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Dal 2011 al 2012: un po’ meglio?
di G. G.
Il 2012 sarà migliore del 2011? Non ci vorrebbe davvero molto perché lo sia, tanto l’anno appena conclusosi è stato apportatore di guai di ogni genere, e tanto è stato, soprattutto, caratterizzato da una crisi economica che non a torto si tende ad avvicinare a quella del 1929 per il suo carattere globale (globale in senso geografico e in senso settoriale), per la sua durata (finora e, ancor più, in prospettiva) e per le conseguenze che minaccia di avere, anche al di là di quelle che già attualmente ha sortito, sui più diversi piani, da quello politico a quello sociale, tanto per darne una qualche indicazione.
La speranza di un miglioramento nel 2012 non sarebbe, perciò, di per sé, ingiustificata, visto il poco di cui si parla, e concordemente lo hanno notato una serie di commentatori e di saggisti. Quel che, però, è stato poco notato o non è stato affatto notato è che, anche per ottenere il poco di meglio di cui ci si accontenterebbe, occorreranno sforzi e sacrifici ancora maggiori di quelli già richiesti dalle circostanze e dai governi nel 2011, e che, anche con tali sforzi e sacrifici, non è detto che sicuramente si produca il miglioramento sperato.
Più di commentatori e saggisti lo hanno significato alle rispettive opinioni pubbliche i capi di Stato e di governo nei loro tradizionali messaggi e discorsi di fine d’anno, che, depurati della inevitabile e, in qualche modo, necessaria e opportuna retorica di circostanza, questo, appunto, hanno fatto chiaramente, anche se non esplicitamente, intendere (con appena un po’ di maggiore e, a quanto pare, giustificato ottimismo nelle parole del presidente Obama, mentre nel caso dell’Italia il presidente Napolitano ha aggiunto – e aveva tutte le ragioni farlo, e ha fatto benissimo a dirlo – che si tratta di un grande paese che ha o può avere tutti i numeri materiali e morali per superare la crisi durissima che sta attraversando).
Come procede l’azione dei governi dinanzi alla tempesta economica in atto, che, ovviamente, è anche una grande tempesta sociale? Procede alla bene e meglio, si può dire senza tema di venire accusati di semplicismo o di qualunquismo o di facilismo critico. Ed è anche comprensibile.
Questa tempesta è sopravvenuta, infatti, in una fase storica in cui si riteneva di aver celebrato le definitive e irreversibili esequie degli indirizzi di intervento pubblico nelle politiche economiche e sociali e, contestualmente, il definitivo trionfo dei principii liberistici e dello “Stato debole”. La crisi costringe a rivedere sia le esequie che i trionfi, ma nello stesso tempo essa si è prodotta in circostanze in cui il peso delle forze tradizionalmente sostenitrici delle politiche di attivismo e di intervento economico-sociale dello Stato, le forze che altrettanto tradizionalmente vengono definite “di sinistra”, si trovavano in una fase di accentuato indebolimento. Un indebolimento innanzitutto sul piano delle idee. Il timore che la fine delle ideologie – così strombazzata ed esaltata negli ultimi due o tre decennii in tanta pubblicistica e in tanta debole, debolissima letteratura politica con pretese teoriche e storiografiche – si potesse tradurre
ipso facto in un tramonto anche delle idee sembra aver trovato una rispondenza nei fatti soprattutto per questa sinistra.
Al confronto, la destra ha trovato nelle vecchie idee liberistiche una riserva preziosa alla quale attingere in tempi, per quanto riguarda le idee nuove, avversi. Questo ha dato alle forze e ai governi di destra nei più varii paesi la possibilità di muoversi alquanto meno peggio di quanto di per se stessi sarebbero stati in grado di fare, e anche di non apparire ideologicamente disarmati di fronte alla crisi in atto, laddove il contrario, o quasi, è accaduto per le forze e i governi considerati di sinistra, che, peggio ancora, sono stati portati a muoversi, molto spesso, per deficienza di idee alternative, sullo stesso piano ideologico (cioè, liberistico) dei loro avversari.
Mentre la destra continua a crogiolarsi in questo pseudo-vantaggio, la sinistra sta rivedendo il suo patrimonio di idee? Non lo chiediamo – è ovvio – in termini di generale filosofia politica e sociale, bensì in termini di criteri operativi per i compiti di governo che in atto o in potenza essa si trova o può trovarsi a esercitare.
Diremmo, sostanzialmente, di no, o, almeno, diremmo che lo fa in assai scarsa misura. Ci sono, naturalmente, delle eccezioni, ma esse riguardano, in Europa, a nostro avviso, soprattutto il Labour Party in Gran Bretagna. I documenti che si leggono in altri paesi sono dominati da preoccupazioni di un praticismo che difficilmente può portare lontano o da uno spirito di quasi automatica ripetizione delle vecchie idee e ideologie, che è ancor più difficile che riesca meglio del praticismo. Alcuni
papers inglesi ci sembrano, invece, affrontare assai meglio il mare aperto delle difficili problematiche che la crisi ha aperto ovunque.
È stato giustamente notato e segnalato, ad esempio, il
paper proveniente dal Policy Network, che è uno dei riferimenti più autorevoli in queste materie (info@policy-network.net), e intitolato: “In the black labour. Why fiscal conservatism and social justice go hand-in-hand”. Lo hanno scritto quattro politologi (Graeme Cook, Adam Lent, Anthony Painter, Hopi Sen), che hanno dimostrato molta perspicacia anche nel non proporre una qualsiasi ricetta neokeynesiana, e nell’approfondire, invece, le condizioni che permettono di farsi qualche idea nuova in materia di spesa pubblica, di riforme, di tasse e di altro: ossia su tutta la scacchiera dei temi che più ricorrono nelle discussioni sulle politiche per la crisi.
Ancora più importante ci sembra un altro, e alquanto più ampio,
paper proveniente dallo stesso Policy Network e scritto da Ben Jackson e da Gregg McClymont, intitolato “Cameron’s Trap. Lessons for Labour from the 1930s and 1980s”. Non è detto che le idee così esposte siano state o siano per essere ricevute tali e quali dalla direzione e dai leaders del Labour Party, ma è indubbio che esse ne hanno attratto l’attenzione e in qualche modo agiscono e penetrano nell’azione di quel partito.
È, comunque, per la via di simili più approfondite riflessioni e formulazioni che si può sperare di trovare una qualche bussola nella presente fase storica. Non certo per la predicazione moralistica, che sermoneggia sui mutamenti di stili di vita, sul ridimensionamento di aspettative e di comportamenti, sulla maggiore modestia e su altri analoghi predicati ascetici che sarebbero imposti dalla crisi. E neppure per la via di quelle idee, diciamo così, di etica sociologica, che presumono di parlare su un piano di effettiva analisi e proposta economica e sociale, sostenendo un’idea – molto ideologica! – della “decrescita”. Chi ha buona memoria ricorda che altrettanto – decrescita e altra vita – si diceva negli scorsi anni ’70, gli anni della crisi petrolifera; e se ne è visto il frutto.
Nell’Unione Europea tutto ciò che abbiamo qui accennato ha ricevuto una sanzione e un impulso fortissimi. Se ci chiedessero di sintetizzare in due parole il succo dell’azione dei pur scarsi poteri di cui gode l’Unione come tale, non avremmo dubbi. Diremmo subito: liberismo e burocratismo. E non è che, con ciò, vogliamo deprimere o misconoscere o disprezzare l’azione dei poteri comunitari. Ne vogliamo solo indicare alcuni limiti che sono nella coscienza di tutti e di cui tutti fanno una valutazione più o meno negativa, ma di cui nessuno, o quasi, dice tutto quel che pensa.
Questi limiti, che, esasperati al livello dell’Unione, si sono piuttosto largamente manifestati anche in tutti o quasi tutti i governi europei dell’ultimo decennio, sono, a nostro avviso, una delle ragioni di maggiore preoccupazione nell’idea e nel giudizio che ci si fa o ci si può fare sui problemi del nostro presente. Per fortuna, i tempi non consentono più o non sembrano più consentire – almeno nei paesi occidentali – soluzioni drammatiche e, tanto meno, totalitarie come quelle che furono tanto frequenti nelle analoghe crisi economiche e sociali degli anni drammaticissimi tra la prima e la seconda guerra mondiale. Ma si può tranquillamente riposare su una tale, molto problematica e puramente empirica certezza, o piuttosto sensazione?
A nostro avviso, la questione sociale, magari, anzi certamente, in forme diverse da quelle canoniche del passato, sarà inevitabilmente un terreno di confronto e di lotta per tutti, se la crisi in corso, come appare alquanto improbabile, non si esaurisce in un tempo più che ragionevole. Non è un caso che ovunque la percezione di questo punto si sia fatta strada, obbligando i governi, per lo meno, a far mostra di grande attenzione e sensibilità al problema sociale. Che a questa mostra corrisponda un gran che, non si può dire, a quanto ci risulta, per nessun paese. La risposta più diffusa è che bisogna curare la crisi favorendo la crescita. Come se si trattasse di cose automatiche e interfungibili. E come se non fosse molto più facile enunciare che tradurre nei fatti il principio terapeutico della crescita. Senza contare, oltre tutto, la previsione generale che il 2012, invece di segnare l’avvio della ripresa, segni l’ingresso in una vera e propria recessione: ossia, in una trasformazione della crisi in una vera e propria fase di generale ristagno o regressione economica e sociale.
La Germania – si dice – non ha, però, gli stessi problemi degli altri paesi europei. I tassi dei suoi
Bund sono il metro della sanità dei loro tassi di interesse sui titoli degli altri paesi europei. Il debito pubblico è sotto controllo. Gli occupati vi hanno raggiunto la cifra-record di 41 milioni di unità. L’apparato industriale e la rete del commercio interno ed estero continuano a funzionare a buon regime. Insomma, se non siamo al tout va bien, madame la marquise, molto poco ci manca. E anche noi vorremmo che fosse in tutto e per tutto così. Un forte centro europeo, stabile e attivo, è interesse comune di tutta l’Unione e può servire da prezioso punto di riferimento per gli altri paesi della stessa Unione. Purtroppo, non è detto che sia proprio così. E, soprattutto, non è ai criteri che abbiamo appena accennato che sembra ispirarsi la politica della Bundesrepublik con il governo della signora Merkel. Vi possono essere delle esagerazioni nel parlare, che frequentemente si fa, di una consapevole e fortemente voluta politica di egemonia europea, perseguita da Berlino e dal suo governo, dando un po’ di spazio alla Francia e mantenendo a una certa distanza l’Inghilterra, che non chiede di meglio, una volta assicurati alcuni suoi, cospicui, interessi. Esagerazioni, ma non infondatezza.
Una tale situazione richiede, tutta un’altra politica dell’Unione, se si vuole che essa superi al meglio possibile una crisi, che è globale e sembra tendere a una durata e ad andamenti imprevedibili. Il nuovo governo italiano ha in questo campo della politica comunitaria uno dei terreni di sua più importante qualificazione. Se riuscirà a far sì che la politica dell’Unione non sia il terreno di elezione di un appena dissimulato binomio di guida franco-tedesco, il governo Monti avrà compiuto un’opera che non solo lo legittimerebbe ulteriormente e fortemente in Italia, ma darebbe un contributo inestimabile a una trasformazione dell’Unione in qualcosa di politicamente più consistente e utile a se stessa e al mondo di quel che è stata finora. E ciò è, dunque, a sua volta, di inestimabile importanza ben al di là della impossibilità, che pure sussiste, per l’Italia – un pur sempre grande paese, come opportunamente ha ricordato il presidente Napolitano nel messaggio di fine d’anno – di accettare in Europa un ruolo subalterno, e di rassegnarsi a una Unione che sia come un tavolino a due gambe (l’asse Berlino-Parigi), abilmente rafforzato con il supporto discontinuo, e perciò tanto più conveniente agli interessati, della terza gamba britannica (e qui aggiungiamo, per inciso, che questo problema di politica estera italiana è uno di quelli, è certo il maggiore, che per l’Italia si pongono all’interno dell’Unione europea; ma che sarebbe, invero, da ripensare tutta la politica estera italiana, che appare oggi adagiata sui binari di una consuetudinaria routine, e ciò specialmente nei suoi aspetti che riguardano i paesi musulmani e africani e le grandi realtà dei nuovi astri della potenza economica, se non politica, a livello globale, ossia i paesi del BRIC, e cioè Brasile, Russia, India e Cina: ma di questo converrà parlare altra volta e con discorsi specifici).
Tanto più sembrerebbe, poi, di poterlo dire dopo che il presidente Sarkosy non si è fatto scrupolo di rinviare quasi all’ultimo momento il colloquio trilaterale italo-franco-tedesco già fissato per il 20 gennaio; e ancor più dopo che l’appello del presidente Monti alla Cancelliera tedesca per un diverso atteggiamento della Germania nelle questioni gravissime da cui oggi l’Europa è afflitta è stato respinto dalla Merkel, e anche con una sostanziale malagrazia.
Circostanze, tutte, quelle qui esposte, che ci sembrano ora largamente confermate dal declassamento di quasi una diecina di paesi europei, fra i quali Francia e Italia,operato da Standard and Poor’s all’inizio del 2012. Un declassamento che è stato seguito a breve distanza di tempo, benché sempre con espressioni di apprezzamento per le risorse e per le potenzialità italiane, dall’annuncio di una uguale valutazione di downgrade di qualche altra agenzia di
rating - Fitch, per la precisione. Un declassamento, aggiungiamo, che potrebbe essere guardato anche con una qualche rassegnata indifferenza, visto e considerato che di un simile downgrade è minacciato perfino il cosidetto “fondo salva Stati” dell’Unione europea. Un declassamento, insomma, non per nulla deprecato, come sempre più spesso accade, quale effetto di più o meno oscuri interessi delle agenzie di rating, della finanza internazionale di speculazione e, al solito, degli Stati Uniti. Deprecazione certamente condivisibile, così come certamente da condividere è la critica crescente dell’enorme potere che ormai è finito col ricadere nelle mani delle agenzie di rating. Deprecare, però, non basta. Le valutazioni si contestano, in primo luogo, opponendo alle agenzie e ai dati su i quali esse si fondano altri dati e valutazioni, di segno opposto. Nessuno lo fa; e questo induce a credere che quelle agenzie saranno pure tendenziose, ma su una base di dati e di elementi di certo affidamento. In secondo luogo, a quelle agenzie è necessario opporre linee politiche operative ed efficaci, non, come finora, il vuoto, o quasi.
Altrimenti il loro potere crescerà ancora, e ci sarà poco da sorprendersene.
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