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Note dolenti di un crociano trapiantato al Nordù
di Dino Cofrancesco
Recensendo il lavoro di Ferdinando Riccardi, Brigantaggio postunitario. Una storia tutta da scrivere (Roccasecca, 2011), il direttore della benemerita rivista di storia locale, «Studi Cassinati», Emilio Pistilli, sul n.3/2011, fa una serie di citazioni allo scopo «di mostrare come ci si approccia con animo diverso, rispetto alla storiografia ‘ufficiale’, alle questioni sollevate dall’annessione delle terre del centro e del sud al resto d’Italia». Il lettore ne ricava l’impressione che la storia raccontata sui testi scolastici, nelle trasmissioni televisive e nella retorica delle celebrazioni ufficiali di quest’anno non sia «tutta la storia» e che ce ne sia un’altra rimossa, et pour cause, che non si ha il coraggio di rievocare. Sinceramente non capisco: di storia ce n’è una sola ed è quella che fanno e rifanno gli studiosi seri che non sono quelli che si limitano a mettere le mani negli archivi – dove, come nella Valle di Giosafat, si può trovare di tutto – ma quelli che trasformano i “dati” in problemi storiografici, inserendoli in una trama concettuale in cui acquistano senso e significato. Ma è proprio necessario ripetere quanto ci hanno insegnato i pensatori più diversi che hanno affrontato il tema del metodo delle scienze storico-sociali, da Max Weber (il più grande di tutti) a Raymond Aron, da Benedetto Croce a Federico Chabod?
In realtà, non solo non è vero che la storia del brigantaggio, in un’ottica, diciamo così, “revisionista”, non sia mai stata fatta – quanti storici della domenica hanno ricordato il classico studio di Franco Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’unità, Ed. Feltrinelli 1964, per non parlare di altre analoghe rievocazioni, anche cinematografiche, della nostra prima “guerra civile”? – ma non è neppure vero che la scuola italiana, negli anni della Repubblica, abbia contribuito a farci credere che nel processo unitario sia andato tutto per il verso giusto e che «le magnifiche sorti e progressive» da noi si siano adempiute grazie alle guerre d’indipendenza. Mi sono occorsi cinquant’anni per rimuovere la leggenda del “Risorgimento tradito” o “incompiuto”, appresa nei licei e nelle aule universitarie, per rendermi conto che, lungi dall’essere un episodio provinciale nella storia dell’Occidente, il nostro riscatto nazionale fu un vero e proprio evento epocale e, per constatare attraverso la lettura di testi francesi, tedeschi e americani, che i suoi protagonisti, da Cavour a Giuseppe Mazzini, furono uomini di pensiero e di azione che tutto il mondo civile ammirava. Persino Francesco Crispi (siciliano e unitario) poteva venir considerato da Ottone di Bismarck, e sicuramente a torto, il più grande statista dell’800! Furono le letture di Pasquale Villari, di Giustino Fortunato, di Benedetto Croce, di Gaetano Salvemini, di Rosario Romeo, di Giuseppe Galasso (nati tutti, in epoche diverse, a sud di Roma!) che m’indussero a ripensare non superficialmente gli anni della formazione dello Stato nazionale e a studiarli in rapporto alle analisi sulla sociologia dello sviluppo politico che andavano pubblicando i grandi studiosi della «costruzione delle nazioni», primo fra tutti Ernest Gellner.
Mi ha sorpreso, pertanto, veder citato il ben noto giudizio di Antonio Gramsci sulla colonizzazione del Sud:
La miseria del Mezzogiorno era inspiegabile storicamente per le masse popolari del Nord; esse non capivano che l’unità non era avvenuta su una base di uguaglianza, ma come egemonia del Nord sul Mezzogiorno nel rapporto territoriale città-campagna, cioè che il Nord concretamente era una piovra che si arricchiva alle spese del Sud, che il suo incremento economico industriale era in rapporto diretto con l’impoverimento dell’economia e dell’agricoltura meridionale.

È stato come veder riproposta la valutazione di Piero Gobetti del fascismo come «autobiografia della nazione», l’interpretazione “azionista”, che, dopo la monumentale opera di Renzo De Felice, si riteneva messa definitivamente in soffitta. Dell’autentico “revisionista” del Risorgimento, Rosario Romeo – forse, il maggiore storico italiano del secondo Novecento – e della sua scuola, a cominciare da Guido Pescosolido (ciociaro di Casalvieri), in questa saggistica che detesta i luoghi comuni, non si fa alcun cenno, come se il rapporto complesso e cruciale tra agricoltura, decollo industriale e democrazia moderna che ha ispirato tanti dibattiti di storia economica e di storia politica – ricordo soltanto i lavori di Barrington Moore jr. e il dialogo tra Alexander Gerschenkron e Rosario Romeo – fosse qualcosa di irrilevante, roba da accademici.
Inoltre, nella recensione di Pistilli, si ingenera l’idea che, oltre a Gramsci, ci sia uno studioso della questione meridionale, Francesco Saverio Nitti, il quale – stando alla citazione di seconda mano tratta dal libro di Giordano Bruno Guerri, Antistoria degli italiani (Mondadori, 2009) – avrebbe detto tutto quello che c’era da dire in fatto di annessione del Mezzogiorno al resto d’Italia:
il trasferimento al Nord dei beni espropriati alla Chiesa e all’ex Regno borbonico sembrò un vero e proprio “sacco”: le terre vendute dal demanio al Sud venivano comprate da “nordisti” e quasi sempre riacquistate dai contadini o dai possidenti meridionali che vi abitavano vicino; in questo modo il capitale scompariva dal Meridione senza alcuna resa in suo favore; lo Stato infatti investiva i proventi delle vendite nelle regioni dove maggiori erano le spese, in Lombardia, in Piemonte, in Liguria. Per non dire che l’industria settentrionale ebbe buon gioco a vendere al Sud, senza concorrenza, prodotti che avrebbe ven duto con maggiore difficoltà all’estero. Il divario Nord-Sud fu portato all’estremo dall’unità.

A questo punto, resta solo da chiedersi come mai il fior fiore dell’intellighenzia e della borghesia colta meridionale (e soprattutto napoletana) non solo abbia caldeggiato la soluzione unitaria – ben consapevole che il federalismo si fa tra Stati moderni e democratici, com’erano appunto le tredici colonie nordamericane, e non tra regioni caratterizzate da vari gradi di “civilizzazione” – ma, in seguito, abbia fornito allo Stato sabaudo una classe dirigente di primissimo ordine, sol che si pensi a un giurista come Silvio Spaventa o a uno storico e letterato come Francesco De Sanctis, tra i giganti dell’Ottocento europeo. Davvero curioso il comportamento di quei biechi colonizzatori quali furono i piemontesi, che, neppure dieci anni dopo la proclamazione del Regno, spalancarono ai “vinti” i più alti gradi del governo, dell’amministrazione, dell’esercito, dell’Università! E ancora più inspiegabile la disattenzione dei Savoia che, dopo il 1876, consentirono la meridionalizzazione dell’amministrazione statale («con triste annunzio di futuro danno», per la verità), una meridionalizzazione favorita da una Sinistra storica di cui gli uomini del Sud costituivano una componente forte e temibile. Certo con questo suo stile disattento e disinvolto, la vituperata dinastia non mostrò proprio di seguire l’esempio della Germania che dovette attendere la fine degli Hohenzollern, nel 1918, per “sprussianizzarsi” e scrollarsi di dosso gli Junker.
Le citazioni che lasciano più perplessi, però, sono quelle tratte da una risposta di Paolo Granzotto a un lettore del «Giornale», tal Pietro Pisu da Cagliari. Vale la pena citarne un brano, sia pur non breve, giacché raramente ci s’imbatte in tanta incompetenza storiografica unita a una proporzionale sicumera intellettuale.
Non le sembra, scrive Granzotto al suo interlocutore sardo, che a Italia fatta e strafatta sia ora di mettere in archivio la vulgata che chiama redenzione (o se preferisce “intervento umanitario”, che oggi va di moda) quella che è stata una annessione? Napoli, caro Pisu, era una capitale “europea”, splendida, ricca di teatri, di magnifici edifici, di salotti letterari e cenacoli intellettuali, di ospedali funzionanti e di biblioteche, con una università che il mondo invidiava. Fiorivano nel Regno industrie meccaniche e tessili, opifici, manifatture. E crede lei che il contadino di Cuneo stesse meglio, avesse un tenore di vita superiore a quello del contadino di Afragola? Che il badilante piemontese potesse contare sulla mutua, il contratto di lavoro, le ferie pagate, l’assistenza sanitaria, la rappresentanza sindacale, privilegi negati dal Re Bomba al badilante campano o calabrese? Crede lei che la giustizia sabauda fosse più “giusta” o clemente o equanime della giustizia borbonica? Che sotto le Alpi ci fosse meno analfabetismo che sotto il Vesuvio?

Probabilmente Granzotto confonde la Napoli di Carlo III con la Napoli di Ferdinando I (per farsene un’idea, se non vuole affaticare troppo la sua mente, si procuri il film della romana Lina Wertmuller, Ferdinando e Carolina del 1999) e, forse, non ha neppure sfiorato le pagine di quell’aureo libro che può considerarsi il capolavoro del protoliberalismo italiano, il Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799 (1800-1801) del molisano Vincenzo Cuoco. Vi avrebbe appreso che la spietata repressione della Repubblica “giacobina” di Mario Pagano, di Domenico Cirillo, di Eleonora Pimentel Fonseca riuscì a fare inorridire persino quel gran custode delle “libertà civili” e dei “diritti soggettivi” che era l’autocrate di tutte le Russie: «Cugino, scrisse lo zar Alessandro I a Re Nasone, in questa maniera state decapitando la testa pensante del Regno!». Ma vi avrebbe appreso pure che da quel momento in poi – come non si stanca di ricordare il napoletanissimo Raffaele La Capria – la capitale del Regno sprofondò in una cupa desolazione culturale registrata da tutti i viaggiatori europei del Grand Tour. Fu allora che, simbolicamente, si chiusero le porte del Palazzo Serra di Cassano, a testimoniare un’avversione inestinguibile.
Purtroppo, le date sono i lumi della storia e, se non si distinguono date ed epoche, si procede alla cieca e si finisce per parlare a vanvera di «una università che il mondo invidiava». Fuori i nomi! egregio demolitore delle mitologie risorgimentali, abbia la bontà di citare un grande letterato, un grande filosofo, un grande storico che, con la sua opera, abbia dato lustro all’Ateneo napoletano nella prima metà dell’Ottocento! (Fu invece l’Ateneo di Torino, allora, un faro di cultura, grazie agli emigrati politici meridionali come il grande giurista Pasquale Stanislao Mancini caposcuola del diritto internazionale!). Napoli, sì, fu grande ma lo fu nella sua breve stagione illuministica quando entrò, a testa alta, nella repubblica delle lettere, diventando italiana ed europea. Con i lazzaroni del Cardinale Ruffo, quella stagione ebbe termine anche se le sue testimonianze civili, soprattutto in termini di arti e di scienze, non andarono del tutto perdute. Sennonché, piuttosto curiosamente quelle testimonianze costituiscono, ancora oggi, motivo di orgoglio per i nostalgici reazionari i cui venerati avi non avevano avuto nulla da spartire con esse, essendo il prodotto di una philosophie combattuta e detestata.
Probabilmente, come vuole Granzotto, «il contadino di Cuneo» non aveva «un tenore di vita superiore a quello del contadino di Afragola» (forse, non ce l’avevano neppure i contadini della Dordogne e del Massif Central) ma mettere sullo stesso piano uno Stato costituzionale – con tutte le contraddizioni che poteva presentare una monarchia che, prima del ’48, era stata alla mercé dei gesuiti e di un’aristocrazia incolta e retriva – con un Volkskerker come il Regno delle Due Sicilie non dovrebbe essere consentito neppure al più convinto tradizionalista – qual è il recensito Ferdinando Riccardi, direttore della più controrivoluzionaria e antimoderna delle riviste italiane, «L’Alfiere». Forse Granzotto ha sentito nominare un certo Alexis de Tocqueville, ritenuto da Raymond Aron il più grande scrittore politico dell’Ottocento. Ebbene Tocqueville giudicava il Regno di Sardegna l’unico Stato libero e rispettabile della penisola e, nei suoi appunti giovanili di viaggio, ci ha lasciato un ritratto delle Due Sicilie, che Gladstone avrebbe riconfermato pari pari. Ma ancor più sarebbe opportuno che Granzotto leggesse gli scritti di una geniale scrittrice francese, la suocera di Richard Wagner, Marie d’Agoult, nomme de plume Daniel Stern, per sapere cosa si pensava realmente, negli ambienti colti europei, dello stato sabaudo. In Florence et Turin, l’autrice della fondamentale Storia della Rivoluzione del 1848, afferma che una seduta del Parlamento subalpino era spettacolo indimenticabile per competenza e altezza d’ingegno dei deputati del popolo. Che fosse stata pagata, per scriverlo, dal perfido Cavour?
Ma senza valicare le Alpi, forse Granzotto potrebbe sfogliare le pagine di uno dei momenti più alti della memorialistica ottocentesca, i Ricordi di gioventù 1847-1860. Cose vedute o sapute, di Giovanni Visconti Venosta, il noto autore della poesia scherzosa dedicata al «prode Anselmo che andò in guerra e mise l’elmo». Fratello del prestigioso ministro degli Esteri dell’Italia unita, Emilio Visconti Venosta – vedi le pagine che gli dedica Chabod nel suo capolavoro La storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, Ed. Laterza 1962 – e come lui fervente patriota, nel 1853, per farsi perdere di vista dalla polizia austriaca, si era recato a Napoli per studio e per diletto. La città lo aveva colpito penosamente per il grande divario che opponeva la plebaglia, i lazzaroni, alle «classi alte, e soprattutto» ai «molti eletti per ingegno e per cultura di cui non era, e non fu mai, scarso quel paese». Purtroppo constatava con tristezza «molti di questi si tenevano in disparte, e quasi appiattati, per non dar nell’occhio alla polizia, la quale non era meno feroce, ma era più vessatoria e più stupida della polizia del governo militare di Lombardia». E al termine del viaggio concludeva:
Dopo aver percorsi gli Stati del papa e del re di Napoli, nel ritornare in Lombardia, bisogna confessare che, ad onta dello stato d’assedio e dei rigori del governo militare, si provava un senso di sollievo; si sentiva d’essere in un paese le cui condizioni erano meno socialmente retrive, e che aveva un governo meno stupida mente tirannico. Il governo austriaco era sempre stato, quanto alla politica, pedantescamente assoluto; allora poi era in un periodo di violenta reazione; ma era un governo civile del secolo decimonono, mentre il papalino e il napoletano erano ancora in parte governi d’altri tempi, e giustamente ritenuti tra i peggiori del mondo civile.

Forse anche l’integerrimo Visconti Venosta, amico intimo di Alessandro Manzoni, era pagato dal Gran Conte per diffamare gli onesti Borbone. Meno male, però, che, a destra e a sinistra, spuntano come funghi i vendicatori. «Per favore non chiamate briganti i patrioti del Sud» è il succo che ricava da un erede diretto di Antonio Gramsci, Salvatore Lupo, autore de L’unificazione italiana. Mezzogiorno, rivoluzione, guerra civile (Ed. Donzelli 2011), il suo recensore, Eugenio Di Rienzo, sul «Giornale» dell’11 ottobre 2011. Come dobbiamo chiamarli allora: «partigiani»,«lealisti» o più semplicemente «borbonici»? E perché mai ci si dovrebbe opporre a dismettere un termine, peraltro entrato nell’uso da un secolo e mezzo? E perché non si dovrebbe riconoscere che molti “briganti” si batterono in buona fede per il loro re e che, per converso, i piemontesi, “divenuti italiani”, riservarono loro un trattamento qualche volta feroce e disumano (vedi la sorte cui andarono incontro i prigionieri di Fenestrelle che non vollero arrendersi)? Ai combattenti delle “cause perse” o, meglio, “sbagliate” non va certo negato l’onore delle armi: sulla scia di Virgilio, Dante esalta la vergine Camilla che «per l’Italia» morì, come «Turno di ferute». Ma negare che, con tutte le loro colpe e incomprensioni, le classi dirigenti che fecero l’Italia – sia quelle di governo che quelle di opposizione – ci ricongiunsero all’«Europa vivente», significa avere smarrito ogni senso della comunità politica alla quale apparteniamo e senza la quale torneremmo allo stato di «vulgo disperso che nome non ha». Ignorare il «miracolo del Risorgimento», come lo chiama Domenico Fisichella, e la grande conquista civile che esso avrebbe rappresentato per le generazioni future, significa condannarsi alla più assoluta irrilevanza politica e culturale, spezzare i legami con una tradizione che costituisce la nostra più profonda identità etico-politica, rinnegare i nostri padri. È questo che si vuole, suscitando rimpianti per il Papa-Re o per il Re-Bomba?
Mi limito a far rilevare che l’opera di delegittimazione dell’idea italiana potrebbe avere un senso unicamente per quanti vivono a nord di Firenze: sono i loro ceti istruiti ed operosi ad aver fatto l’Italia (la leghista Bergamo, si ricordi, contribuì all’impresa dei Mille col maggior numero di volontari) ma oggi il malgoverno, la mafia, la recessione, gli altissimi costi di regioni come la Sicilia (30 mila impiegati contro i 3 mila della Lombardia!), la “munnezza” di Napoli che tutti dobbiamo pagare (esportando i rifiuti in contrade europee che ce li prendono a peso d’oro), a ragione o a torto, hanno convinto non pochi dei loro discendenti ad andarsene «ciascun pei fatti sui». Regioni come la Lombardia, il Piemonte, il Veneto confinano con le zone più ricche dell’Europa e potrebbero integrarvisi, prima o poi, assai agevolmente. Ma, a sud di Roma, qual è il senso di questi rigurgiti antirisorgimentali? Si vuol disfare o rifare daccapo, innanzitutto negli affetti e nei ricordi, l’Italia, ammettiamo pure, «malfatta»: ma in vista di quale progetto? Si vuole ricontrattare la comune appartenenza a una sempre più fragile “comunità di destino” ma, se non si tratta di vergognose richieste di maggiori provvidenze e tolleranze, che cosa si offre in cambio? Che cosa si è disposti a fare per rendere più equilibrato il peso di una convivenza non facile? Si vuole cancellare dalla memoria collettiva del Sud il dato inoppugnabile che quasi tutta la “classe dei colti” del Regno delle Due Sicilie fu unitaria e risorgimentale e fieramente avversa, come s’è accennato, a ogni ipotesi federalista? Si proceda pure ma la damnatio memoriae desiderata dalla progenie di Giacinto de Sivo – lo storico di Maddaloni autore de I napolitani al cospetto delle Nazioni civile 1861 che chiedeva: «Briganti noi combattenti in casa nostra, difendendo i tetti paterni, e galantuomini voi venuti qui a depredar l’altrui? Il padrone di casa è brigante, e non voi piuttosto venuti a saccheggiare la casa?» – dovrebbe riportare i Borbone sul trono o fondare una “Repubblica del Sud”, finalmente libera e non colonizzata dai piemontesi e dai loro discendenti?
In realtà, parafrasando il saggio di Salvatore Lupo, che Di Rienzo definisce un «piccolo, grande libro», dovremmo piuttosto, dire: «Per favore, non chiamateli piemontesi!». I “connazionali”(!) di Vittorio Alfieri e di Vincenzo Gioberti, di Giuseppe Mazzini e di Giuseppe Garibaldi (liguri ma sudditi del Regno di Sardegna) non erano un popolo “straniero”, ma, nel bene e nel male, erano italiani come i toscani, i lombardi, i laziali, i campani. Quando si fece l’Italia, del resto, ondate di napoletani, di calabresi, di siciliani si riversarono su Torino e su Milano, come ancor oggi attestano gli elenchi telefonici, e certo per loro, per quanto traumatico fosse lo sradicamento dalle campagne e dai borghi del Sud, non equivaleva a recarsi nelle lontane Americhe, dove pure emigrarono a centinaia di migliaia, come pure non ci si stanca di ricordare (senza spiegarci però, per non aver mai fatto i conti con i “sociologi dello sviluppo politico”, in che modo avrebbe potuto entrare nell’economia moderna un paese, in cui gli addetti all’agricoltura superavano il 70%).
Sarebbe meglio non scherzare col fuoco delle passioni politiche e dei risentimenti sociali ed evitare linguaggi che fanno venire in mente un leghismo di riporto, da “povera gente”. Nella storia dell’Italia unita, i documenti più alti dell’«italianità», come volontà di rimanere uniti in vista di un riscatto collettivo, sono stati scritti, soprattutto, da quegli intellettuali meridionali che avrebbero fatto poi di Laterza uno degli editori più prestigiosi dell’Europa occidentale. Vogliamo espungerli dall’album di famiglia e traslare a Nord, in qualche remota chiesa del suo amatissimo Piemonte, il feretro di Benedetto Croce? Vogliamo far finta che non sia stato un siciliano, Rosario Romeo, a scrivere il libro più approfondito e documentato di cui disponiamo sul Conte di Cavour? Vogliamo dimenticare che gli incunaboli del nazionalismo italiano – con Rocco de Zerbi (calabrese) e Pasquale Turiello (napoletano) – sono venuti proprio dal Sud? Un controsenso per i revisionisti filoborbonici, non diverso da quello rappresentato da un ipotetico inno alla grandezza dell’Inghilterra scritto da un cattolico irlandese!
Nelle migliori menti dell’ex Regno borbonico – vedi il compianto Francesco Compagna, meridionalista d’altri tempi – il Mezzogiorno doveva essere il sud dell’Europa: nelle farneticazioni dei revisionisti (neogramsciani o reazionari che siano), esso rischia di diventare il Nord del Magreb. Fate pure, as You like it! Per fortuna loro, molti meridionali e centro-meridionali (come lo scrivente) ormai si sono insediati felicemente al Nord, e possono dire – soprattutto pensando ai pellegrinaggi alla «fidelissima» Civitella del Tronto (la cittadina che cadde tre giorni dopo la proclamazione dell’Unità d’Italia) da parte dei nostalgici di Re Bomba e di Re Nasone – «hic manebimus optime!».
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