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Partito democratico: più lenti che svelti
di Adolfo Battaglia
Molti ancora ne dubitano, ma è ben possibile che il partito democratico non solo si faccia ma addirittura si faccia nell’attuale legislatura. Del resto, i motivi per costituirlo non sono né pochi né minori. Da una parte, è ormai più che matura nel paese l’esigenza di quella forte sinistra di governo che l’Italia non ha mai conosciuto nella sua storia politica. Dall’altra, la sua formazione non rappresenta ormai una questione di parte ma un interesse generale: perché una volta fallito il rinnovamento della destra nella scorsa legislatura, il compito della ristrutturazione del sistema politico, della riduzione della sua frammentazione, è inevitabilmente passato al centrosinistra; e si identifica appunto con la svolta che, sotto molti profili, può essere determinata dalla formazione del nuovo partito. Esso, infine, è indispensabile se il Governo Prodi deve reggere nel tempo e adempiere alla sua funzione, che è quella, difficile ma di valore diciamo pure non irrilevante, della rifondazione economica e civile del paese.
È consolante che vi sia larghissimo accordo su questo insieme di ragioni. Lo è altrettanto che ci sia ampia convergenza su ciò che il nuovo partito non deve essere. Da Prodi ad Amato, da Fassino a Rutelli, da Parisi a Salvati, per citare solo alcuni nomi, sembra unanime il convincimento che il Partito Democratico non debba essere un incontro di apparati, non debba rappresentare un fatto oligarchico, non debba costituire una chiusura alla società, ecc. Sono propositi eccellenti, che riempiono tutti di gioia. Non è chiaro, tuttavia, come si farà ad evitare quella serie di jatture. Con un comitato direttivo nominato dai partiti? Con un comitato promotore fatto da rappresentanti di partito infiorato da uno spruzzo di persone indipendenti? A occhio e croce sembrano strumenti più adatti a realizzare le jatture che a evitarle. E la ragione di fondo di questa aporia è probabilmente – speriamo non sembri sconveniente l’osservarlo – che non c’è stato finora sufficiente approfondimento né adeguata chiarezza circa la natura, la cultura e gli indirizzi del nuovo partito.
Per esempio, ne «Il Riformista», A. Polito ha notato che «ci sono temi su cui i riformisti pensano troppo poco, mentre sono il pane quotidiano di quel popolo che si vorrebbe un po’ alla volta conquistare: libertà, merito, sussidarietà, individuo, persona, valori, nazione, patria, America, tradizione». Senza assorbire queste parole, egli ha notato, il party building «potrebbe al massimo assemblare ciò che già c’è, e che già oggi segna la linea dei due partiti interessati al progetto».
È un’osservazione da accoppiare con quella, di segno diverso, fatta recentemente sullo stessa tema da Massimo D’Alema. Commentando un libro di Vacca sul riformismo – interessante anche se poco felice1 – egli ha notato che in Italia il riformismo è una forza “normale” sia rispetto alla storia del Paese sia rispetto alla storia europea. Ora, non è dubbio per alcuno che le forze riformiste italiane abbiano gli stessi problemi di quelle europee. Il punto è però se allo stato delle cose abbiano anche le stesse risposte: se il riformismo italiano possieda la stessa qualità, la stessa consistenza, gli stessi indirizzi di fondo dei principali partiti di sinistra democratica europea.


Il nodo programmatico

Sotto questi profili, le politiche di riforma economica non sono l’elemento più significativo per esprimere un giudizio. Sono politiche importanti e difficili, e infatti quasi in ogni paese vengono realizzate lentamente e parzialmente. Ma in certo senso sono anche politiche obbligate, perché le forze che muovono le società contemporanee sono così potenti da forzare i Governi a compierle, per riluttanti che essi siano.
Per esprimere il giudizio, accanto a queste sembrano importanti le grandi questioni che dominano il mondo attuale. Le scelte che attengono al destino o al declino dell’Europa. La risposta “laica” all’opera delle Chiese e alla diffusa esigenza di religiosità. Il riequilibrio dello sviluppo economico mondiale. La visione della nuova società flessibile. Il costume etico-politico e l’accountability del riformismo. Il rispetto del criterio regolatore della vita moderna, merito e competenza.
In effetti, la questione centrale delle società occidentali non è oggi quella economico-sociale che fu tipica del Novecento. È piuttosto la risposta ai problemi posti dalla globalizzazione dei fenomeni e dalla fondamentale internazionalizzazione della politica. Sotto tali aspetti, i rinnovatori delle politiche di sinistra, socialdemocratici o democratici che siano, e quasi tutti nel Nord-Europa, hanno visto il punto ben chiaramente. Ne hanno derivato la necessità di confrontarsi con il mercato globale, di fare i conti con l’efficienza dei sistemi, di ridefinire gli obiettivi e i mezzi della solidarietà e dell’equità sociale. Hanno visto l’urgenza di ripudiare ogni tendenza massimalista e riscoprire le radici fabiane e liberal-radicali del movimento di riforma. Si sono accreditati non solo come europeisti ma anche come sostenitori di una più larga comunità occidentale euro-atlantica. Hanno ribadito il metodo della gradualità nel perseguimento di una visione di lungo raggio.
Ora, in Italia, né il più forte partito della sinistra, prima ispirato dallo stalinian-togliattismo, poi impregnato dal revisionismo berlingueriano; né il partito socialista, sempre ricco di massimalismo e clientelismo; né il Sindacato, fondato su una visione conflittuale dei rapporti sociali; nessuna di queste forze ha mai, in cinquant’anni di lotta politica, assorbito le concezioni “democratiche” e le esperienze di governo delle spregiate socialdemocrazie nord-europee. E naturalmente le forze italiane di origine marxista, essendo rimaste indietro su questo terreno per alcuni decenni, si sono poi trovate nella condizione di dover rincorrere una seconda volta le forze della sinistra europea: perché queste avevano nel frattempo sviluppato il loro rinnovamento e parallelamente all’inizio dei fenomeni di globalizzazione avevano trasformato il credo e i motivi “socialdemocratici” della loro storia acquisendo la fisionomia della “terza via”. In altri termini la rincorsa verso la socialdemocrazia, cara ad una parte dei Ds, è del tutto obsoleta in una fase in cui bisogna raggiungere non la vecchia socialdemocrazia ma la nuova (e anche quella parte di storiografia2 che addebita a Berlinguer di non aver “superato le colonne d’Ercole” spostandosi in tempo verso il socialismo, non tiene conto che già in quegli anni di “fine del comunismo” le colonne d’Ercole non portavano alla socialdemocrazia ma al metodo e alla cultura della riforma democratica senza aggettivi). Mentre appare lievemente patetico il tentativo di quei leader della sinistra Dc, come De Mita, che ancora tentano di ritornare a una posizione cattolico-democratica.
È legittima allora la domanda se in Italia le forze della sinistra riformatrice, unendosi in un solo partito, possano adesso recuperare il tempo perduto e le occasioni sciupate. Se possano acquistare la velocità di movimento doppia, rispetto al passato, che è necessaria per colmare il gap col riformismo aggiornato dell’Occidente. Il problema degli indirizzi e della caratterizzazione politico-culturale del Partito Democratico è tutto qui.
Sarebbe ingenuo ritenere che possa essere risolto da illuminati documenti. Piuttosto, è da notare che esso si identifica in parte non indifferente con la capacità di realizzazione programmatica del Governo Prodi: cioè del Governo guidato dal leader in pectore del partito in formazione.
In altri termini, il volto del nuovo partito è destinato ad essere sotto il profilo programmatico ciò che il Governo in concreto farà confrontandosi con le cose e i condizionamenti delle cose. Ciò che farà Padoa-Schioppa per l’indirizzo della vita economico-sociale del paese. O Gentiloni di fronte alle questioni finanziarie e tecnico-scientifiche dell’universo radio-televisivo. O la Bindi sui “Pacs”. O Mussi sulla ricerca scientifica. Ciò che il Governo risponderà alle domande della Chiesa in materia di aborto, bioetica, libertà di ricerca, finanziamenti alla scuola privata. Ciò che il Premier e i ministri decideranno in affermazione o negazione del principio di merito e competenza nelle nomine pubbliche. Quel che riusciranno ad elaborare in sostituzione del pasticcio costituzionale del centro-destra. Ecc.
Al di là di questo, altre istanze programmatiche potranno certo essere esposte o scritte. Ma politicamente, di fronte all’opinione pubblica, il nuovo partito sarà qualificato da ciò che farà o non farà il Governo che esso dirige e domina; non da ciò che sarà elaborato nelle sedi di partito. In Gran Bretagna, per esempio, il New Labour è bensì andato al governo dopo essersi programmaticamente rinnovato: ma poi ha vinto le elezioni altre due volte per nessun’altra ragione che l’opera dei governi Blair. Potrà essere confermato al governo una terza volta per ciò che il futuro governo Brown farà, non per la piattaforma elettorale del partito. In Italia, siamo in una situazione anomala: la sinistra governa ma si deve ancora rinnovare e poi deve anche trovare il modo di unirsi.
In altri termini, piaccia o meno, il Governo Prodi è caricato di un peso che lo trascende e che investe direttamente la formazione del nuovo partito: nella condizione in cui il centro-sinistra è andato al governo, è inevitabilmente la classe di governo ad essere chiamata a rappresentare il programma del riformismo che caratterizzerà il Partito Democratico. I partiti seguono. E non tutti i partiti del centro-sinistra seguono con entusiasmo3.


Revisioni storiche e riformismo

Occorre dire poi che, come la qualificazione programmatica del Partito Democratico dipenderà largamente dal Governo, così una convincente fisionomia politico-culturale di esso dipenderà moltissimo dalla sua coscienza della storia politica del paese.
Una seria riflessione critica sull’ultimo mezzo secolo di lotta politica sarebbe in verità necessaria ed utile per tutte le nostre forze politiche, che sembrano spesso barcollare nel buio fra lampi di ricordi imprecisi, da cui traggono spesso conclusioni improbabili. Come ha detto di recente uno storico, occorrerebbe anzitutto «capire perché e come è cambiato [il paese], chi ha favorito il cambiamento e chi vi ha resistito, che cosa è da salvare e che cosa invece conviene cambiare ancora: ci vuole una Storia che corregga la facile vulgata»4. Non è dubbio: la capacità di rendersi conto delle cause delle cose, o in altri termini la riflessione storica, condiziona l’operare politico. Se non c’è conoscenza teorica, diceva Antonio Labriola, c’è impotenza pratica. Ed è questo un tipo di riflessione che sembra particolarmente necessario per la unificanda sinistra di governo.
Sarebbe invero destinato ad essere poco vitale un nuovo partito che volesse nascere come Minerva dal cervello di Giove, prescindendo dalla molteplicità di elementi politicamente e culturalmente concreti da cui deriva. Sarebbe poi particolarmente singolare che il partito della sinistra riformista ignorasse nel suo bagaglio culturale le radici del riformismo italiano e la parte rilevante che esso ha avuto nella vicenda del paese.
È questa la storia cinquantennale di non pochi e non minori contrasti tra il riformismo di stampo europeo, laico, cattolico, socialdemocratico, da una parte, e le posizioni comuniste, sindacali e (parzialmente) socialiste, dall’altra. È però anche la storia del prevalere, alla lunga, delle principali posizioni del riformismo, sia nel campo della politica estera sia in quello della politica economica: dai temi fondamentali dell’Europa, dell’alleanza occidentale, del rapporto con l’America, di Israele e del Medio Oriente, ai temi della politica dei redditi, della concertazione fra le forze sociali, delle liberalizzazioni e delle privatizzazioni.
Certo, nel quadro dell’auspicabile revisione politica e storiografica i capisaldi da esplorare non sembrano pochi. È da vedere la funzione e il valore della politica di collaborazione democratica guidata per un sessennio da De Gasperi, che ancora passa come odiosa politica “centrista” quando per l’Italia ha costituito la fase più ricca di riforme e di modernizzazione. C’è da riflettere sul significato e la portata della politica di Berlinguer, che non fu solo uno “strappo” rispetto all’Urss ma anche alla tradizione e ai contenuti del Partito Comunista in termini che ne hanno consentito l’ulteriore evoluzione e la finale trasformazione (come il volume recente di F. Barbagallo5 chiaramente stabilisce). C’è da precisare il significato e la portata dell’opera del riformismo azionista-repubblicano, di quello socialdemocratico e di quello cattolico (il quale non va confuso con la sinistra sociale cristiana o con le correnti sindacaliste): che furono riformismi spesso uniti, al di là della differenza ideologica, nelle battaglie concrete da cui è stata positivamente segnata la vita moderna del paese (e basterebbe rileggere, sull’alto fondamento di essi, quanto scrive nella sua autobiografia politica uno dei pochi socialdemocratici autentici del Pci, il quale fu sempre coerentemente minoritario in un partito che riformista non fu mai6). Infine, occorrerebbe gettare uno sguardo critico sul valore della partecipazione socialista nelle fasi del centro-sinistra, prima, e dei governi Craxi poi: che furono entrambe al contrario di quanto spesso si afferma, fasi deludenti, di grande movimento e scarse riforme. Si tratta nel complesso, come si vede, di un lavoro che è tanto ampio quanto utile e costruttivo per l’identità del nuovo partito.


Incontrarsi e non dirsi addio

Sotto gli aspetti fin qui delineati, non si può dire onestamente che la formazione del Partito Democratico sia molto avanti. Un fatto positivo è senza dubbio la rinunzia alla vecchia idea della “contaminazione” tra culture diverse (che si sarebbero dovute unificare contaminandosi l’una con l’altra: idea epidemiologica che fa ancora rabbrividire ma che in verità a suo tempo fu creduta ottima). Ancora, però, non si è rinunziato alla tesi, anche questa autorevolmente espressa, che bisogna «far incontrare culture e storie riformiste diverse»7. Naturalmente è vero: per riunificarsi bisogna incontrarsi. Ma incontrarsi dove, esattamente? Su quale terreno?
Invece di pensare ad incontri a una imprecisabile mezza strada, occorrerebbe forse definire meglio (e cominciare a mettere in pratica) il metodo del riformismo su cui il nuovo partito deve fondarsi. E sarebbe altrettanto utile che non solo dalla sensibilità degli studiosi ma soprattutto dalla spinta dei leaders politici derivasse un impulso a quella riflessione storica cui, come si accennava, un partito deve necessariamente ispirarsi. Altresì, occorrerebbe qualcosa di più fresco in materia di indirizzi generali del partito, ben distinguendoli dai programmi di governo.
Il loro rapporto teorico è infatti ben chiaro. I secondi debbono derivare dai primi perché è l’azione di governo che fissa in concreto, come si diceva, la qualificazione programmatica del partito di fronte all’elettorato. Ma anche qui ci si imbatte in un’anomalia. A differenza di quel che è normale in ogni paese, noi siamo in presenza di un’intensa azione di governo senza averne preventivamente fissato gli indirizzi di fondo. Dunque, anche questi ultimi sono in pratica affidati all’iniziativa e all’inventiva (e al buon senso) della classe di governo. Non sarà troppo? E non sarebbe urgente che i partiti, decidendo di unificarsi, fissino una serie di grandi orientamenti comuni (non di programmi di governo) magari sulla traccia degli indirizzi di fondo dei partiti di sinistra democratica nord-europei?
Tra l’altro essi pongono un grande e prioritario problema, su cui la sinistra italiana si è ormai seduta stancamente, ripetendo formule tradizionali. Essa non è ancora riuscita a prendere atto della situazione reale. Quella situazione che ultimamente T. Padoa-Schioppa ha così sintetizzato: «si tradiscono i fatti ignorando che, dopo secoli di predominio nel mondo, agli europei mancano oggi ordinamenti politici, capacità di decidere e risorse comuni per avere qualche influenza anche solo oltre la porta di casa: perciò la cultura e la stessa sopravvivenza dell’Europa sono in pericolo»8.
È così. E servirebbe dunque ripensare anche in Italia tutto il problema dell’Europa, analizzarne la condizione presente e ritrovare le vie e i modi per rilanciare i processi unitari. È probabile che ciò si potrà fare soltanto abbandonando i residui spunti terzaforzisti che permangono nell’animo di quella parte della sinistra da poco tempo arrivata ad impadronirsi della questione europea. Ed è inevitabile che per accrescere l’influenza dell’Europa si debba cominciare a guardarla con coerenza come il secondo pilastro su cui stabilizzare una maggiore unità dell’intero Occidente. Non si tratta, ovviamente di una questione fra tante di politica estera. Si tratta di una scelta tanto fondamentale quanto ricca di conseguenze in tutti i campi. E sarebbe sicuramente un errore che non fosse esplicitamente fissata, risultando visibile solo da momenti più o meno scombinati dell’azione di governo.


Delusione fatale?

Sembra infine necessario che si affronti esplicitamente la questione organizzativa del nuovo Partito Democratico. È una questione di strutture nuove: che cioè non richiamino alla mente nessuno degli attuali apparati dei partiti, espressione temibile dell’onnipotenza partitocratrica della seconda Repubblica ancor più che della prima. Altro, in verità, sono le strutture organizzative – che non possono non costituire l’ossatura di ogni forza politica. Altro sono gli apparati, essenzialmente retti da spietate concezioni di potere, che dell’organizzazione rappresentano uno sviluppo largamente degenerato. Pensare che questo problema possa essere superato dalla indizione periodica di elezioni primarie sarebbe solo un indice della difficoltà di pensare in termini realmente innovativi. Sarà in verità una cultura democratica più diffusa che produrrà un maggior numero di elezioni primarie, non saranno numerose elezioni primarie a poter sostituire le indispensabili strutture democratiche del nuovo partito. Non sarebbe il caso dunque di cominciare un lavoro serio anche su questo punto? L’idea di un rapido incontro a mezza strada tra l’apparato (forte) dei Ds e quello (debole) della Margherita, ha il solo risultato di sollevare dubbi e resistenze.
Due elementi, in effetti, contribuiscono a frenare il complesso lavoro che dovrebbe condurre al nuovo partito. Da una parte, la preoccupazione della Margherita (nonché di tutto il tessuto associativo indipendente che fa capo all’Ulivo) che esso risulti egemonizzato dalla forza prevalente dei Ds. Dall’altra, l’esigenza identitaria dei Ds, che rischia di prevalere in loro, su ogni altro problema. Forse è utile ricordare che i principali partiti della sinistra europea sono riusciti a trasformarsi negli ultimi anni, anche a costo di rotture interne, perché si sono completamente immersi in idee nuove, capaci di creare movimento, di mobilitare, di sconvolgere assetti e pensieri del tempo che fu. In un modo o in un altro, questo significano Blair e Brown in Gran Bretagna, Zapatero in Spagna, Schroeder e Beck in Germania, Ségolène Royal in Francia. E se Ds e Margherita non abbandonano le loro interne questioni, comprensibili che esse siano, sarà difficile che si concretizzi il new deal atteso dal nuovo Partito Democratico.
Che cosa poi succederebbe se non si concretizzasse non è chiaro. Ma si può fallire per due ragioni diverse: o perché non si riesce a creare un partito unico, o perché il partito unico non riesce ad interpretare l’esigenza di modernità politica espressa dal paese. L’auspicio è dunque che si faccia tutto, si faccia bene e si faccia presto. Ma se il prezzo della rapidità dovesse essere l’innesco di una terribile delusione, di una delusione fatale, allora meglio più lenti che più svelti.






NOTE
1 G. Vacca, Il riformismo italiano. Dalla fine della guerra fredda alle sfide future, Roma, Fazi Editore, 2006.^
2 Cfr. per esempio, da ultimo, S. Pons, Berlinguer e la fine del comunismo, Torino, Einaudi, 2006.^
3 Del resto, in linea più generale, in tutti i paesi in cui i partiti dimostrino un basso tasso di capacità di innovazione il Governo è destinato ad essere il motore non solo del Parlamento ma anche della lotta politica condotta dai partiti. Vi entra, anzi, come protagonista primo e più importante. E se la risposta dei partiti è di freno o di ripulsa del Governo ne può nascere facilmente una stagnazione o un blocco di tutti i processi politici.^
4 Cfr. l’intervista a P. Melograni, in «Il Sole 24 Ore», 10 giugno 2006.^
5 Cfr. F. Barbagallo, Enrico Berlinguer, Roma, Carocci, 2006.^
6 Cfr. G. Napolitano, Dal Pci al socialismo europeo, un’autobiografia politica, Roma-Bari, Laterza, 2005: dove si osserva che la Nota Aggiuntiva presentata dal ministro del Bilancio La Malfa nel 1962, cui fortemente contribuì un cattolico democratico come Pasquale Saraceno, rappresentò «il punto più alto dell’elaborazione di una visione nuova dell’azione pubblica»; e che «in essa si sarebbero potute riconoscere tutte le forze della sinistra, anche quelle di opposizione». Mentre invece, purtroppo «la sinistra di opposizione e i Sindacati restavano condizionati da troppe resistenze e riserve».^
7 Cfr. L’intervista a G. Fassino in «la Repubblica», 31 maggio 2006.^
8 T. Padoa-Schioppa, Europa una pazienza attiva, Malinconia e riscatto del Vecchio Continente, Milano, Rizzoli, 2006.^
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