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I Poerio e l’idea di unità della nazione*
di Eugenio Capozzi

In memoria di Luigi De Falco




1. Liberalismo moderato risorgimentale e continuità istituzionale

L’idea dello Stato nazionale unitario, come è noto, non ha avuto in Italia una genesi semplice né automatica, ma è stata viceversa il frutto sofferto della congiunzione tra una secolare sedimentazione della consapevolezza di una identità culturale comune, le sollecitazioni di grandi correnti culturali europee e le condizioni offerte dal contesto politico italiano e continentale nel periodo storico tra la fine del XVIII e la prima metà del XIX secolo1.
È in tale quadro che va compresa l’elaborazione del tema dell’unificazione nazionale in quella parte del mondo politico italiano risorgimentale complessivamente classificato come “moderato”. Ciò tanto più nel caso di alcuni tra i maggiori esponenti del moderatismo risorgimentale nell’Italia meridionale, come i membri della famiglia Poerio (Giuseppe e i due figli Alessandro e Carlo). In particolare, l’adesione da parte di Carlo Poerio al progetto dello Stato unitario fu, infatti, il risultato di un doloroso travaglio culturale e psicologico, che giunse ad una organica formulazione in tal senso soltanto nell’imminenza dell’unificazione stessa.
La genesi e la natura del moderatismo italiano ottocentesco vanno inquadrati in una cornice di fondo, recentemente ben sintetizzata in sede storiografica da Stefano De Luca:
Si è moderati sempre “in risposta a”, “in relazione a” qualche forma di radicalismo: è soltanto in presenza di posizoni percepite come estreme o radicali che la moderazione, da metodo compatibile con diverse tradizioni politiche, si organizza in autonoma posizione politica. Da questa natura posizionale e relazionale nasce quel margine di indeterminatezza teorica che è proprio del moderatismo, ma anche la sua grande importanza nella storia otto-novecentesca dell’Europa continentale e soprattutto dell’Italia, paese particolarmente esposto, forse proprio in virtù della sua arretratezza politica e sociale, al fascino dei miti rivoluzionari e delle posizioni radicali2.

Così, proprio a partire dal triennio giacobino in Italia si delinea un’opzione politica definibile in tal senso. Si definiscono e sono definiti moderati, da allora in poi, in particolare «quei protagonisti della vita culturale e politica che si riconoscono nelle conquiste dell’89 (libertà civili, eguaglianza giuridica, sistema rappresentativo, costituzione) ma che si ritraggono inorriditi di fronte al giacobinismo e al Terrore»3.
È, dunque, innanzitutto l’impatto con la Rivoluzione francese e con le sue conseguenze politico-ideologiche più estreme a definire le origini dello schieramento e del “programma” moderato nel contesto della penisola. Il che, se si pone mente alla nettezza con la quale la frattura del 1789, e poi soprattutto gli sviluppi rivoluzionari degli anni seguenti, pongono la questione della sovranità nazionale, contribuisce tra l’altro a spiegare come su quel piano l’elaborazione delle posizioni moderate tenda per molti decenni a non collocare le rivendicazioni costituzionali e liberali, e persino le aspirazioni alla liberazione dell’Italia dalla dominazione straniera, all’interno della cornice di uno Stato nazionale.
Dopo la Restaurazione post-napoleonica, poi, la definizione di piattaforme politiche “moderate” tende sempre più a raggruppare gli appartenenti a quella ampia parte della società italiana – cioè, all’epoca, dei sudditi degli Stati italiani – che riteneva auspicabile il superamento dello status quo istituzionale nella penisola, ed in particolare la liberazione del paese dall’egemonia austriaca, ma non attraverso un rivolgimento rivoluzionario, bensì attraverso una evoluzione graduale che salvaguardasse i poteri legittimi vigenti.
Si andarono raccogliendo sotto quella denominazione, dunque, posizioni politiche contrarie all’impostazione ideologica e ai metodi di lotta politica del sovversivismo carbonaro o mazziniano, all’idea della formazione di uno Stato centralizzato, ai progetti che puntavano alla formazione di un regime repubblicano e/o democratico.
Questa opzione complessivamente inscritta nel segno della continuità istituzionale non esaurisce, però, la drammaticità insita nel percorso di riflessione e prassi politica intrapreso dai moderati ottocenteschi italiani, ed in specie da quelli meridionali.
Occorre tenere nel debito conto, infatti, il fatto che la formazione culturale e politica di questi ultimi era stata, in ogni caso, condizionata in misura determinante dall’assimilazione di categorie razionalistiche/illuministiche riguardo alla politica, all’economia e alle istituzioni, riguardate ormai come una piattaforma ineludibile ed un patrimonio da impiegare nella prospettiva di un “fatale” progresso della civiltà, all’interno del quale le rivendicazioni italiane di libertà avrebbero trovato naturalmente il loro posto.
Per quanto riguarda poi la specifica vicenda politico-intellettuale di Giuseppe Poerio e dei suoi figli, essa rappresenta emblematicamente l’impatto di un gigantesco mutamento culturale a livello europeo su due generazioni di esponenti della classe dirigente dell’Italia meridionale, tra la piccola nobiltà di provincia e la borghesia delle professioni, strettamente legata alle sorti dell’apparato statuale-amministrativo del Regno di Napoli e poi delle Due Sicilie. Un mutamento che possiamo definire come la generalizzazione di un paradigma razionalistico negli affari pubblici e di una “religione” della modernità/modernizzazione in politica.
Tale impatto si può registrare in due “ondate” successive, che appunto distinguono le due generazioni di cui sopra, e che solo sommariamente si possono sintetizzare nelle categorie di “illuminismo” e “romanticismo”. Dal punto di vista della cultura politica, esso si traduce negli ideali rivoluzionari “giacobini” prima, nell’adesione ad una linea liberale-costituzionale poi. Ma le due fasi si possono leggere in una luce profondamente unitaria se le si considera come due successive espressioni di quel generale sentire che “impone” tra Sette e Ottocento all’opinione pubblica europea ed italiana l’elaborazione di nuovi standard di organizzazione politico-istituzionale.
La prima generazione alla quale ci riferiamo è quella dei nati nella seconda metà del XVIII secolo che nella loro giovinezza vivono i riflessi della Rivoluzione francese sull’Italia e il terremoto politico scatenato sulla penisola dalle invasioni napoleoniche. È la generazione alla quale appartiene Giuseppe Poerio, nato nel 1775 in Calabria da una famiglia della piccola nobiltà, laureato in giurisprudenza all’Università di Napoli, e partecipe, appena ventiquattrenne, della rivoluzione del 1799.
Un’esperienza drammatica nella quale il giovane avvocato portò tutto il proprio bagaglio di ingenuo, preromantico idealismo e la propria insofferente sete di grandi ed eroiche gesta, e che gli fruttò la condanna a morte, commutata poi dal sovrano in una dura prigionia a Favignana, amnistiata dopo due anni.
Il passaggio attraverso il trauma rivoluzionario avrebbe prodotto in Poerio, negli anni successivi, una progressiva maturazione politica: l’ideale repubblicano sarebbe stato da lui abbandonato in favore di una piattaforma liberale-costituzionale, che non gli avrebbe impedito comunque di esporsi ancora in prima linea sia nella breve stagione del regno di Gioacchino Murat, sia nei moti del 1820-21, ai quali egli partecipò in qualità di deputato del Regno4.
Si trattava di variazioni su un motivo antiautoritario e riformatore rimasto costante per tutta la vita di Giuseppe, ma che si coniugava ora con la ricerca di mutamenti non laceranti, senza rotture con la legalità e l’ordine dinastico del regno borbonico.
La seconda generazione alla quale ci riferiamo è quella alla quale appartengono i figli di Giuseppe, Alessandro (nato nel 1802) e Carlo (nato nel 1803). È quella di chi non vive attivamente il periodo rivoluzionario e napoleonico, ma ne assimila l’eredità dalla formazione ricevuta in famiglia, e lo percepisce già nella propria formazione intellettuale e politica come uno spartiacque storico decisivo, dopo il quale la dialettica politica si va ad inscrivere in un percorso destinato a condurre le nazioni all’indipendenza e a soluzioni di governo costituzionali, che superino la contrapposizione tra ancien Régime e rivoluzione.
È la stessa generazione alla quale appartengono Vincenzo Gioberti (nato nel 1802), Carlo Cattaneo (nato nel 1803) e Giuseppe Mazzini (1805). Personaggi talvolta distanti per provenienza geografica, socio-culturale e ideologica, ma uniti dalla stessa convinzione di un destino di progresso politico-istituzionale, da una medesima aspirazione ad un percorso evolutivo sul quale i popoli europei erano destinati ad incamminarsi insieme.
Ma questa è anche la generazione alla quale appartiene Julien Sorel, il protagonista de Il rosso e il nero di Stendhal, che incarna in maniera memorabile un giovane irrequieto negli anni Venti della piena Restaurazione, partecipe di un impeto ribelle che in lui si volge alla sfrenata corsa all’ambizione ed affermazione personale, ma che trae origine dal mito dell’homo novus fatale, Napoleone Bonaparte, il cui Memoriale di S. Elena Julien egli sta leggendo quando, per la prima volta, fa la sua apparizione nel romanzo.
È, insomma, la generazione di coloro che, ancora giovanissimi, si trovano a vivere da protagonisti la tempesta politica della prima metà dell’Ottocento, il susseguirsi di fermenti e fratture rivoluzionarie in cui un ruolo sempre più centrale viene giocato dalle piattaforme ideologiche nazionali-risorgimentali, costituzionali, liberali, democratiche, delle quali il Risorgimento italiano è parte.



2. I Poerio: dottrinari “servitori dello Stato” o pionieri della classe politica italiana?

Due sono gli elementi culturali che, all’interno di quel milieu generazionale, caratterizzano specificamente la personalità di Alessandro e Carlo Poerio, e che ritroviamo costantemente attraverso la loro biografia politica. Il primo è l’idea costante della necessità di una guida illuminata per l’attività di governo, in grado di superare i conflitti e di promuovere riforme in nome del miglioramento della vita collettiva. Il secondo, ad esso strettamente connesso, è la fedeltà all’autorità monarchica, considerata come il necessario punto di riferimento – in quanto, appunto, polo legittimo di ordine in una società in evoluzione – per l’esercizio di un’azione politica razionalizzatrice.
Si tratta, in entrambi i casi, di elementi che segnalano una profonda continuità culturale ed emotiva, ed anzi l’assimilazione cosciente di una eredità, tra i due fratelli Poerio ed il padre Giuseppe. E che marcheranno inconfondibilmente l’idea dell’impegno politico dei due, la loro concezione della nazione, e infine, in Carlo, l’adesione all’obiettivo dell’unità nazionale sotto la casa Savoia.
Il progetto politico liberale al quale i due fratelli Poerio partecipano, insomma, si configura come la prosecuzione in loro dell’ideale illuministico di un’autorità sovrana dedita al bene comune, che, guidata da opportuni consigli e dall’apporto di una élite colta, governa in uno spirito di concordia. Un ideale profondamente inscritto nei cromosomi storici di una classe dirigente provinciale del Mezzogiorno persuasa di aver superato l’angustia della propria origine feudale e di potersi proporre, grazie allo studio delle lettere e del diritto, come sintesi delle istanze e degli interessi della popolazione del Regno5.
Nel suo volume del 1919 Una famiglia di patrioti Benedetto Croce riassumeva le origini culturali, la rilevanza e i limiti dei liberali-moderati meridionali risorgimentali ricordando che
la debolezza del loro programma è da riportare alla loro origine intellettuale [...]. E l’origine intellettuale era sempre nel secolo decimottavo, nel quale quegli uomini si erano educati e dal quale non si distaccarono mai del tutto [...]. Illuministi e giuristi, inclinavano, dunque, all’errore di attribuire a volta a volta ufficio egemonico e decisivo alla ragionevolezza raziocinante degli uomini e alla logica della legalità6.

Più avanti nello stesso saggio Croce aggiungeva che quello liberale meridionale
fin da principio fu un partito che non si originava dalla forza reale di una classe o di un potere sociale, capace veramente di dominare, sorreggere, ordinare e indirizzare le altre classi e poteri della nazione, ma da una persuasione della mente che chiedeva il governo dei migliori pel bene di tutti, e la libera gara delle intelligenze per l’avanzamento civile7.

Da queste basi culturali derivava secondo il filosofo napoletano la tendenza dei Poerio, padre e figli, a sovrastimare la maturità civile e politica delle popolazioni del Mezzogiorno d’Italia, e quindi la “naturale” disposizione di queste a lasciarsi governare “secondo ragione” da un’aristocrazia altrettanto naturale. Derivava, insomma, un organicismo politico di fondo, ancora al di qua di una concezione realmente “moderna” del regime rappresentativo liberale, incardinato sulla dialettica tra forze sociali e politiche organizzate.
Nel severo giudizio storico di Croce – in cui si avvertono gli echi di un aspro realismo nutrito alla scuola di Machiavelli, Hegel e Marx – possiamo naturalmente riconoscere il punto di vista di un intellettuale meridionale che, a Novecento avanzato e di fronte alla maturità e alla crisi dello Stato liberale, aveva fatto proprie e rivendicava le modalità storiche attraverso le quali si era compiuto il nation building nel processo risorgimentale, a cominciare dalla funzione decisiva svolta in esso dal Piemonte sabaudo.
Alla luce di questa identificazione tra liberalismo italiano e Stato nazionale fondato sotto i Savoia, l’insufficienza individuata da Croce nei moderati meridionali ottocenteschi aveva a che fare essenzialmente con il ritardo con il quale essi, a suo avviso, avevano abbracciato la causa unitaria, e con il fatto che essi viceversa per lungo tempo avevano continuato a collocare le loro richieste di libertà costituzionali e civili nella cornice dell’assetto statuale vigente nella penisola, ed in particolare in quella del Regno borbonico.
Ma il giudizio limitativo di Croce era connesso anche a motivi che si spingevano fino alla dialettica politica dei tempi in cui egli scriveva, vale a dire degli anni estremi del periodo liberale. Nell’«astrattezza» politica dei Poerio Croce individuava in realtà anche le origini di una classe politica liberale meridionale che nel presente gli appariva lontana da una realistica considerazione dei rapporti di forze e priva di prospettive. Di quei moderati caratterizzati, ai suoi occhi, da «effettiva e immedicabile inettitudine pratica», ed incapaci di opporsi al dilagare di «ultraliberali, democratici o sinistri», se non «mercè l’unione, non fondata sopra medesimezza di tradizioni o conformità d’idee, con la parte cattolica».
In quel moderatismo Croce scorgeva, insomma, l’antecedente di una classe politica liberale in affanno, incapace ai suoi occhi di esercitare ormai una effettiva leadership politica e di arginare l’avanzata dei partiti di massa8.
Ma, pur facendo astrazione dalla specifica connotazione politica data alle sue valutazioni storiche dal Croce del 1919, resta che in esse vengono individuati con chiarezza tanto la volenterosa vocazione pedagogica quanto l’intellettualismo di fondo di un gruppo politico nato in una classe sociale che per secoli aveva avuto in realtà un ruolo marginale nell’assetto politico-istituzionale del viceregno spagnolo prima, del regno borbonico poi; e che ora, nutrita dagli studi, interpretava spontaneamente la politica soprattutto come un’opera di devoti “servitori dello Stato”. Tanto da porre le basi per un ceto di funzionari, più che per una vera e propria classe politica.



3. Carlo Poerio dall’ideale confederale a quello unitario.

Ripercorrendo le vicende dei Poerio è certamente possibile individuare le tracce del loro “platonismo” politico post-illuministico. Le ritroviamo nella naturalezza con cui Giuseppe, a partire dalla sua evoluzione liberal-moderata, cerca di conciliare ribellione e lealismo, e persegue ostinatamente la speranza in un’evoluzione “illuminata” verso il potere costituzionalmente limitato prima di Murat, poi di Ferdinando I9. Le ritroviamo, parimenti, nella evidente “impoliticità” del sentimento liberale e nella vaghezza generica della categoria di patria in Alessandro Poerio: caratteristiche che inquadrano il suo impegno e il suo martirio soprattutto nella cornice di un ideale romanticoestetizzante10. E le ritroviamo, infine, anche nel percorso del moderatismo di Carlo Poerio dalla stagione del 1848 a quella del 1859-60.
Fin da quando aveva abbandonato le sue giovanili infatuazioni per il mazzinianesimo, infatti, egli si era convinto che «la strada sulla quale bisognava incanalare il moto politico a Napoli era quella legata al costituzionalismo monarchico»11, ritenendo che l’unica dinastia a poter assicurare un’evoluzione in senso liberale alle istituzioni nel Mezzogiorno d’Italia evitando il rischio dell’instabilità politica e della disgregazione sociale fosse quella borbonica.
Quando, dopo la repressione della primavera 1848, a Napoli e nel resto delle Due Sicilie tra i liberali cominciò a conquistare crescenti consensi il progetto di Stato unitario, e venne fondata la “Grande Società dell’Unità Italiana” (nota come la setta degli “unitari”), Poerio non aderì a tale prospettiva, e rimase fedele alla sua idea secondo la quale ogni disegno di liberalizzazione non poteva che passare per la sopravvivenza della monarchia borbonica. Egli si dichiarò, dunque, a favore del progetto di confederazione italiana che era stato esposto da Vincenzo Gioberti nel Primato morale e civile degli Italiani, mostrando di puntare soprattutto al consolidamento di un “comune sentire” riguardo agli ordinamenti costituzionali rappresentativi nelle diverse parti del territorio nazionale12. E si batté invano, fino all’ultimo, per far rimanere il movimento liberale/costituzionale del Regno nel solco della moderazione, condannando aspramente gli eccessi di violenza popolare che offrivano pretesti alla repressione borbonica13.
Ma ciò nonostante per la sua partecipazione al governo costituzionale (in qualità di ministro dell’istruzione) Poerio venne accomunato, nella reazione e nei procedimenti contro i ribelli, agli “unitari” le cui posizioni tanto disapprovava.
Nel processo del 1849 in cui venne infine condannato a 24 anni di carcere per cospirazione (ne scontò 10 prima che la pena fosse commutata in esilio nel 1859) Poerio si difese rivendicando orgogliosamente di essere un liberale, e di aver consacrato la propria vita «al pacifico trionfo del reggimento costituzionale»14.
Ma, al contempo, egli negò recisamente ed orgogliosamente di avere qualsiasi cosa a che fare sia con gli “unitari” che con qualsiasi genere di “setta”: «Lo studio assiduo e coscienzioso della storia mi ha insegnato che la Libertà non è mai sorta dal cozzar cieco e furioso delle sette, ma è stata inevitabile effetto della maturità dei tempi, e dei progressi della civiltà dei popoli15».
Poerio ammetteva, in quella sede, di essere sempre stato «zelatore caldissimo» dell’«Unione Italiana» ma non nel senso inteso dai fautori di uno Stato nazionale unitario, bensì «nel senso della Lega dei governi della Penisola, come era in Germania e come si sta attuando sotto nuove forme in questa vasta regione»16. Nel senso, appunto, del progetto confederale esposto da Gioberti, che egli faceva proprio e additava come strada pienamente conforme alla propria professione di fede politica.
Soltanto un decennio più tardi, di fronte alla convinzione, maturata nel frattempo, dell’inutilità dei tentativi di conciliare la lotta per la liberazione della penisola dal dominio austriaco, la promozione della libertà civile e la conservazione delle legittime autorità sovrane negli Stati italiani, Poerio si sarebbe rassegnato a considerare la guida della dinastia sabauda come l’unica opzione realisticamente possibile per la vittoria finale contro le dominazioni straniere sull’Italia. Solo da quel momento in poi egli si sarebbe fatto sostenitore di quella soluzione, appoggiando la linea di Cavour e la spedizione dei Mille di Garibaldi, e combattendo senza riserve qualsiasi dubbio o proposta alternativa da parte della classe politica meridionale.
Ancora nel 1859 Carlo, dopo il suo arrivo a Torino, scelse di promuovere un estremo tentativo di trattativa con il re delle Due Sicilie Francesco II, cercando di conciliare la linea politica di Cavour con l’autonomia del Meridione nel nuovo assetto istituzionale.
Nei mesi successivi, dopo la delusione dell’armistizio di Villafranca, egli si “convertì” lentamente e dolorosamente dall’ideale confederale a quello di un’unificazione centralizzata della penisola sotto casa Savoia17, fino a sperare che le annessioni fossero il prodromo di una progressiva fusione tra le varie parti del paese, e appoggiò poi la spedizione garibaldina, fiducioso che essa avrebbe favorito in realtà il consolidamento di un nuovo Stato unitario monarchico-costituzionale, e quindi sarebbe stata il veicolo per la continuazione e il successo degli ideali liberali18.



4. Conclusioni

In una valutazione storiografica complessiva dell’evoluzione politica di Carlo Poerio, in ogni caso, non possono essere sottolineati esclusivamente il dottrinarismo astratto e la costitutiva cautela travolta dai grandi movimenti storici. Dalla sua azione politica in quei delicati frangenti emergono, parimenti, un realismo pragmatico, una consapevolezza partecipe della delicatezza dei mutamenti politici in corso, e soprattutto una cultura istituzionale matura che svolse un ruolo non trascurabile nell’assicurare un’ordinata transizione tra gli Stati preunitari e il Regno d’Italia.
Quella idea, ereditata e rimeditata, di riforme nel senso della concordia tra autorità legittima e governati comportava in lui pure una salda, invincibile avversione verso qualsiasi progetto di palingenesi rivoluzionaria come base della libertà italiana: quella palingenesi in cui credevano invece gli aderenti al settarismo carbonaro e mazziniano. Ed implicava la convinzione realistica che un ordinamento costituzionale potesse avere successo a Napoli e nel resto d’Italia soltanto se esso fosse stato un frutto maturo dello sviluppo storico del paese, e se fosse stato solidamente fondato sull’eredità della storia istituzionale di uno Stato.
Una linea di condotta, quella di Poerio, che era in realtà proprio il frutto di quella lunga assimilazione, attraverso lo spazio di due generazioni, delle aspirazioni liberali-riformatrici coniugate al senso della nazione e alla convinzione della necessità della stabilità e dell’ordine sociale anche attraverso i mutamenti storici.
Alessandro Poerio nel 1848 era morto in combattimento a Mestre, dove era accorso, per solidarietà di liberale e di italiano, a difendere la libertà veneziana contro gli austriaci sulla scorta di un ideale di libertà e di nazione tanto letterario da poter essere, a conti fatti, ampiamente condiviso anche da punti di vista ideologici e geografici in partenza molto diversi.
La “inclusività” delle sue categorie era, in realtà, l’altra faccia del prudente continuismo del fratello Carlo. Una prudenza che avrebbe condotto i moderati meridionali dal progetto giobertiano di confederazione e dall’obiettivo della autonomia sotto i Borbone “riformati” all’adesione allo Stato unitario nato dalla strategia cavouriana, nell’ambito di una scelta meditata in favore delle istituzioni rappresentative e dei diritti di libertà.






NOTE
* Il testo qui proposto rappresenta la versione riveduta di una relazione tenuta al convegno Il contributo della famiglia Imbriani-Poerio all’unità nazionale, svoltosi a Pomigliano d’Arco il 14 maggio 2011, che comparirà negli atti del convegno stesso.^
1 Per una trattazione di questo tema nel senso da noi indicato si rimanda a E. Galli della Loggia, L’identità italiana, Bologna, il Mulino, 2011 (ed. Orig. 1998); G. Galasso, L’identità italiana: premesse per una storia, in Id., L’Italia s’è desta. Tradizione storica e identità nazionale dal Risorgimento alla Repubblica, Firenze, Le Monnier, 2002, pp. 70-84.^
2 S. De Luca, Moderati e moderatismo nell’Italia in cammino verso il Risorgimento, in «Rivista di politica», 2, 2011, p. 6.^
3 Ivi, p. 7.^
4 Su Giuseppe Poerio, si veda innanzitutto di Benedetto Croce il già citato saggio La giovinezza rivoluzionaria di un moderato, e La tradizione moderata nel Mezzogiorno d’Italia (Giuseppe e Carlo Poerio), in Id., Una famiglia di patrioti. I Poerio, a cura di G. Galasso, Milano, Adelphi, 2010 (I ed. 1919), pp. 11-60. Cfr. più di recente F. Esposito, Una vicenda storico-politica della rivoluzione napoletana del 1820. Gli Imbriani ed i Poerio. Da documenti inediti o poco noti, Marigliano, Istituto lito-tipografico Anselmi, 1993, e Aa.Vv., I Poerio: storia e poesia. Genealogia e storia della famiglia Poerio. Mostra documentaria, bibliografica e fotografica, Istituto italiano per gli studi filosofici, Napoli, palazzo Serra di Cassano, 8-29 maggio 2007, Napoli, Arte tipografica, 2007.^
5 Sulla importanza e formazione, nella storia del Regno di Napoli dal Settecento in avanti, di un ceto intellettuale dalla vocazione preminentemente politica, rimando alle considerazioni di G. Galasso, Napoli capitale, Napoli, Electa, 1987, pp. 101-2, 124, 223-228 e passim.^
6 B. Croce, Una famiglia di patrioti, op. cit., p. 44.^
7 Ivi, p. 45.^
8 In merito a questo richiamo polemico alla situazione politica presente che chiude il saggio di Croce sui Poerio cfr. G. Galasso, Nota del curatore, in Croce, Una famiglia..., cit., pp. 167-169.^
9 Cfr. Ivi, pp. 37-43.^
10 Sul quale si rimanda in primo luogo ad A. Poerio Riverso, Alessandro Poerio. Vita e opere, Napoli, Fiorentino, 2000; e a R. Stevanato (a cura di), Alessandro Poerio soldato e poeta della libertà a Venezia, Mestre, Centro Studi Storici di Mestre, 2008.^
11 F. Esposito, Carlo Poerio, Napoli, Ferraro, 1978, p. 27.^
12 Cfr. ivi, pp. 64-65.^
13 Sulla netta condanna di Poerio nei confronti delle derive estremiste nei moti del 1848 cfr. A.U. Del Giudice, I fratelli Poerio. Liriche e lettere inedite di A. e C. Poerio pubblicate per la prima volta, Torino, Roux Frassati e co., 1899, p. 21.^
14 C. Poerio, Carlo Poerio a’suoi giudici (nel giudizio di sottoposizione ad accusa per reato di Maestà), Napoli, s.e., 1850, p. 4. Cfr. Croce, Una famiglia... cit., p. 53.^
15 C. Poerio, Carlo Poerio a’ suoi giudici... cit., p. 4.^
16 Ivi, p. 6. Cfr. F. Esposito, op. cit., pp. 74-5, 77.^
17 Sul mutamento di posizioni di Poerio in favore della linea unitaria cfr. F. Esposito, Carlo Poerio, cit., in part. pp. 145-173; A. Poerio, Carlo Poerio, s.l., s.e. (Stampa Cromografica), 2011, pp. 203-259. Si vedano i pronunciamenti di Poerio stesso, tra cui C. Poerio, La questione meridionale e le annessioni del 1859, ripubblicato in «Nuova Antologia», (1959), pp. 290-312; Id., Al segretario del Comitato elettorale del primo collegio di Arezzo, 28 marzo 1860, in Id., Due lettere di Carlo Poerio, contenenti la sua professione di fede, s.l., s.e., s.d. [dopo il 1860].^
18 F. Esposito, Carlo Poerio, cit., pp. 138-139, 145, 151-152, 163, 168-169.^
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