commessi dalle Nazioni Unite. L’organizzazione aveva infatti espresso, in maniera equivoca, la condanna generale del colonialismo, senza fare, secondo la versione portoghese, le dovute distinzioni tra le differenti situazioni coloniali.
Secondo la propaganda del governo salazarista, in origine l’anticolonialismo espresso nella Carta delle Nazioni Unite si rivolgeva al colonialismo nato dalla «dottrina dello spazio vitale», cioè a quello espresso dal nazismo, che consiste nell’espansione di un popolo a danno degli interessi di un altro considerato inferiore e destinato all’espulsione dal proprio territorio o allo sterminio da parte di conquistatori. Questo tipo di colonialismo, però, non aveva niente a che vedere con il «colonialismo missionario» portoghese che, al contrario, era del tutto legittimo46». Il movimento anticolonialista, invece, aveva finito per assumere una concezione unilaterale che si mostrava contraria a tutti i fenomeni di colonizzazione, confondendoli con un colonialismo negativo e da sconfiggere. Esso, infatti, ad avviso di Lisbona, si era internazionalizzato all’interno dell’ONU, permettendo la formazione di un fronte unico costituito dai paesi comunisti e afroasiatici da una parte, difensori di un «anticolonialismo politico e razziale», e dall’altra dagli Stati Uniti, fautori di un «anticolonialismo sentimentale e utilitario47».



NOTE


1 F. Nogueira, Informazione di Servizio del Ministéiro dos Negócios Estrangeiros, Lisbona, gennaio 1954. Arquivo Histórico Diplomático do Ministério dos Negócios Estrangeiros, Lisbona (AHD –MNE), 2 P, M 232, A 59. ^
2 Fin dall’immediato dopoguerra, infatti, i paesi coloniali europei erano soliti riunirsi per scambiarsi informazioni e trattare problematiche comuni, dalle questioni economiche ai trasporti, dalla salute al lavoro. Risale al gennaio 1950, ad esempio, la creazione della Commissione di Cooperazione Tecnica nell’Africa Sub Sahariana (CCTA), incaricata di istituzionalizzare le riunioni di carattere tecnico che si erano svolte fino ad allora. Cfr. P. Aires de Oliveira, Os despojos da aliança. A Grã-Bretanha e a questão colonial portuguesa, 1945-1975, Lisboa, Tinta da China, 2007, pp. 67-73. ^
3 Le prime quattro riunioni tra i quattro paesi europei si sono svolte a Bruxelles (1955), Londra (1956), Parigi (1957) e Lisbona (1958). Cfr. Apontamento del MNE, in J.M. Fragoso, Conversas quadripartidas sobre a África local da próxima reunião, A. Moreira, H. Martins de Carvalho e J.M. Fragoso (relatore). Lisbona, 19 luglio 1957. AHD del MNE, P.O.I. 177. ^
4 Nel corso degli anni Cinquanta, si assiste alla formazione di numerosi gruppi e partiti politici, non ancora coinvolti nella lotta armata, per l’indipendenza delle colonie portoghesi. In Angola si ha l’União das Populações do Norte de Angola (UPONA – 1954), il Partido de Luta dos Africanos de Angola (PLUA- 1956), il Movimento de Libertação Nacional de Angola (MLNA), l’Association de Ressortissant de l’Enclave de Cabinda (MLEC-1960) e infine il Movimento Popular pela Libertação de Angola (MPLA-1956). In Guinea, invece, le proteste e le associazioni per la lotta anticoloniale vengono organizzate dalla piccola borghesia creola. Nel 1956 sorge il Partido Africano para a Indipendência da Guiné-Bissau e de Cabo Verde (PAIGC) e nel 1959 il Fronte de Libertação da Guiné e de Cabo Verde (FLGC). Nel 1957, alcuni nazionalisti africani formano a Parigi il Movimento Anticolonialista, il MAC, che raggruppa il MPLA angolano, il PAIGC di Guinea e Capo Verde, e trasformandosi in FRAIN (Frente Revolucionária Africana para a Independência Nacional-1959) organizzerà la Conferência das Organizações Nacionalistas das Colónias Portuguesas (CONCP–aprile 1961). Si veda M. Gonçalves Martins, A descolonização portuguesa. As responsabilidades, Braga, Livraria Cruz, 1986, pp. 8-9. Il Mozambico sarà l’ultima colonia portoghese a fondare un movimento indipendentista con carattere realmente nazionale, con la creazione del FRELIMO, il Fronte de Libertação do Mozambique nel giugno del 1962. Cfr. N. Mcqueen, A descolonização da África portuguesa. A Revolução metropolitana e a dissolução do império, Mem Martins, Editorial Inquérito, 1997, p. 41. ^
5 Gli stessi diplomatici britannici presenti in Angola e Mozambico non giudicano, almeno fino al 1959 con le grandi sommosse in Congo, che i domini portoghesi in Africa siano in qualche modo in pericolo. La Gran Bretagna considerava più credibile la formazione di un movimento separatista bianco, come espressione della volontà di emancipazione dal centralismo do Lisbona, piuttosto che la nascita di forti movimenti indipendentisti guidati da africani. Si veda P. Aires de Oliveira, op. cit., p. 183-185. ^
6 Cfr. N. Mcqueen, op. cit., p. 38. ^
7 Nel 1948 sorge in Angola la rivista letteraria «Mensagem», espressione del rinascimento culturale che attraversa il paese in quegli anni. In Mozambico si ha invece il giornale «O Brado Africano», mentre a Capo Verde, già dal ’38, la rivista «Claridade», seppure pubblicata saltuariamente, promuove «l’indipendenza letteraria» come forma di resistenza coloniale. Si veda D. Cabrita Mateus, A luta pela independência. A formação das elites formadoras da FRELIMO, MPLA e PAIGC, Lisboa, Inqérito, 1999, pp. 54-62. ^
8 Secondo Eduardo Mondlane, fondatore del Fronte di Liberazione mozambicano (FRELIMO), il NESAM «contribuì al processo rivoluzionario in tre modi: primo, diffondendo idee nazionaliste tra i giovani neri istruiti; secondo, riuscendo a rivalorizzare la cultura nazionale, dando l’opportunità di studiare e discutere sul Mozambico senza essere un’appendice del Portogallo; terzo, ma non meno importante, perché consolidò i contatti personali, stabilendo una rete di legami a livello nazionale, rete che si tessé tra persone di tutte le età e che poteva essere usata per un futuro movimento clandestino». Ivi, p. 60. ^
9 Cfr. M. da Conceição Neto, Angola no século XX (até 1974), in V. Alexandre, (coord.), O Império Africano. Séculos XIX e XX, Lisboa, Colibrí, 2000, pp. 183-184. ^
10 Cfr. F.M. Gomes, Memórias de uma guerra inacabada. Portugal, os Estados Unidos e o processo de descolonização angolano, Lisboa, Colibrí, 2006, pp. 48-49. Molte personalità a capo dei movimenti nazionalisti africani ricevono un’educazione dalle missioni protestanti. Ad esempio, Agostinho Neto, presidente dell’MPLA, era figlio di un pastore e di un’insegnante metodisti, Jonas Savimbi e altri dirigenti dell’UNITA ricevono un’educazione protestante, Eduardo Mondlane, presidente del FRELIMO, calvinista. Cfr. D. Cabrita Mateus, op. cit., pp. 34-35. ^
11 Il Partido Comunista Português sarà a lungo l’unico partito portoghese che appoggerà pienamente la decolonizzazione. Nell’ottobre del ’57, in occasione del V Congresso tenutosi clandestinamente ad Estoril e al quale partecipa anche Lúcio Lara come osservatore delle colonie, sarà approvata una dichiarazione che rivendica l’indipendenza totale delle colonie. In esso si afferma infatti che «il V Congresso del PCP proclama il riconoscimento incondizionato dei diritti dei popoli delle colonie in Africa dominate dal Portogallo all’immediata e completa indipendenza. La causa dei popoli coloniali si identifica con la nostra causa. Non può essere libero un popolo che opprime un altro popolo!» Cit. in L. Lara, Documentos e comentários para a história do MPLA até Fevereiro de 1961, Lisboa, Dom Quixote, 1999, p. 74. ^
12 La Casa dos Estudantes do Império nasce con il patrocinio dell’allora ministro delle colonie Bernardino Machado e di Marcelo Caetano, all’epoca commissario nazionale della Mocidade Portuguesa. Istituita con il compito di divulgare la politica coloniale e centralizzata del regime, le sedi di Lisbona, Coimbra e Porto in realtà saranno importanti centri per la diffusione di idee anticolonialiste tra gli studenti dell’impero portoghese. Cfr. D. Cabrita Mateus, op. cit., pp. 66-71. Si veda anche A. Faria, A Casa dos Estudantes do Império: itinerário histórico, Lisboa, Câmara Muncipal, 1995. ^
13 La denuncia a livello internazionale della condotta portoghese in Africa è, ad esempio, uno degli obiettivi principali del Movimento Anticolonialista. Il MAC, fondato a Parigi nel ’57, ma con una direzione a Lisbona guidata da Agostinho Neto, Amílcar Cabral, Eduardo Santos, Lúcio Lara e Noémia Sousa, raggruppa africani di tutte le colonie portoghesi. La partecipazione dei dirigenti del MAC alle conferenze di scrittori neri e alle conferenze panafricane di fine decennio permette di stabilire contatti tra i nazionalisti africani. L’organizzazione del MAC, inoltre, durante la Conferenza Panafricana di Tunisi del gennaio ’60, si trasforma in FRAIN (Frente Revolucionária Africana para a Independência Nacional delle colonie portoghesi), incorporando al suo interno anche il Partido Africano da Independência da Guiné dita portuguesa (PAI) e il Movimento Popular de Libertação de Angola (MPLA). Cfr. L. Lara, op. cit., pp. 348-350. ^
14 Con il piano di sviluppo del 1953, chiamato Plano de Fomento, il governo centrale si propone di sviluppare le infrastrutture coloniali, attraverso la costruzione di nuove vie di comunicazione, e incrementare la popolazione europea nelle colonie africane. Il trasferimento di una parte della popolazione disoccupata dalla Metropoli ai territori d’oltremare ha infatti un doppio vantaggio. In questo modo mentre nel Portogallo continentale si tenta di ridurre il conflitto sociale derivato dalle pessime condizioni di lavoro, allo stesso tempo i nuovi coloni bianchi possono assicurare a Lisbona un maggiore controllo sui nativi. Cfr. M. da Conceição Neto, op. cit., pp. 180-181. ^
15 Già nei primi anni della Prima Repubblica si dà inizio ad un rinnovamento della politica coloniale portoghese. Nel tentativo di promuovere una decentralizzazione amministrativa, soprattutto dal 1920, alcuni poteri vengono trasferiti alle colonie. La nomina di Alti Commissari con ampi poteri per l’Angola e il Mozambico si accompagna ad una serie di programmi per lo sviluppo economico delle colonie. Tra questi spicca indubbiamente quello di Norton de Matos, prima Governatore (1912-15) e poi Alto Commissario (1921-24) in Angola. Il suo progetto di parziale apertura al capitale straniero, di costruzione di nuove infrastrutture, di imposizione di alcune colture da destinare all’esportazione e l’incentivo all’immigrazione di coloni bianchi anticipa la politica coloniale degli anni ’50. Quel tentativo di rinnovamento si rivelerà di breve durata, restando soprattutto sulla carta. Con l’instaurazione della dittatura militare nel 1926 si ritorna ben presto ad una centralizzazione quasi assoluta e a una politica cosiddetta “di assimilazione”, accentuata dalla salita al potere di Salazar e dalla promulgazione dell’Acto Colonial nel ’30. Alla fine degli anni Quaranta, Norton de Matos si opporrà alla politica coloniale salazarista. Le sue critiche si rivolgeranno soprattutto alla centralizzazione dei poteri da parte di Lisbona e alla politica di separazione tra bianchi e neri. La sua idea di unità nazionale, di fusione di tutti i territori portoghesi in un’unica nazione, sebbene in parte condivisa dalla retorica dell’Estado Novo, pone al centro la necessità dell’autonomia delle colonie e la decentralizzazione dei poteri. Per un approfondimento del suo programma coloniale si veda N. de Matos, A Nação Una, Lisboa, Paulino Ferreira Filhos, 1953. ^
16 I rappresentanti portoghesi accusano coloro che giudicano il colonialismo esclusivamente per gli errori commessi, senza tener conto della «meritevole opera di sviluppo e scambi culturali, della crescita di fratellanza tra i popoli, del progresso economico, del miglioramento generale delle condizioni di vita nel mondo». L’opinione internazionale, a detta del regime, si concentra solo sugli «aspetti deplorevoli» della storia della colonizzazione moderna, condannandola «come attività indegna. La parola è stata cancellata dai testi dei trattati e dalle pagine dei libri. Si è passati a parlare in toni grandemente dispregiativo del colonialismo, dando al termine il senso di sistema di oppressione e sfruttamento […». J.M. Cunha, Questões ultramarinas e internacionais, vol. 1, Lisboa, Ática, 1960, p. 52. ^
17 L’Acto Colonial del 1930 è promulgato, secondo la definizione di Adriano Moreira, «durante un regime di anormalità costituzionale», cioè in un periodo in cui la Costituzione della Prima Repubblica è sospesa e ancora non è stata promulgata quella dell’Estado Novo. (A. Moreira, A revogação do Acto Colonial, Lisboa, Separata do n° 3 da «Revista do Gabinete de Estudos Ultramarinos», 1951, p. 3). Sostituendo le disposizioni della costituzione liberale del 1911, l’Acto Colonial verrà poi in un secondo momento integrato all’interno da Constituição Política dell’Estado Novo nel 1933. Il Título VII, composto da una unico articolo, (Art. 132), recita: “Sono considerate materie costituzionali le disposizioni dell’Acto Colonial […]”. (Cfr. Constituição Política da República Portuguesa, aprovada pelo Plebiscito Nacional de 19 de Março de 1933 e Acto Colonial, publicado em cumprimento do atigo 132.° da Constituição, Lisboa, Edição Oficial, Imprensa Nacional, 1933). L’autonomia che le nuove disposizioni concedono ai territori d’oltremare portoghesi introducono ad un sistema di assimilazione o centralizzazione, permettendo agli indigeni di diventare cittadini portoghesi. In realtà, come ammette lo stesso Marcello Caetano, si tratta di una forma di «autonomia temperada» e imperfetta, giustificata dalla necessità di rispondere al principio di unità nazionale. Il regime coloniale inaugurato dall’Acto Colonial concede un’autonomia che di fatto è fortemente limitata e sempre subordinata all’ideale nazionalista e, soprattutto, alle decisioni del governo centrale di Lisbona. Per maggiori approfondimenti si veda A.E. Duarte da Silva, Salazar e a política colonial do Estado Novo: o Acto Colonial (1930-1951), in Aa.Vv., Salazar e o Salazarismo, Lisboa, Dom Quixote, 1989, pp. 101-152. ^
18 Cfr. Duarte da Silva, ivi, p. 144. ^
19 La revoca dell’Acto Colonial e le trasformazioni che ne derivano non sono appoggiate all’unanimità dai membri del governo salazarista. Marcello Caetano e la Camera Corporativa, infatti, esprimono un’opinione contraria alla revisione costituzionale. La Camera Corporativa, si legge nel suo “Parere”, «richiama l’attenzione sui pericoli di un’assimilazione prematura dei territori Ultramarini alla Metropoli. Le loro condizioni naturali sono e resteranno molto differenti, e sono differenti anche la maggior parte delle condizioni sociali ed economiche. […] L’assimilazione deve essere lenta, accompagnando la civilizzazione dei nativi e lo sviluppo dei nuclei del popolamento europeo. E, essendo così, non è possibile imporre un regime uniforme a tutti i territori […]» Câmara Corporativa, “Parecer” n.° 10/v (Revisão do Acto Colonial), «Diário das Sessões», n.° 70, 19 gennaio 1951, in J.M. da Silva Cunha, O sistema português de política indígena, Coimbra, Coimbra Editora, 1953, p. 143. ^
20 Per quanto siano indubbi i vantaggi derivanti da tali trasformazioni, non tutti gli esponenti del governo si trovano d’accordo con le nuove disposizioni. L’idea di assimilazione tra la metropoli e l’Ultramar è vista da alcuni, come ad esempio Marcelo Caetano e Armindo Monteiro, pericolosa per il prestigio e la missione storica della nazione, oltre che segnale di debolezza del paese di fronte alle pressioni internazionali. Cfr. Y. Leonard, O Ultramar Português, in Francisco Bethencourt e Kirti Chaudhuri, (direcção), História da expansão portuguesa - Último Império e recentramento (1930-1998), vol. V, Lisboa, Círculo de Leitores, 1999, p. 36. ^
21 Per tutto il decennio il regime si sforzerà di trovare le giustificazioni storiche ed ideologiche al proprio colonialismo da presentare all’opinione pubblica e alle Nazioni Unite. Si afferma ripetutamente che «La designazione di “province”, applicata ai territori ultramarini, è molto antica nel diritto e nel costume portoghesi», risale fin dal XVI secolo. Cfr. documento allegato al Relatório do delegado português à 4ª Comissão da XII Assembleia Geral da ONU, Settembre- Dicembre 1957, AHD del MNE, 2P M540 A7. ^
22 M. Sarmento Rodrigues, Alguns aspectos dos nossos problemas do Ultramar, Porto, C.E.F.I., 1952, p. 13. ^
23 Lei Orgânica do Ultramar Português, Lei n.° 2 066, «Diário do Governo», n.° 135, 1ª Série, de 27 de Junho de 1953. ^
24 Capítulo II, Princípios gerais relativos à administração ultramarina, BASE II-I. Ibidem. ^
25 Capítulo VIII, Secção VI, Das polulações indigenas, BASE LXXXIV- I. Ibidem. ^
26 Articolo 2 dell’Estatuto dos Indígenas Portugueses das Províncias de Guiné, Angola e Moçambique proclamato col Decreto Legge n° 39 666 del 20 maggio 1954, in sostituzione dell’Estatuto Político Civil e Criminal dos Indígenas del 1929. J.C. Ney Ferreira e V. Soares da Veiga, Estatuto dos Indígenas Portugueses das Províncias de Guiné, Angola e Moçambique, Lisboa, 2ª ed., 1957, p. 14. Lo status di indigeno viene soppresso a São Tomé e Principe, ma sarà mantenuto negli altri territori africani. L’Estatuto dos Indígenas sarà in seguito revocato con il Decreto Legge n° 43 893. del 6 settembre 1961, estendendo così la cittadinanza a tutti gli indigeni dell’impero portoghese e sancendo l’uguaglianza tra i portoghesi della metropoli e quelli delle province d’oltremare. Cfr. M. Gonçalves Martins, op. cit., p. 7. ^
27 M. Caetano, Tradições, princípios e métodos da colonização portuguesa, Lisboa, Agência Geral do Ultramar, 1951, p. 29. ^
28 «Non cerchiamo di imporre le leggi europee alla mentalità degli indigeni. Ma attraverso la convivenza e l’educazione stiamo trasmettendo la nostra mentalità, la nostra fede, i nostri costumi, in modo che gli assimilados vengano poi inquadrati, naturalmente, nella legislazione e nelle istituzioni portoghesi, per loro necessità, non per nostra imposizione». Ivi, p. 33. ^
29 «La condiscendenza con gli usi e costumi indigeni è limitata dalla morale, dai dettami di umanità e dagli interessi superiori del libero esercizio della sovranità portoghese». «Nell’applicare gli usi e costumi indigeni le autorità cercheranno, quando è possibile, di armonizzarle con i principi fondamentali del diritto pubblico e privato portoghese, cercando di promuovere la cauta evoluzione delle istituzioni native […]». Estatuto dos Indígenas Portugueses, Art. 3, § 1 e § 2, p. 20. ^
30 «Il negro, avendo le sue capacità originarie assopite, non poteva da solo rendersi conto dell’ambiente che lo circondava e delle immense possibilità che gli erano offerte dalla natura. Fu il colono che lo risvegliò e che investì il capitale del suo sudore e della sua intelligenza per creargli migliori condizioni di vita e di integrità fisica e morale[...]. Così il nativo ci accettò volontariamente come esseri più evoluti e ci rispettò come detentori dell’autorità, senza sminuirsi come uomo. Non fu discriminazione che si verificò ma la gerarchia naturale delle attitudini, delle culture e delle facoltà». L.F. de Oliveira e Castro, O anticolonialismo e a acção civilizadora no Ultramar, Porto, Separata da Revista «Rumo», 1960, p. 8. ^
31 G. Freyre, Em torno de um novo conceito de tropicalismo, Coimbra, Coimbra ed., Limitada, 1952, p. 19. ^
32 Ibidem. ^
33 «Il Portogallo, il Brasile l’Africa e l’India Portoghese, Madera, le Azzorre e Capo Verde costituiscono oggi un’unità di sentimento e cultura. Questa unità intima, di sentimenti, ed esterna, di cultura nelle sue forme più evidenti e concrete, è la conseguenza dei processi e delle condizioni della colonizzazione portoghese che nell’Asia e nel Brasile, nelle isole dell’Atlantico e fino ad un certo punto in Africa, svilupparono negli uomini le stesse qualità essenziali di cordialità e simpatia, caratteristiche del popolo portoghese – il più cristiano dei colonizzatori moderni nelle sue relazioni con le genti considerate inferiori». G. Freyre, O Mundo que o Português criou e uma cultura ameaçada: a luso-brasileira, Lisboa, Ed. Livros do Brasil, 2ª ed., 1959, p. 39. ^
34 Ivi, p. 14. ^
35 Dopo il viaggio compiuto nei territori portoghesi, dall’agosto 1951 al febbraio dell’anno successivo, Freyre pubblica, prima in Brasile e poi in Portogallo, due opere: Aventura e Rotina, sorta di diario di viaggio in cui viene elogiata anche la figura di Salazar, e Um Brasileiro em terras Portuguesas che invece racchiude i testi delle conferenze tenute in quei mesi. Y. Leonard, “O Ultramar Português”, op. cit., p. 39. ^
36 J. M. da Silva Cunha, O sistema português de política indígena, op. cit., pp. 66-67. ^
37 Idem, Questões ultramarinas e internacionais, 1 vol., Lisboa, Ática, 1960, p. 178. ^
38 A.A. de Andrade, O tradicional anti-racismo da acção civilizadora dos portugueses, Lisboa, Agência-Geral do Ultramar, 1953, p. 5. ^
39 L.F. de Oliveira e Castro, Conceito Português de colonização, Porto, Separata da Revista «Ultramar» n.° 5, 1961, p. 11. ^
40 A. Moreira, A Conferência de Bandung e a missão de Portugal - Conferência realizada na Sociedade de Geografia para encerramento da semana do Ultramar, Luanda-Lourenço Marques-Lisboa, 1955, p. 18. ^
41Ivi, p. 17. ^
42 Bandung rappresenta «la comparsa di un movimento imperialista e colonialista di base razziale, che condanna il colonialismo esercitato dalla razza bianca ma gli riconosce legittimità quando esercitato dai popoli di colore». A. Moreira, Política Ultramarina, Lisboa, Junta da Investigação do Ultramar, Centro de Estudos Políticos e Sociais, 1, (3ª ed.), 1960, p. 72. ^
43 A. Moreira, A Conferência de Bandung [...], op. cit., p. 18. Il Portogallo, continuando a difendere propri ideali imperiali, anche all’inizio degli anni Sessanta continuerà a tentare di presentarsi come «il più valido guardiano dell’immortale spirito europeo», che perciò rifiuta «di seguire i venti della storia che ostinatamente pretendono di sotterrare tutti valori del passato […]». L.F. de Oliveira e Castro, Conceito Português de colonização, op. cit., p. 16. ^
44 «È essenza organica della Nazione Portoghese compiere la funzione storica di possedere e colonizzare domini ultramarini e di civilizzare le popolazioni indigene in esse presenti [...]» Articolo 2 dell’Acto Colonial, in Constituição Política da República Portuguesa, op. cit. , p. 35. ^
45 A. Moreira, Imperialismo e Colonialismo da União Indiana, Agência Geral do Ultramar, 1955, p. 11. ^
46 «Quando l’azione è esercitata con il senso di missione, con la certezza che gli interessi dei popoli colonizzati sono preminenti, allora la comunità internazionale vede lì il compimento di un dovere. […] Solo il colonialismo missionario è legittimo e la dottrina dello spazio vitale è considerata un pericolo per la pace nel mondo». A. Moreira, Política Ultramarina, op. cit., p. 75. ^
47 L.F. de Oliveira e Castro, Anticolonialismo e descolonização. Ensaios, Lisboa, Agência-Geral do Ultramar, 1963, p. 41. ^
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