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Augusto Del Noce e Giovanni Paolo II. Religione e politica contemporanea
di Gennaro Barbuto
1. Giovanni Paolo II è il papa di Augusto Del Noce. Si potrebbe dire, adottando il consueto lessico del pensatore torinese e absit iniuria verbis, che egli “incontra” il suo pontefice così come Gentile, che nella ricostruzione filosofica di Del Noce assume valore paradigmatico, “aveva incontrato” Mussolini.
Del Noce vede nel pontefice polacco il ripudio netto e radicale, analogo a quello che lui aveva illustrato in tante sue opere, di una concezione della modernità, che aveva contaminato molta parte del mondo cattolico. Uno degli idoli polemici ricorrenti del filosofo torinese è il “modernismo”, inteso non tanto nella sua espressione storica primo-novecentesca, ma quanto resa incondizionata di gran parte della cultura cattolica verso i miti e le fallaci illusioni della idea più diffusa e divulgata di una modernità inevitabilmente secolarizzata e desacralizzata, imposta dal pensiero laico e ateo.
Si faccia, però, attenzione: è improprio e sarebbe un completo travisamento del pensiero di Del Noce, rubricarlo sotto la definizione di anti-moderno tout court, assimilandolo ad altre forme otto-novecentesche di nostalgici vagheggiamenti di un’epoca medievale ormai non più reversibile. L’originalità di Del Noce consiste, invece, nel contestare quella che per lui è l’idea corrente di modernità e di ravvisare in essa una complessità non riducibile a un dominante ateismo. In questo modo, egli si distingue anche da quei filosofi, ai quali corrivamente è spesso associato, da Arendt a Strauss a Voegelin. Con questi filosofi senz’altro possono essere riconosciuti accenti e intonazioni comuni, soprattutto con Voegelin, ma quello che precipuamente appartiene a Del Noce è la sua distanza dall’anti-Moderno e il suo voler dimorare nel Moderno rivedendone l’immagine consueta e rischiarandone inediti risvolti. È come se continuasse ad abitare in una casa, scoprendone, tuttavia, un’errata planimetria catastale, e svelandone nuove stanze e anditi.
Ovviamente, quando si fa riferimento a termini come “moderno” si è consapevoli della sua contraddittorietà, plurivalenza, complessità e polisemia. Ma è altrettanto ovvio che è proprio di un discorso storico-filosofico, quale si presenta quello di Del Noce, di estremizzare le tesi, a volte sacrificando situazioni, momenti e personalità, che non a pieno rientrano nel quadro delineato. Del Noce, più volte, ha ribadito che la sua interpretazione “transpolitica” della storia contemporanea è l’unica che possa liberarsi da una visione materialistica ispirata dal marxismo o dall’economicismo neocapitalistico. Come confessa lo stesso pensatore torinese, e come è consueto ai filosofi, il suo ragionamento verte sulle “essenze”, potendo a volte suscitare reazioni urticanti in chi fa di professione lo storico. Ma, nonostante ciò, è un punto di vista dal quale guardare anche altri risvolti di quella medesima realtà, da lui non esplicitamente tematizzati.
D’altra parte, negli ultimi decenni la storiografia nazionale, forse troppo abbacinata dalla pur positiva lezione delle «Annales», ha scisso quella unione fra filosofia e ricerca storica vigente soprattutto nella tradizione italiana (alla quale si dimostra sensibile lo stesso Del Noce nella sua convinzione di un pensiero che sia riflessione sui lineamenti basilari della età moderna e contemporanea). E, a volte se non spesso, si è lasciata sedurre da “microstorie”, dimenticando che, come aveva insegnato un grande maestro di storiografia e di filosofia, il particolare acquista senso solo se si universalizza (o viceversa). Insomma, sarebbe conveniente ricordare che le due discipline sono geminae ortae e non dovrebbero guardarsi in cagnesco, ma sollecitarsi reciprocamente.


2. Se, dunque, papa Giovanni Paolo II è, per Del Noce, il maggior avversario del modernismo, occorre vedere quale sia l’idea di modernità elaborata da Del Noce. Questi aveva affrontato tale compito mediante un cospicuo lavoro storico-filosofico. Del Noce fa propria la lezione crociana e gentiliana, di derivazione hegeliana, che si fa filosofia attraverso la ricostruzione storica di essa.
Diversi sono i volumi del filosofo torinese dedicati a questo tema, a iniziare dalle due opere fondamentali: Il problema dell’ateismo1, del ’64, e Riforma cattolica e filosofia moderna. Vol. I: Cartesio, del ’65, entrambi editi da il Mulino2. Anche l’editore non è casuale; sta a significare che, in seguito all’avvicinamento del filosofo torinese, tramite Giuseppe Dossetti, alla vita culturale bolognese nella seconda metà degli anni ’50, e grazie ad amicizie come quella con Nicola Matteucci, viene a crearsi una certa congruenza fra il percorso delnociano e quello del gruppo de il Mulino, che promuove un incontro fra tradizioni cattoliche non integraliste, e correnti laiche e socialiste non marxiste. Una congruenza, però, che sarebbe stata interrotta con la questione del divorzio che divise i due itinerari, chiarendoli e vedendo attestato Del Noce fra i sostenitori del relativo referendum3.
Si può constatare, a cominciare da questi volumi, che raccolgono saggi a datare dalla fine degli anni ’40 e l’inizio dei ’50, che il pensiero di Del Noce si dimostra sostanzialmente coerente e ben fermo nelle sue tesi principali. Tenendo presente questo ricco retroterra teoretico e storiografico, può essere utile, come suo efficace compendio, un volumetto, Modernità. Interpretazione transpolitica della storia contemporanea, edito nel 2007 dalla Morcelliana, a cura di Giuseppe Riconda, che raccoglie due scritti del 1982.
Del Noce spiega il suo dubbio sull’interpretazione abituale dell’«idea di modernità». Riassumendo le caratteristiche di tale idea, il filosofo le riscontra nel ripudio del soprannaturale, della trascendenza, della natura lapsa dell’uomo, e nell’affermazione di un periodizzamento della storia della filosofia, per il quale si celebra la netta cesura con l’Antico e il Medioevo e il «passaggio dall’infanzia alla maturità, dal mito alla critica»4.
Come aveva avvertito lo stesso Del Noce nel Problema dell’ateismo, la sua posizione storico-filosofica non è assimilabile a quelle ricostruzioni imperniate sul concetto di secolarizzazione, nel senso attribuito a tale termine da Loewith. La modernità atea e razionalistica di Del Noce non è la trasposizione di concetti teologici giudaico-cristiani nell’ambito della filosofia della storia e di quella politica dell’epoca moderna, bensì è la loro recisa negazione. Infatti, quelle versioni moderne di millenarismo laico, che Del Noce ravvisa in Hegel e Marx, presuppongono la cancellazione della trascendenza e del postulato giudaico-cristiano del peccato originale.
In realtà, a Del Noce interessa non avallare una concezione storiografica, secondo la quale «destino» del cristianesimo sarebbe il suo «inveramento» nelle filosofie della storia moderne, da Voltaire a Hegel a Marx a Comte. Non un «inveramento» che sia superamento, ma un depauperamento deve allora significare il concetto di «secolarizzazione», che Del Noce comunque adotta, pervenendo in tal modo a posizioni affini a quelle di Eric Voegelin5, quando allude a quel processo di perdita della trascendenza pur nella preservazione del millenarismo, che da Gioacchino da Fiore si era metamorfosato nella costituzione del «mito della modernità».


3. Ciò che senz’altro Del Noce condivide della «idea della modernità» è l’inizio di tale età con Cartesio. Ma quel che il pensatore cattolico stigmatizza è il carattere «postulatorio» di tale idea, ovvero il rifiuto non dimostrato della trascendenza. E, nel contempo, evidenzia lo sviluppo nella stessa epoca di una notevole corrente filosofica antitetica alla sua destinazione ateistica:
Si intenderà mostrare che proprio la considerazione dell’ateismo quale esito ultimo del razionalismo, correlativa a quella del suo carattere opzionale e postulatorio (insuscettibile di prove), porti ad abbandonare il processo unitario; e invece a scorgere nella filosofia dei secoli dell’età che si suol chiamare moderna, il delinearsi di due irriducibili direzioni di pensiero, l’una da Cartesio a Nietzsche, l’altra da Cartesio a Rosmini, destinata questa seconda a raggiungere e ad affinare il pensiero metafisico tradizionale6.

Del Noce registra in Cartesio una «ambiguità», che giustifica queste antitetiche diramazioni della sua filosofia. Avversario primo di Cartesio, nell’interpretazione delnociana, è il libertinismo, ovviamente inteso come libertinage érudit, derivazione del naturalismo rinascimentale e non dell’Umanesimo. Il pensiero postcartesiano, pur nelle sue differenti declinazioni (dall’empirismo all’idealismo fino al nichilismo), ne avrebbe valorizzato l’aspetto razionalistico e soggettivistico, mentre la linea cattolica, da Malebranche a Vico a Rosmini, ne avrebbe tesaurizzato la intenzione di essere una apologetica del cristianesimo e del concetto di libero arbitrio, sottolineando l’esistenza di Dio e ponendola a fondamento della sua gnoseologia.
Il “separatismo” dell’opera cartesiana (netta separazione di res cogitans e res extensa) sarebbe un cedimento del pensatore francese allo scetticismo libertino e al suo machiavellismo nel campo della storia e della politica, le quali sarebbero state recuperate in una dimensione cristiana solo da Vico, restauratore delle vere istanze umanistiche.
A tal riguardo è opportuno segnalare che nelle pagine di Del Noce, sia in Riforma cattolica e filosofia moderna ma anche nel Problema dell’ateismo, è molto operante l’ascendenza di uno dei più acuti storici, di matrice cattolica, della letteratura e della cultura, Giuseppe Toffanin7. Un’ascendenza, peraltro, nient’affatto dissimulata, bensì confessata da Del Noce, la quale, però, non è stata adeguatamente sottolineata.
In effetti, anche Toffanin aveva rifiutato la prevalente concezione storiografica, desanctisiano-spaventiana, di una modernità schiacciata sulla progressiva emancipazione dalla ipoteca clericale, confessionale e cattolica. Annunciata in Italia dal Rinascimento e dai suoi frutti più maturi (da Bruno a Galileo), nella Penisola sarebbe stata soffocata dalla reazione controriformistica, mentre si sarebbe sviluppata e maturata in Europa, prima in Francia e Inghilterra, poi in Germania, per poi essere ripresa dalla cultura risorgimentale.
Come per Toffanin, così per Del Noce, l’Umanesimo aveva significato la rinascita e la concordia dell’Antichità e del cristianesimo contro l’averroismo continuato dal naturalismo cinquecentesco. Anche Toffanin, alla stessa stregua di Del Noce, aveva problematizzato e complicato l’idea di modernità. Innanzi tutto, il lascito umanistico, per quanto inaridito, era stato preservato dalla Riforma cattolica e tradotto in nuovi termini da Cartesio. In tal modo le nazioni cattoliche, Italia e Francia, erano state preservate dalle derive riformate, razionalistiche e prometeiche dell’Europa centro-settentrionale, che sarebbero sfociate nei deliri romantici contrapposti all’equilibrato e cattolico “romanticismo latino” di Manzoni.
Si noti che sia Toffanin che Del Noce prediligono il termine di Riforma cattolica e non quello di Controriforma, perché ritengono che il secondo alluderebbe a una semplice reazione, destinata alla sconfitta, della cultura cattolica di fronte alla predominante modernità, mentre il primo lemma rimanda a un movimento religioso e intellettuale non subalterno al pensiero protestante o ateo, e contrassegnato da una sua originalità e indipendenza.
Confortato da tale prospettiva storiografica e soffermandosi in un articolo su un’intervista del cardinale Ratzinger, Del Noce chiarisce la sua refrattarietà ad assumere il corrente
giudizio sulla storia contemporanea che dominava, pressoché incontrastato, negli anni intorno al Sessanta. Si trattava di un’interpretazione in cui si incontravano il rinnovato illuminismo [Del Noce ha in mente Norberto Bobbio, con il quale frequenti sono gli scambi di cortese polemica] e il marxismo: categorie fondamentali quelle del “progresso” (o della “rivoluzione”) e della “reazione” (o della “controrivoluzione”). Per queste forme di pensiero secolaristico la storia del nostro secolo non potrebbe essere intesa che come un processo verso il “culmine della modernità” coincidente con la piena secolarizzazione, tale da escludere ogni richiamo alla trascendenza religiosa; ravvisata, questa secolarizzazione radicale, o nel marxismo, o in quello che genericamente possiamo dire nuovo illuminismo tecnocratico8.

Alfiere della reazione, sempre secondo questa vulgata, sarebbe stata la Chiesa cattolica. «Ma perché la Chiesa si era sbagliata? In ragione di un errore le cui origini erano lontane e stavano nella Controriforma, o più in là, addirittura nell’età costantiniana9».


4. Augusto Del Noce, quindi, non condanna semplicemente il Moderno. Il suo pensiero non può essere affatto definito un Sillabo filosofico. D’altra parte, una semplice e superficiale ripulsa di una intera epoca sarebbe alquanto contraddittoria per un cristiano, come se Dio avesse voluto disertare la storia e la Provvidenza fosse andata in congedo. Nell’età moderna, la presenza cattolica è ben presente e rilevante, anche se, massime nel Novecento, la minaccia per i suoi valori ha assunto toni quasi apocalittici.
Per il filosofo torinese, il XX secolo è stato il cimento più duro per il mondo cattolico. Da tale situazione risulta ancora di più la grandezza di papa Woityla. Nella sua stessa biografia e nella sua stessa missione Del Noce riconosce la resistenza prima alla crisi totalitaria e poi a quella che egli chiama la «società opulenta», assimilata alla società tecnologica e al consumismo e giudicata quale neolibertinismo.
Nell’ambito concettuale della interpretazione “transpolitica” del XX secolo, assume una sua esemplarità la vicenda italiana, che viene considerata, con il fascismo e Gentile, da un lato, e con Gramsci, dall’altro, come laboratorio politico e culturale dell’intera storia contemporanea. Secondo il filosofo torinese, quest’ultima è contraddistinta dall’idea di rivoluzione:
Trovare conferme empiriche all’asserzione che la storia contemporanea è segnata dall’idea di rivoluzione è sin troppo facile. Il marxismo ha posto al centro della problematica politica contemporanea il tema della rivoluzione sociale; le diverse forme del neoilluminismo borghese hanno portato l’accento sulla rivoluzione scientifica e tecnologica; i divulgatori e volgarizzatori della psicanalisi hanno parlato di una rivoluzione sessuale introdotta dalla scoperta dell’inconscio; se poi guardiamo alla storia dell’arte contemporanea, o almeno al modo in cui essa viene abitualmente riassunta, ci troviamo davanti a un succedersi di “rivoluzioni” e di “rotture epocali” che si susseguono tra loro a distanza di solo pochi anni10.

La rivoluzione ha invaso lo stesso campo religioso, dalle teologie della “morte di Dio” a quelle della demitizzazione e della liberazione, tutte, in diverse versioni, risolventisi in una perdita dell’unicità del messaggio cristiano diluito nella moderna secolarizzazione. A tali “assalti”, per Del Noce, prima Paolo VI e poi, in modo precipuo, Giovanni Paolo II e il suo più fidato consigliere teologico, Joseph Ratzinger, avevano eretto un argine (è facile prevedere quanto sarebbe stato caro al pensatore l’attuale papa Benedetto XVI). Nella società opulenta si compie quella consumazione dei valori assoluti, tutelati dal papa polacco, e quel nichilismo assoluto, le cui premesse Del Noce individua soprattutto nel marxismo, che, non a caso, il pontefice aveva dovuto fronteggiare nella nazione dell’Est dove maggiormente, in particolare con la nascita di Solidarnosc, in una sfida mortale si contrapponevano difesa degli eterni principi cristiani e negazione più completa di ogni trascendenza.
Nel marxismo si era adempiuta la linea atea della filosofia moderna. Ma soprattutto con Marx la filosofia si presentava non più come visione hegelianamente ispirata della storia avvenuta, ma quale prassi rivoluzionaria. E il marxismo era la radice, per Del Noce, sia del fascismo e di Gentile che di Gramsci. Infatti, Gentile, la cui importanza dei giovanili scritti sul filosofo di Treviri, Del Noce non si stanca di ricordare, aveva espunto dal marxismo il suo materialismo, assumendo nel suo attualismo, correlativo all’attivismo fascista, la sua idea rivoluzionaria. A sua volta Gramsci avrebbe ritradotto in termini gentiliani il marx-leninismo, considerando la cultura e la sua egemonia non la sovrastruttura, bensì la struttura della società. Mentre il nemico assoluto di Gentile era stato il materialismo, per Gramsci era stata la religione. La religione cristiana avrebbe dovuto essere sradicata e soppiantata da quella secolare del comunismo.
Ma, caduto il fascismo, e sviluppatasi fra gli anni ’50 e ’60 la società consumistica, si sarebbe verificato il suicidio della rivoluzione11, come recita un famoso libro di Del Noce, ovvero il passaggio da un nichilismo rivoluzionario, che ancora aveva conservato un contenuto religioso, al nichilismo assoluto, in cui ogni valenza religiosa e spirituale è completamente cancellata nel trionfo di una tecnica e di uno scientismo del tutto svincolati da remore etiche.


5. La critica di Del Noce al trionfo della civiltà tecnologica è molto ribadita negli ultimi tempi del suo itinerario filosofico e si può facilmente prevedere che sarebbe stata ancora più risentita se fosse sopravvissuto al crollo del comunismo e avesse assistito alla globalizzazione. La polemica di Del Noce contro la tecnica, per quanto apparentemente possa sembrare analoga e convergente, è molto diversa da quella di un altro fra i principali filosofi italiani, Emanuele Severino. Entrambi vedono nella tecnica e nel suo prevalere assoluto l’esito fondamentale della civiltà occidentale. Ma mentre Del Noce ne rinviene le radici nell’emergere del Moderno e la reputa in chiara antitesi al cristianesimo, Severino valuta anche quest’ultimo come espressione di una mentalità, propria di tutta la civiltà occidentale a cominciare dal “parricidio” di Parmenide, contrassegnata dal carattere transeunte e mortale di tutti gli enti mondani e dalla loro conseguente manipolazione. Lo stesso cristianesimo non si sottrarrebbe, nonostante la sua idea di una trascendenza eterna e intangibile, alla condanna e all’abbandono del mondo alla sua ineluttabile consunzione12.
Diversamente, la filosofia delnociana si presenta, palesando un carattere “agonistico”, come una contesa, possibile soltanto da una specola cristiana, con quanto nega i valori assoluti e, in ultimo, proprio con la tecnica. E di questo agone, per Del Noce, papa Giovanni Paolo II è il protagonista.
Al trionfo della civiltà tecnocratica, secondo Del Noce, risulterebbe subalterno lo stesso pensiero di Franco Rodano, con il quale aveva intrattenuto una polemica pluridecennale, condensata in ultimo in un volume intitolato Il cattolico comunista (Milano, Rusconi, 1981). Le tesi di Rodano sulla possibilità di epurare il marxismo dalla sua contaminazione materialistica e dalle sue inclinazioni utopiche, e, d’altro canto, di confutare l’integralismo cattolico, separando nettamente religione e politica, lo inducono in modo inevitabile a non percepire la profonda novità e grandezza di papa Woityla e a confondere la sua enciclica, Redemptor hominis (1979), con un documento della reazione cattolica alla presunta affermazione della dimensione autonoma dell’uomo. Il compromesso storico di Rodano, di conseguenza, si era tramutato per il Partito Comunista di Berlinguer, erede della versione togliattiana di Gramsci, e scortato dagli aiutanti democristiani e socialisti, in una vera sconfitta e resa alla civiltà tecnocratica del neocapitalismo. Da tali convinzioni è sostenuta la nozione delnociana della democrazia:
Ricordo che quando lessi l’enciclica Redemptor hominis mi tornò subito in mente una frase di Kierkegaard sul paradosso cristiano, come se in essa si trovasse inclusa la critica della filosofia moderna e si illuminasse, in ragione di ciò, il rapporto tra questa critica e il pensiero dell’enciclica: “Il genere umano ha la proprietà, perché ogni singolo è fatto a somiglianza di Dio, che il singolo è più alto del genere”. La democrazia come valore si può cioè giustificare unicamente a partire dall’affermazione della trascendente dignità dell’uomo che, nel singolo, sorpassa ontologicamente l’intera specie, perché il singolo è capax Dei e trascende quell’ordine delle creature finite nel quale la specie umana è inserita [...]. Si vede dunque di quali proposte di tesi il pensiero di Rodano sia occasione per contrasto: nesso tra l’idea di libertà e l’immagine trascendente dell’uomo; comprensione del nesso tra i termini di democrazia e di cristianesimo; attualità del programma culturale di Leone XIII, al quale risale questa genesi ideale di questa associazione di termini, che naturalmente poco ha a che fare con il partito che porta oggi questo nome e che culturalmente, meriterebbe piuttosto di essere chiamato il “partito della sociologia”. Infatti, una volta che si sia rinunziato al legame tra teologia e politica, che può essere soltanto assicurato da una qualche forma di filosofia religiosa, si rimane inevitabilmente subordinati alla mentalità sociologistica13.

L’allusione finale è alla politica della Democrazia cristiana e avrebbe motivato, pochi anni dopo, le critiche delnociane rivolte ai programmi del responsabile culturale di questo partito, Paolo Prodi14. Questi sarebbe stato responsabile di una separazione della politica dalla religione e avrebbe esiliato la coscienza religiosa in una trascendenza, riflessa in un privato introflesso, del tutto ininfluente sulla res publica. Del Noce, invece, suggerisce una sua idea di teologia politica, distante sia da una accezione teocratica sia dal significato schmittiano di secolarizzazione, vale a dire di traslazione delle principali categorie teologiche nel politico compiutasi in età moderna. Una teologia politica, al contrario, ferma nella rivendicazione del connubio fra democrazia e cristianesimo, della loro necessaria connessione, pur nella accettazione incontrovertibile del pluralismo.
Alla DC, che avrebbe ceduto al “totalitarismo” morbido ma tanto più insidioso della civiltà della tecnica e del consumismo, in cui ogni valore etico svanisce, Del Noce contrappone il nuovo movimento di Comunione e Liberazione capace, a suo parere, di una giovanile reviviscenza del messaggio cristiano, vissuto con autenticità e trasposto nella società e nella politica.


6. Altro tema, però connesso ai precedenti e di immediato rilievo e urgenza, che può meglio spiegare la filosofia delnociana, è quello di una “debolezza” della politica di fronte a una “forza” etica della Chiesa. Tale situazione, che ha assunto un risalto notevole con la cosiddetta crisi delle ideologie, è emersa soprattutto con il pontificato di papa Woityla ed è stata intuita da Del Noce, consapevole, sin dagli inizi del pontificato di Giovanni Paolo II, della potenza del suo messaggio. Lo comprende alla luce delle categorie di tradizione e restaurazione15. Sono concetti centrali nella riflessione filosofica del pensatore torinese, che possono rischiare di essere fraintesi se associati a quelli propri del pensiero reazionario. Del Noce, invece, intende per restaurazione la riscoperta delle verità eterne, le quali, a loro volta, non sono inerti, ma sempre nuove alla luce dello sviluppo storico, che serve ad approfondirle e vivificarle. Alla stessa stregua, tradizione è la tutela nel corso della storia di queste verità e, per un cattolico, la sua preservazione nel corpus dottrinale della sua Chiesa.
Commentando il dibattito e soprattutto il discorso tenuto dal papa al Convegno di Loreto del 1984, Del Noce non esita a sostenere che
il “tradizionalismo” del Papa (non provo alcun disagio nell’usare questo termine) è l’affermazione dell’oggettività della verità e del bene morale, in un tempo in cui sembra dominare, accettata in genere inconsapevolmente, e sembra essere penetrata per questa guisa negli stessi cattolici, l’idea della pura umanità delle varie posizioni di pensiero, relative perciò alle varie epoche storiche16.

Tradizione e restaurazione si richiamano l’un l’altra nella pagina delnociana:
Le verità di cui la Chiesa è custode sono divine e rivelate, quindi immutabili; proprio il loro carattere trascendente esige una continua restaurazione, in cui la loro apprensione umana, certamente occasionata ma solo occasionata dal mondo e dalla storia, si approfondisce17.

Papa Woityla, dunque, è il papa di Del Noce, in quanto è il pontefice della restaurazione:
La restaurazione di Papa Woityla non si spiega con l’arcaismo o col provincialismo polacco o con uno spirito di diffamazione del mondo, ma con una superiore, davvero conforme all’“aggiornamento”, lettura dei segni dei tempi18.

Apertamente il pensatore torinese confuta il presunto provincialismo del papa in un articolo, del 10 febbraio del 1981, su I grandi miti platonici della scuola di Cracovia19, nel quale enuclea le idee fondamentali presenti nel libro L’uomo visto dalla Vistola di Stanislaw Grygiel. Del Noce ne apprezza la migliore contestazione (che non è quella del ’68, anch’essa, con il suo nichilismo antitradizionalista, subordinata al consumismo e al neolibertinismo della società tecnocratica) della desacralizzazione e del materialismo dominanti, in cui l’uomo si lascia
sedurre dalla forza abbandonando la giustizia… Ora, la distanza tra il mondo del ragionare tecnico assolutizzato e la dimensione etico-metafisica ricorda quella che intercorre nel secondo grande mito della Repubblica tra l’idea delle cose e degli altri che si fanno i prigionieri della caverna, costretti a non vederne che le ombre proiettate nella parete dalla luce di un fuoco che brucia alle loro spalle, e quella di colui che, liberato dalla catena, può vedere la luce del sole20.

La peculiarità della filosofia del papa polacco viene riconosciuta da Del Noce, commentando le encicliche Redemptor hominis e Dives in misericordia (1980) e una serie di discorsi tenuti dal pontefice a Torino nel 1980, nella sua centralità antropologica, ossia nel valore primario e preminente accordato all’uomo. L’uomo, però, non è abbandonato a sé stesso, ma è immagine di Dio, è destinatario dell’amore e della misericordia divina, e dunque la sua essenza non si attinge nella dimensione dell’“avere”, nella sfera economica, ma nella dimensione dell’“essere”, vale a dire nel radicamento ontologico nella verità divina: «Non si fa un’aggiunta arbitraria nel dire che il male dell’occidentalismo presente sta nell’avere scisso il tema della libertà da quello dell’“immagine di Dio”»21.
Solo ascoltando la voce del papa di ribellione agli idoli del presente e al suo vitello d’oro, solo emancipandosi dalla contemporanea «massificazione del pensiero libertino22», sarebbe stato possibile ripristinare l’immagine di Dio nell’uomo. La restaurazione dell’immagine divina nell’uomo era il messaggio, che, nella prospettiva di Del Noce, il Concilio Vaticano II aveva trasmesso, non cedendo alle lusinghe del mondo moderno, né procedendo a una sua mera e inconcludente condanna. Il filosofo piemontese si oppone a quanti, come Giancarlo Zizola, credono che
l’intera opera del Papa Giovanni Paolo II sia finalizzata all’annientamento delle innovazioni del Concilio Vaticano II, non negandole espressamente, ma assorbendole nel “vecchio” attraverso l’idea della “continuità”. Si tratta effettivamente di due posizioni opposte, assolutamente non mediabili: il Concilio come “sviluppo nella continuità” e il Concilio come “rottura”. Per Ratzingher, come per Giovanni Paolo II, l’intenzione del Concilio è stata “missionaria”; a partire da essa occorreva la “restaurazione” dell’autenticità e dell’identità della fede23.

Enucleando i temi principali del pensiero di Woityla e le sue ascendenze, Del Noce conclude che
il suo programma filosofico [è] la ricerca della riconquista delle categorie fondamentali della metafisica tomista a partire da una riflessione sull’esperienza etica della persona[…]. È a partire da questa reciproca integrazione tra la filosofia che afferma l’oggettività nella verità e la filosofia che insiste sul momento della soggettività, della libertà, della coscienza, che si intende come la filosofia di Woityla possa dirsi “la filosofia del Concilio”, in quanto è la sola che permetta di intenderne insieme la novità e l’ancoraggio alla tradizione”24.

Bisogna reagire quindi, da questo punto di vista, all’interpretazione di coloro che, nel mondo cattolico, avevano interpretato il Concilio quale netta cesura fra una Chiesa controriformistica, ormai da archiviare, e una Chiesa completamente nuova, che accettasse la secolarizzazione e la desacralizzazione dell’epoca moderna. A questi postulati risultano vincolate, nel biasimo di Del Noce, le teologie sedicenti progressiste, che finiscono con l’annullare la specificità cristiana. Altra e veridica tendenza era quella di quei teologi, da Balthasar a de Lubac a Ratzinger, con i quali risulta consentaneo il papa polacco:
Nella prospettiva metafisica, restaurare significa invece sottrarre alla dimenticanza una verità che è eterna, e che ha possibilità, pur rimanendo identica, di espressioni infinitamente varie, perché trascende le formule determinate in cui viene fissata. E questa mi pare sia l’interpretazione che i “restauratori” danno della loro opera e della loro fedeltà al concilio25.



7. Non assecondare quella lettura del Concilio quale rottura rivoluzionaria implica non accondiscendere a quella visione storiografica, propria dei “progressisti”, per i quali gli ultimi decenni hanno segnato una deriva nella Chiesa cattolica, dalle grandi speranze alimentate da papa Giovanni XXIII, all’“amletismo” sovente propenso a scelte reazionarie di Paolo VI, fino al “gotico” e “teocratico” Giovanni Paolo II26.
In realtà, come attesta un meditato articolo di Del Noce all’indomani della morte di papa Montini, Paolo VI era riuscito a non permettere che il Vaticano II divenisse un’arma e un pretesto per l’abbandono della tradizione e a salvarne, al contrario, il suo messaggio di apertura al mondo senza, però, subordinazione:
Toccò a Paolo VI di operare in uno dei momenti più difficili e più dolorosi dell’intera storia della Chiesa; come quello in cui all’anticlericalismo e allo stesso antiteismo si sostituì in ambienti vastissimi, la scomparsa del problema di Dio o anzi quella dello stesso desiderio della sua esistenza, in cui all’ateismo aggressivo si sostituì l’ateismo dell’indifferenza, al ribelle “contro Dio”, l’agnostico “senza Dio”27.

Paolo VI si era trovato a fronteggiare la “civiltà del benessere” di una “nuova borghesia” e di un “nuovo capitalismo”, che ormai, dimentichi del peccato originale e animati da un mito prometeico, si sentivano vittoriosi ed emancipati sia da Marx che da Cristo28. Durante il pontificato di Paolo VI si era scatenato «il più grande Kulturkampf contro le credenze religiose tradizionali»29.
Ma papa Montini, «irremovibile nella conservazione del deposito della fede»30, non aveva ceduto e nemmeno aveva commesso il fatale errore di farsi affascinare dalle «tentazioni più pericolose nel pensiero del ricorso a poteri temporali al fine di salvaguardare la verità»31. Egli era stato l’«erede del migliore cattolicesimo liberale» ed aveva valutato come evento fausto la fine del potere temporale della Chiesa. Un papa non politico, ma spirituale, che aveva risentito profondamente della lezione di Jacques Maritain.
Anche riguardo al filosofo francese, Del Noce in un ampio articolo non accetta la esegesi corrente, secondo la quale al pensatore progressista dell’Humanisme intégral sarebbe subentrato il reazionario del Paysan de la Garonne. Invece,
Tre Riformatori [il libro del ’25 su Lutero, Cartesio, Rousseau, tradotto dal giovane sacerdote Montini], Umanesimo integrale e Il contadino della Garonna sono tre libri ognuno dei quali richiama l’altro; in particolare Il contadino della Garonna è il chiarimento in circostanze mutate, e contro avversari diversi [gli interpreti “progressisti” del Concilio], del significato autentico di Umanesimo integrale; ne contiene la vera interpretazione32.

Papa Giovanni Paolo II è, per Del Noce, il vero continuatore, con altro stile e con altre influenze culturali e filosofiche e con una storia segnata dal martirio per i cattolici polacchi da parte prima del nazismo e poi del comunismo, di Paolo VI. Lo dimostrano, asserisce Del Noce, con evidenza i discorsi e i documenti del papa polacco sul lavoro. Un tema al quale era molto sensibile, non solo per reminiscenze autobiografiche, ma soprattutto se si pensa alla grande rilevanza del movimento di Solidarnosc nella storia della Polonia e alle implicazioni fra il pontificato di Papa Woityla e le vicende ultime dei regimi dell’Est.
Del Noce istituisce, a proposito della ripresa da parte di Giovanni Paolo II della dottrina sociale della Chiesa e di due sue encicliche, un duplice parallelismo: «la recente Sollicitudo rei socialis [...] sta alla Populorum progressio di Paolo VI, come la Laborem exercens sta alla Rerum novarum di Leone XIII33».
Del Noce rileva una sostanziale continuità fra le encicliche di interesse sociale di Leone XIII, papa Montini e l’ultimo pontefice. Consiste nella considerazione dell’anteriorità dell’uomo allo Stato e nella proposta di una morale solidaristica, che non è un’irenica armonia fra le classi, ma la necessità di una loro collaborazione e cooperazione, in quanto come è impossibile una assoluta eguaglianza fra gli uomini, così è censurabile ogni sfrenato individualismo.
Sia il marxismo che il capitalismo liberistico sono asserviti a una concezione del lavoro, quale espressione dell’homo oeconomicus. Entrambi sono inficiati da una visione materialistica della storia: da una parte il materialismo individualististico, dall’altra il materialismo collettivistico. Per di più, dalle encicliche sociali di papa Woityla, Del Noce fa emergere una precipua attenzione, comprensibile con il paese di provenienza del pontefice, per il tema della nazione, ossia per le tradizioni di un popolo, delle quali anche il lavoro è una manifestazione, non essendo apprezzato solo quale valore di scambio in una visuale utilitaristica.
Nella valutazione storica del filosofo torinese, la dottrina sociale della Chiesa acquista ancor più validità e significato, dopo il fallimento delle speranze del comunismo (ormai anch’esso arresosi ai miti tecnocratici), trasformatosi in regimi totalitari, nei quali predomina un ceto burocratico-partitico su una massa amorfa privata di qualsiasi possibilità di una libera iniziativa, e dopo il trionfo dell’egoistico, libertino neocapitalismo, del tutto repulsivo ai valori religiosi ed etici e massima realizzazione del nichilismo. La sfida è, dunque, fra nichilismo e nuova cristianità e nessuno meglio del papa polacco può interpretarla e suggerire soluzioni adeguate, nella strenua difesa dei diritti dell’uomo, fra i quali quello della dignità del lavoro.


8. Ora, ci si può chiedere fino a che punto la consapevolezza delnociana, che i diritti dell’uomo, giustamente, come non manca di notare il filosofo cattolico, tutelati a più riprese da papa Woityla, derivino da una legge naturale radicata in una concezione cristiana dell’essere, possa essere fruibile a una concreta prassi politica. Se è giusta la osservazione di Del Noce che una fede cristiana non può essere vissuta e “reclusa” in una sfera meramente intimista, ma necessariamente si effonde in un conseguente impegno nella società e negli affari pubblici, tuttavia, come si può presumere di poter plasmare la politica secondo una interpretazione esclusivistica dei propri principi etici.
Senz’altro, la riflessione delnociana ha grandi meriti per la sua profondità e acutezza, e per avere sottolineato risvolti inediti e drammatiche aporie nella storia multiforme del pensiero moderno. Per di più, la sua costante interpretazione “forte” della fede cristiana ha una sua coerente persuasività rispetto a tante contemporanee teologie concludentisi in un cristianesimo “all’acqua di rose”, che perde ogni sua specificità.
Però, nelle moderne società, sempre più avviate verso l’ineluttabile coesistenza (se si vogliono scongiurare tragici conflitti) di una pluralità di concezioni etiche e religiose, nessuna di esse può imporsi come unica interprete della verità. Può essere convinta di esserlo, ma resta il problema che gli altri non lo pensano e, dunque, occorre trovare soluzioni condivise, che non scaturiscano dalle appartenenze religiose o ideologiche.
Non si può pensare di fondare la convivenza civile su una metafisica o su una fede o su una concezione scientifica, perché non tutti convergeranno in una stessa idea ed è giusto che sia così. In realtà, come aveva intuito agli inizi del Cinquecento un acutissimo pensatore italiano, la politica ha delle sue leggi che, a volte, non possono non collidere con quelle della fede (è weberianamente l’etica della responsabilità, che non esclude ma si nutre dell’etica della convinzione). Autonomia (o, se si preferisce, coscienza delle specificità) della politica non vuol dire immoralismo né tantomeno anticristianesimo, bensì che tale attività umana non può riposarsi su alcun rassicurante fundamentum. Ancora, lo stesso scrittore, discutendo la storia di Roma antica, aveva compreso che una res publica è destinata alla “ruina” senza un ethos condiviso, un’etica civile, che per quel popolo era la propria religione.
Che la democrazia tragga ispirazione da principi fondamentali del cristianesimo, come l’uguaglianza e la dignità della persona, sarebbe difficile contestarlo. I problemi sorgono nel momento in cui in uno Stato bisogna confrontarsi con quanti, sulla base di premesse atee o riconducibili ad altre fedi, non possono accettare una sovrapposizione di democrazia e di cristianesimo, e una riduzione di quest’ultimo al magistero ecclesiastico e alla sua conseguente traduzione nella dimensione giuridica.
Che tale magistero esprima con decisione e chiarezza le sue convinzioni può risultare solo benefico per una democrazia e contraddittoria sarebbe la reazione di quei “laici” che, quando la Chiesa svolge argomentazioni a loro consone, la elogiano e la affiliano al proprio schieramento, ma allorché succede il contrario, gridano allo scandalo e alla indebita ingerenza. Più semplice e salutare per tutti attenersi al principio cavouriano e considerare Chiesa e Stato nella loro indipendenza, che non esclude reciproca e libera collaborazione. La democrazia certo non si ridurrebbe in questo modo a una mera procedura, ma sarebbe incardinata su valori costituzionali, da tutti accolti, i quali, peraltro, sarebbero l’espressione della storia di un popolo.
Non sarebbe, a tal riguardo, improprio richiamare il grande esempio di un politico italiano dalla profondissima fede, che sulle macerie della guerra seppe contribuire alla rinascita dello Stato italiano e non esitò, nel rispetto del suo ruolo istituzionale, a rivendicare la sua autonomia rispetto al potere ecclesiastico.
Lo stesso grande papa, da Del Noce giustamente tanto amato, nell’anno giubilare ha coraggiosamente chiesto perdono per le colpe della Chiesa, come la condanna di Galileo, ovvero di quella libertas philosophandi, che insieme ad altre libertà, individuali e collettive, il mondo moderno ha saputo, attraverso una storia travagliata, affermare. Per giunta, proprio in quei secoli della Controriforma si assisteva alla tragica aporia di una Chiesa cattolica, che, non immemore dell’insegnamento umanistico-erasmiano, difendeva il libero arbitrio, ma, al contrario, nella prassi inquisitoriale (sulla quale Del Noce è pressoché silenzioso) lo umiliava e conculcava. Fra le tante libertà non ultima è quella politica, tanto più che essa riguarda tutti gli uomini e il loro necessario vivere insieme in un’ineludibile pluralità di idee e di credi, in quello che è stato opportunamente definito politeismo dei valori. Per giunta, come insegnava un pensatore molto caro al filosofo torinese, Pascal, la fede non è disgiunta dal dubbio e non può presumere di tradursi in una precettistica politica.
Infine, e per una provvisoria conclusione, un cristiano non dovrebbe dimenticare le parole di Gesù a Pilato, che il suo «Regno non è di questo mondo» e che Egli si sottrasse a quanti volevano farlo re, e che la sua ultima e più terribile tentazione diabolica, alla quale resistette, fu l’offerta del potere.








NOTE
1 Il volume, che già nella quarta edizione del 1990 era arricchito da una chiarificatrice introduzione di Nicola Matteucci, è stato nel 2010 ristampato dalla medesima casa editrice con l’aggiunta di una postfazione di Massimo Cacciari. La bibliografia su Del Noce in questi ultimi anni è diventata sempre più cospicua. Per un suo ampio regesto si rimanda all’appendice bibliografica a N. Ricci, Cattolici e marxismo. Filosofia e politica in Augusto Del Noce, Felice Balbo e Franco Rodano, Milano, Franco Angeli, 2008, in cui le pagine 172-179 sono dedicate a un raffronto fra la posizione di Del Noce e quella di Rodano di fronte alla enciclica Redemptor hominis di papa Giovanni Paolo II. Alla bibliografia di Ricci si aggiungano, perché pertinenti al presente articolo, M. Borghesi, Augusto Del Noce. La legittimazione critica del moderno, Torino, Marietti, 2011 e F. Lami (a cura di), Filosofi cattolici del Novecento. La tradizione in Augusto Del Noce, Milano, Franco Angeli, 2009. In particolare su Del Noce e papa Woityla rinvio a L. Santorsola, Il problema dell’etica nella società secolarizzata secondo il pensiero di Augusto Del Noce, Roma, Mursia-Pontificia Università Lateranense, 1999. Riguardo a papa Giovanni Paolo II ormai la bibliografia è pressoché sterminata. Una recente ed equilibrata biografia è quella di A. Riccardi, Giovanni Paolo II, Torino, San Paolo Edizioni, 2011. Un dibattito molto interessante sul papa, al quale parteciparono Paolo Flores d’Arcais, Emanuele Severino, Pietro Coda, Massimo Cacciari, Enzo Bianchi, Gianni Vattimo, Umberto Galimberti, Andrea Riccardi, fu ospitato, all’indomani della morte di Giovanni Paolo II, su «Micromega», 2005, n. 2 pp. 7-70. Riflessioni importanti e meditate sono esposte nell’editoriale di Giuseppe Galasso, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI, in «L’Acropoli”, 6 (2005), n.3.^
2 Si veda anche Del Noce, Da Cartesio a Rosmini. Scritti vari, anche inediti, di filosofia e storia della filosofia, a cura di F. Mercadante e B. Casadei, Milano, Giuffré, 1992.^
3 Per gli interventi delnociani sul divorzio si veda Del Noce, Cristianità e laicità. Scritti su «Il Sabato» (e vari, anche inediti), a cura di F. Mercadante e P. Armellini, Milano, Giuffré, pp. 3-52.^
4 Id., Modernità, cit., p. 34.^
5 Id., L’enciclica sullo spirito respinge i compromessi (20 giugno 1986), in Id., Pensiero della Chiesa e filosofia contemporanea, a cura di L. Santorsola, Roma, Studium, 2005, p. 221 (d’ora in poi si citerà questo volume con la sigla CF). Il volume raccoglie molti interventi di Del Noce, a datare dal 1975, ma in gran parte articoli su Giovanni Paolo II, dalla sua elezione al marzo del 1989, pubblicati su vari periodici e giornali, come «Il Tempo», soprattutto, «L’Europa», il «Corriere della sera», «L’Osservatore romano», la «Scuola di dottrina sociale», «Prospettive nel mondo».^
6 Id., Modernità, cit., pp. 36-37.^
7 Su Toffanin mi sia permesso rinviare a G.M. Barbuto, Toffanin, Machiavelli e le origini del Moderno, in corso di stampa in un numero di «Storia e politica», che raccoglie gli Atti del Convegno su “Machiavelli nella cultura cristiana del XIX e XX secolo” (Erice, dicembre 2010).^
8 Del Noce, A Roma il “nuovo” è vecchio (4 dicembre 1985), in CF, p. 158.^
9 Ivi, p. 160.^
10 Id., Modernità, cit., p. 61.^
11 Id., Il suicidio della rivoluzione, Torino, Aragno, 2004 (I ed., 1978). Cfr. Id., L’epoca della secolarizzazione, Giuffré, Milano, 1970 e Id., Giovanni Gentile. Per una interpretazione filosofica della storia contemporanea, Bologna, il Mulino, 1990.^
12 Molto più ampiamente mi sono soffermato su queste tematiche in un saggio, di prossima pubblicazione, su Augusto Del Noce e i totalitarismi.^
13 Id., Il cattolico comunista, cit., pp. 409-411. Sull’entusiastica accoglienza delnociana della Redemptor hominis sono da leggere Id., Il filosofo davanti alla Redemptor hominis (19 e 22 giugno 1979), in CF, pp. 173-184 e Id., Si ritorna, dunque, al Medio evo?, in Id., Cristianità e laicità, cit. (già pubblicato con il titolo di Imago Dei su «L’Osservatore romano» del 23 marzo 1979.^
14 Id., I pericoli di un aggiornamento a rovescio (10 febbraio 1987), in CF, pp. 167-172.^
15 Su questi temi si veda Id., Rivoluzione Risorgimento Tradizione. Scritti su “L’Europa” (e altri, anche inediti), a cura di F. Mercadante, A. Tarantino, B. Casadei, Milano, Giuffré, 1993.^
16 Id., Il convegno di Loreto: il falso bersaglio dell’integralismo (20 aprile 1985), in CF, p. 144.^
17 Id., “Restaurare” è giusto (20 luglio 1985), in CF, p. 146.^
18 Ivi, p. 149.^
19 In CF, pp. 205-212.^
20 Ivi, pp. 209-210.^
21 Id., Il filosofo davanti alla Redemptor hominis, cit., pp. 173-184.^
22 Id., Il crogiuolo vivente. La visita di Giovanni Paolo II a Torino (maggio 1980), in CF, p. 193.^
23 Id., “Restaurare” è giusto, cit., p. 145.^
24 Id., La filosofia di Karol Woityla (16 settembre 1983), in CF, p. 218.^
25 Id., A Roma il “nuovo” è vecchio, in CF, cit., pp. 164-165.^
26 Id., La filosofia di Karol Woityla, cit., p. 214,^
27 Id., Papa Paolo VI (agosto 1978), in CF, p.^
28 Ivi, p. 116.^
29 Ivi, p. 118.^
30 Ivi, p. 119.^
31 Ivi, p. 121.^
32 Id., Il Maritain di G.B. Montini (agosto 1978), in CF, p. 110.^
33 Id., Religione, secolarismo, società nella Sollicituto rei socialis (marzo 1989), in CF, p. 245.^
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