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Napoli: l’eredità dell’Ottocento*
di Giuseppe Galasso

A mio figlio Francesco,
per la sua forza e limpidezza di animo
e per la sua volontà e capacità di fare il meglio
per oggi e per domani




A voler applicare il criterio del secolo – che non è il più stimolante dei criteri di periodizzazione storica, e neppure il più pacifico, come si vede dalle frequenti, noiose e inconcludenti discussioni sui «secoli lunghi» e sui «secoli brevi» – l’Ottocento napoletano non è un solo secolo. Sono due secoli: quello che si aprì con la rottura rivoluzionaria degli anni ’90 del secolo XVIII e quello che si aprì con l’unificazione italiana nel 1860-1861. E due secoli – occorre aggiungere – che ricevevano, elaboravano e trasmettevano valori e identità largamente diversi fra loro, anche se non del tutto senza relazioni e compatibilità reciproche.
Il primo Ottocento è il secolo della lotta fra due opposte spinte politiche. Da un lato, vi era la tradizione meridionale così come era venuta a comporsi e ad atteggiarsi nel regime borbonico restaurato nel 1815. Questo regime solo in parte raccoglieva e continuava la cultura e le spinte riformatrici del primo periodo borbonico fra il 1734 e il 1799 e lo spirito illuministico sotteso a quella cultura e a quelle spinte. Esso non registrava effettivamente i grandi mutamenti intervenuti nella fisionomia istituzionale e morale del paese meridionale fra il 1799 e il 1815; e, nella misura in cui registrava tali mutamenti, lo faceva con profonde riserve mentali e soprattutto perché obbligato a ciò dai trattati di pace. Aveva operato, inoltre, la trasformazione dei due storici Regni di Napoli e di Sicilia nell’unico e inedito Regno delle Due Sicilie. Aveva soprattutto adottato a proprio metro politico una «filosofia» conservatrice, volta in maniera sostanzialmente esclusiva al mantenimento dell’ordine costituito all’interno e a un completo adattamento all’ordine internazionale fissato, più che Congresso di Vienna, dalla Santa Alleanza, in modo da vivere tranquilli, secondo il detto attribuito a Ferdinando II, «tra l’acqua santa e l’acqua salata», ossia tra gli Stati del papa e il mare che circondava il Regno, in un isolamento più deprimente che splendido.
Dall’altro lato, vi era la nuova coscienza liberale, animata dalla tradizione formatasi tra gli anni ’90 del secolo precedente e il 1815, con i precedenti e con l’esperienza rivoluzionaria del 1799 e, soprattutto, con l’esperienza riformistica del Decennio francese, sotto i due sovrani napoleonidi, Giuseppe Bonaparte e Gioacchino Murat. Era questa coscienza l’erede più diretta e, per così dire, globale dello spirito, ancor più che del patrimonio di conoscenze e dei contenuti della grande cultura napoletana del Settecento. L’avevano ampliata e rinvigorita gli impulsi del moto e della cultura del Romanticismo e dei grandi movimenti politici e sociali, nazionale e liberali, democratici e pre-socialisti del nuovo secolo. Essa appariva, insieme, estremamente sensibile alle esigenze di una società, quale sempre più si dimostrava la società meridionale, che si sentiva compressa nei quadri del regime vigente anche a prescindere dalla effettiva, insufficiente maturazione, in essa, di forze sociali abbastanza robuste da avviare e sorreggere una grande trasformazione e rinnovamento del paese in senso moderno. E appariva, perciò, come l’elemento storico del Mezzogiorno più in sintonia con lo spirito del tempo e più considerato come tale nella grande opinione europea.
La lotta fra queste opposte spinte si concluse, come è noto, con la vittoria della seconda sulla prima. Non fu una vittoria né facile, né senza costi, né totale, e il secondo Ottocento napoletano, così come tutta l’ulteriore storia di Napoli e del Mezzogiorno, avrebbe profondamente risentito dei limiti e dei costi di una tale vittoria. Ma la particolarità della condizione napoletana sarebbe stata contrassegnata dal fatto che allo stesso tempo, pur con tutti i suoi limiti, quella vittoria doveva – e deve – essere considerata tra gli elementi più positivi della complessiva eredità napoletana dell’Ottocento. Per tale ragione nello sviluppo della Napoli contemporanea (e, ancora una volta, del Mezzogiorno con essa) sarebbe rimasta una nota di precarietà di fondamento e di struttura, che un travaglio di un secolo e mezzo di storia posteriore non solo non è valso a eliminare, ma – non senza tratti paradossali, e perfino, in qualche aspetto, parossistici – ha perfino, piuttosto, rafforzato.
Tra i costi di quella vittoria non può, comunque, essere compresa la perdita del ruolo, sei volte secolare, di Napoli quale capitale di un Regno, che era il più esteso e il più popolato degli Stati italiani pre-unitari, membro antico e riconosciuto del sistema degli Stati europei già dall’epoca medievale. Ci si trattiene di solito sulle conseguenze più evidenti e vistose della perdita di questo ruolo. A ben vedere, però, può dirsi che la scomparsa del corpo diplomatico accreditato presso i sovrani napoletani, non compensata dal corpo consolare rimasto nella città, e la soppressione dell’apparato di governo centrale (ministeri e amministrazione militare e giudiziaria, soprattutto) furono effettivamente modificazioni sostanziali dello status anche materiale della ormai ex-capitale. La città continuò ancora a lungo a essere sede di una Corte di cassazione e di un istituto bancario di emissione monetaria e conservò varii altri tratti della perduta funzione politica, diplomatica, amministrativa. Tra l’altro, ancora per un sessantennio l’Università degli Studi di Napoli avrebbe continuato a essere l’unica del Mezzogiorno, quale era stata – pur essa – fin dai tempi della sua fondazione a opera di Federico II di Svevia nel 1224: e questo rimase, anzi, ancora uno dei segni maggiori della sua qualità di metropoli secolare del Mezzogiorno d’Italia. La sensazione di aver cessato di essere una capitale di Stato non fu, anche per tutto questo, così forte nella Napoli dei primi decennii italiani come sarebbe stata un secolo dopo, nella memoria, ormai, e non più nella concretezza di un’esperienza ancora immediata perché volta a un passato recentissimo. In realtà, però, qualsiasi valutazione si voglia dare – più ampia o più ristretta, più positiva o più negativa – del perduto ruolo di capitale, indubbiamente molto radicato nel passato di una città che lo aveva mantenuto per secoli e ne era estremamente consapevole e orgogliosa, l’effetto davvero radicale del mutamento di status di Napoli dopo il 1860 fu dato da una ben diversa conseguenza, per essa, dell’unità italiana nella quale si trovò da allora a vivere.
La si può riassumere nella rapida disarticolazione di quella centralità della posizione e del ruolo della capitale dell’antico Regno nella vita del Mezzogiorno, che durava da più secoli: una centralità che, nella sua plurisecolare sedimentazione, potrebbe apparire, a chi non conosca bene le cose meridionali e napoletane, tanto saldamente consustanziata con la realtà del paese e della sua metropoli da fare apparire inconcepibile un loro diverso assetto. Non era, però, così. La crisi di quella centralità napoletana era ben antecedente all’unificazione italiana e ai suoi effetti. Era cominciata, infatti, già nel secolo XVIII.
Egualmente già allora, essa aveva trovato ampio spazio nella cultura del Regno. Negli scritti degli illuministi e dei riformatori napoletani di quel secolo sono più che frequenti i motivi di una critica radicale alla posizione e alla funzione di Napoli quale capitale del Regno. Il punto principale e decisivo di tale critica verteva sui privilegi della città in quanto capitale e sull’accentramento che si era determinato in essa della massima parte delle energie vive e delle risorse del Regno. Quale beneficio ne ricavava il paese meridionale? La risposta a un tale, più che legittimo, interrogativo, era drastica. Come capitale, Napoli poteva essere assimilata a una enorme testa, innaturalmente poggiata su un esile corpo: la testa succhiava tutti gli umori di quel debole corpo, inaridendolo e condannandolo a un meschino vegetare; essa stessa, però, non traeva alcun beneficio vitale da questa funzione di metropoli assorbente, che la congestionava e la rendeva fiacca e per nulla dinamica. In altri termini, una capitale a senso unico, che spopolava e sfruttava le province, ne assorbiva non solo le risorse e le energie, bensì anche le potenzialità e le prospettive. In un Regno assurdamente Napoli-centrico, si delineava un quadro equivalente a quello che due secoli dopo sarebbe stato definito per la Francia con un titolo famoso: Paris et le desert français.
Non era un bilancio equanime. Napoli doveva certamente alla sua funzione di capitale e ai privilegi di cui, in quanto tale, aveva largamente beneficiato una straordinaria carriera metropolitana, per cui era diventata ed era rimasta a lungo, fra il XVI e il XVII secolo, la seconda città dell’Europa occidentale, dopo Parigi, e la seconda anche del Mediterraneo, dopo Costantinopoli. Aveva, però, anche pagato un duro prezzo per quelle fortune. Aveva visto infittirsi al di là di ogni ragionevole limite il suo tessuto urbano e la sua consistenza demografica. Era stata tratta a una vocazione amministrativa e burocratica, che ne aveva molto ridotto la potenzialità di centro economico e finanziario, sottoponendola, su ogni piano, a una patologica dipendenza dal suo rapporto con il governo e con le sue esigenze. Aveva fino a tal punto subìto la suggestione del suo ruolo politico-amministrativo da annullare, in pratica, completamente la sua identità cittadina in quella di capitale. Aveva visto squilibrarsi la sua struttura sociale da più lati. Per l’affluenza in città di una quota abnorme della popolazione, specialmente contadina, del Regno si era costituito un pittoresco, miserabile sottoproletariato urbano, che aveva fatto della «Napoli gentile» dei tempi aragonesi il «paradiso abitato da diavoli» dei tempi spagnoli. L’insediamento della maggiore nobiltà feudale del Regno nella capitale, dovuto a forti ragioni di ordine politico, e la larga commistione di essa con la nobiltà cittadina di Napoli avevano fortemente contribuito a configurare la città come grande centro di consumo di redditi signorili provenienti dalla provincia meridionale con la sua forte caratterizzazione baronale, e avevano pure contribuito a fare della condizione signorile, redditiera, quando non anche e puramente parassitaria, il modello regolativo di ogni ascesa sociale. Parallelo era stato lo sviluppo di una borghesia dei tribunali, delle professioni, degli impieghi e funzioni e uffici pubblici, che aveva anch’essa messo capo a una visione redditiera, ed eventualmente anche parassitaria, della condizione sociale superiore. Nello stesso tempo lo sviluppo demografico della città aveva fatto del problema delle abitazioni uno dei problemi maggiori della vita cittadina e del «padrone di case» una figura sociale diffusa, che rafforzava la fisionomia redditiera, e facilmente parassitaria, della borghesia napoletana.
La struttura economica della città non poteva che risentire in misura del tutto determinante di questa varia genesi del carattere metropolitano di Napoli e delle «classi alte» della città. Le manifatture napoletane si erano adattate largamente alle loro esigenze e lavoravano soprattutto per i consumi di quelle classi. Poca era l’esportazione di manufatti napoletani (tessuti di seta, a lungo; più tardi guanti, cappelli, calzature). Pochissimo di metallurgia e di manifatture più complesse. Era, invece, fortissimo il commercio cittadino, sia per le esigenze di consumo di una così grande metropoli, sia perché, essendo Napoli l’unico vero e grande porto del Mezzogiorno, ed essendo nello stesso tempo il centro più evoluto del paese, le province vi ritrovavano il loro massimo emporio di approvvigionamento e di rapporto coi traffici internazionali, e, contemporaneamente, la città alimentava già di per se stessa un’attività commerciale molto intensa. Con il mercato internazionale, tuttavia, neppure la città intratteneva un rapporto diretto. Il mercato meridionale era da secoli dominato da forestieri, un po’ per le vicende generali del Mezzogiorno nell’ambito italiano e mediterraneo ed europeo, un po’ per la politica costantemente seguita, per secoli, dalla monarchia meridionale. E lo stesso deve dirsi del movimento finanziario in una città in cui certo capitali ragguardevoli non mancavano del tutto. Per queste ragioni qualcuno, non del tutto a torto, ha considerato Napoli, malgrado il suo affacciarsi su un grande golfo, una città più volta verso le circostanti campagne che verso il mare.
Pur così deformata, la capitale del Regno aveva, tuttavia contribuito non poco alla secolare, ininterrotta trasformazione del Mezzogiorno in una monarchia periferica, ma organicamente legata all’Europa e che della storia europea aveva sostanzialmente seguito le vicende politiche, civili e culturali in tutte le fasi del loro svolgimento. Era stato, infatti, proprio attraverso la finestra napoletana che il Mezzogiorno aveva vissuto il suo rapporto con l’Europa.
Nella capitale si era accentrato, in realtà, il movimento intellettuale del paese, non diversamente che per altri aspetti della vita civile. L’università napoletana era il luogo di formazione della gioventù che nel Mezzogiorno seguiva il cursus studiorum superiore e che era destinata a formare la maggior parte della classe dirigente nella capitale e nelle province, fornendo quindi al paese il tessuto connettivo di un elemento sociale fondamentale e un grande fattore di amalgama delle molte e diverse realtà culturali e civili delle varie province meridionali. La stessa funzione unificatrice e amalgamante si può dire che avessero: a) l’attività amministrativa e politica promanante dalla capitale in quanto centro di una esperienza monarchica «assolutistica» dell’Europa moderna; b) il foro di Napoli nella molteplicità delle sue istanze di antico regime, che, specialmente sul piano degli interessi, delle passioni e dei comportamenti, e intorno alla legislazione, alle normative e alle procedure stabilite e seguite nella capitale egualmente formava un centro di aggregazione e sollecitava esperienze comuni e un comune senso di appartenenza nelle popolazioni del Regno, in origine molto legate alle loro individualità provinciali e locali; c) il dibattito e l’attività artistica e letteraria che già dai tempi angioini e, soprattutto, dal periodo aragonese aveva fatto di Napoli un centro importante della civiltà artistica e letteraria d’Italia; d) la presenza attiva in Napoli di una Nunziatura pontificia, che faceva valere un’istanza di comunità su un altro terreno di fondamentale importanza per la vita morale di quei secoli, ossia il terreno dell’unità ecclesiastica, presupposto vissuto della vita religiosa e, non solo a livello popolare, della vita morale nell’Europa di antico regime; e) l’attività economica e finanziaria che, come si è detto, aveva nella capitale il suo centro pressappoco monopolizzatore e che integrava il richiamo unificatore degli interessi e dei comportamenti su un altro piano di fondamentale rilievo nell’esperienza civile di ogni comunità umana.
Dalla funzione di Napoli come grande capitale unificatrice e amalgamatrice era derivato quel processo, già in pieno corso tra XV e XVI secolo, di gravitazione della vita e della coscienza del Mezzogiorno su di essa, che malamente viene definito di «provincializzazione» della realtà meridionale rispetto alla capitale. Senza entrare nel merito di tale questione, ci limitiamo qui a osservare che dalla presunta «provincializzazione» era venuta fuori la «nazione napolitana» di cui alla fine del secolo XVIII erano ormai maturati pienamente il senso e la coscienza. Una grande funzione, quindi, quella della capitale nella vita del paese meridionale, che Napoli aveva svolto con un timbro particolare: il timbro di una grande città, il cui fascino storico e umano si era largamente imposto all’attenzione dell’Europa moderna e che permette di ripetere per essa, sulla sua scala e nel suo ambito, ciò che a suo tempo, su una ben diversa scala e in ben più ampio e complesso ambito, fu detto per Roma: fecisti patriam diversis gentibus unam..., pagando per questo, come si è detto, un prezzo il cui peso fu poi ripercosso a lungo sulla sua storia posteriore, ponendo ad essa, ancora nel secolo XX problemi fra i suoi più gravi.
Questo ritratto genetico e strutturale della Napoli che visse gli anni della rivoluzione francese e di Napoleone è in gran parte quello che tracciò già la critica degli illuministi e dei riformatori napoletani nei decennii precedenti agli sviluppi francesi a cui si è accennato. Il fatto che in seguito lo si sia ripetuto con sostanziale adesione a un modulo descrittivo sempre meno recente è già di per se stesso significativo, anche se, come del resto era ovvio, lo si è progressivamente arricchito e dettagliato di considerazioni e di elementi importanti sia dal punto di vista genetico che da quello strutturale. Esso, però, non esaurisce ancora il discorso su quella Napoli capitale opprimente e, al tempo stesso, fattore di amalgama e di promozione di un Mezzogiorno che non era ai primi posti delle potenze e della economia italiana, mediterranea, europea. La critica stessa degli scrittori del secolo XVIII non aveva un fondamento solo culturale. Dietro di essa si avverte il pulsare di un mondo in fermento: un fermento quanto si voglia modesto, limitato, variamente condizionato, ma fermento reale, destinato a un ulteriore sviluppo nel periodo stesso in cui prendeva corpo la critica alla capitale assorbente e opprimente.
In termini estremamente sommari, si può riassumere quel fermento nella progrediente maturazione di una borghesia agraria più radicata nella terra e più consapevole dei suoi interessi agrari di quanto appaiano, o fossero, i precedenti ceti proprietari del Mezzogiorno. Beninteso, quando si parla qui di borghesia, non si vuole adoperare il termine nel suo più immediato significato di classe economica e sociale. Si vuole soltanto indicare una mentalità, un ruolo di promozione e di esercizio di imprese maggiori o minori capaci di operare una certa trasformazione, di imprimere un certo dinamismo all’agricoltura del paese, che era andata perdendo nel corso del secolo XVII i caratteri che, ultima propaggine della sua storia medievale, le conferivano un indubbio pregio nel quadro mediterraneo. Di questa borghesia potevano far parte questo o quel barone di maggiore o minore rango e patrimonio, gentiluomini e patrizi delle nobiltà locali, proprietari terrieri che possedevano nei loro patrimoni terre di varia provenienza, professionisti o mercanti o altre figure economiche e sociali che investivano nei campi i loro guadagni, massari e fittavoli dei maggiori o minori proprietari delle loro province, contadini più o meno fortunati venuti nella possibilità sia di valorizzare le loro proprietà, per piccole che fossero, sia di procurarsi un più ampio campo di attività con l’affitto o la gestione di terre di altri, parvenus della più diversa origine (impieghi e uffici pubblici, ambito ecclesiastico, contrabbando, usura…..). Il pluralismo delle appartenenze sociali era, però, mediato da un abbastanza unitario orientamento a considerare la terra e l’agricoltura non solo sul piano della sindrome proprietaria propria della tradizione del Mezzogiorno sia al livello della feudalità che al livello delle classi contadine, bensì anche dal punto di vista della produzione per il mercato e, in ogni caso, della redditività intrinseca dell’esercizio agrario. La concezione della terra come patrimonio evolveva, così, decisamente in quella della terra come fattore della produzione, quale nel Mezzogiorno non si era fino ad allora avuto nella stessa misura o, per dire ancora meglio, nella stessa maniera che fino ad allora.
Dietro alla critica alla capitale sviluppata nella cultura napoletana del secolo XVIII agiva, dunque, la spinta di condizioni sociali nuove. Quella critica non esprimeva soltanto un nuovo pensiero, né soltanto nuovi ideali. Esprimeva anche la presenza di fattori sociali nuovi o rinnovati sulla scena di un Mezzogiorno, che usciva, peraltro, dalla cosiddetta «crisi generale del Seicento» in posizione ancora più marginale e dipendente di uno o due secoli e prima rispetto all’Italia e all’Europa. Erano fattori disparati per consistenza, per consapevolezza, per reali prospettive ed erano ben lontani dal formare un fronte comune per i problemi che agitavano, per le richieste che avanzavano, per i modi in cui si muovevano. Neppure la cultura ne raccoglieva istanze e aspettative in maniera diretta, organica, esauriente. Alcuni elementi erano, però, abbastanza chiari. La richiesta di una profonda revisione, se non vera e propria soppressione, del regime feudale delle terre rappresentava, ad esempio, nella seconda metà del secolo XVIII una petizione riformatrice ormai matura, e particolarmente rilevante anche per le conseguenze che ne sarebbero derivate sui rapporti sociali nelle campagne nei minori centri abitati.
Una eredità dell’Ottocento sarebbe stata costituita proprio dalla liquidazione del regime feudale nel breve periodo dei due sovrani napoleonici e dai modi in cui la liquidazione fu realizzata, favorendo la formazione di più grossi complessi di proprietà, deludendo le aspettative delle classi rurali più disagiate, senza realizzare, se non in misura parziale, la rivoluzione agraria che si pensava connessa al mutamento del regime giuridico delle terre e dei rapporti sociali nelle campagne. E ciò avrebbe avuto grande importanza per la capitale del Regno, sia perché la massima parte del baronaggio meridionale aveva nella capitale la sua residenza e il centro delle sue attività, sia perché dalla vicenda testé accennata uscì in varii modi rafforzata l’inclinazione parassitaria e redditiera delle classi proprietarie del Mezzogiorno anch’esse in larga misura napoletane o influenzate dal modello napoletano, sia perché dalla attuazione della pur grande e decisiva riforma dei sovrani napoleonidi non venne risolta e neppure attenuata la sfasatura tra il Mezzogiorno e la sua storica capitale.
Ecco, dunque, quale complessa storia era dietro la dissoluzione della centralità meridionale di Napoli dopo il 1860. La dissoluzione economica e commerciale, politica e amministrativa fu, certo, più precoce di quella culturale e ideale.
Anche prima, o al più tardi insieme col procedere della costruzione delle due grandi linee ferroviarie che sul Tirreno e sull’Adriatico legarono direttamente e strettamente varie parti del Mezzogiorno alla restante Italia, da molte province e regioni meridionali si cominciò a guardare altrove in Italia. Roma, Firenze, Bologna, Milano, Genova, più tardi Torino, per non parlare che dei centri maggiori, formarono rapidamente poli di richiamo intenzionalmente alternativi, agli occhi dei meridionali, al polo napoletano, al quale erano da secoli legati. I leaders della vita politica furono solo in parte meridionali, e in parte ancora minore napoletani, mentre la prassi politica e amministrativa portò sempre più a gravitare su Roma, anziché su Napoli, anche per molte incombenze della vita quotidiana.
Alla fine del secolo XIX si cominciarono, inoltre, ad avere le prime avvisaglie di quella che sarebbe poi stata definita come «meridionalizzazione» della burocrazia italiana e che avrebbe avuto un ruolo non piccolo nell’aprire il Mezzogiorno a orizzonti molto più ampi di quelli dell’antica capitale della monarchia meridionale, del cui assorbente protagonismo istituzionale si è detto. Per la sua parte, un effetto più o meno analogo ebbe anche l’obbligo del servizio militare, che consentì a gran parte dei giovani del Mezzogiorno di guardare a punti di riferimento più numerosi e differenziati rispetto al vecchio centro napoletano.
Lentamente, i grandi giornali di Roma e di Milano cominciarono a soppiantare quelli meridionali come capacità di fare opinione, e a più prolungata scadenza lo stesso sarebbe avvenuto per le case editrici, nonostante l’eccezione in tutti i sensi cospicui che sarebbe stata costituita da Laterza (a Bari, peraltro, non a Napoli). Anche i giovani meridionali, mentre ancora l’Università di Napoli prolungava il suo antico monopolio meridionale, cominciavano a recarsi sempre più spesso a studiare in sedi universitarie dell’Italia centrale e settentrionale. Perfino per l’emigrazione transoceanica degli ultimi decennii del secolo XIX non furono pochi i meridionali che partirono da Genova anziché da Napoli.
Questa è soltanto una casistica incompleta dei mutamenti che dopo il 1860 portarono alla graduale espunzione di Napoli dal suo ruolo plurisecolare di centro monopolizzatore della vita sociale e culturale del Mezzogiorno. Già, comunque, agli inizi del secolo XX la sensazione che Napoli fosse in crisi o in arretramento non solo su questo fronte era di certo presente alla considerazione della classe dirigente cittadina. Si determinava, nei napoletani più consapevoli, la sensazione di essere esposti, in forma senza sostanziali precedenti, a una duplice prova. Il duplice fronte era dato, da un lato, dalla vicenda della città rispetto al Mezzogiorno, secondo la linea di problemi che abbiamo già accennato; dall’altro lato, era dato da un nuovo o, per meglio dire, rinnovato e più ravvicinato confronto con le città italiane nel neonato organismo statale formato dall’Italia unita. Una eredità dell’800 era, appunto, il costituirsi di un tale duplice fronte nell’esperienza napoletana; e, per questa stessa ragione, risultò attenuato il riferimento alle grandi città europee, che era stato sempre proprio della Napoli moderna e che, specialmente dalla seconda metà del secolo XVII in poi, aveva fatto guardare soprattutto a Parigi come a un grande modello o, almeno, a un imprescindibile polo di stimolo e di ispirazione.
Dall’800 nella sua prima scansione borbonica la città non derivava, peraltro, soltanto le problematiche di cui si è detto. Innegabile è lo sforzo che la monarchia affermatasi sul trono napoletano (dopo una breve parentesi fra il 1701 e il 1707) dal 1734 in poi cercò di avviare per un più moderno sviluppo della sua capitale. Il regno di Ferdinando II (1830-1859) fu, da questo punto di vista, notevole. A quel sovrano risalgono alcune opere pubbliche di grande importanza. Tale fu il Corso denominato prima Maria Teresa e poi Vittorio Emanuele II: una vera e propria tangenziale napoletana dell’epoca, come avemmo l’occasione di definirlo in un nostro lavoro del 1978. Né mancò l’interesse verso le industrie in rapida espansione in Europa. Altro discorso è, però, quelllo dell’esito di tali cure.
L’impianto di alcune officine, soprattutto quella ferroviaria a Pietrarsa, non valse a caratterizzare in tal senso la città, e le poche statistiche attendibili a nostra disposizione lo fanno agevolmente notare anche nella struttura socio-professionale della popolazione napoletana. A Napoli certamente agì nella prima metà dell’800 un gruppo importante di imprenditori e si costituirono negli anni ’20 e ’30 varie società industriali con un capitale di alcuni milioni di ducati. Ma chi ha studiato da vicino la composizione e le operazioni di quegli imprenditori ha concluso che si trattava di un gruppo strettamente legato alla Corte e alla sua iniziativa e che, come la Corte, scompare dalla scena dopo il 1860. L’iniziativa sovrana fu, infatti, la nota caratterizzante delle innovazioni che si tentarono o si realizzarono in quel periodo: la costruzione di un tronco ferroviario fra Napoli e Portici e la costruzione di una nave a vapore nei cantieri di Castellammare di Stabia, seguita dall’istituzione di una prima linea regolare di navigazione a vapore (che risaltano anche perché furono le prime del genere tentate in Italia) e altri episodi, che sembrano attestare una vigile attenzione ai progressi dell’epoca, ma non altrettanto un disegno di trasformazione industriale e una politica indirizzata in tal senso.
Anche l’attrezzatura tecnica della città non fece registrare grandi incrementi rispetto alle condizioni del 1815, benché nel 1819 fosse completato l’Osservatorio astronomico iniziato sotto il re Murat (sotto il quale si era pure aperto l’Orto Botanico e al quale si dovettero pure gli Istituti di incoraggiamento del progresso tecnico ed economico), nel 1840 si avesse l’illuminazione a gas di alcune strade cittadine e qualche altro servizio pubblico fosse via via introdotto anche nel campo ospedaliero. I due re francesi nei dieci anni del loro regno a Napoli avevano certamente fatto qualcosa di più e non di meno che nei seguenti trentacinque anni del restaurato regime borbonico. Perfino lo sviluppo demografico, che non mancò e ammontò fra il 1815 e il 1860 a circa un terzo (da 326.000 a 447.000 abitanti), sembra confermare la limitatezza degli sviluppi della modernizzazione della città, dovuto – come appare – assai più al movimento naturale della popolazione che a immigrazioni richiamate da una particolare crescita della città.
«La parte più in ombra del quadro» di questa Napoli borbonica, specialmente alla vigilia dell’unificazione italiana – notava Gino Doria nella sua classica storia della città-capitale – era «quella della vita culturale»; e non c’è motivo di modificare il suo giudizio. «Non che a Napoli mancassero – egli avverte giustamente – manifestazioni varie di vita intellettuale: anzi, ve n’erano fin troppe, nel pullulare di giornalucoli e di riviste», e con qualcuna di esse pregevole come «Il Progresso», fondata da Giuseppe Ricciardi nel 1832; «nella rigogliosa vita teatrale e musicale», che fu sempre un tratto assai vivo del genio napoletano e che continuava a fare del San Carlo, in particolare, uno dei templi della musica europea e del Conservatorio napoletano, ove studiò anche Bellini, un centro musicale importante non solo sul piano didattico; «nei molteplici prodotti a stampa», che non solo partecipavano del dibattito di allora fra classicismo e romanticismo, ma proseguivano la tradizione della tipografia e dell’editoria napoletane, molto attente alle novità forestiere, anche se oggetto «di una intollerabile censura pretescamente moraleggiante». Notevole era pure il valore di alcuni archeologi e di alcuni scrittori di cose economiche, ma le accademie erano, a parte ciò, di scarso valore e l’Università, specialmente in alcuni settori, come le lettere e, tutto sommato, anche la giurisprudenza. Macedonio Melloni, chiamato a Napoli da Ferdinando II nel 1839 quale direttore dell’Osservatorio Meteorologico e direttore del Conservatorio di arti e mestieri, ricavava, forte delle sue esperienze italiane e francesi, un’impressione molto negativo dello stato della cultura scientifica a Napoli. «Io non posso né devo restare direttore con paga di uno stabilimento immaginario, soprattutto in un paese segregato dal resto d’Europa, ove le biblioteche pubbliche mancano di quasi tutte le opere recenti, ove i giornali scientifici i più innocui pervengono a stento ed incompiutamente un anno dopo», scriveva nel dicembre dello stesso 1839. Un po’ meglio si stava in medicina, almeno per alcune specialità. Nel complesso, però, il quadro rimase quello tracciato dal Melloni.
Si spiega che una città cosiffatta potesse suscitare impressioni e reazioni opposte. A Stendhal Napoli parve la sola vera capitale fra quelle degli altri Stati italiani, che a lui apparivano come «des Lyons renforcées», ossia delle città di seconda classe come Lione rispetto a Parigi. A un viaggiatore francese degli anni ’20 del secolo XIX pareva, invece, che l’Europa finisse a Napoli, e vi finisse anche male. Contrariamente a quel che ritiene una legenda aurea di Napoli come grande capitale dell’Europa moderna sul piano, più o meno di Parigi, i giudizi dei due viaggiatori francesi si contraddicevano meno di quanto possa apparire. Anche Stendhal era stato colpito dal «colore locale» napoletano, dall’animazione gaia e rumorosa di Via Toledo: un fascino al quale erano in pochi a sfuggire da Goethe in poi, ma la cui natura appare ben fissata da Sainte-Beuve, al quale in visita a Napoli nel 1839, quella famosa strada faceva «l’effetto di rileggere il Gil Blas», ossia il noto romanzo di Lesage a fondo picaresco. Erano, dunque, nel complesso, sia nel positivo che nel negativo, giudizi non del tutto infondati. Riflettevano la effettiva perifericità di Napoli, come del Mezzogiorno di cui essa era la capitale politica, dal momento in cui, tra il secolo XVI e il secolo XVII, questo destino di perifericità aveva gradualmente investito l’intera Italia, che se ne riprese solo con l’avvio del Risorgimento fra il XVIII e il XIX secolo. La partecipazione italiana al movimento dei Lumi e delle riforme del secolo XVIII aveva cominciato a rompere tale condizione anche per Napoli, ma la chiusura post-napoleonica, che si era fatta sentire in tutta Italia, ebbe indubbiamente nel Mezzogiorno una maggiore accentuazione.
Quella del 1860 fu, su questo sfondo, effettivamente una rottura e avviò davvero un «secolo nuovo». A distanza di quaranta o cinquant’anni se ne sarebbero visti, nel bene e nel male, i cospicui e profondi effetti. La disarticolazione della centralità meridionale di cui si è detto si accompagnò a quelle di altre ragioni di privilegio di cui la città aveva goduto per secoli. L’Università, il Banco di Napoli (di cui solo allora si cominciarono ad aprire sedi e filiali in tutte le province meridionali) anche come istituto di emissione, il porto che continuava a essere il solo scalo importante civile e militare del Mezzogiorno, la Corte di Cassazione, la residenza ancora a lungo di molto prevalente dell’aristocrazia meridionale e varii altri elementi a cui si è accennato lo nascondevano. Ma dal 1860 in poi la città non fece che ripiegarsi su stessa, vedendo restringersi gradualmente il suo raggio di influenza. Non divenne una metropoli regionale, perché, oltre la Campania, soprattutto le vicine Basilicata, Capitanata, Calabria settentrionale e centrale continuarono a gravitare su di essa. Prima della fine del secolo era già chiaro, tuttavia, che altre città di primaria importanza si andavano formando nel Mezzogiorno. Bari, in particolare, si avviò decisamente a formare la seconda città meridionale. Taranto prese a seguirla a ruota da quando fu destinata a costituire la seconda base della Marina italiana. Ma anche i centri che non conobbero fortune così rapide e significative si misero sulla stessa strada, figurando o prefigurando un loro ruolo di capitali provinciali o interprovinciali ben altrimenti consistenti e autonome delle vecchie città meridionali.
Sarebbe, tuttavia, una vera e propria distorsione della realtà il credere che il cammino di Napoli dopo il 1860 non sia stato altro che una discesa agli inferi di una sua fatale decadenza. La città conobbe, anzi, tra il 1860 e il 1915 una delle fasi più caratteristiche e ricche della sua lunga storia.
La trasformazione culturale fu impressionante. L’Università si rinnovò, in pratica, in tutti i suoi settori. Il giornalismo napoletano fu tra i più vivaci del paese. La vita mondana raggiunse una intensità quale poche altre volte si era vista (e si sarebbe vista in seguito). La vita popolare si stagliò nel panorama delle tradizioni nazionali e mediterranee con un individualità ancora maggiore che in passato, e anche in seguito sarebbe stata la sua facies di questi decennii a connotarla negli studi e nell’opinione corrente. Alla tradizione popolare per più versi si legò l’epoca d’oro della canzone napoletana: l’epoca che ne ha fatto un capitolo di classica perfezione nella storia del genere anche al di là della sua genesi e della sua tipicità cittadina. Egualmente allora fiorì una letteratura napoletana, che ebbe in varii poeti e scrittori nomi di prim’ordine anch’essi al di là dell’orizzonte cittadino, tra i quali spiccano quelli di Salvatore Di Giacomo e di Matilde Serao. Le arti figurative, a malgrado di condizionamenti che non ne facilitavano un più pieno rinnovamento, superarono il vedutismo, che non di rado era stato splendido e raffinato, imperante dal fine del ’700 e via via più manieristico, e conobbero nuove fortune, con nomi di artisti di valore, come in particolare Antonio Mancini e Vincenzo Gemito. Il San Carlo e il Conservatorio vissero momenti di nuovo splendore, in un quadro musicale italiano ed europeo ormai sempre più lontano da quello tradizionale.
Notevole da ogni punto di vista fu il progresso degli studi, e non solo in ambito universitario. La vita culturale della città fu, anzi, caratterizzata da una socialità nuova, che vide un forte rilancio delle antiche accademie napoletane, la fondazione di nuovi sodalizi (fra cui la Società Napoletana di Storia Patria, il Circolo Filologico, più tardi il Circolo Artistico Politecnico, la Società Napoletana per la diffusione della cultura, la Società Promotrice Salvator Rosa, la Stazione Zoologica). La stessa Massoneria, che conobbe dopo il 1860 le fortune forse più cospicue delle sua storia a Napoli, può essere considerata sotto questo punto di vista. Sia gli hegeliani di Napoli che il positivismo napoletano occuparono, inoltre, pagine di rilievo nella vicenda culturale del tempo, con larghi echi anche nella vita civile, per il forte senso dello Stato e una austera concezione della vita pubblica negli hegeliani e per i forti colori democratici e massonici degli ambienti positivistici della città, nonché per i molti «quadri» che dall’una e dall’altra furono forniti alla politica e all’amministrazione non solo cittadine. In seguito, il prestigio della cultura napoletana in Italia, scomparse le generazioni risorgimentali, si sarebbe avvalso di grandi figure operanti nella città sia nel campo umanistico (da Fortunato a Croce, a Nitti) che nel campo scientifico (Cardarelli, Scacchi, Palmieri, Dohrn). Alla fine dell’800 nessuno metteva in dubbio perciò che Napoli fosse sempre una delle capitali della nuova cultura nazionale.
Dal grande dramma del colera del 1884 – tragica testimonianza del peso del passato che gravava sulla città e del tributo che essa pagava alle sue fortune metropolitane di capitale – si trasse spunto per un rinnovamento urbanistico della città che, pur fra eccessi ed errori talvolta gravi e in più di un caso inescusabili, diede, tuttavia, alla città un qualche respiro nei suoi angusti spazi e, ancor meglio, ne sistemò la parte litoranea da Mergellina a Santa Lucia in modo che si è potuto sempre più apprezzare. Ben più: da quello stesso dramma prese avvio una nuova fase di riflessioni e di studi sulla fisionomia e sull’avvenire economico della città, che portarono in particolare, fra il 1899 e il 1900, alla delineazione di un grande progetto di sviluppo metropolitano: il primo vero progetto di trasformazione della città vista, con grande acume e preveggenza nelle sue effettive dimensioni metropolitane, anziché nel solo ambito municipale.
Alla fine del secolo questo modello di sviluppo trovò con Francesco Saverio Nitti una formulazione che avrebbe tenuto il campo per la massima parte del secolo XX: costituzione di un’area metropolitana a partire da un ampliamento della circoscrizione amministrativa del comune di Napoli; decisa industrializzazione dell’area e della città attraverso un’accorta politica di incentivi; organizzazione di una rete di servizi (a partire dai trasporti e dal porto) in grado di sorreggere sia la nuova dimensione metropolitana della città e dell’area circostante, sia lo sviluppo economico che se ne auspicava.
Già prima della fine del secolo XIX varii elementi di questo progetto avevano cominciato a realizzarsi, con l’impianto di varie nuove e moderne industrie e soprattutto nel campo dei trasporti. Erano, però, iniziative in cui si distinguevano per lo più capitali e imprenditori, tecnici e quadri forestieri, di nuovo afflusso poiché la precedente sedimentazione borbonica non si era dimostrata capace, come si è detto, di sopravvivere alla protezione e al favoritismo del cessato regime.
Per quanto riguardava società e capitali napoletani, un rinnovamento profondi su questo piano non vi fu. Non solo continuarono le preferenze tradizionali della borghesia cittadina, ormai fissata sulle scelte professionistiche e su quelle, molto rafforzate dalle prospettive aperte dallo Stato italiano unitario, del pubblico impiego. Mentre la vecchia aristocrazia in gran parte andava consumando i suoi patrimoni nelle ultime grandi fiammate di una stagione particolarmente brillante della vecchia vita mondana napoletana, e solo in una parte minore si imborghesiva secondo quel che i tempi richiedevano almeno nella gestione dei patrimoni, la grande operazione del Risanamento rinvigoriva le opzioni redditiere e parassitarie della vecchia società meridionale.
Anche in ciò quella operazione rivelava un volto duplice: da un lato andava in una direzione certamente moderna, dall’altro operava su un piano – quello dell’edilizia – non effettivamente strutturale, su un piano che sarebbe stato ben più significativo se non avesse costituito il piano dell’impegno dominante dei capitali e delle iniziative della Napoli post-unificazione. La proprietà immobiliare urbana vide crescere la sua importanza rispetto alla proprietà fondiaria tradizionale, ma entrambe accrebbero l’incidenza della vocazione e della scelta parassitario-redditiera consueta alla tradizione cittadina, richiamando verso quella proprietà la parte preponderante del vecchio e del nuovo risparmio napoletano. Sarebbe stata qui una delle eredità più discutibili che la Napoli dei primi quattro o cinque decennii dell’unità italiana avrebbe consegnato ai decenni seguenti. Solo alquanto dopo la seconda guerra mondiale la ricchezza napoletana sarebbe andata più decisamente incontro alle esigenze e avrebbe assunto largamente le caratteristiche di mobilizzazione che sono proprie di una economia moderna.
Il discorso, per quanto sommario, non può, a questo punto, che riguardare
la classe dirigente della città.
È difficile evitare l’impressione che per tutto l’800 essa non sia uscita fuori da quella completa identificazione tra la città e la capitale, che aveva costituito da secoli la sostanza della coscienza e dell’autorappresentazione di Napoli. Già piena nella prima metà del secolo XVI dopo una lunga maturazione di oltre due secoli, questa identificazione, era stata di impaccio, in qualche modo e in qualche misura, a una più realistica visione dei problemi di crescita e di sviluppo moderno della città fino a che essa aveva conservato il suo ruolo di capitale del Regno che da essa finì con l’essere denominato. Molto di più doveva, tuttavia, riuscire di impaccio, come ben si può intendere, dal momento che quel ruolo di capitale era venuto meno e occorreva fondare l’identità napoletana su basi nuove o, comunque, alquanto diverse da quelle del passato. La conversione ha avuto luogo, in effetti, solo di fatto, sotto la spinta delle necessità imposte dal nuovo ordinamento politico e statale in cui ci si ritrovava ora compresi. E, per quanto questa possa apparire una premessa troppo implicita e generale, il peso della vecchia identità rimase reale nello svolgimento delle cose napoletane prima e dopo l’unificazione italiana. Prima, fu preminente la considerazione del problema politico-nazionale e il problema della città fu assai scarsamente tenuto presente dai fautori della causa antiborbonica, mentre il regime borbonico – che pure non ignorò, come si è detto, quel problema – aveva per altro verso troppo interesse a sottolineare l’identità di Napoli come capitale. Dopo l’unificazione, il riferimento costante alla città come ex capitale e come città da considerare come tale nei suoi problemi e nelle sue esigenze è la spia eloquente di una irrisolta condizione di precarietà identificativa. Ed è estremamente significativo che, eclissato dalle convenzioni del tempo durante il regime fascista, il problema abbia ripreso via via a dimostrare la sua persistenza, con insospettato vigore, dopo la seconda guerra mondiale, fino a giungere alla esibizione, imprevedibile, di un anacronistico filo-borbonismo.
La questione dell’identità è, tuttavia, ben lontana dal fornire tutte le chiavi per la comprensione degli atteggiamenti e delle vicende delle classi dirigenti cittadine dopo il 1860.
Intanto, è da segnalare che all’indomani dell’unificazione italiana si andò rapidamente formando, nel giro di pochi anni, un solido blocco di potere, definibile, dal punto di vista politico-ideologico, come clerico-moderato. Era un blocco solido non perché omogeneo nella sua composizione sociale e culturale e negli interessi che rappresentava, con forti componenti trasversali che potevano andare dagli ambienti cattolici e curiali a quelli massonici e dal più vario raggrupparsi di elementi professionistici alle più varie aggregazioni o presenze di operatori economici e finanziari, non di rado improvvisati e del tutto inidonei ai ruoli a cui accedevano nei modi spesso più discutibili. Era solido per la netta prevalenza che si rivelò in grado di conseguire, con poche eccezioni, nel controllo del municipio napoletano riordinato secondo la legge comunale del nuovo Stato italiano. Il municipio aveva costituito nei secoli un centro di potenza, non solo cittadina, di assoluto rilievo per la gestione del potere e degli affari che ad esso facevano capo o riferimento. Da questa gestione avevano tratto la ragione del loro predominio e della loro determinante influenza i gruppi tradizionalmente dominanti nella città; e da essa egualmente derivarono la propria, le nuove costellazioni di potere che si designarono dopo il 1860. Esse seppero contemperare fra loro il radicatissimo tradizionalismo dei ceti popolari e di gran parte dei ceti medi e le esigenze di un’azione diversa da parte dei gruppi moderati più vicini ad esigenze moderne. Certo, non fu un contemperamento pacifico e del tutto risolutivo dei problemi derivanti dalla eterogenea composizione e articolazione dei molti gruppi ravvisabili sotto le apparenze di quello schieramento, profondamente segnato da fratture corporative, familistiche, personali. La gestione del potere e un’abile prassi clientelare valsero, tuttavia, a comporre le fratture fino a un certo limite di tollerabile funzionalità.
Tutto poteva, quindi, apparire mutato nella realtà dell’amministrazione municipale rispetto al periodo anteriore al 1860. La realtà del mutamento era, invece, molto minore dell’apparenza. Si poteva scoprire per questa via che la «rivoluzione nazionale», da cui era stato abbattuto il vecchio edificio della monarchia meridionale e aveva tratto origine il nuovo ordinamento nazionale italiano, aveva ben poco trasformato nel profondo delle stratificate tradizioni e realtà napoletane. Non che tutto si fosse risolto nella proverbiale operazione «da gattopardo» del cambiar tutto per non cambiar nulla. Sarebbero bastati il fervore intellettuale e le iniziative sociali e culturali di cui si è detto, la nuova vita dell’Università, la non rara elevatezza del dibattito politico, un costume pubblico via via – nonostante tutto – più moderno e molte realizzazioni urbanistiche e di civile modernizzazione a dimostrarlo, ma lo dimostrano, in effetti, una serie di altri elementi. Tra gli altri elementi è, inoltre, da segnalare l’arricchimento che alla vita politica e civile della città provenne dalle nuove presenze rappresentate dai sindacati, dal movimento operaio e socialista, dalla presenza di pugnaci pattuglie repubblicane e radicali, dai gruppi di più avanzato liberalismo. Lo stesso cattolicesimo napoletano conobbe un periodo di operoso fermento e almeno parziale rinnovamento, manifestando anche ambizioni culturali (per quanto di respiro, alla resa dei conti, modesto) e svolgendo una più intensa e benemerita attività di beneficenza e di socializzazione.
Sono elementi non oscurati dalla perdurante prevalenza clerico-moderata, che solo per brevi periodi venne interrotta dalla prevalenza di gruppi di più sicura ispirazione liberale. È da segnalare, comunque, che proprio in uno degli intervalli segnati dall’affermazione di tali gruppi fu varata la grande operazione del Risanamento, così come si ebbe la più reputata fra le amministrazioni napoletane del primo cinquantennio unitario, quella cioè del sindaco Nicola Amore: una figura di sindaco dalle caratteristiche opposte a quelle dell’altra figura sindacale eminente di questo periodo, il Duca di San Donato, fino al punto da potersi dire che i due uomini fornirono i modelli di quelli che anche in seguito sarebbero rimaste le alterne polarità della figura del sindaco di Napoli.
All’attivo della città figurava, infine, una rete di infrastrutture che avrebbero potuto costituire in futuro importanti prerequisiti di un suo decisivo salto di qualità: una notevole rete di trasporti a carattere metropolitano, una notevole alfabetizzazione, maestranze e tecnici moderni o più numerosi o del tutto nuovi che avevano già fatto esperienze di lavoro notevoli.
Il punto dolente rimaneva quello, già accennato, della classe dirigente. L’atteggiamento rispetto al Banco di Napoli, subito individuato come la generosa riserva di caccia delle forze localmente prevalenti, è, a questo riguardo, davvero esemplare. Si passò così nel giro di pochi decennii dal monopolio tradizionale a un regime di concorrenza, per cui nuove istituzioni bancarie giocarono un ruolo via via più attivo sia nella raccolta del risparmio napoletano e meridionale, sia in una redditizia funzione di supporto di iniziative locali, per quanto pur sempre al di sotto della resa della raccolta. Il vecchio Banco napoletano rimase, beninteso, assai a lungo il primo istituto creditizio del Mezzogiorno. Non è, però, del tutto esagerato pensare che si posero già in quei primi decennii dell’unità italiana le lontane premesse della sua scomparsa agli inizi del XXI secolo.
Fu, comunque, nello sviluppo di una malavita camorristica in evidente crescita che bisognò tempestivamente ravvisare un nodo non casuale e di primario rilievo in ogni considerazione dei problemi napoletani. Certo, non era ancora, e a lungo non sarebbe stata, la camorra sviluppatasi con imprevisto vigore nella seconda metà del secolo XX. Ma ciò non toglie che già si trattasse di un fenomeno, che sorprese anche perché se ne dovettero ben presto scoprire consistenti collusioni con la locale vita politica e amministrativa. L’inchiesta Saredo, che individuò per la prima volta in ampia forma tali conclusioni, sia pure con indebite illazioni e procedure, segnò lo spartiacque tra due secoli non solo dal punto di vista cronologico, bensì soprattutto dal punto di vista della consapevolezza del fenomeno. Emerse chiaro che le risultanze dell’inchiesta non permettevano una netta separazione tra parti politiche contrapposte. Il malcostume era diffuso per linee trasversali, che opponevano buoni e cattivi in ciascuno dei gruppi politici e delle articolazioni del mondo professionale, dell’apparato amministrativo e della società civile. Ed era un dato importante. Per allora la sostituzione che conseguì dall’inchiesta di tutto un ceto politico-amministrativo fu condizionato positivamente dal fatto che gli avversari del mondo colpito dall’inchiesta erano portatori, nella loro parte maggiore, di un autentico progetto di rilancio e di sviluppo della città: il progetto nittiano, in sostanza. A più lungo andare quell’intreccio trasversale che abbiamo evocato avrebbe, tuttavia, riassunto tutto il suo rilievo e avrebbe ripetutamente agito come un fattore di grave riduzione o distorsione delle prospettive cittadine.
Per tutti questi motivi l’eredità napoletana all’inizio del secolo XX era complessa e difficilmente qualificabile con una netta distinzione tra positivo e negativo. Il suo destino appariva ancora promettente più di quanto poi si sarebbe avuto modo di constatare; e la vitalità, soprattutto a partire dal piano intellettuale, ne appariva addirittura accresciuta. L’identità cittadina risultava ancora troppo condizionata dal passato della città; una vocazione nuova o rinnovata in modo vigoroso non tanto nel suo segno quanto nella più diffusa consapevolezza della società civile non si vedeva; molte patologie della realtà cittadina erano venute allo scoperto o risultavano addirittura accresciute. Tuttavia, non solo si era costituita una tradizione culturale della città di rinnovata fisionomia, consistenza e rilievo nel contesto italiano (né sempre soltanto italiano), la cui vitalità sarebbe stata in seguito ampiamente sperimentata e si sarebbe mantenuta costantemente vivace, pur variando nei suoi orientamenti e nelle sue gravitazioni; non solo in questa fisionomia le attività scientifiche avevano assunto un peso senza molti precedenti nella tradizione napoletana e destinato a un progressivo consolidamento; non solo il patrimonio culturale napoletano si era incrementato dopo l’unificazione italiana con alcuni dei suoi elementi di maggiore momento anche per il futuro (si pensi solo alle canzoni e alla letteratura dialettale) e si preparava all’ancora più notevole fioritura degli anni che precedettero la prima guerra mondiale; non solo l’attrezzatura civile della città si mise per più versi al passo con le esigenze più comuni della vita moderna (trasporti, luce, gas etc.); non solo nacquero classi e ceti di tecnici e di operatori di nuove professioni e di nuovi mestieri a tutti i livelli di quelle stesse esigenze (basti pensare soltanto alla progressiva trasformazione della scuola di ingegneria in facoltà universitaria); ma soprattutto si determinò una condizione diversa da quella plurisecolare della privilegiata capitale che Napoli era stata nel Regno che da essa aveva preso il nome. Per la prima volta nell’età moderna la città si trovò a dover fare i conti con se stessa da sola e camminare sulle sue gambe contando, in sostanza, sulle sue proprie forze.
Era, da ogni punto di vista, un progresso decisivo. La città non sfuggì, invero, in tutto, come il corso successivo della sua storia avrebbe dimostrato, al pericolo di diventare la vedova inconsolabile del suo passato (spesso largamente mitizzato, ma, nelle sue più autentiche dimensioni, effettivo) di «grande capitale» moderna. Né avrebbe resistito alla tentazione – dopo l’esperienza fatta per l’emergenza del colera del 1884 e dopo il primo e più proprio esperimento del 1904 – alla tentazione di invocare o pretendere «leggi speciali» e relativi sussidi e finanziamenti e provvedimenti o norme particolari. La forza delle cose non avrebbe, però, potuto mancare di imporsi. Col tempo si è, infatti, imposta; e, anche se la città e la sua gente non sono apparsi sempre all’altezza della prova (e meglio si direbbe dell’opportunità) imposta dalla storia, il cammino della città a farsi e sentirsi tale – città fra le altre del Mezzogiorno e dell’Italia, dell’Europa e del mondo contemporaneo, con una sua realtà e potenzialità metropolitana di affidabile prospettiva – era ormai segnato come una traccia inevitabile, un richiamo, fatale o provvidenziale che si voglia, della sua lunga storia e della sua originaria natura, fissata nel suo nome, di «nuova città».




*Questo saggio era stato preparato per un volume dell'opera Napoli e la Campania nel Novecento. Diario di un secolo, a cura di A. Croce, F. Tessitore e D. Conte, vol. II, Napoli, Liguori, 2006, e voll. III, Edizioni del Millennio, 2002. Il presente testo doveva apparire nel volume primo, del quale non è per ora prevista la data di apparizione.^
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